Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco

 

raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne

 

(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)

 

Vol. VI, Ed. 1907, 1079 p.

 

PROTESTA DELL'AUTORE   9

CAPO I. 1858 - Chi era D. Bosco: sua amorevolezza contraccambiata dagli alunni - Egli povero predilige i poveri - Virtù di Magone Michele: confidenza in Maria SS.: carità - Sua lettera a D. Bosco - Cinque ricordi ai giovani per conservare la virtù della purità - Il fazzoletto bianco - Predica sulla virtù dell'obbedienza - Tre immagini della Madonna - Letture Cattoliche. 10

CAPO II. Fatti di Pio IX raccontati ai giovani - Festa di S. Giovanni Battista e agape imbandita ne' tre Oratori festivi, per la generosità del Papa - La festa di S. Luigi e l'articolo sull'Armonia del Conte di Camburzano - I segreti di una coscienza svelati - Letture Cattoliche: PORTA TECO CRISTIANO - Don Bosco medita di fare ritorno a Roma: Lettera del Conte De Maistre. 16

CAPO III. Conversioni in punto di morte. 21

CAPO IV. Numero degli alunni nell'Oratorio - Lettera di D. Bosco al Ch. Rua da S. Ignazio - Cometa e previsione di flagelli sull'Italia - Due Letture Cattoliche - Scavi sotto la chiesa per un nuovo refettorio - Fitto e riparazioni per l'Oratorio di Vanchiglia D. Bosco va a predicare al Palasazzo presso Cuneo - Annunzia la circolare del Cardinal Vicario, che raccomandava le Letture Cattoliche - La circolare del Cardinale - Una festa ed un pellegrinaggio alla Madonna di Campagna - D. Bosco predice ad un alunno delle scuole governative che si farà prete - Accettazione singolare di Francesco Provera nell'Oratorio. 23

CAPO V. Letture Cattoliche - VITA DEL SOMMO PONTEFICE S. CALLISTO I - Venerazione degli alunni di D. Bosco per Mons. Fransoni - Magone Michele e i pericoli di chi va a casa in vacanza - La Passeggiata autunnale - Accoglienze ospitali a Chieri - Riconoscenza di Magone .per i suoi benefattori e per D. Bosco - Predisposizioni - Umili preghiere a Dio e lagrime di Magone - La festa del Santo Rosario - Escursioni in varii paesi circostanti a Murialdo - Visita alla tomba di Savio Domenico e pranzo dal Teol. Cinzano - Ritorno a Torino - Ricorso al Ministero della Guerra per ottenere vestiarii fuori di uso dai magazzini militari - Dimanda di sussidio all'Opera Pia di S. Paolo Per le spese dei sotterranei della chiesa - Predica sulla virtù della purità. 27

CAPO VI. D. Bosco manda alunni studenti al Cottolengo - Le prime tre classi ginnasiali nell'Oratorio - Avviso ai maestri ed agli assistenti - Conferenza a tutti i chierici - Assistenza continua e prudente agli alunni - I giovani attorno a D. Bosco nell'ora della sua refezione - Le scuole di filosofia ed un inconveniente - Le massime eterne ricordale ai giovani - La vita dei Papi dal pulpito - Predica di S. Cecilia - Morte dell'Abate Aporti. 32

CAPO VII. Letture Cattoliche - Sacra novena di apparecchio al SS. Natale, composta dal Beato Sebastiano Valfrè - Avvisi importanti sul modo di celebrare con frutto questa novena - Circolari in favore delle Letture Cattoliche del Vescovo di Saluzzo e dell'Arcivescovo di Vercelli - L'apparizione di Maria SS. a Lourdes - La novena dell'Immacolata nell'Oratorio. 38

CAPO VIII. Il sermoncino della sera - D. Bosco sulla tribuna - Sua eloquenza - Industria per dare pascolo alla fantasia dei giovani - Parlate nel mese di dicembre - Napoleone: il catechismo e la prima Comunione - Gregorio Nazianzeno, Basilio e Giuliano apostata agli studi in Atene - Correggersi dai difetti e dalle mancanze leggere - Non insuperbirsi per le lodi e mantenersi calmi e pazienti per i biasimi - Una vittoria sul rispetto umano ricompensata - Non vergognarsi di essere obbedienti a Dio Dopo il sermoncino - Sala destinata per le rappresentazioni drammatiche - Regolamento pel teatrino. 42

CAPO IX. Esclamazione imprudente di una madre - Ordinazione sacerdotale di Don Rocchietti - Generosa carità di Don Bosco - Il Santo Natale: D. Bosco annunzia che finirà di vivere a cinquant'anni se i giovani non pregano per lui - Risposta di D. Bosco agli augurii del chierico Ruffino - Suoi ricordi ed avvisi agli alunni nell'ultimo giorno dell'anno: annunzia che uno di essi morrà prima del Carnevale - Necrologio. 47

CAPO X. 1859 - Si conferma l'avveramento delle profezie di D. Bosco - Malattia, santa morte e funerali di Magone Michele - Nuove disposizioni ottenute dal parroco pei funerali dei giovani dell'Oratorio - La festa di San Francesco di Sales - Muore Berardi Costanzo - Un documento arretrato in lode di D. Bosco - Sua iscrizione Per la tomba del padre di D. Chiatellino. 50

CAPO XI. Il Piemonte preparato alla guerra contro l'Austria - Per una dimenticanza due chierici dell'Oratorio non sono annoverali tra quelli esenti dal servizio militare - Consiglio provvidenziale a D. Bosco del Ministro dei Culti - Il diritto di esenzione è assicurato ai due chierici - Un arruolatore di volontari nell'Oratorio. 55

CAPO XII. Letture Cattoliche: VITA DEL GIOVANETTO SAVIO DOMENICO - Come regola D. Bosco la frequenza alla Santissima Comunione - Gli alunni dell'Oratorio osservatori spregiudicati delle azioni di D. Bosco - Memorabile sua confutazione di smentita fatta alla biografia di Savio Domenico - VITA DEL SOMMO PONTEFICE SAN URBANO I - Il Vicario generale di Torino raccomanda in una circolare ai parroci le Letture Cattoliche - Lettera a D. Bosco del Cardinale Arcivescovo di Bologna - Una spiegazione del Vangelo predicata da D. Bosco. 59

CAPO XIII. La quaresima - Oratorio di S. Luigi: illustri Catechisti: zelo e generosità del Teol. Murialdo; le scuole diurne; i maestri; i giovani più ignoranti condotti a confessarsi da D. Bosco; scuola e regolamento per la musica istrumentale che viene poi sciolta - Oratorio di Vanchiglia: teatrino - Oratorio di Valdocco: D. Bosco regala una croce ad un nobile catechista: virtù del maestro della scuola diurna: le passeggiate degli oratoriani più rare e più brevi: causa della diminuzione di questi giovani - Fondazione dell'Oratorio di S.Giuseppe - Il Vescovo di Nizza Marittima fa il catechismo in Valdocco - D.Bosco in cerca di giovani per esortarli a confessarsi - Un fanciullo infermo visitato da D. Bosco persuade i suoi parenti a riconciliarsi con Dio - I Cattolici insidiati continuamente dai Protestanti - Ravvedimento di un venditore di libri eretici - Letture Cattoliche: indirizzo agli associati - D. Bosco estingue il sito debito antico co' Rosminiani - Sua avversione alle liti. 63

CAPO XIV. D. Bosco strumento nelle mani di Dio - Sua fiducia nella Divina Provvidenza e suo abbandono in Lei - I giovani esortali alla preghiera per ottenere all'Oratorio soccorsi nelle materiali necessità - Effetti meravigliosi della preghiera - Elemosine generose e provvidenziali dei ricchi - 0fferte dei poverelli - Alcuni falli. 68

CAPO XV. Le varie Compagnie nell'Oratorio - Smarrimento dei loro verbali - Due conferenze di D. Bosco tenute alla Compagnia del SS. Sacramento - Bisogno di una nuova Compagnia per gli artigiani - Un giovanetto convertito per una preghiera recitata in onore di S. Giuseppe - Divozione di D. Bosco a questo santo Patriarca - Giuseppina Pellico traduce per D. Bosco dal francese  Le sette domeniche di S. Giuseppe - Istituzione della Compagnia di S. Giuseppe e suo regolamento - Frulli consolanti - D. Bosco scrive promettendo un suo artigiano per un Ospizio incipiente - 1 chierici sostegni delle Compagnie - Due lettere di D. Bosco al Rettore del Seminario e suo giudizio sulla condotta di qualche chierico. 72

CAPO XVI. Qualche norma ai catechisti per l'insegnamento della Dottrina Cristiana - Studio e spiegazione del Nuovo Testamento: lezioni di eloquenza sacra: il predicatore impreparato - La scuola di sacre cerimonie - Varie conferenze settimanali a tutti gli studenti - Istruzioni intorno alla buona creanza e convenienza di queste - D. Bosco modello di perfetta educazione - Urbanità e carità nel parlare e nell'ammonire - Tacere e riflettere se l'animo è agitato: una ridicola sfuriata - Buona creanza nelle azioni: D. Bosco e il giuoco della cavallina - Delicatezza colla quale D. Bosco avvisa alcuni giovani per qualche atto incivile - Cortesie nell'accogliere in casa i visitatori - Traccia di una commedia che insegna il galateo - Profitto dei giovani nell'attendere alle esortazioni di D. Bosco - Elogio. 79

CAPO XVII. Preparativi di guerra in Piemonte contro l'Austria - Il Convitto Ecclesiastico ospedale militare - D. Cafasso avvisa i suoi alunni di non entrare in questioni politiche - Il catechismo quadragesimale disturbato dall'effervescenza guerresca dei giovani esterni - Una sassaiuola fatta cessare da D. Bosco - Tre Letture Cattoliche - L'Arcivescovo di Genova e i Vescovi di Mondovì e di Cuneo le raccomandano ai loro diocesani - Grazie ottenute da Savio Domenico - Lettera di D. Bosco ad un parroco della diocesi d'Asti - Ispezione governativa nell'Oratorio per gli alloggi militari - La guerra dichiarata e l'esercito francese in Italia - Torino minacciata dagli Austriaci: D. Bosco dice a' suoi giovani di non temere - La quarta grande lotteria di D. Bosco e due circolari - D. Bosco annunzia a’ suoi allievi l'erezione nell'Oratorio di una chiesa con grande cupola - Un orto liberato dai bruchi. 84

CAPO XVIII. I Francesi in Torino - Afflizione di D. Bosco - Primi fatti d'arme - Montebello, Palestro, Magenta - I feriti Austriaci nel Convitto Ecclesiastico - D. Bosco coi Turcos a Collegno - Congiure e rivoluzioni nei Ducati e nello Stato Pontificio - Le feste nell'Oratorio: Dimostrazioni di riconoscenza a D. Bosco ed ai  maestri Scuole e laboratorii cristiani. 89

CAPO XIX. La battaglia di Solferino - D. Bosco predice imminente il trattato di pace - Ristampa della Storia d'Italia - Lettera del Sindaco di Torino che ne accetta una copia in dono - Letture Cattoliche: LA VITA DE' SOMMI PONTEFICI S. PONZIANO, S. ANTERO E S. FABIANO - Un figlio prodigo ricondotto da D. Bosco alla casa paterna - Suoi consigli ad un giovanetto sul modo prudente di leggere certi libri. 92

CAPO XX. Un incontro di D. Bosco a Troffarello - Due Predizioni - Due Letture Cattoliche - Sussidi del Re e del Ministro degli Interni - Costruzione di scuole; lavatoio e legnaia - D. Bosco ai Becchi coi giovani - Le passeggiate: programma Prestabilito: provvidenza: marcie: la storia dei paesi: casi allegri: entrata in un borgo: ospitalità: scene buffe: le funzioni in chiesa: il teatro: la partenza: animo generoso di D. Bosco: incontri non previsti - Si va a Maretto - Arrivo a Villa San Secondo - Una spina del parroco - Visita a Corsione, Cossombrato e Rinco - Festa della Madonna delle Grazie - Il teatro e un ballo impedito - La festa della Maternità di M. V. - Partenza da Villa S. Secondo Fermata a Piea - Viaggio notturno - Arrivo ai Becchi - Un giovane smarrito - Visita alla tomba di Savio Domenico - Ritorno all’Oratorio. 96

CAPO XXI. D. Bosco trasmette al re Vittorio Emanuele una lettera di Pio IX - Il Clero escluso dai Consigli Provinciali e Comunali - Articolo della Gazzetta del Popolo contro la storia d'Italia di D. Bosco - Giudizio di Nicolò Tommaseo e della Civiltà Cattolica su questa istoria - Letture Cattoliche. LA PERSECUZIONE DI DECIO E IL PONTIFICATO DI S. CORNELIO I PAPA - Alcune notabili vestizioni clericali. 103

CAPO XXII. Chierici dell'Archidiocesi nell'Oratorio - Tutte le classi ginnasiali in casa - Accettazioni notevoli di alcuni allievi - L'Ospizio pieno di giovani - Sottoscrizione di condoglianze al Papa - Presentimenti di mali pubblici - Sogno: la marmottina - Mezzi per vivere lungamente - Doti necessarie in un Direttore di collegio -  Efficacia di una parola e di uno sguardo di D. Bosco - Timore di abusi e concessioni - Fermezza di Don Bosco nel congedare uno scandaloso, nel rimproverare  un disobbediente - È sciolto e riordinato il corpo della musica istrumentale - Un giovane perdonato - Domanda di vestiarii al Ministro della guerra. 107

CAPO XXIII. La legge Casati - Una guarigione ottenuta per intercessione di Savio Domenico - Novena dell'Immacolata - Sermoncini di D. Bosco alla sera: annunzio della novena: un buon consiglio ai compagni: La visita al Santissimo Sacramento: Confidenza nei Superiori: Sincerità in Confessione - Monito memorando di D. Bosco. 112

CAPO XXIV. Conferenze di D. Bosco a que’ suoi collaboratori che spera rimarranno nell'Oratorio: Essere pochi e poveri non è d'impedimento a grandi imprese: Premio dell'obbedienza: Nessuno è profeta nella sua patria - D. Bosco propone a' suoi collaboratori di costituirsi in società religiosa - Commenti, predizioni e risoluzioni - La Pia Società di S. Francesco di Sales è costituita - Verbale della proclamazione del Rettor Maggiore e dell'elezione dei membri del primo Capitolo o Consiglio. 117

CAPO XXV. Critiche mosse a D. Bosco: per le comunioni frequenti de' suoi giovani: per i suoi maestri che non vanno alle scuole del Seminario: Per gli studii teologici giudicati insufficienti - Timore che i migliori chierici rimangano con D. Bosco e brighe per staccarli da lui - Lettera di D. Bosco al Can. Vogliotti pel servizio della Cattedrale - D. Bosco accusato di voler essere indipendente dall'Autorità ecclesiastica - Non si vede bene che i chierici si preparino a conseguire patenti di maestro e lauree - I pericoli dell'Università - Accuse scritte a Mons. Fransoni contro D. Bosco e difesa del Can. Nasi - Parole dell'Arcivescovo in lode di D. Bosco - Gli amanti del bene sono amici di D. Bosco. 121

CAPO XXVI. Parlate di D. Bosco - Annunzio della novena del santo Natale; mezzi per santificarla - Studiare vuol dire essere buono - Non rubare - Non proferire parole villane - Obbedire al confessore - Sincerità in confessione - Suggerimenti per la solennità del Natale. 125

CAPO XXVII. Indulgenza plenaria per un santuario di Caselette - Parole di D. Bosco ai giovani sull'anno che finisce -- Ricordi all'intera comunità - L'ultima sera dell'anno - Gli alunni defunti nel 1859 - Strenne personali di D. Bosco a' suoi allievi e di questi a lui. 129

CAPO XXVIII. La Prefazione al Galantuomo, almanacco pel 1860 - La guerra in Lombardia e le avventure del Galantuomo - Sue profezie - D. Bosco chiamato al Ministero dell'Interno per  dare spiegazioni sulle profezie dell'almanacco. 131

CAPO XXIX. Sistema  Preventivo in pratica - Sante industrie - Accoglienza di D. Bosco ai giovani che entrano nell'Oratorio - La sua prima parola riguarda l'anima - Effetto di questa parola - Il maestro di riforma morale - La Confessione e la Comunione - Alcuni mezzi per promuovere la frequenza ai Sacramenti - Avvisi ai Superiori dell'Oratorio - Calma e moderazione nel castigare - Due classi di giovani pericolose - D. Bosco vuol essere informato di ogni fatto anche minimo dell'Oratorio - Le liste dei voti - Diligenza degli assistenti e loro affezione a D. Bosco - Importanza che danno gli alunni ai voti - Come D. Bosco esamini le cagioni del poco profitto di alcuni nello studio - Un registro rivelatore della condotta occulta di certi allievi - L'ultima parola di D. Bosco ai giovani che partono dall'Oratorio - Sua carità verso di essi - Maniere salutari e prudenti nell'incontrare un antico allievo. 136

CAPO XXX. Sante industrie - D. Bosco in mezzo ai giovani: sua carità e loro affezione - Le ricreazioni clamorose - Saggi consigli e osservazioni -- Ricordi in rima - Versi latini - Proposizioni di non facile intendimento - Dante - Le regole della grammatica - Un'operazione d'algebra - Sapienti risposte di Gianduja - Lezioni d'igiene - Indovinelli e misteriose domande - I giovani intorno a D. Bosco - La parola all'orecchio - Lo sguardo che parla - Gli schiaffetti. 142

CAPO XXXI. Sante industrie - Fede e carità - Effetto di una conversazione con D. Bosco - I giovani seduti intorno a lui - Favole e racconti ameni - Il canto - Nuova chiromanzia - La misura delle mani - Lo scoppio delle palme percosse - Esercizi di destrezza - Vigilanza prudente e giocosa - I giovani più buoni invitali a pranzo - Udienze private concesse da Don Bosco agli alunni in sua camera: modo di presentarsi ed accoglienze: invito allo stato religioso: rimproveri indiretti: conforti agli afflitti - Le tre passeggiate - Avvisi per iscritto e lettere sorprendenti di D. Bosco ai giovani - I biglietti coi proponimenti - Confidenza chiesta agli alunni e sacrifizi per conservarla -  Il biglietto richiamo sulla buona via - Alcuni proponimenti consegnati a D. Bosco e da lui custoditi - Risultato delle sante industrie. 151

CAPO XXXII. Le sante industrie - Movente e scopo: l'eternità e la salvezza delle anime - Cooperazione di Dio - Il ragionamento non vale contro i fatti - D. Bosco legge nelle coscienze - Testimonianze universali de' giovani - Cose ammirabili al tribunale di penitenza - Segrete ansietà spirituali calmate - Increduli vinti dall'evidenza di fatti Personali - Gli ipocriti scoperti - Altre prove che D. Bosco legge in fronte i segreti dei cuori - Gli immodesti - Chi non ha la coscienza in ordine cerca star lontano da D. Bosco - Premure di D. Bosco nel richiamarlo a Dio - Avvisi misteriosi per iscritto - Una testimonianza di D. Rua - D. Bosco sorprende nelle menti altre specie di pensieri - Vede meglio quando non guarda. 158

CAPO XXXIII. 1860 - Letture Cattoliche - Avvisi di D. Bosco agli associali per allontanare i mali presenti e premunirsi dai futuri - Lettera di Pio IX a D. Bosco - Il danaro di S. Pietro - Conversione di due giovanetti anglicani e di un ebreo - Il Vescovo di Ivrea nell'Oratorio - Cortesie di D. Bosco ad un ministro protestante - Un neofito raccomandato all'Oratorio dall'Arciprete della Cattedrale di Vercelli - La festa di S. Francesco di Sales. 163

CAPO XXXIV. Seduta del Capitolo: Accettazione del primo confratello nella Pia Società - Parola di D. Bosco - Letture Cattoliche - Il Papa: questioni del giorno - Raccomandazione agli associati delle Letture - D. Bosco difensore dei diritti della S. Sede - Il Ministro Farini chiede l'accettazione di un giovanetto nell'Oratorio - La diplomazia di D. Bosco - La lingua, italiana imposta per regola dell'Oratorio nei discorsi famigliari - Giovinastri condotti da D. Bosco nell'Ospizio - Una memorabile conversione - Pastorale del Vicario Capitolare di Asti che raccomanda le Letture Cattoliche - Una società per la diffusione de' buoni libri. 167

CAPO XXXV. Una nuova campana in Vanchiglia. - Il maestro Mosca Giovanni catechista - Elogi del conte Cays alle conferenze annesse degli Oratori festivi - D. Bosco e i bisogni di S. Madre Chiesa - VITA E MARTIRIO DE’ SOMMI PONTEFICI SAN LUCIO I E SANTO STEFANO I - Le cronache importanti di D. Ruffino e D. Bonelli per la biografia di D. Bosco - L'Emilia e la Toscana annesse al Piemonte - Il biglietto gratuito sulla ferrovia e il Cav. Bona - Lettera di un giovane artigiano a D. Bosco. 171

CAPO XXXVI. Letture Cattoliche - Lettera dell'Arcivescovo di Firenze in lode delle suddette Letture - La Pasqua: ed un muratore che D. Bosco sostiene perchè non cada Protesta di fedeltà al Papa dei giovani dell' Oratorio e il danaro di una colazione per l'Obolo di S. Pietro Lettera di D. Bosco al Papa - Tre previsioni di avvenimenti futuri - Punizione di chi scherniva il segno della Santa Croce - Lettera del Card. Marini e dispensa di età a D. Rua per le sacre ordinazioni - La morte di un giovane predetta ed avverata - Come fa D. Bosco a prevedere queste morti - Predizione a Gastini Carlo - La rovina delle Sicilie e l'andata del Ch. Castellano in paradiso - Risposta del Card. Antonelli a D. Bosco in nome del Papa - Due verbali del Capitolo: accettazione di soci - Esercizi spirituali, ricordi e mese di Maria - Garibaldi parte per la spedizione di Sicilia - Il Card. Antonelli e i volontari pontifici piemontesi. 175

CAPO XXXVII. D.Bosco va a Bergamo - Sue osservazioni sopra la lettura di un giornale cattivo - Confessa in treno un viaggiatore - Fatti ameni all'arrivo e in casa del Vescovo di Bergamo - Premure paterne di Mons. Speranza - La S. Messa in Duomo - Si stabilisce una conferenza di S. Vincenzo de' Paoli - D. Bosco conduce a Terno il parroco Bagini uscito di carcere - Festose accoglienze - D. Bosco visita il Seminario di Bottanuco - Promette al Vescovo di predicare l'anno venturo gli esercizi ai chierici: lo esorta a presentare i preti e i chierici agli esami per i diplomi e per le lauree. 180

CAPO XXXVIII. Ritorno di D. Bosco in Torino - Un giovane morente all'ospedale rinviene all'avvicinarsi di D. Bosco e si confessa - L'orazione attiva - D. Bosco desidera aver preti per i carcerati - Una falce al Chierico Ruffino - Siamo solo al principio dei mali: vessazioni al clero negli Stati annessi - Il Cardinale Corsi prigioniero in Torino e suo colloquio con D. Bosco - Un alunno ha bisogno di prepararsi alla morte - Lettera di Pio IX a D. Bosco - Letture Cattoliche. 185

CAPO XXXIX. La virtù della fortezza - D. Bosco ossequente alle autorità civili - Sua prudenza nelle questioni politiche - Sospetti del Governo e delazioni calunniose - Il Ministro Farina - D. Bosco sorvegliato dalla polizia - l'ufficio di verificazione alla posta - D. Bosco avvertito del pericolo che sovrasta all'Oratorio - Articoli violenti dei giornali, che domandano la chiusura dell'Oratorio - Il decreto di perquisizione permesso da Cavour - Sequestro di una lettera di Mons. Fransoni - Un sogno provvidenziale - Distruzione di preziosi documenti - D. Bosco scrive e conserva le memorie delle perquisizioni - Prefazione al manoscritto. 188

CAPO XL Due Gesuiti incarcerati - D. Bosco e un giovanetto raccomandalo dal Ministro Farini - Arrivo nell'Oratorio dei fiscali - Primo incontro con D. Bosco e questione sul mandato per la visita domiciliare - Le guardie; resistenza giustificata; minacce; beneficenza e malevolenza - Effervescenza nei giovani - Parole di D. Bosco - Angustie di D. Alasonatti - Scene buffe e serie tra le guardie e gli alunni - La sciarpa questurale e il Decreto di perquisizione - Burla sconveniente fatta riparare - Indagini sulla persona - Il cestone delle carte stracciate e l'avvocato - Un telegramma dimenticato - Revisione delle lettere - Episodii - Le note dei debiti - Il Breve Pontificio - In biblioteca. 193

CAPO XLI. Ancor della Perquisizione - Opportuno incoraggiamento dato a D. Bosco dal Can. Anglesio - I Bollandisti - La confessione - Sospetti di un nascondiglio - Un'altra raccomandazione di Farini per un giovane da ricoverarsi - Scherzo della Provvidenza - Si stura una bottiglia; i brindisi -La fine della perquisizione - Verbale e prova d'innocenza - I fiscali partono: gioia dei giovani - Preghiere in tutti gli Istituti per D. Bosco - Delirio di un giovane al falso annunzio che D. Bosco è prigioniero - D. Bosco avvisa D. Cafasso degli ordini ministeriali al Fisco - D. Bosco compra un foglio che sparla di lui - Continue visite di condoglianza all'Oratorio - Articoli dell'Armonia e della Gazzetta del popolo - Don Bosco pensa ad ampliar L'Oratorio -Parlata al Capitolo di questo disegno - Trattative per comperare casa Filippi - Generosa offerta del Cavalier Colla - Ragione del coraggio di D. Bosco in simili ampliamenti. 198

CAPO XLII. Il giorno dopo la perquisizione nell'Oratorio - Apparizione al Re di Napoli della sua santa madre defunta - Varie previsioni di D. Bosco sugli avvenimenti pubblici - Il Segretario del Cardinale Corsi nell'Oratorio - Ordinazione Sacerdotale di D. Savio Angelo - I Chierici dell'Oratorio si recano a far ossequio al Cardinale -Don Cafasso prevede vicina la propria morte - L'Armonia smentisce la falsa notizia sull'imprigionamento di D. Bosco - Sicurezza e tranquillità nell'Oratorio - Lettera di un chierico a D. Bosco perchè gli sveli il suo interno, e lo guarisca da una infermità - La vita di famiglia nell'Oratorio - Generosa carità di D. Bosco per i suoi alunni. 203

CAPO XLIII. Costruzione della porteria e della nuova sagrestia - Buzzelli Carlo Capo mastro dell'Oratorio - Largizioni generose di D. Cafasso per le nuove fabbriche e sua ultima visita all'Oratorio - Regolamento della porteria - Progetto di un'obbligazione di 500 lire per la quale un giovinello avrà diritto a stare nell'Oratorio, finchè non sia compiuta la sua istruzione: Circolare: Osservazione di D. Cafasso - Risposta a certi critici - Causa dell'attività di D. Bosco - È proposta a D. Bosco l'accettazione del Collegio di Cavour - il piccolo Seminario di Giaveno a causa della sua decadenza - Il Can. Vogliotti chiede a D. Bosco un prete ed un chierico per Giaveno; Consiglio di D. Cafasso - Disegni del Municipio sul piccolo Seminario e sua offerta a D. Bosco - Il Can. Vogliolli promuove un accordo fra gli interessi della Curia e quelli del Municipio - D. Bosco aderisce condizionatamente alla proposta del Canonico, che vorrebbe affidargli la direzione del piccolo Seminario - D. Bosco scrive al Sindaco di Giaveno - Altra lettera al Can. Vogliotti: si attende una risposta da Giaveno. 206

CAPO XLIV. Imprigionamento del Canonico Ortalda - Perquisizione a D. Cafasso -Riflessioni di D. Bosco - Seconda perquisizione nell'Oratorio -D. Bosco smarrito per Torino è ricondotto a Casa dalla divina Provvidenza - Ispezione nella scuola degli esterni - Scena dolorosa: D. Alasonatti svenuto - Arrivo di D. Bosco - Prigionia minacciata - Rimproveri ai perquisitori - Le guardie allontanate -Dichiarazione sui diritti del Papa - Visita alle scuole -Perlustrazione minuziosa della Casa - Subdole domande e franche risposte - Il sequestro dei quaderni - Ringraziamenti al Signore - Due consolazioni. 211

CAPO XLV. D. Bosco nel tempo di tribolazione - Si leggono nell'assemblea dei socii le Regole della Pia Società - Previsioni sui pubblici avvenimenti - Le Regole della Pia Società sono firmate da tutti i socii e mandate a Mons. Fransoni - Risposta dell'Arcivescovo - La Questura di Torino e le persone di servizio dell'Oratorio - La politica e le ricchezze di D. Bosco - Giudizii di Urbano Rattazzi - Esposizione e supplica di D. Bosco a due Ministri - Udienza non concessa - D. Bosco si mostra sempre più allegro quanto più gravi sono i dispiaceri - Cinque giovani raccomandati all'Oratorio dal Ministero degli Interni. 217

CAPO XLVI. Malattia di D. Cafasso e cause di questa - D. Bosco al letto del suo benefattore - Morte di D. Cafasso e dolore di D. Bosco - Nell'Oratorio è tramandata la festa di S. Giovanni - Funerali - Il testamento e un legato - Gli onori ad un santo e la trista fine di un nemico del Papa - La festa di S. Luigi nell'Oratorio - La messa di settima per D. Cafasso - Il Canonico Galletti ed il Teol. Golzio. 222

CAPO XLVII. L'onomastico di D. Bosco - Guarigione del Ch. Castellano - Funerali a D. Cafasso nell'Oratorio - D. Bosco legge l'orazione funebre e la dà alle stampe col titolo: RIMEMBRANZA STORICA FUNEBRE DI DON GIUSEPPE CAFASSO - Letture Cattoliche - IL PONTIFICATO DI S. SISTO II E LE GLORIE DI S. LORENZO MARTIRE - Il Cardinale Corsi nell'Oratorio. 225

CAPO XLVIII. Maligne insinuazioni del giornalismo a danno dell'Oratorio - D. Bosco non è ricevuto negli uffici del Ministero - Risoluzione e fiducia in Dio - Lunga e paziente attesa nell'anticamera del segretario generale - D. Bosco è ammesso all'udienza del Segretario: inurbanità e forzata cortesia - Altri giovani raccomandati dal Ministero. 228

CAPO XLIX. Udienza fissata dal Ministro degli Interni e preghiere nell'Oratorio - Conferenza importante di D. Bosco coi Ministri Farini e Cavour - Promesse e speranze di pace - Compra di Casa Filippi -Annunzio di questa compra ai giovani. 231

CAPO L. Coraggio di D. Bosco nel presentarsi ai Ministri - Il bene ricavato dal male - I giovani crescono sempre di numero nell'Oratorio - Domande delle Autorità a D. Bosco, perchè dia ricovero ai poveri giovanetti - Mons. Bonomelli, D. Bosco e la politica - Fine disgraziata di alcuni perquisitori - D. Bosco non conserva rancori e perdona a' suoi avversari. 235

CAPO LI. D. Bosco è invitato a fondare un collegio in Mirabello - È afflitto da una gonfiezza al collo; non prega per la sua guarigione - Sviene a S. Ignazio - Conversione di un giovane cavaliere - Lettere di D. Bosco a varii chierici ed alunni - D. Rua agli esercizi nella Casa dei Lazzaristi e generosità del Can. Vogliotti - Disastroso fine dell'anno scolastico a Giaveno. - Nuove istanze del Vicario generale a D. Bosco perchè accetti la direzione di quel seminario -Trattative col Municipio di Giaveno e lettera di D. Bosco al Can. Vogliotti con sue proposte - D. Bosco con altra lettera accetta di accompagnare il Canonico a Giaveno per intendersi col Municipio; accordo fallito - Sacra Ordinazione e prima messa di Don Rua - Un parere di D. Bosco sulla costumanza di baciarsi in segno d'amicizia. 238

CAPO LII. L'onomastico di D. Alasonatti - La Messa solenne di Don Rua nell'Oratorio; festeggiamenti; pronostici; elogi - II Marchese e la Marchesa Fassati costituiti padroni dell'altare della Madonna nella chiesa di Valdocco - Il sogno delle quattordici tavole: spiegazioni - D. Bosco parte per Strambino; dialoghi in ferrovia; chiede la elemosina per il panegirico di S. Rocco. - La trigesima di D. Cafasso a S. Francesco d'Assisi: D. Bosco legge l'orazione funebre: suo continuo ricordo del caro benefattore - Garibaldi a Napoli - Invasione dei Piemontesi nelle Marche e nell'Umbria: battaglia di Castelfidardo e presa d'Ancona - Consiglio di D. Bosco; per i soldati che partivano per quella guerra - Il Card. De Angelis prigioniero in Torino - L'esercito piemontese nel Napoletano: vittoria al Garigliano e occupazione di Capua - Le sorti dell'Austria. 242

CAPO LIII. D. Bosco accetta la direzione del collegio di Giaveno - Condizioni da lui proposte e accettate dal Provicario - Elezione di un nuovo Rettore - Scelta di assistenti Conferenza di D. Bosco ai socii della Congregazione: egli è Pronto a sottomettersi al volere di Dio se non fosse approvata la pia Società: non s'introducano novità nelle consuetudini della Casa: non si abbiano sospetti che venga meno l'affezione del Superiore: annunzia che fu delegalo chi deve esaminare le Costituzioni - Lettera di Monsignor Fransoni a D. Bosco colla notizia della suddetta delegazione - Giudizi dell'esaminatore - Lettera del Card. Gaude che ha ricevuto le Costituzioni - Stato desolante del Seminario di Giaveno - Entrata nell'Oratorio del Cav. Federico Oreglia di S. Stefano - Calcoli di D. Bosco sulla spesa necessaria all'erezione di un collegio - Il nuovo programma di Giaveno e nessuna domanda d'accettazione - D. Bosco trova modo di mandarvi molti allievi - Il Sindaco deluso ne' suoi disegni - Arrivo nel piccolo Seminario di chierici e giovani - Le scuole in ordine - Lodi a D. Bosco - Avviso importante da lui dato al nuovo Rettore. 246

CAPO LIV. Progetto per la costruzione del collegio in Mirabello - Don Bosco a Casale per avere l'approvazione del Vescovo - Spiacevole incontro nel viaggio - Il Benedicite prima del pranzo - D. Bosco in Asti: propone al Vicario Capitolare di pilotare il ritiro dei suoi chierici nell'Oratorio essendo occupato il Seminario dal Governo: pratiche per iscritto: arrivo in Valdocco di quei Seminaristi: malumori dissipati: buona riuscita - D. Bosco vuole i giovani occupati anche in tempo di vacanze - Prime partenze degli alunni per i Becchi - Il Ch. Cagliero a Castelnuovo difende i diritti del Papa - Previsioni avverate di Don Bosco intorno al regno di Napoli. 252

CAPO LV. D. Bosco e gli amici di Chieri - Ai Becchi - L'avvenire di due giovanetti - La passeggiata autunnale e varie stazioni - Le Prediche - Le confessioni: buon esempio degli alunni dell'Oratorio - Fiducia dei genitori in D. Bosco - I fanciulli dei Paesi dietro a D. Bosco e ai suoi allievi - Confidenza di questi con D. Bosco in tempo di camminate: poche vocazioni Per l'Oratorio: norma la sola volontà di Dio - Una virtù che non regge alla prova - Riconciliazione - Ritorno a Torino. 256

CAPO LVI. Innovazione nei dormitorii - Nuovo programma per l'accettazione di studenti - Presa di possesso di Casa Filippi e sua descrizione - Un ponte di legno - Varie cause dell'entrata di alcuni alunni nell'Oratorio; un'invito di D. Bosco; una preghiera esaudita; la campana dell'Ave Maria e una voce consolante - Fantasie fatidiche e confortanti di due giovani - La Madonna e il dono della memoria - Esami e voti de' Chierici - Lettura solenne del regolamento dell'Oratorio - Principio delle scuole e prolusione dei maestri - Le pagelle dei voti trimestrali - Due ammonimenti ai chierici. 260

CAPO LVII. Suppliche per sussidii ai Ministri degli Interni e dello Guerra: risposte - La moltiplicazione dei pani - Una guarigione meravigliosa - Annunzio della morte futura di un gran personaggio politico - D. Bosco predice l'avvenire ad alcuni alunni. 265

CAPO LVIII. Note della Cronaca di D. Ruffino - Una reliquia di Savio Domenico guarisce gli occhi infermi d'un chierico - Consiglio agli artigiani di parlare italiano: la Madonna nelle sue novene toglie la zizzania dall'Oratorio: La morte viene quando meno si aspetta, e l'Angelo Custode - D. Bosco consola una famiglia affitta per la morte repentina del suo capo - La novena dell'Immacolata - Lo spirito di D. Bosco nel predicare e confessare in qualunque circostanza - Lettere al Teol. Appendino per una missione a Saluggia - Un ammonimento a chi trattava con poco riguardo i missionarii - Conferenza ai chierici sulla vocazione ed esortazione ad essere perseveranti in essa. 269

CAPO LIX. Avviso ai giovani di non prendersi per mano - Cooperatori di D. Bosco nello scrivere e tradurre libri - Letture Cattoliche: BIOGRAFIA DEL SACERDOTE GIUSEPPE CAFASSO ESPOSTA IN DUE RAGIONAMENTI FUNEBRI - Studio della geografia dei paesi infedeli per zelo di convertirli - Rappresentazione drammatica - D. Bosco va a Saluggia: predica e confessa - Predizione e avveramento della morte di un chierico e di un giovanetto - Apparizione di un'anima del Purgatorio ad un principe incredulo - Lettera di un buon chierico da Giaveno - Fioretti per la novena del Santo Natale - Parlata di D. Bosco: intercessione di Savio Domenico: due alunni moriranno fra qualche mese: un nostro defunto ha bisogno di preghiere - Mons. Ghilardi predica nell'Oratorio - Stima dei Vescovi per D. Bosco Strenne di D. Bosco ai chierici: chiede ai giovani che ciascuno dia a lui per strenna una Comunione - Augurii ai benefattori - Risultati dell'educazione ricevuta dai giovani nell'Oratorio di Valdocco. 272

CAPO LX. Il Galantuomo - Spiegazione delle profezie stampate l’anno scorso su questo almanacco - Accenno sugli avvenimenti futuri - Predizioni della Monaca di Taggia. 276

CAPO LXI. 1861 -Suo principio - Numero degli ascritti alla Pia Società -Buona condotta dei giovani - Sante industrie - Cacciatori e pescatori di anime - Il buon esempio di D. Bosco - Il sogno delle coscienze: D. Cafasso, Silvio Pellico e il Conte Cays: i conti in cifre presentati dai giovani: spettacolo doloroso: una splendida mensa: la strenna generale - Riflessioni intorno al sogno. 279

CAPO LXII. Lotte spirituali - D. Bosco spiega in Privato a ciascun giovane la sua parte nel sogno - Strenne - Confessioni aggiustale - Giovani mesti e giovani lieti e santi - Morte imminente scongiurata - Confessioni generali degli artigiani - Si chiede la causa di quelle dolorose scoperte fatte dopo le Comunioni di Natale - D. Bosco dà in pubblico spiegazione del sogno - Perchè D. Bosco ritardò di alcuni giorni la narrazione del sogno - La grazia e la gloria di Dio - Una domanda sulla natura del sogno - Una Vocazione - D. Bosco e le coscienze de' giovani lontani - Felicità di chi si è confessato bene - Lettere di D. Bosco: un libro per un nobile giovinetto e un vestito per un neofito - Letture Cattoliche Indirizzo agli associati ed ai corrispondenti di queste letture. 283

CAPO LXIII. Si tiene Capitolo per l'accettazione di un socio - Testamentino: D. Bosco dà qualche spiegazione sulla profezia della fine del mondo; annunzi  a una grande carestia e mortalità - Riflessioni sulle profezie bibliche - Progetti per ampliare L'Oratorio - La festa di S. Francesco di Sales - D. Bosco  predica gli esercizi nel Seminario di Bergamo: effetti della sua parola: vede ciò che accade nell'Oratorio: in mezzo ai Seminaristi - Lettera che ricorda questi esercizi - Ritorno di D. Bosco a Torino: scioglie li accalappiati dal demonio - Come fa D. Bosco per vedere le cose lontane: lavorar molto è suo dovere - Continuano le conseguenze del sogno - D. Bosco annunzia che dirà ad ogni allievo qualche cosa sopra il suo avvenire e sui nemici dai quali deve guardarsi - Meravigliose confessioni - La confidenza in Savio Domenico e la benedizione di D. Bosco guariscono un infermo - Come D. Bosco accetti le lodi e i biasimi - Tre furberie spirituali - Capitolo e accettazione di un nuovo socio. 288

CAPO LXIV. D. Bosco Predice il futuro ai giovani e che egli vicino a morire andrà a Roma con dieci alunni - Vescovi imprigionati, sacerdoti uccisi, conventi aboliti - Vittorio Emanuele Proclamato Re d'Italia con Roma capitale - Lettera di D. Bosco al Papa: previsioni su Roma - Annunzia tre spine per L'Oratorio - Da Fossano avvisa D. Alasonatti che nell'Oratorio le cose non vanno bene - Non può recarsi a predicare in Susa - Svela a ciascun giovane quali siano i suoi nemici - Propone ad alcuni di entrare in Congregazione - Morte di un primo allievo secondo la predizione - Letture Cattoliche - Articolo dell'Armonia - Un appello ai Cattolici - Commissione per raccogliere i fatti ed i detti di D. Bosco. 293

CAPO LXV. Sogno: Una passeggiata dei giovani al Paradiso - Una collina incantevole - Un altipiano - Laghi: sangue, acqua, fuoco, bestie feroci - Uno stretto passaggio - Si ritorna indietro: un'immensa pianura - Spettacolo ributtante - Un giardino ingannatore - Turbe allegre che vanno alla perdizione - Si ripiglia la salita: lo stretto passaggio; un ponte di legno - Difficile ascesa alla montagna - Un luogo di pena - Presso la vetta: canti celesti - I giovani scoraggiati e stanchi si fermano a mezza via o discendono - Sforzi di D. Bosco per farli risalire - Spiegazioni e osservazioni - D. Bosco racconta il sogno al Card. De Angelis. 297

CAPO LXVI. Una commedia latina del Palumbo - Perchè la morte del giovane Quaranta non fece impressione sugli alunni - Conseguenze del sogno dell'ultimo giorno dell'anno 1860 - I giovani tacciono facilmente in confessione - Coscienze svelale - Il Capitolo accetta nuovi socii Sermoncino! Come uno può divertirsi stando in peccato - Morte predetta e avvenuta di un altro allievo - Lavoro indefesso di D. Bosco - Sermoncino per quelli che stanno lontani da D. Bosco - Conferenza ai socii: Carità da praticarsi nel parlare coi forestieri, coi giovanetti e coi confratelli - I chierici protestano di voler stare sempre con D. Bosco: estranei che dal loro contegno li riconoscono come alunni dell'Oratorio - Non si riesce a ritrattare D. Bosco - Esercizii spirituali - Virtù di D. Bosco e stima che ne ha il clero - Giovani fortunati quelli che vissero con D. Bosco - Utilità Recita del miserere ogni sera -Risposta di D. Bosco ad un prete di Osimo ed ai parroci che gli chiedono consiglio - Sussidii del Ministero dell'Interno. 304

CAPO LXVII. Il sogno della ruota - Un personaggio sconosciuto - Alberi di fico e un vigneto - Si avvicina la sera - Il fratello Giuseppe - Macchina con ruota a lente - Le coscienze; i buoni e i cattivi; gli incatenati; il lucchetto alle labbra; i scimioni sulle spalle; difficili conversioni -Nuovi alunni che Dio vuol donare a D. Bosco - Le vocazioni: i coltivatori della terra; il campo di spighe mature e i mietitori; meravigliose indicazioni - I primi cinque futuri decennii della Pia Società - Progressiva scomparsa dal mondo dei primi alunni Salesiani - I loro successori e nuovi innumerabili allievi - Umile conclusione del sogno. 309

CAPO LXVIII. Testimoni della narrazione del sogno e alcune prove dell'avveramento de' fatti predetti e della realtà delle cose vedute - D. Bosco palesa in privato, a quelli che glielo domandano, come li abbia visti nel sogno - Gli alunni interpellano D. Bosco in pubblico, perchè spieghi loro quale significato avessero le varie apparizioni nella lente - Due alunni fra i presenti saranno Vescovi - Alcuni artigiani messi a studiare - Il mese di Maria nell'Oratorio - D. Bosco insegna laudi sacre - Sanità cagionevole, ma lavoro incessante - Conferenza: Carità coll'obbedienza - Le sacre novene fatali ai cattivi. 316

CAPO LXIX. Terzo ampliamento della fabbrica dell'Ospizio - Parole di D. Bosco nella sera del 15 maggio - Tristi presentimenti - Tre Ave  Maria recitate nel dormitorio di San Luigi - Caduta del fulmine - Rovine e protezione del cielo - Una celia singolare - Ringraziamenti - Complimento del Can. Anglesio Insulti e menzogne giornalistiche - La caduta di un voltone - Sogno grazioso: Importanza di un ospedale per l'Oratorio - Le iscrizioni sotto il nuovo Portico volto a levante. 322

CAPO LXX. Infermità nell'Oratorio - Mirabili guarigioni dal male agli occhi - Vocazione non corrisposta - Si fa il ritratto a D. Bosco: varii incidenti - Sogno: i due pini - Due promesse per frutto del mese di Maria - Accettazione di nuovi socii nella Pia Società - La Pioggia promessa e preghiere per la preservazione della grandine - Letture Cattoliche - Replica della commedia latina - Una prima messa - La Chiusa del mese di Maria ed una confessione ben falla. 327

CAPO LXXI. La festa dell'Unità d'Italia - Le Autorità civili cessano d'intervenire alla processione del Corpus Domini - I giovani dell'Oratorio alla processione della Cattedrale - Morte e sepoltura del Conte di Cavour - Parole di D. Bosco: un giovane non farà più un secondo esercizio di Buona Morte: annunzio della morte di Cavour: minaccia a quelli che non vogliono convertirsi - Un demonio sulle spalle di chi tace il peccato in confessione - Conversazione famigliare di D. Bosco: santi giovanetti: un globo misterioso: Gesù Crocifisso: la Madonna: morte prevista di un parroco: sventura di un privilegialo da Dio, il quale cade in superbia: moltiplicazione delle ostie. - D. Bosco raccomanda in pubblico preghiere speciali per i Peccatori - Sogno: il fazzoletto prezioso e la virtù della purità - Accoglienze affettuose ad un apostata - Risposta dell'Arcivescovo di Firenze a D. Bosco che lo avvisa intorno alle insidie dei protestanti. 331

CAPO LXXII. Letture Cattoliche - Articolo dell'Armonia per il rinnovamento delle associazioni a queste Letture - La festa di S. Giovanni e quella di S. Luigi; come si amassero gli antichi allievi - Il piccolo Seminario di Giaveno e felice riuscita de' suoi alunni - Visite di D. Bosco a Giaveno - Rivalità - Chierici sobillati perchè abbandonino D. Bosco - Scoraggiamento del Ch. Boggero e sua lettera - Consigli di D. Bosco a Boggero - Colloquio di D. Bosco col Provicario - D. Bosco a S. Ignazio - Lettera del Cav. Oreglia a D. Alasonatti: gli infermi - Lettera di D. Bosco ai giovani dell'Oratorio - Annunzia come vedesse da Lanzo quelli che non fanno per la casa - Distribuzione dei premii: Biglietto di Tommaso Vallauri a D. Bosco - Giovani preparati per la vestizione ecclesiastica. 337

CAPO LXXIII. Letture Cattoliche - UNA FAMIGLIA DI MARTIRI - CENNO BIOGRAFICO SUL GIOVANETTO MAGONE MICHELE: articolo dell'Armonia - IL PONTIFICATO DI S. DIONIGI - Ristampa della biografia di Savio Domenico; giudizi dell'Armonia - Pregi degli scritti di D. Bosco - Cronaca: predizione al ch. Ruffino - Ricordo de’ Principii dell'Oratorio - Non conservar rancori - Star lontano da certi critici e non lasciarsi intimidire dai loro motteggi - D. Bosco va a Montemagno: in Asti confessa nella stazione e in una locanda - Consigli ad un nobile giovanetto perchè si apparecchi alla prima Comunione - Conferenza: sul parlare di politica: guardarsi dal rispetto umano nell'esercizio dei doveri di pietà: procurare che ove è un socio della Congregazione tutto proceda bene - D. Bosco rimprovera chi abusava, giuocando, delle frasi scritturali - Prende le difese dei Canonici vilipesi e di un Vescovo - Sua avversione alla maldicenza e come cercasse impedirla - Con quale carità parlasse del prossimo - È interrogato sulla predizione di una morte che non parea avverata: sua risposta - Malattie nell’Oratorio - Lettera di Mons. Fransoni a D. Bosco per le vestizioni clericali - D. Bosco si reca a Vercelli - In viaggio difende i suoi chierici dall'accusa che non [994] imparassero la teologia - Suo discorso inaugurale dopo la consacrazione della Basilica a S. Maria Maggiore - Due altre sue prediche improvvisale. 342

CAPO LXXIV. La passeggiata autunnale. - A Chieri: ospiti generosi - A Buttigliera - Ai Becchi: solennità del Santo Rosario - A Castelnuovo: feste del Vicario e della popolazione a D. Bosco - Fermata a Mondonio e a Piea Arrivo trionfale a Villa S. Secondo: festa votiva in onore della Madonna e cortesie degli abitanti - A Cossombrato: fanciullo invitato a darsi agli studii - Una bella serata ad Alfiano - D. Bosco e le sue continue corrispondenze per lettera e correzioni de' suoi opuscoli Presso Castelletto de' Merli e Ponzano - Al Santuario di crea: i giovani bisognosi di ristoro: carità de' Minori Osservanti - Marcia a Casale: accoglienze del Vescovo: funzioni in chiesa e trattenimenti drammatici in Seminario - A S. Germano ed Occimiano - Arrivo a Mirabello - Funzioni religiose in piazza e teatri in chiesa - Scena buffa col sagrestano - Esercizio di buona morte nella chiesa de' Cappuccini - A Lui: esclamazione di una buona vecchia e accettazione di un giovane per l'Oratorio - A Mirabello D. Bosco risolve che si dia principio alla costruzione di un Collegio - Il parroco invita a pranzo tutta la comitiva - Partenza da Mirabello: fermate a S. Salvatore, alla Madonna del Pozzo e alla villeggiatura del Conte Groppello - Arrivo a [1012] Valenza presso il senatore De Cardenas - In ferrovia da Valenza ad Alessandria - Una notte a Villafranca Arrivo a Torino - Letture Cattoliche. 348

CAPO LXXV. Generosa elemosina di un vecchio creduto avaro - Il numero dei giovani dell'Oratorio - Modo grazioso nell'accordare riduzione di pensione - Lettere di D. Bosco per raccomandare chierici diocesani al Vicario Capitolare di Asti e al Provicario di Torino - Risposta di Mons. Fransoni a D. Bosco; gli Oratorii; i Protestanti; il Seminario di Giaveno; l'esame alle regole della pia Società - Il Piccolo Seminario di Giaveno floridissimo per merito di D. Bosco. 356

CAPO LXXVI. Divozione di D. Bosco al Sacro Cuore di Gesù e una scismatica convertita - Insegnanti nell'Oratorio - Consolazione di chi ha impiegalo lutto il giorno per il Signore - Argomenti di lettere da suggerirsi agli alunni perchè scrivano ai loro Parenti - Suppliche esaudite per vestiarii al Ministro della guerra, al Re e al Ministro di Grazia e Giustizia per sussidii: al Presidente dell'Opera Pia di S. Paolo per le spese di culto - Tristi presentimenti e malattia mortale del Ch. Provera: Don Bosco gli offre la scelta fra la guarigione e il paradiso: Predice anni di tribolazioni: Due biglietti - Conferenze ai socii: Il consigliere nei dubbi sulla vocazione: Distacco dalle cose terrene - Capitolo e accettazione di un socio - Parlata alla sera: Distrazioni procurate dal demonio ai giovani nel tempo della Santa Messa - Soddisfazioni con danno dell'anima - Tre giovani e un sacerdote raccomandali dal Vescovo di Novara. 359

CAPO LXXVII. Il Galantuomo Pel 1862 e le Sue Profezie - Lettura Cattolica per il prossimo gennaio - Alcune vestizioni clericali - Capitolo e accettazione di soci - Un alunno che la novena di Natale costringe a ritirarsi dall'Oratorio - Don Bosco infermo di risipola - L'ultimo giorno del 1861: consigli di D. Bosco a tutti gli alunni: sua promessa di una strenna straordinaria. 365

 

 

PROTESTA DELL'AUTORE

 

                Conformandomi ai decreti di Urbano VIII, del 13 marzo 1625 e del 5 giugno 1631, come ancora ai decreti della Sacra Congregazione dei Riti, dichiaro solennemente che, salvo i domini, le dottrine e tutto ciò che la Santa Romana Chiesa ha definito, in tutt'altro che riguardi miracoli, apparizioni e Santi non ancora canonizzati, non intendo di prestare, nè richiedere altra fede che l'umana. In nessun modo voglio, prevenire il giudizio della Sede Apostolica, della quale mi professo e mi glorio di essere figlio obbedientissimo.

 

 

CAPO I. 1858 - Chi era D. Bosco: sua amorevolezza contraccambiata dagli alunni - Egli povero predilige i poveri - Virtù di Magone Michele: confidenza in Maria SS.: carità - Sua lettera a D. Bosco - Cinque ricordi ai giovani per conservare la virtù della purità - Il fazzoletto bianco - Predica sulla virtù dell'obbedienza - Tre immagini della Madonna - Letture Cattoliche.

 

                Un vecchio sacerdote, che, prima alunno e poi chierico,  visse per anni nell'Oratorio, e col suo zelo molti fanciulli preservò dai pericoli della loro inesperta età, nel 1889, ci dava in iscritto le impressioni provate nel convivere con D. Bosco.

 

                “Chi fu D. Bosco? D. Bosco fu un sacerdote, che coll'esempio e colla parola insegnò con quale affetto ciascuno, nel proprio stato, deve servire fedelmente il Signore. Qui… fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno coelorum (Matt. V. 19.) E ben si può e devesi per questo motivo considerare con ragione D. Bosco un uomo insigne fra i più grandi personaggi non solo [2] del secolo XIX, ma bensì dell'Era Cristiana. Nulla possedendo, fondò un edificio così meraviglioso, che riempie di stupore il presente, e attraverserà i secoli futuri nell'ammirazione del mondo. Egli fu istrumento di. Dio in questa grande opera, epperciò Iddio la conserverà e compirà giusta i suoi misteriosi fini, sebbene infermo possa essere l'elemento che la componga: e quanto più questo potrà difettare, altrettanto Egli metterà, per così dire, del proprio.

                D. Bosco Giovanni fu uomo misterioso mandato dal Signore, per provare col fatto quanto possa colui che in Dio pienamente confida. Profondo conoscitore degli uomini e de' suoi tempi, di carattere fermo, di proposito tenace, di viste lunghe e giuste, di tatto finissimo nel maneggio degli uomini e delle cose, di sconfinata fiducia nella Provvidenza divina, tutto ciò che nella sua vasta mente concepiva, sebbene insuperabili sembrassero gli ostacoli futuri, egli realizzava, compiva quasi per incanto con generale stupore, confidando in queste parole: Deus providebit.

                Pare che anche per lui, come pel grande Napoleone, non dovesse esistere il vocabolo impossibile, sebbene questi disponesse di altri mezzi e fosse guidato da altri fini.

                Gli ostacoli che si frapposero a D. Bosco nell'impianto dell'opera sua, solo il Signore può saperli.

                A tale uopo per disposizione divina, veniva dotato da natura di una tempra assai robusta, di corpo ben fatto, sebbene un po' inclinato nelle spalle, di statura più che mediocre, di fisico insomma e fibra assai forte e resistente. Il suo incesso moderato e semplice assai, era come d'uomo pensoso, ma tranquillo alla buona, così da non far supporre chi fosse. Anzi, se mi è lecito il confronto, direi che il suo portamento era un po' dondolante, a guisa di quello dell'amico del contadino, il bue, di cui sembrò riportarne e la mitezza di carattere e la forza e costanza nel tiro, eguale sino alla metà del campo, senza curarsi, nè di radici opponentesi sotterra, nè di qualunque altro inciampo all'aperto.

                Quel che però in D. Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce bensì ma penetrantissimo fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere in fissandolo. Onde si può dire che l'occhio suo attirava, atterriva, atterrava all'uopo e che nel mio giro [3] del mondo non conobbi persona, che più di lui m'imponesse collo sguardo. In genere i ritratti e quadri non riportano questa singolarità e me ne fanno di lui un dabben uomo.

                In mezzo a tanto tramestio di vicende umane ed avverse, D. Bosco era sempre padrone di sè; conservava l'indole sua moderatamente ilare e giocosa e rarissimamente lo vidi (forse mai) oltrepassare i limiti della suscettibilità, sebbene fosse assai sensibile di spirito e di cuore. Tutte queste attraenti prerogative unite insieme, ne facevano di D. Bosco un personaggio simpatico ed ammirabile fino alla venerazione, per tutti coloro che ebbero la fortuna di praticarlo da vicino e per cui ne diventavano di lui, più che servi, schiavi per affetto.

                Quel suo fare ilare e faceto in mezzo ai suoi cari figli, era ciò che gli facilitava la via e gli dava lena nelle sue più gravi e spinose imprese: onde talvolta lo si vedea scuotersi come da grave peso, sfogandosi improvvisamente con queste parole: Ah!.... Vada come vuole, purchè vada bene!

                Altra fiata sotto il gravame delle dicerie e persecuzioni contro di lui e le sue opere, nominando quel giovane che in quell'istante gli era più vicino, prorompeva in queste altre: Neh! Tale! Laetare et benefacere e lasciar cantar le passere. - Voi siete i miei cari biricchini: si sta pur bene nelle case dei signori, dove non manca alcuna cosa; ma là non vi siete voi!

                Grandi consolazioni D. Bosco provava circondato dai suoi figli sinceramente amorosi, i quali, inconscii, ne spuntavano le pungenti spine della vita, ed avevano il merito di sorreggere e conservare una si preziosa esistenza, che forse senza il loro efficace concorso, avrebbe dovuto soffrire tanto da soccombere precocemente.

                Egli però andava assai guardingo nel lasciare anche solo trapelare ai suoi cari le angosce e trambasciamenti dell'animo suo, per le tante avversità incontrate durante la sua scabrosa missione.

                Per trovar sollievo aveva composto una canzoncina giocosa, che ancora si ricorda preziosamente nell'Oratorio, come si ricorda il coro: Andiamo, compagni. Mi pare di vederlo D. Bosco in mezzo a noi e ancora udirlo: - C'è Chiapale?

                 - Si, signore. [4]  - Bene…Cantiamo la nostra canzone? Intonala. - E qui accompagnarci egli stesso colla sua voce dolce e soave e continuare fino al termine del canto, come se fosse giunto a godere la bellezza d'una confortante oasi in un combusto deserto. Servite Domino in laetitia, era il suo motto d'intercalare fra i suoi più diletti; e questa santa allegria formava per lui la base del suo edificio sociale per la sicura educazione della gioventù. Nemico della taciturnità e de' nascondigli, voleva che i giovani nella ricreazione si esercitassero specialmente nella ginnastica del corpo e nella musica, cui egli stesso prendeva parte assai volentieri, anche per disingannare quelli che per malinteso spirito e scrupolo se ne astenevano.

                 - Io desidero vedere i miei giovani, diceva, a correre e saltare allegramente nella ricreazione, perchè così sono sicuro del fatto mio.

                Quindi affidava a' più pratici negli esercizii suddetti, coloro che per troppa timidità ne fossero ritrosi, perchè li animassero gradatamente a stare allegri e a divertirsi cogli altri.

                Nello stesso tempo amante come era del canto e del suono ne aveva istituito la duplice scuola dopo la cena. Egli stesso aveva adattato la musica a parecchie Laudi Sacre e composto un semplice Tantum Ergo musicato per le feste solenni ne' primordi dell'Oratorio. Questo ancor io ebbi il piacere di cantare co' miei colleghi, sempre cari, di quel tempo (1858). Credo lo si conservi ancora nell'Archivio Musicale dell'Oratorio.

                Una santa adunque e continua corrispondenza di affetti tra gli alunni dell'Oratorio e D. Bosco, era non solo accesa dall'esempio di tante sue virtù e dalla gratitudine, ma eziandio dal riconoscere i giovanetti come il loro Superiore e padre, rimanendo volontariamente povero, fosse proprio come uno di loro. Povero ad imitazione di Gesù, come Lui, D. Bosco prediligeva i poverelli e tra i figli del popolo sceglieva i suoi discepoli. È notabile il motivo pel quale non accettava un fanciullo raccomandatogli dal Barone Feliciano Ricci. [5] Benemerito e sempre Car.mo Sig. Barone,

                Mi è molto rincresciuto della venuta del Figlio Rosso e del rinvio alla patria.

                Non è possibile di fargli posto al presente.

                D'altronde la madre si presentò abbigliata in modo da invitare me a dimandare a lei la carità. Io non posso accettare giovani, fra quelli che sono totalmente abbandonati, mentre i parenti dimandano con vestiti di gala. Il secondo motivo è un solo riflesso: la ragione per cui non l'ho ricevuto è la impossibilità.

                Spero nella sua bontà che mi vorrà compatire, se non ho potuto secondare tostamente il suo caritatevole desiderio. Si degni di pregare per me ed io, invocando la grazia del Signore sopra di Lei e sopra tutta la famiglia, mi professo con vera gratitudine

                Di V. S. Benemerita

                Torino, 4 maggio 1858.

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Egli prediligeva i più meschini ed i più umili tra i quali possedeva dei veri tesori di virtù. Ci basti narrare di un solo.

                Magone Michele, che, nelle prime settimane della sua entrata nell'Oratorio, sembrava un focoso cavallo sbrigliato, frequentando i sacramenti era divenuto così paziente che andandosi a confessare da D. Bosco si preparava stando raccolto immobile e ginocchioni sul nudo pavimento, talvolta per quattro ed anche cinque ore lasciando che altri passasse prima di lui. Dopo la confessione, la comunione e le sacre funzioni si fermava accanto all'altare del Santissimo Sacramento o a quello della Beata Vergine, prolungando le sue preghiere. Talora i compagni, uscendo in folla di chiesa, lo urtavano, inciampavano ne' suoi piedi, ed anche glieli pestavano, ma egli pareva insensibile e [6] proseguiva tranquillo le sue orazioni. Ma nel tempo di ricreazione tutti i lati dell'ampio cortile erano battuti da' suoi piedi e non eravi trastullo in cui esso non primeggiasse; tuttavia al primo segno di campana correva ove quella chiamavalo. In quest'anno egli applicavasi in tal modo allo studio, che fece la prima e la seconda classe di latinità, sicchè all'esame finale potè essere ammesso alla terza. La sua divozione ardentissima alla Madonna era causa dei suoi progressi. Interrogato come facesse a vincere certe difficoltà nei compiti giornalieri ei rispose: - Ricorro alla mia Divina Maestra ed Ella mi dice tutto e mi pone in mente molte cose che da me non avrei saputo. - Aveva scritto sopra un'immagine di Maria che teneva in un libro e tirava fuori mettendosi a studiare: - Virgo parens, studiis semper adesto meis. E su tutti i suoi quaderni, fogli, libri e perfin sul tavolo aveva scritto colla penna o colla matita: Sedes sapientiae, ora pro me. Per dar gloria a Lei e al suo Divin Figliuolo aveva imparata la musica e colla sua voce argentina e gratissima cantava nelle pubbliche e solenni funzioni. Mentre D. Bosco si trovava a Roma, egli aveva preso parte agli esercizi spirituali, dettati a Pasqua agli esterni dell'Oratorio, coronandoli colla confessione generale; e scriveva a D. Bosco una letterina in cui diceva come la B. Vergine gli aveva fatta udire la sua voce, lo chiamava a farsi buono e che Ella stessa voleva insegnargli il modo di temere Iddio, di amarlo e di servirlo.

                Ritornato D. Bosco a Torino gli chiese licenza di far voto, che non avrebbe mai perduto un momento di tempo; ma quegli non glielo permise e volle che si contentasse di una semplice promessa. La grazia di Dio ispirava in quel giovanetto vivo desiderio di perfezione. [7]

                Nel maggio di quest'anno 1858 si propose di fare quanto poteva per onorare Maria. La mortificazione degli occhi, della lingua e degli altri sensi fu compiuta. Voleva pure privarsi di una parte della ricreazione, digiunare, passare qualche tempo della notte in preghiera; ma queste pratiche gli furono vietate, perchè non compatibili colla sua età.

                Sul finire dello stesso mese egli si presentò a D. Bosco e dissegli: - Se lei è contento, voglio fare una bella cosa in onore della gran Madre di Dio. Io so che S. Luigi Gonzaga piacque molto a Maria, perchè fin da fanciullo consacrò a Lei la virtù della castità. Vorrei anch'io presentarle questo dono, e perciò desidero di fare il voto di farmi prete e di conservare perpetua castità.

                D. Bosco rispose che non era ancora all'età di fare voti di quella importanza.

                 - Pure, egli interruppe, io mi sento grande volontà di darmi tutto a Maria; e se a Lei mi consacro, certamente Ella mi aiuterà a mantenere la promessa.

                 - Fa così, soggiunse D. Bosco, invece d'un voto limitati a fare una semplice promessa di abbracciare la stato ecclesiastico, purchè in fine delle classi di latinità appariscano chiari segni di essere al medesimo chiamato. In luogo del voto di castità fa soltanto una promessa al Signore di usare per l'avvenire sommo rigore per non mai fare, nè dire parola, neppure una facezia, che per poca sia contraria a quella virtù. Ogni giorno invoca Maria con qualche speciale preghiera, affinchè ti aiuti a mantenere questa promessa.

                Egli fu contento di quella proposta e alcuni giorni dopo D. Bosco gli diede un bigliettino dicendogli: - Leggi e pratica. - Magone lo aprì ed era di questo tenore: [8]

                Cinque ricordi che S. Filippo Neri dava ai giovani per conservare la virtù della purità. Fuga delle cattive compagnie. Non nutrire delicatamente il corpo. Fuga dell'ozio. Frequente orazione. Frequenza dei Sacramenti, specialmente della confessione. Ciò che qui era in breve glielo espose altre volte più diffusamente. Gli disse egli adunque:

                1. Mettiti con figliale fiducia sotto alla protezione di Maria; confida in Lei, spera in Lei. Non si è mai udito al mondo che alcuno abbia con fiducia ricorso a Maria, senza che ne sia stato esaudito. Sarà essa tua difesa negli assalti, che il demonio sarà per dare all'anima tua.

                2. Quando ti accorgi di essere tentato mettiti sull'istante a fare qualche cosa. Ozio e modestia non possono vivere insieme. Perciò evitando l'ozio vincerai eziandio le tentazioni contro a questa virtú.

                3. Bacia spesso la medaglia, oppure il Crocifisso, fa il segno della s. Croce con viva fede, dicendo: Gesù, Giuseppe, Maria, aiutatemi a salvare l'anima mia. Questi sono i tre nomi più terribili e più formidabili al demonio.

                4. Che se il pericolo continua, ricorri a Maria colla preghiera propostaci da santa Chiesa, cioè: Santa Maria Madre di Dio, pregate per me peccatore.

                5. Oltre al non nutrire delicatamente il corpo, oltre - alla custodia dei sensi, specialmente degli occhi, guárdati ancora da ogni sorta di cattive letture. Anzi qualora cose indifferenti fossero a te di pericolo, cessa tosto da quella lettura; per opposto leggi volentieri libri buoni, e tra questi preferisci quelli che parlano delle glorie di Maria e del SS. Sacramento.

                6. Fuggi i cattivi compagni: al contrario fa scelta di compagni buoni, cioè di quelli che, per la loro buona condotta, odi a lodare dai tuoi superiori. Con essi parla [9] volentieri, fa ricreazione, ma procura di imitarli nel parlare, nell'adempimento dei doveri e specialmente nelle pratiche di pietà.

                7. Confessione e Comunione con quella maggiore frequenza che giudicherà bene il tuo confessore; e se le tue occupazioni il permettono, va sovente a fare visita a Gesù in Sacramento.

                Questi consigli D. Bosco li porgeva continuamente in pubblico ed in privato, a voce e per iscritto, soggiungendo: - Forse taluno potrà dire che simili pratiche di pietà sono troppo ordinarie. Ma io osservo che siccome lo splendore della virtù di cui parliamo può oscurarsi e perdersi ad ogni piccolo soffio di tentazione, così qualunque più piccola cosa che contribuisca a conservarla, deve tenersi in gran pregio. Per questo io consiglierei di caldamente invigilare, che siano proposte cose facili, che non ispaventino, e neppure stanchino il fedele cristiano, massime poi la gioventù. I digiuni, le preghiere prolungate e simili rigide austerità per lo più si omettono, o si praticano con pena e rilassatezza. Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza. -

                Questo fu il sentiero che condusse il nostro Michele ad un maraviglioso grado di perfezione. E questa faceva anche brillare la sua carità verso il prossimo. Egli era sempre pronto a scrivere lettere per chi ne avesse avuto bisogno, a prestare ai compagni qualunque servizio in camerata e altrove: p. e. scopare, rifare i letti, pulir gli abiti, spiegare le difficoltà non capite nella scuola; a consolare gli affitti colle buone maniere, col raccontare storielle col farsi mediatore presso i superiori; a fare il catechismo agli esterni, ad insegnare il canto, a servire gli infermi, esibendosi ad assisterli anche di notte, a perdonare [10] volentieri qualunque offesa. Con questi suoi modi erasi guadagnato il cuore di tutti e della sua influenza si giovava per il bene delle anime con avvisi, inviti, preghiere, promesse, regali, biglietti, scherzi e prudenti rimproveri. Lo sa Iddio il male che impediva e il bene che faceva operare! Non ci tratterremo in narrazioni particolari, ma non ometteremo un documento inedito, perchè sia conservato.

                Da una lettera che un condiscepolo di Magone, Galleano Matteo, scriveva a D. Bosco, ricaviamo due bei fatti. Ecco come si esprime: - Il primo è che una volta avendo Magone in mano una piccola candela lunga quasi quattro dita, mi invitò ad andare in chiesa a pregare per la conversione dei peccatori. Io mosso dalle sue graziose parole accondiscesi. Entrati in chiesa andammo all'altare di Maria, e avendo egli accesa quella candela, recitammo la terza parte del rosario. Io era già stanco di pregare, e mi disponeva ad andar via, quando egli con gentili maniere mi esortò a continuare l'orazione, e pregammo finchè la candela fu tutta consumata.

                Il secondo fatto è il seguente. Un sabato sera trovandosi molti artigiani nel parlatorio dopo cena ed essendo già suonato il campanello per le confessioni, essi non volevano andare e giuocavano alla mora. Quand'ecco giungere Magone, il quale con bei modi salutato l'uno e l'altro, li esortò ad andarsi a riconciliare con Gesù Cristo, ma invano. Allora giuocò con essi circa un quarto d'ora e poscia disse loro: - Venite meco sul secondo poggiuolo. - Tutti andarono con lui credendo che in quel luogo volesse continuar la partita. Ma egli, trovandosi sulla porta della camera di D. Bosco, tanto disse che li condusse a confessarsi. -  [11]

                L'incantevole bontà di Magone e di non pochi altri suoi compagni fioriva e fruttificava rigogliosa per l'obbedienza prestata non solo ai precetti, ma eziandio a tutti i consigli di D. Bosco. Una sera egli stava da un pezzo in mezzo a' suoi giovani in tempo di ricreazione e sentivasi stanco. Dopo averli fatti camminare qualche poco, trasse tutti insieme, quelli che si erano raccolti intorno a lui, fuori dei portici. Quindi li fece sedere per terra, dandone egli loro modestamente l'esempio. I giovani stavano a disagio, ma nessuno osava muoversi, tanto loro premeva di ascoltare D. Bosco e non perdere nulla del tempo che egli aveva destinato di passare con essi. Il servo di Dio dopo aver detto del gran bene che vi era da fare alle anime nel mondo, ed il bisogno di farlo presto, e come il Signore desiderasse che i figli dell'Oratorio lo aiutassero, soggiunse: - Quanto bene si farebbe se io avessi dieci o dodici bravi preti da mandare in mezzo al mondo!

                 - Io! Io! - risposero tutti ad una voce. Questa entusiastica risposta fece sorridere D. Bosco, il quale continuò a parlare in questo modo: - Ma se volete venir con me, bisogna che voi siate al mio cenno, e concedermi che io faccia di voi come fo' di questa pezzuola che ho tra mano. - In così dire, come era solito a fare, e abbiamo riferito altrove, aveva tirato fuori di scarsella un bianco fazzoletto e lo piegava ora in un modo ora in un altro; se lo metteva nella mano sinistra e lo stropicciava; lo aggomitolava; e poi vi faceva qualche nodo ovvero lo sciorinava all'aria per ripiegarlo di nuovo in altra foggia. I giovani guardavano maravigliati quella strana mimica di D. Bosco e molti non l'intendevano; ed egli ripigliò a dire: - Ogni cosa sarà possibile, se lascierete che io [12] faccia con voi ciò che avete veduto aver io fatto del fazzoletto! Se mi obbedirete, se farete la mia volontà, la volontà del Signore, vedrete che Egli farà miracoli col mezzo dei giovani dell'Oratorio. - E molti di questi si misero risolutamente alla sua sequela per cooperare alla gran missione.

                Del resto la virtù dell'obbedienza era inculcata da Don Bosco continuamente ai suoi alunni e la predicava una Domenica sera, dovendo supplire al Teol. Borel. Le sue parole, raccolte a senso da uno de' suoi chierici, Bonetti Giovanni, furono le seguenti:

                Tutti quelli che vogliono imparare una professione bisogna che facciano un tirocinio per imprenderla bene. Vi è un antico proverbio che dice: nessuno nasce maestro. Perciò se uno vuole imparare la professione da muratore, bisogna che per due o tre anni si rassegni a portare la secchia, i mattoni, le pietre e fare altri simili pesanti servigi, onde venga poi ad imparare ad usar la cazzuola e fabbricar case, senza pericolo che queste cadano sul capo di quelli che le debbono abitare. Così pure quanti servigi deve prima prestare un giovane che voglia fare il falegname. Se uno volendo imparare tale professione si mettesse subito a fare una guardaroba, uno scrittoio o qualche altro mobile, perderebbe tempo e fatica, guasterebbe legno e ferri, cosicchè invece di imparare a fare il falegname, imparerebbe il mestiere di guasta boschi. Ora ciò che diciamo di quelli che vogliono imparare una professione, diciamolo pure di noi. Si! Anche noi cristiani abbiamo da imparare la nostra professione, che è la professione cristiana. Noi non potremo mai riuscire bene in questa, se prima non la impareremo. Ma siccome per imparare questa nostra professione, ciascheduno di noi deve obbedire, a Dio, al Papa, e ai sacri ministri della Chiesa e ciascuno secondo il suo stato, così io vi voglio parlare della virtù dell'obbedienza.

                Che cosa vuol dire dunque obbedienza? La parola obbedienza viene dal latino ab audientia, cosa ascoltata, udita dalla bocca [13] di un altro e perciò quando noi udiamo il comando di un superiore e lo facciamo, allora esercitiamo l'obbedienza. Che cosa è poi la virtù dell'obbedienza? S. Tomaso d'Aquino, il più grande di tutti i Teologi, uomo sapientissimo, che ha scritte molte belle cose, dice che l'obbedienza è una virtù che fa l'uomo pronto ad adempire ogni comando e la volontà del Superiore: Obedientia est virtus hominem efficiens promptum ad exequendum praeceptum aut voluntatem superioris. Ma questa virtù viene forse infusa in noi nel santo Battesimo? Questa non è una virtù Teologale, che abbia soltanto Iddio per oggetto, ma è una virtù morale, che noi, aiutati dalla grazia di Dio, possiamo acquistare coll'esercizio delle nostre forze, cioè colla ripetizione degli atti di obbedienza.

                Quante sorta di obbedienza vi sono? Ve ne sono di cinque sorta. L'obbedienza divina, l'obbedienza ecclesiastica, l'obbedienza politica, l'obbedienza domestica, l'obbedienza religiosa. L'obbedienza divina riguarda l'obbedire a Dio. Dio essendo il creatore del cielo e della terra, il Re dei re, il padrone di tutti gli uomini e di tutte le cose è ben giusto che sia da noi prima di tutti obbedito. Iddio ci comanda di onorar lui solo come Dio e noi lo dobbiamo obbedire. Iddio ci comanda di non nominarlo invano, di non bestemmiarlo e noi lo dobbiamo obbedire. Iddio ci comanda di santificare le feste e noi dobbiamo obbedirlo. E così via dicendo, noi dobbiamo obbedirlo osservando tutti i dieci comandamenti, che è quello che Dio ci comanda.

                Ma non solo dobbiamo obbedire a Dio, ma dobbiamo ancora osservare l'obbedienza ecclesiastica, cioè dobbiamo ancora obbedire alla S. Madre Chiesa, perchè Dio ha detto a Pietro: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Quel medesimo Gesù Cristo, che ha dato a Pietro la podestà di sciogliere e di legare, gli ha dato anche la podestà di fare leggi, che potessero contribuire alla maggior gloria di Dio ed alla salvezza delle anime. Perciò è anche nostro dovere che dopo Dio obbediamo al Papa, che è il vero successore di S. Pietro, dobbiamo obbedire alla S. Chiesa e perciò osservare i suoi comandamenti ascoltare la santa Messa tutti i giorni festivi, non mangiar carne il venerdì ed il sabato, confessarci almeno, una volta all'anno e comunicarci alla Pasqua di Risurrezione, e non trasgredire gli altri precetti. [14]

                Coll'obbedienza politica noi obbediamo al Sovrano, ma solo in cose temporali, non mai in fatto di religione. Per es.: noi dobbiamo obbedire al Sovrano col pagare il dazio, o volendo fare una scrittura permanente, farla in carta bollata e così a tutte le altre osservanze che riguardano le leggi di uno Stato. Ma se le potenze temporali ci volessero comandare in cose di religione e che queste non fossero approvate dalla Chiesa non dobbiamo giammai obbedire. In questo caso dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio; e non mai per obbedire al Governo disobbedire a Dio, facendo qualche azione contraria alla sua legge o contro alla S. Chiesa che è sposa di Gesù e che fa le veci di Dio qui sulla terra.

                Vi è poi ancora l'obbedienza domestica. Questa obbedienza si riferisce al padre e alla madre, ai padroni, ai superiori e via dicendo. Perciò un figlio è obbligato ad obbedire ai suoi genitori, che sono i primi dopo Dio; un servo, un garzone è tenuto ad obbedire al suo principale, che fa le veci del padre e della madre; e così ciascuno deve obbedire ai suoi superiori, che hanno il dovere di vigilare sopra di lui. Ma in tutto ciò, che riguarda l'obbligo di obbidire, noi dobbiamo sottometterci soltanto a quello, che non sia contrario alla legge di Dio o della Chiesa. Qualora un padre, od una madre, o un padrone vi comandassero cose cattive, allora non siete più obbligati ad obbedire, anzi peccate anche voi se li obbedite. Guai a quel padre, a quella madre che fossero così  indemoniati da indurre al male un proprio figliuolo! Guai anche a quel figlio, il quale sapendo che gli si comandano cose cattive, tuttavia obbedisce.

                Quanto all'obbedienza religiosa non è il caso di parlarne, perchè voi non siete nè trappisti, nè francescani.

                Riguardo all'obbedienza si devono inoltre osservare l'oggetto ed il soggetto. Non spaventatevi di questi paroloni: oggetto e soggetto. Se non li capite ve li spiegherò. Per oggetto dell'obbedienza s'intende la materia dell'obbedienza, ossia quello che vi vien comandato di fare. E però tutte le volte che ci comandano cose cattive, fosse pure, per impossibile, un angelo venuto dal cielo, noi non dobbiamo obbedirlo. Alcuni giorni fa ci fu un padrone, il quale disse ad un suo giovane: - Non sai come farti dei danari? Se vuoi io ti insegnerò. Io ti debbo dare otto [15] soldi al giorno, non è vero? Ebbene; io te ne darò soltanto sei; gli altri due te li darò per te. Se il sig. D. Bosco te li chiede tu gli dirai: il padrone me ne ha dati soltanto sei. - Ora ditemi; in questo caso potrebbe obbedire quel garzone? No; perchè è cosa illecita. Infatti quel buon giovane non obbedì, dando così una bella lezione e un bell'esempio a quel padrone spensierato. Per soggetto dell'obbedienza poi s'intende colui che comanda. In questo caso colui che comanda deve essere superiore a colui che obbedisce e tutte le volte che chi comanda è un superiore, noi siamo tenuti ad obbedirgli. Un inferiore, un eguale non può obbligarvi ad obbedire.

                Ma voi domanderete: La virtù dell'obbedienza è una grande virtù? Sì! La virtù dell'obbedienza è quella che contiene, che abbraccia tutte le altre virtù, come dice S. Gregorio Magno: Est virtus quae omnes virtutes inserit, insertasque custodit. Le conserva in modo che più non si perdano. La virtù dell'obbedienza è l'atto il più grato che noi possiamo fare a Dio. Fra tutti i doni che Dio ci fece, la libertà, cioè l'averci creati liberi, è il dono più grande. Ora quando noi obbediamo facciamo un sacrifizio di questa libera volontà, assoggettandola al volere di un altro; ma la volontà è la cosa più preziosa che abbia l'uomo, dunque questo è il sacrifizio più gradito che possiamo fare a Dio. Ma perchè questa obbedienza sia grata a Dio, deve essere di nostra volontà. Uno che obbedisce malvolentieri, che obbedisce ma per timore di essere castigato dai superiori, l'obbedienza di costui non può essere piacevole a Dio, perchè a Dio non piacciono le cose fatte per forza. Egli essendo Dio d'amore vuole che tutto si faccia per amore. Perciò quando ci viene comandata qualche cosa poniamo subito il nostro cuore in pace, e pronti obbediamo, che il Signore sarà con noi. Aveva il Re Saulle da dare una battaglia contro i Filistei. Il Profeta Samuele gli disse: - Va al campo, e là aspetta finchè io sia giunto a fare un sacrificio, guardandoti dall'attaccar prima la battaglia. - Andò Saulle, aspettò, ma Samuele tardava a giungere. I nemici già si avanzavano, ed i suoi soldati indietreggiavano, non potendo accettar battaglia finchè si fosse fatto il sacrifizio. Saulle vedendo allora che il suo esercito incominciava a sbandarsi e che Samuele ancora non giungeva, fa preparare la vittima ed usurpando l'uffizio di sacerdote egli [16] stesso sacrifica la vittima. Ma appena terminato il sacrifizio, ecco giungere Samuele e al vedere che Saulle, contro il comando fattogli di aspettare, aveva egli stesso sacrificato, tutto sdegnato, gli disse: Che facesti mai Saulle? - Ho fatto questo perchè vedeva che tu non giungevi, rispose Saulle. Il nemico si avanzava sempre più verso di noi e i nostri già prendevano la fuga; solo per questo fine ho fatto il sacrifizio. - Inique egisti; inique egisti. Hai operato iniquamente; hai operato iniquamente. - Ma ormai eravamo oppressi e vinti. Non c'era tempo da perdere. - Hai operato iniquamente. Ti aveva comandato di aspettarmi e non l'hai fatto! inique egisti. -

                Dunque per qualunque siasi motivo, quando ci si comanda qualche cosa, obbediamo. Per dimostrarvi come il Signore compensi l'obbediente anche in questo mondo, vi voglio raccontare un bell'esempio riferito dallo stesso S. Gregorio Magno. Narrasi nella vita di S. Benedetto che questo santo un giorno mandò uno dei suoi cari discepoli, ai quali insegnava la via del paradiso, di nome Placido, a prendere acqua con una secchia in un fiumicello poco distante. Questo povero giovane andò: sia che abbia messo il piede in fallo, sia che la secchia l'abbia tirato giù col suo peso, il fatto sta che cadde nell'acqua e colla secchia andava in balia della corrente. S. Benedetto ciò osservando da una finestra, subito chiamato un altro discepolo di nome Mauro - Va, gli disse, a trar fuori dall'acqua Placido, che è caduto or ora nel fiume e la corrente lo porta via. - Mauro assuefatto ad obbedire, non curando il pericolo, corre subito e giunto sulla sponda del fiume si mette a camminare sulle acque, come se fossero terra solida; giunge ove si dibatteva Placido, lo prende per i capelli, lo trae fuori e ritorna indietro sulla riva, senza nemanco bagnarsi i piedi. Dice il medesimo S. Gregorio Magno che Mauro non si accorse nemmeno che aveva camminato sopra le acque, nè si avvide del pericolo al quale si era esposto di affogare, Ecco come Iddio premiò l'obbedienza pronta.

                Finito il mese di maggio, D. Bosco, non sappiamo per qual motivo, alla parete della sua camera appendeva un cartone, sul quale nella parte superiore era litografata la [17] polveriera pochi istanti dopo lo scoppio del 1852, vista dalla piazza Emanuele Filiberto e l'accorrere delle truppe e del Re. Nella parte inferiore vedevasi il ritratto di Paolo Sacchi, ai lati del quale D. Bosco aveva applicate due immagini della Madonna, che teneva in braccio il celeste Bambino. Sovra di una era stampato: Ricordo del mese mariano nella chiesa della SS. Trinità in Torino l'anno 1858. Sotto vi era la scritta: - Madre del bello Amor, io l'amo, il sai; - deh! fa ognor più ch'io l'ami, e l'ami assai.

                Nella seconda immagine si leggeva sopra: Rimembranza del mese di Maria celebralo nella chiesa delle Adoratrici. 1858. E sotto: Vergine Maria, Madre di Gesù, fateci santi.

                Dal cartone pendeva una terza immagine di Maria SS. Immacolata colle mani giunte e portava queste iscrizioni: O Vergine Immacolala, Tu che sola portasti vittoria di tutte le eresie, vieni ora in nostro aiuto; noi di cuore ricorriamo a Te. Auxilium Christianorum ora pro nobis. E colla matita D. Bosco aveva aggiunto: Terribilis ut castrorum acies ordinata.

                Questo cartone era forse destinato a sostituire quello, che D. Giacomelli aveva nascostamente sottratto per ritenerlo come memoria di D. Bosco. Il secondo però, per lo stesso motivo, subì la sorte del primo e per la stessa mano, che lo restituì all'Oratorio anni dopo la morte di D. Bosco. D. Giacomelli conosceva bene l'amore che il santo suo amico portava alla Madonna.

                Continuava egli intanto nel lavoro delle Letture Cattoliche. Pel mese di giugno era stampato un bel racconto: Giuseppe e Isidoro, ovvero il pericolo dei cattivi compagni, o operetta di P. Marcello. Ingannato e tradito da Isidoro, il giovanetto Giuseppe fugge dalla casa paterna, ma ambidue rapiti da un pirata, prima corrono i rischi del mare e [18] dei combattimenti e poi sono costretti a lavorare in una caverna coi falsi monetari: Giuseppe rivoltosi a Dio, sopporta con grande rassegnazione i patimenti di quella terribile schiavitù, e per un intreccio di fatti straordinari, può ritornare al paese natio: Isidoro ostinato nell'irreligione finisce di mala morte.

                Mentre spedivasi questo fascicolo, D. Bosco, il 2 giugno, scriveva a D. Carlo Vaschetti, vice curato a Beinasco. - Ella non manchi di pregare il Signore Iddio, che degnisi benedirci nello spirituale e nel temporale e faremo grandi cose. Faccia un milione di associati alle Letture Cattoliche. La diffusione di queste Letture stava sempre in cima a' suoi pensieri.

 

 

CAPO II. Fatti di Pio IX raccontati ai giovani - Festa di S. Giovanni Battista e agape imbandita ne' tre Oratori festivi, per la generosità del Papa - La festa di S. Luigi e l'articolo sull'Armonia del Conte di Camburzano - I segreti di una coscienza svelati - Letture Cattoliche: PORTA TECO CRISTIANO - Don Bosco medita di fare ritorno a Roma: Lettera del Conte De Maistre.

 

                Don Bosco nel tempo di sua dimora in Roma aveva preso nota di quanto veniva a conoscere degli atti del sommo Pontefice, specialmente di quelli che manifestavano il suo carattere, ilare, benevolo e caritatevole. A quando a quando ne raccontava alcuno a' suoi giovani che lo ascoltavano con grande piacere. Due di queste narrazioni ci furono conservate da Don Michele Rua.

                D. Bosco pertanto così parlò una sera:

                Un piacevole episodio accadde al Santo Padre, mentre io ero a Roma. Un romano, il Conte Spalla, andò a fare una visita al Pontefice, e, dopo aver parlato di varii affari d'importanza, gli disse accomiatandosi: - Io vorrei, o Santità, qualche cosa per vostra memoria. E Santo Padre premuroso a rispondergli: - Domandate quel che volete e mi studierò di favorirvi. - Qualche cosa di straordinario. [20]

                 - Dimandate.

                 - Vorrei la vostra tabacchiera.

                 - Ma essa è piena di tabacco d'ultima qualità.

                 - Non importa, l'avrò molto cara.

                 - Prendetela, ve ne faccio un dono con gran piacere del mio cuore.

                Il Conte Spada parti più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone che pel valore non ci darei quattro soldi, ma preziosissima per la provenienza. Il Conte Spada la fa vedere ai suoi amici come cosa degna di grande venerazione. Il tabacco era infatti di infima qualità.

                Altra non men curiosa vicenda accadde al venerando Pontefice. L'anno scorso viaggiando Egli per i suoi Stati passava nelle vicinanze di Viterbo. Una povera ragazzina, che aveva fatto un fascio di legna, vedendo là ferma la vettura pontificia, giudicò che quei Signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro: - Signore, disse al Santo Padre, comperatela, il legno è molto secco. - Il Santo Padre: - Non ne abbiamo bisogno. - Comperatela, ve la dò per tre baiocchi. - Prendi i tre baiocchi ed abbili colla tua fascina. - Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi rimontava in vettura. La buona ragazzina voleva a qualunque costo che il Santo Padre mettesse la sua fascina nella vettura dicendogli: - Prendetela, sarete contenti, nella vostra vettura c'è posto sufficiente. - Mentre il Santo Padre colla sua corte ridevano di una tale insistenza, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, corse colà gridando: - Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Santo Padre ci aggiunse ancora sei scudi e poi continuò il suo cammino. Saputasi tal cosa nella città, ognuno andava a gara per magnificare la Divina Provvidenza, che loro aveva dato un così pio e caritatevole Sovrano.

                D. Bosco intanto aveva stabilito che il 24 giugno venisse celebrata una festa ad onore di Pio IX nei tre Oratorii di S. Francesco di Sales, di S. Luigi e dell'Angelo Custode. [21]

                In quel giorno, essendo nell'Archidiocesi di Torino festa di precetto, volle che i giovani i quali intervenivano a tali Oratorii godessero dei favori loro concessi dal Santo Padre. Abbiamo già scritto come due grazie avesse benignamente elargite il Vicario di Gesù Cristo, nella visita che D. Bosco gli aveva fatta a Roma. Compartendo ai giovani l'apostolica benedizione, aveva loro concessa un'indulgenza plenaria in quel giorno in cui essi avessero fatta la loro confessione e comunione; e questo per l'anima. Indi aveva aggiunto una graziosa somma di danaro, affinchè fosse a tutti servita una colazione. Tale somma era stata notevolmente accresciuta dalla generosità di alcuni signori di Torino, i quali avevano chiesto di acquistare uno degli scudi donati dal Papa, sborsando un prezzo proporzionato al loro vivo desiderio di conservare una memoria dell'affetto di Pio IX ai giovani Piemontesi. Don Bosco poteva disporre di 500 lire.

                La domenica innanzi alla festa i giovanetti furono avvertiti dai proprii Direttori. D. Bosco li animò narrando come Pio IX avesse parlato di essi con grande bontà e come loro avesse procurati i doni già annunziati, affine di vie maggiormente incoraggiarli a correre con perseveranza la via de' comandamenti di Dio. E nella festa di S. Giovanni Battista i giovani accorsero numerosissimi ai rispettivi Oratorii, per accostarsi ai Santi Sacramenti, onde arricchirsi degli spirituali favori e per gustare nello stesso tempo della colazione, o meglio dire, della merenda loro provveduta dall'amorevole Pontefice. La festa non poteva riuscire nè più bella nè più giuliva.

                Però nell'Oratorio di Valdocco questa solennità ebbe un carattere tutto speciale. D. Bosco aveva fatto incidere su pietra Gesù Crocifisso, ordinandone la stampa di 550 [22] immagini al litografo Cattaneo, per farne dono ai suoi benefattori. Il cortile poi oltre i soliti svolazzi era tutto adorno di rami verdeggianti. La sera del 23 i giovani alunni celebravano l'onomastico di D. Bosco, con accademia di poesie e di prose scritte e declamate dagli stessi giovani. L'inno era stato messo in musica per la prima volta dal Ch. Cagliero Giovanni e la banda era diretta dal maestro Massa. D. Bosco ringraziò, parlò del Papa e all'indomani volle eclissato il suo nome innanzi a quello di Pio IX.

                I giovani interni ed esterni compiuti i doveri religiosi, in numero di circa mille si schierarono fuori della chiesa. Erano pronti i musici e primieramente eseguirono una cantata composta dal chierico Francesia Giovanni, alternata da recitativi per esprimere la gioia da tutti sentita per i segni d'amore, le benedizioni e i doni compartiti alla gioventù dal Romano Pontefice. Nella prima strofa dicevasi:

                Dal labbro, dagli atti, dal volto giulivo

                Traspaia, o compagni, la gioia del cuor;

                Chè un giorno più bello, solenne, festivo,

                Dal balzo d'oriente non sorse finor.

                Quindi due giovanetti con un dialogo spigliato in versi quinarii narrarono il motivo di una festa così bella; e concludevano:

 

Viva il Pontefice!

Viva Pio Nono

A chi fia grato

Se a Voi non sono?

Io indelebile In mezzo al cuore

Scrivo il magnanimo

Vostro favore. [23]

Ad essi rispondeva il coro:

Noi pien di giubilo,

Pieni di fede,

Stampiamo un bacio

Sul vostro piede;

Ed alziam fervida,

Mattina e sera,

Per voi, Santissimo,

Una preghiera.

 

                Ed ecco un soprano accompagnato dai cori innalzava a Dio una prece, acciocchè tutti gli uomini venerassero il suo Vicario e gli obbedissero; che si vedesse sulla terra un solo ovile con un solo pastore e che tutti i giovani dell'Oratorio potessero un giorno far corona a Pio IX in Paradiso.

                Cessati i canti ad un invito di D. Bosco i giovani presero posto per la copiosa refezione. Tutti in quell'ora esprimevano in mille modi la loro riconoscenza verso il Papa. I brindisi, le grida di evviva ed i battimano succedevansi allegramente.

                Terminata l'agape i cori sciolsero un inno a Pio IX. Così cantarono:

 

Negli affanni della vita

Negli assalti del dolore,

Di quest'agape gradita,

Come balsamo sul cuore,

Tornerà la dolce immagine

Dei fanciulli al pensiero.

Tornerà al pensier nostro,

Che, deserti e poveretti,

Ci raccolse in umil

chiostro [24]

Un pietoso; e benedetti

Dal buon Pio, di speme florida

Avvionne sul sentier.

Benedetti dal buon Pio,

Noi leviam lo sguardo ai cieli:

Nostro è il ciel, lo disse Iddio;

È dei poveri e fedeli,

Degli uniti in santo vincolo

Di fraterna carità.....

 

                Uno scrittore del giornale l'Armonia si trovava presente, e pubblicandone apposita relazione così concludeva:

                È difficile di esprimere a parole i dolci sensi, che destava in cuore quella vista di tanti giovani, che con canti e suoni, in chiesa e fuori di chiesa, in prosa ed in poesia, manifestavano quella viva e tranquilla letizia, che solo può venire dalla coscienza, che può dire a se stessa: Non son rea.

                Ovunque poi risuonavano gli applausi di Evviva il Papa! Viva la sua grande bontà! Ma la sorpresa fu verso sera, quando queste radunanze erano per isciogliersi e recarsi ciascuno al proprio domicilio. Guidati da una specie di entusiasmo, si radunarono intorno al loro Direttore, ed unanimi esclamarono: Grazie, o Santo Padre, grazie; Dio ve ne ricompensi. Chi mai potrà andare per noi a ringraziarlo degnamente? Signor Direttore, fate sapere al Santo Padre che noi siamo pieni di riconoscenza per lui che lo amiamo con tutta l'effusione del nostro cuore, che noi in Lui veneriamo il Vicario di Gesù Cristo, e che noi tutti desideriamo, e vogliamo vivere e morire in quella religione, che ha Dio per Capo invisibile, e che ha un si tenero e sì buon Padre, un Pio IX per suo Vicario sopra la terra.

                Così compievasi quella giornata, che lascierà nel cuore dei buoni giovani indelebile memoria della paterna bontà del Santo Padre. Quei poveretti, i quali non sono guari avvezzi a ricevere carezze dagli uomini, menando una vita piena di stenti e di privazioni, sentono vivissima la riconoscenza verso il Capo della Chiesa, che dall'altissimo suo grado, lungi dal dimenticare i figli [25] del popolo, come fanno gli adulatori del popolo stesso, si esibisce e si fa vedere loro padre, come è padre dei grandi della terra e dei principi. Così l'Armonia del 29 giugno 1858.

                Alla festa di S. Giovanni succedeva nell'Oratorio quella di S. Luigi solita a celebrarsi nella solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo. L'affetto di D. Bosco a questo angelico giovane lo rendeva zelante a propagarne la divozione, e ad erigere Compagnie in suo onore, anche fuori dell'Oratorio, nei varii paesi ove andava a predicare. Fra questi vi fu Poirino. Invitato dal Teol. D. Giorda Stefano, parroco in Santa Maria Maggiore, D. Bosco si era recato nell'ottobre 1855 e con una funzione commovente, aveva ascritti alla Compagnia di S. Luigi i giovanetti di quella parrocchia. In più luoghi ancora oggigiorno sono fiorenti tali pii sodalizii da lui fondati e quel di Poirino celebrò nel 1905 l'anno cinquantesimo di sua esistenza.

                Da ciò si argomenti l'impegno che D. Bosco metteva nel tenere acceso questo sacro fuoco nell'Oratorio, specialmente colla sopraddetta solennità.

                In varii anni antecedenti noi appena ne abbiamo fatto cenno, quando non era accaduto alcun fatto straordinario, benchè a dire il vero, se ben si considera, lo straordinario fosse cosa usuale. Nel 1858 però non possiamo omettere la descrizione di questa festa e le riflessioni che scaturirono dalla valente penna di un esimio patrizio che il 4 luglio ne stampava un articolo sull'Armonia. È veramente pregio dell'opera riferirlo qui per intiero.

 

Il 29 giugno all'Oratorio di Valdocco.

 

                Sorgono talvolta nella vita certi giorni placidi e sereni, che di molte amarezze consolano, ed all'animo faticato danno compenso di gioie più che terrene e d'inenarrabili speranze. Quelle [26] ore, è vero, balenano e fuggono come un lampo, ma lasciano dietro a sè lunga memoria nel pensiero, il quale poi dilettasi ad evocarle, e di esse si pasce, e ne fa quasi il suo nettare, quando più non sono.

                Correva l'anniversario del dì sacro ai due grandi Apostoli Pietro e Paolo, e festeggiavasi in pari tempo l'angelico S. Luigi nell'Oratorio di Valdocco. In Torino, come in ogni altra popolosa città dove più fitta, più compatta si agglomera l'umana famiglia, stanno di conserva e procedono insieme, ed urtandosi per ogni dove, secondo gli arcani e sempre adorabili disegni di Dio, dolori e godimenti, povertà e ricchezze, vizio e virtù. La vera carità, non verbosa nè ammodernata, ma semplice e sincera come la fede, consiste precipuamente nel sacrificare se stesso a pro di chi soffre, e nel congiungere in un solo vincolo lo spirituale ed il corporale sollievo. Ed a ciò certamente non bastano le provvide leggi e le più studiate misure dell'umana sapienza, se non le avviva quel fuoco che solo divampa nel cuore di coloro, i quali ai piè della croce compresero l'ineffabile precetto d'amore. Onde io non so darmi pace veggendo ai dì nostri, per non so qual perversità di giudizi o malnato studio di parti, fatto segno alle ire ed ai ludibrii altrui, quel clero cattolico che in ogni epoca, su d'ogni terra tanti operò e così inauditi prodigi di carità. Ed ecco per tacere d'ogni altro, nella nostra Torino un umile prete, il quale, alla sola Provvidenza affidato, volse in animo la pietosa idea di raccogliere intorno a se quanti giovanetti gli venga fatto d'incontrare per le vie vagolanti, abbandonati all'ozio, sprovveduti di mezzi di fortuna, ignari della loro celeste origine e del prezioso retaggio per cui furono creati. Egli non si disanima dalle difficoltà che sovrabbondano ad ogni passo, sacrifica ogni privato avere, e con sollecitudini non mai stancate operando, giunge a vedere consolato in parte il suo santo desiderio, premiata la sua costanza. A quella voce d'Apostolo, a quella affettuosa eloquenza che gli prorompe dal cuore, piegasi obbediente l'irrequieta gioventù e gli si assiepa d'attorno e ne ascolta riverente i consigli.

                Quello, in prima rustico caseggiato, che male ai venti ed ai cocenti soli faceva riparo, va grandeggiando, come il grano di senape del Vangelo, e si compone a più comoda abitazione. La piccola famigliuola cresce fino a dugento e più giovani, ai quali,  [27] come agli augelletti delle foreste provvede Iddio il necessario sostentamento. Attigua all'Ospizio si innalza una chiesuola, ove l'orfanello viene a deporre ai piè di Maria le sue lagrime, e la sua preghiera, le quali più gradite dei timiami e degli incensi, ricadono in pioggia di grazie celesti sui benefattori della derelitta infanzia.

                Annovi scuole di belle arti e letteraria palestra e classici studi, ed ogni fonte del bello e del buono onde la patria avrà a lodarsene, e ne trarranno le povere famiglie vantaggio ed onoranza; e lo scorgere i frutti così copiosi, quando appena se ne concepivano le speranze, sarà per il solerte Direttore premio anticipato alle sue virtù. Forse a taluno di que' giovanetti triste ed affannosa scorreva la vita fra le domestiche pareti; non letizia di genitori, non tenerezza di madre, non sorriso di congiunti, ma le strida, la miseria e i dolori ne intorbidavano il sereno. Videlo l'apostolo, se lo strinse amorosamente al seno e lo accolse giubilando all'Oratorio, ove con quale tenerezza si educhino le tenerelle menti e come si pieghino di buon'ora al soave giogo del Signore, con quanta, sollecitudine si avviino nel retto cammino, ne fanno testimonianza i molti, che già uscirono, pii e zelanti ecclesiasti, religiosi e missionarii in lontane regioni, militari intemerati fra la licenza dei campi, probi ed industriosi operai, padri di famiglia, esempio ai figli d'ogni pubblica e privata virtù.

                Ora fra tutti i giorni dell'anno uno ve n'ha lungamente sospirato, salutato ed acclamato con trasporti di giubilo dagli scolaretti di Valdocco. È il dì della festa di S. Luigi Gonzaga, Patrono della gioventù.

                Per esso molto tempo innanzi mettonsi in moto i musicali strumenti e liuti e cembali e violoncelli, armonizzano dolcissime sinfonie, ed ispirasi il genio dei poeti inneggiando al Santo tutelare. Poi sui primi vespri della vigilia si addobba la chiesa con arazzi, frangie dorate corrono lungo la cornice, lustri e girandole pendono dalle pareti, l'altare si veste d'ogni sua, pompa, tutto insomma è pieno di luci e fiori e d'armonia.

                Alla dimane cominciò fin dall'albeggiare l'incruento sacrifizio; succedevansi i leviti all'altare e distribuivasi a quella numerosa adunanza il Pane degli Angioli, mentre alle tarde ed allungate note [28] dell'organo rispondendo le voci argentee del giovinetto coro, rapivano l'anima e l'inebbriavano di sovrumano diletto. Così avvicendavi le ore della preghiera e quelle della ricreazione, quindi messa solenne, vespri in musica e panegirico del santo. Una divota processione chiuse quei religiosi esercizi e ne fu quasi il complemento, ove di sè facevano commovente spettacolo tutti quei giovanetti popolani, spiegati in due ale, procedenti con aria modesta e raccolta, mentre alcuni di loro davano fiato alle trombe, altri cantavano inni, altri infine sobbarcavansi alla statua del Santo Patrono. Compartivasi infine all'affollata turba la benedizione del Santissimo.

                Così offerte a Dio, non che le primizie, la massima parte della giornata, era giunta l'ora dei solazzevoli ricreamenti. Tutti convenivano nell'ampio cortile, ove dall'alto di un verone estraevansi, tra mille grida festose, e proclamavansi i numeri del lotto, per cui distribuivansi poco prima i biglietti gratuitamente. Era libera al vincitore, fra mille oggetti diversi, la scelta del premio; ai circostanti non per anco favoriti dalla sorte, per celata ansia batteva il cuore e trepidava lo sguardo.

                Ma già in altra sala vanno accalcandosi gli spettatori, accendonsi le fiaccole, l'orchestra è in moto, si alza il sipario. Ed ecco gli allievi di D. Bosco, trasformati in personaggi da scena, rappresentare con brio e disinvoltura indicibile: v'ha il comico con tutti i suoi lazzi, con quei suoi visacci così al vivo, così al naturale da disgradarne un maestro nell'arte; v'ha il padre nobile, il vecchio servitore, v'ha perfino il figaro, che canta e cinguetta a maraviglia. Il pubblico applaude con frenesia e vorrebbe fermare il giorno nel suo rapido corso. Ma lo spettacolo teatrale volge al suo termine, e, come ogni cosa mortale, passa e non dura.

                Già la notte cominciava a dispiegare il suo manto e raddoppiavansi le ombre, quando odesi un subito rumore, un sibilare di razzi, che d'improvvisa luce rompevano le tenebre. Ignee striscie descrivevano le loro splendide curve sotto la volta de' cieli, e schioppettavano spandendo mazzi di scintillanti monachelle. Rotto il filo che ritenevalo cattivo, lanciasi in alto l'areostato e fende gli spazi aerei e perdesi fra le nubi, mentre la soggetta turba intende lo sguardo e batte le mani palma a palma. [29]

                Opera malagevole sarebbe il voler esprimere con parole la gioia che traluceva su d'ogni volto, la contentezza dei parenti e congiunti accorsi in frotte, l'ordine che presiedeva in ogni parte le provvide cure di D. Bosco e dei suoi cooperatori onde rendere più splendida e più cara quella festa di famiglia.

                Oh! certamente a quei piaceri semplici ed innocenti può con ragione invidiare l'età matura travolta nel turbine del mondo, ove si ride a fior di labbra quando il cuore è lacerato, ove ai vani godimenti seguita non di rado con celere piede la noia e il non fuggevole rimorso.

                All'Oratorio di Valdocco, come a magnifica scuola di virtù,

                io avrei desiderato presenti quanti con vanissime parole, smentite dai fatti le più delle volte, vanno ergendo cattedra di pretesa democrazia, della popolare credulità facendosi sgabello alle loro cupidigie. Ivi apprenderebbero come e con quanto vantaggio dei privati e del comune, informati dalla religione, si nobilitino gli animi, come s'innalzino, per così dire, sopra il loro costume, e diventino possenti a grandi cose. All'Oratorio di Valdocco vi risiede la santa e operosa fraternità, che tutti stringe in dolcissimo amplesso, perchè figli tutti di un medesimo riscatto, e tutti egualmente protegge, conforta ed ammaestra.

                All'Apostolo della gioventù torinese, all'umil prete, che moltiplicò fra noi i grandi esempi dei Filippi Neri e dei Vincenzi de' Paoli, come ad insigne benefattore dell'umanità, eterna dobbiamo la gratitudine, e la sua gloria è nostro retaggio e cittadino dovere il mantenerla e propagarla.

 

Conte VITTORIO DI CAMBURZANO

Deputato al Parlamento.

 

                Il Conte di Camburzano, soprannominato il Montalembert d'Italia, amico devoto e largo benefattore dell'Oratorio in questo anno era stato testimonio, come anche da lontano D. Bosco manifestasse i segreti dei cuori. Trovandosi in villeggiatura a Nizza Marittima un giorno ebbe occasione di parlare di lui in una conversazione, ove erano persone della prima nobiltà, la cui religione era assai [30] posticcia o sbiadita. Le maraviglie che raccontava il Conte fecero spuntare più di un sogghigno sulle labbra di quei signori, e una dama lo interruppe con queste parole: - Vorrei un po' vedere se questo reverendo sa dirmi come mi trovo di coscienza; e, se indovina, allora vi prometto che crederò tutto quello che vorrete. - Tutti i presenti applaudirono; venne quindi deciso di provare, e la signora quivi stesso scrisse a D. Bosco. Il Conte chiuse quella lettera sigillata, dentro un suo foglio nel quale lo pregava a dire qualche parola di conforto a quella povera Dama. Ella infatti si vedeva abitualmente in preda a profonda afflizione. D. Bosco colla solita sua puntualità rispose al Conte: - Dica a quella signora che per aver la pace deve riunirsi a suo marito da cui si è staccata. E in un biglietto alla Dama aggiunse: - Potrà V. S. starsene tranquilla quando avrà rimediato alle sue confessioni, rifacendole da venti anni addietro fino al presente; e avrà messo riparo ai difetti commessi nel passato. - La notizia che quella signora fosse separata dal marito, tornò affatto strana e nuova al Conte di Camburzano, perchè egli e molti altri di sua conoscenza la tenevano per vedova. Ma fatto la commissione ebbe a constatare come D. Bosco fosse veramente illuminato da Dio, perchè dalla medesima signora fu accertato come ella fosse separata da suo marito; e altamente sorpresa pel biglietto ricevuto, non fece alcuna difficoltà a riconoscere, che il servo di Dio le aveva scritto cose affatto vere.

                Il Conte assicurava qualche anno dopo il Cav. Federico Oreglia di Santo Stefano, che D. Bosco non aveva mai conosciuto tale persona.

                Ma una delle meraviglie di D. Bosco si era anche la costanza nella diffusione delle Letture Cattoliche. Il fascicolo [31] del mese di luglio portava il titolo: Porta teco Cristiano, ovvero avvisi importanti intorno ai doveri del Cristiano acciocchè ciascuno possa conseguire la propria salvezza nello stato in cui si trova. Torino, Paravia 1858.

 

AL LETTORE.

 

                Questo libretto è intitolato Porta teco Cristiano, perchè esso può servire di fedele compagno a chiunque desidera salvarsi nello stato in cui si trova. La materia in esso contenuta non è una ragionata istruzione, ma soltanto una raccolta di avvisi adattati alla varia condizione degli uomini. Questi avvisi sono stati raccolti dalla Sacra Scrittura, dai Santi Padri, e specialmente dalle opere di S. Carlo Borromeo, di S. Vincenzo de' Paoli, di S. Francesco di Sales, di S. Filippo Neri, e del Beato Sebastiano Valfrè. Se questi detti procurarono tanto vantaggio spirituale alle anime, che ebbero la fortuna di riceverli dalla bocca di questi santi gloriosi, giova sperare che non saranno senza frutto per quelli che li leggeranno stampati. Io raccomando ai padri, alle madri, ai parroci e a tutti quelli, cui sta a cuore la salute delle anime, non solo di leggerli, ma di farli leggere ai loro dipendenti. Se questi avvisi verrano introdotti nelle famiglie cristiane sarà per certo non mediocre il vantaggio tanto nelle cose spirituali, quanto nelle temporali; chè anzi giudico si potranno chiamare fortunate quelle famiglie, da cui questi ricordi saranno letti e praticati. Secondi Iddio questi miei voti, e spanda abbondanti benedizioni sopra tutti quelli che li vorranno leggere, affinchè sia copioso il frutto che, mediante la grazia del Signore, spero ne sia per derivare.

Aff.mo in Gesù Cristo

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Questi avvisi intorno ai doveri del cristiano, alcuni erano generali per tutti i fedeli e altri particolari pei capi di famiglia e per le madri, per i giovani, per le ragazze e per le persone di servizio.

                Dove integra è la moralità, non è possibile che illanguidisca la fede e trionfi l'eresia. [32] D. Bosco intanto aveva pensato in questo mese di fare ritorno in Roma, ma poi ne smetteva il pensiero. Non ci consta quale fosse la causa di questo progetto: se il servizio della Sede Apostolica, se l'interesse delle Letture Cattoliche. Forse commise ad altri le pratiche importanti, che doveva trattare. Apparisce il suo disegno da lettera scritta ad un Canonico di Roma.

                Veneratissimo Sig. Canonico, D. Giovanni Bosco ch'Ella ha conosciuto in casa nostra, si dispone ad una nuova gita a Roma, per certe sue faccende rimaste imperfette a motivo della sollecita sua partenza. Mi è venuto in mente, che non sarebbe indiscrezione per parte mia, ricorrere alla sperimentata gentilezza di V. S. Ill.ma a nostro riguardo, chiedendole se fosse a caso tutt'ora disponibile la stanza in casa del suo Sig. fratello, nella quale ebbe la bontà di ricevere il Sig. Barone di Morgan: in caso contrario le sarei molto riconoscente, se volesse prendersi l'incarico di cercare un'altra decente stanza, in cui D. Giov. Bosco potesse fare la sua dimora per due o tre settimane e, pagando lo scotto, trovare anche i suoi pasti. Ella, Sig. Canonico Veneratissimo, che conosce D. Bosco, sa ch'è un ospite facile a contentare, di amena e pia convivenza e nostro degnissimo amico: essendo anch'Ella, come credo e spero, nostro buon amico, non Le sarà discaro accogliere la mia preghiera, e renderci questo buon ufficio.

                Parto per la Francia, onde, se Ella mi favorirà di un grato riscontro, piacciale dirigerlo a Franceschina, oppure a mia moglie (in Chieri, provincia di Torino). Spero che la sua Signora madre goda tutt'ora buona salute e non avrà sofferto degli eccessivi caldi; le presenti, La prego, i miei doverosi ossequi e gradisca Ella stessa, Veneratissimo Signore, gli atti del mio affettuoso rispetto.

                Torino, li 2 luglio 1858.

Umil.mo e Devot.mo Servo

Il Conte DE MAISTRE.

 

 

CAPO III. Conversioni in punto di morte.

 

                IL bene che D. Bosco otteneva colle Letture Cattoliche gli aveva procurata una fama di virtù e di sapere, che a lui faceva rivolgere la speranza di quelle anime buone, le quali desideravano la conversione di peccatori ostinati all'estremo della loro vita. Ai fatti già altrove descritti aggiungiamo questi:

                Un impiegato del Governo in Torino, il quale aveva preso parte all'esecuzione di certe leggi offensive ai diritti della Chiesa, si era gravemente ammalato. Da lungo tempo viveva lontano dai Sacramenti, anche perchè la lettura continua di pessimi giornali avevagli soffocato nel cuore ogni sentimento di fede. Il farmacista aveva fatto sapere al parroco, come il medico curante avesse detto nella sua spezieria, che quel signore non avrebbe visto il tramonto del giorno seguente. Conoscendo il parroco con certezza che l'infermo non voleva saperne di preti, e persuaso che sarebbe stato respinto, mandò a pregare D. Bosco di voler egli fare la prova di salvare quella povera anima.

                D. Bosco accondiscese, ed entrato in quella casa, ecco un giovanetto tutto vispo venirgli, con sua sorpresa, incontro e fargli gran festa. [34]

                Era uno dei ragazzetti più assidui a frequentare l'Oratorio festivo di Valdocco e figlio dell'infermo, al quale il padre portava un affetto sviscerato; per lui era tutto il suo bene e tutta la sua felicità a questo mondo e benchè così irreligioso si lasciava dominare dal suo piccolino. Questi sovente prendeva il crocifisso e glielo dava da baciare ed egli non lo respingeva per non fargli dispiacere. Il figlio talora gli diceva: - Vuoi che vada a chiamare D. Bosco che ti venga a benedire? La benedizione fa tanto bene e ti farà guarire. - Il padre rispondeva di no, ma sempre in maniera che il figlio non se ne avesse a male; e borbottava poi fra di sè: - Quante superstizioni mettono in testa ai giovani questi preti! -

                Il piccolino adunque visto D. Bosco gli fu addosso.

                 - Oh D. Bosco, venga, venga, c'è papà che è tanto ammalato.

                 - Davvero? Ebbene, va a dirgli, se permette, che venga a fargli una visita.

                 - Sì, sì papà è contento! E senza altro entrò in camera. - Papà, papà c'è D. Bosco! Sei contento che venga neh? E senza aspettare risposta salta fuori a prendere D. Bosco per mano: - Venga, venga; papà lo aspetta, venga a dargli la benedizione.

                D. Bosco insisteva perchè tornasse ad annunziarlo in altra maniera più soddisfacente, voleva chiedergli che cosa gli avesse risposto il padre, ma il fanciullo non lasciavalo parlare e lo spinse nella camera. Quel signore al vedere Don Bosco gli diede un'occhiata di fuoco. Questi non si perdette d'animo e premuroso gli domandò:

                 - Come sta?

                 - Come vede -  rispose l'infermo secco, secco. [35]

                 - Si faccia coraggio; Alberto pregherà molto per lei. Io mi unirò .....

                 - D. Bosco, io non credo a queste storie e non me ne parli.

                Il figlio confuso del modo inurbano col quale D. Bosco era stato ricevuto, uscì dalla stanza. Il Servo di Dio, approfittando d'esser soli, non perdè tempo e proseguì: - V. S. non crede all'efficacia della preghiera d'un innocente?…Del resto io non venni qui a disturbarla; trovandomi da queste parti, mi son procurato l'onore di farle una visita per l'alta stima che professo alla sua persona. - E col suo fare amorevole e spiritoso narrò alcuni fatterelli ameni, contemporanei; e s'intrecciò un dialogo che dilettò il  povero infermo e rasserenò alquanto la sua fronte accigliata.

                Come D. Bosco lo vide interessato in quel discorso, a un tratto gli disse: - L'ora si fa tarda, non voglio recarle più oltre disturbo; ma prima d'andarmene permette che le dia una benedizione?

                Quel signore senza sdegnarsi gli rispose freddamente: - Faccia quel che le piace. - D. Bosco allora chiamò il fanciullo:

                 - Alberto!

                E il padre: - Perchè chiama mio figlio?

                 - Voglio che dica con me un'Ave Maria pel suo buon papà.

                 - Non fa bisogno.... Non s'incomodi.

                 - Ma D. Bosco tornò a chiamare: - Alberto!

                Il fanciullo venne e D. Bosco a lui: - Senti Alberto: diciamo un'Ave Maria pel tuo Papà. Vedi! egli sta male, molto male e bisogna che il Signore te lo conservi. Che cosa faresti tu se egli ti venisse a mancare? Rimarresti solo, abbandonato, senza il tuo primo e più caro amico, senza il [36] tuo appoggio, senza il tuo consigliere fedele. In mezzo al mondo quante occasioni di male, quanti compagni perfidi, quanti libri cattivi incontreresti con pericolo della tua innocenza. E nessuno ti avviserebbe, nessuno ti porgerebbe una mano soccorrevole. La tua inesperienza ti condurrebbe a cattivi passi. Povero Alberto! E poi in punto di morte quanti rimorsi per non avere avuto al fianco, chi ti facesse da angelo custode. E nell'eternità, forse, se avessi la disgrazia di essere diviso per sempre dal tuo genitore!

                Queste ed altre simili idee, erano espresse con parole concise, prudenti e vibrate: ma parlava al figlio perchè  intendesse il padre. Narrava ciò che era accaduto allo stesso povero infermo, rimasto orfano da giovanetto, tracciandone in compendio la biografia: Alberto lagrimava; il padre voleva resistere, ma si vedeva che era profondamente commosso. D. Bosco concluse: - Dunque mettiamoci in ginocchio e recitiamo non una sola, ma tre Ave Maria. Quindi mandò il giovinetto in sala e disse all'infermo: - Si faccia il segno della croce. - Quegli segnossi con indifferenza e D. Bosco gli diede la benedizione; e poi entrò destramente ad interrogarlo de' suoi studi, delle cariche che aveva occupate, parlandogli degli anni della sua fanciullezza, della sua gioventù e della sua età matura. L'infermo incominciò a lasciarsi andare a qualche confidenza e D. Bosco, senza dargli a vedere che investigava, scherzando e compatendo le miserie umane, gli trasse dal labbro quanto bastava per conoscere all'ingrosso lo stato della sua anima. Quindi vedendolo molto stanco: - Ora, se vuole gli disse, le darò l'assoluzione.

                 - L'assoluzione? Ma prima dell'assoluzione bisogna confessarsi; ed io non voglio confessarmi. [37]

                 - Ma lei si è già confessato ed io ho inteso tutto.

                 - E basta?

                 - Basta. Faccia l'atto di contrizione.

                 - Possibile!.....

                 - Sì, Dio le perdona tutto è così buono, così misericordioso con quelli che di vero cuore si pentono.

                L'infermo allora ruppe in un pianto doloroso esclamando: - Ah! Dio è buono davvero! - e rimase prostrato di forze in modo inquietante. D. Bosco vedendo che fra poche ore sarebbe morto, anche sulla parola del medico, si affrettò. Gli fece ancora qualche interrogazione e trovatolo anche pronto a fare quanto la Chiesa richiedeva da lui, lo assolvette. Infine dopo avergli promesso che si sarebbe preso cura di Alberto, mandò in fretta a dire al parroco di S. Agostino, che portasse il Santo Viatico.

                Il parroco non mise tempo in mezzo, portò anche l'olio santo, ma potè darlo appena sub unica unctione, perchè il poveretto spirava.

                Altra volta D. Bosco fu invitato a recarsi presso un notaio infermo, parrocchiano del Carmine. Inutile era ogni sforzo di preti per ricondurlo a Dio. D. Bosco che nel passato era in qualche attinenza con lui, accondiscese a visitarlo. Fu ricevuto con molta cortesia ma freddamente. Al solito egli si dimostrò premuroso di chiedere notizie della malattia, affettuoso nel confortare il paziente, e gioviale nel rallegrarlo co' suoi discorsi. Il notaio rimase incantato. D. Bosco entrò quindi ad accennare alle cose dell'anima, ma quel signore messosi sull'avviso: - Cambiamo discorso gli disse; saprà già che i miei principii .....Io non mi indurrò mai a confessarmi.

                 - E perchè ? [38]

                 - Perchè non credo alle cose di religione. Veda là quai libri tengo sul tavolino.

                D. Bosco si appressò al tavolino e prese uno di quei volumi. Erano le opere di Voltaire e quindi:

                 - E con questo?

                 - Capisce! uno il quale abbia le convinzioni di questo illustre autore, non avrà mai la debolezza di confessarsi.

                 - E lei chiama debolezza il confessarsi? E non sa che questo uomo, col quale lei dice di dividere i principii, quest'uomo che dice illustre, in punto di morte voleva confessarsi?

                 - Oh questo poi...

                 - Certo; e si sarebbe confessato se i suoi amici barbaramente non glielo avessero impedito. - E qui D. Bosco gli narrò qual fosse stata la morte di Voltaire.

                Quel signore ascoltava con interesse e commozione sempre crescente e D. Bosco concludeva.

                 - Ora le dirò come io abbia speranza che Voltaire si sia salvato!

                 - Possibile! - esclamò l'ammalato con un tremito in tutta la persona.

                 - Possibilissimo! Nella Santa Scrittura di un solo si dice apertamente che si sia dannato: Giuda. Degli altri il Signore non volle che sapessimo la sorte nell'eternità, perchè conservassimo speranza della loro salvezza.

                 - Che si sia salvato Voltaire dopo tutto quello che ha detto, fatto, scritto?

                 - Dio è tanto buono, tanto misericordioso, o mio caro signore. Un atto di amore basta a scancellare qualunque colpa.

                 - Voltaire salvo!

                 - Io posso tenere la mia opinione. Quindi posso tener [39] per certo che si sia salvato. Infatti che cosa gli mancò? Il desiderio di confessarsi l'aveva, il suo dolore era straziante; fu solo disgraziato, perchè non ebbe il prete. Ma in quel momento che precedette la morte, quando si vide vicino a perdersi, se cessato l'orrore della disperazione, avesse concepito un atto d'amore di Dio, quindi di vero pentimento, è certo, è di fede che si sarà salvato.

                L'infermo taceva e, dopo aver alquanto pensato, esclamò risolutamente: - Voglio confessarmi. Prenda quei libri non li voglio più in casa mia: ne faccia lei quello che vuole! - Si confessò, alle otto della sera ricevette il Santo Viatico, alle dieci gli fu dato l'olio santo e la benedizione papale e prima della mezzanotte moriva con veri sentimenti di fede, di dolore, di confidenza e di carità, lasciando in tutti la più soave speranza di sua eterna salute.

                D. Bosco era ritornato all'Oratorio col suo carico di libri proibiti che gettava subito alle fiamme, dicendo a' suoi giovani: - Ringraziamo di tutto il Signore.

                Eziandio ad altri che sarebbero morti nell'impenitenza finale D. Bosco aperse le porte del cielo come ragionevolmente dobbiamo sperare. Bisio Giovanni, che dal 1864 fino al 1871, per ragione di servizio stava nella sua anticamera, ci affermò: - Io posso dire che molte volte D. Bosco era chiamato in città a confessare peccatori infermi ed ostinati, e interrogandolo quando ritornava nell'Oratorio, avevo per risposta:

                 - Quel tale si è confessato.

 

 

CAPO IV. Numero degli alunni nell'Oratorio - Lettera di D. Bosco al Ch. Rua da S. Ignazio - Cometa e previsione di flagelli sull'Italia - Due Letture Cattoliche - Scavi sotto la chiesa per un nuovo refettorio - Fitto e riparazioni per l'Oratorio di Vanchiglia D. Bosco va a predicare al Palasazzo presso Cuneo - Annunzia la circolare del Cardinal Vicario, che raccomandava le Letture Cattoliche - La circolare del Cardinale - Una festa ed un pellegrinaggio alla Madonna di Campagna - D. Bosco predice ad un alunno delle scuole governative che si farà prete - Accettazione singolare di Francesco Provera nell'Oratorio.

 

                Anno scolastico 1857 - 58 era finito. L'Oratorio aveva accolti 199 alunni, studenti 121, artigiani 78, come scrisse D. Bosco ne' suoi registri. Egli quindi saliva con D. Cafasso a S. Ignazio per gli esercizi spirituali. Da quel santuario rispondendo alle varie lettere, che gli erano mandate da' suoi alunni, così scriveva al Ch. Rua Michele:

                               Fili mi,

                Gaudium et gratia Domini Nostri Jesu Christi sit semper in cordibus nostris. Nonnulla monita salutis postulasti; libenter faciam et paucis verbis. [41]

                Scito ergo et animadverte quod non sint condignae passiones hujus temporis ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis. Ideoque hanc gloriam incessanti animo et labore quaeramus.

                Vita hominis super terram est vapor ad modicum parens; vestigium nubis quae fugit; umbra quae apparuit et non est; unda quae fluit. Bona igitur huius vitae parvi habenda, coelestia studiose optanda.

                Laetare in Domino: Sive manduces, sive bibas, sive quid aliud facias, omnia ad maiorem Dei gloriam fac.

                Vale, fili mi, et deprecare pro me ad Dominum Deum nostrum.

                S. Ignatii apud Lanceum, 26 julii 1858.

 

Tuus sodalis

Sac. Bosco.

 

                Ritornato in Torino e trovandosi in mezzo ad un gran numero di giovani, Reano Giuseppe gli diceva essere comparsa in cielo una cometa di straordinaria grandezza. - Presagio o non presagio di sventure, gli rispose Don Bosco, pur troppo che sull'Italia deve cadere qualche flagello, il quale porterà gran danno alla nostra patria.

                Pel mese di agosto usciva nelle Letture Cattoliche un commovente racconto anonimo, Antonio ossia l'Orfanello di Firenze. Narra di un fanciullo venduto ad una compagnia equestre di ciarlatani, il quale si mantiene - virtuoso in mezzo a prove terribili, e riesce poi a ritornare al suo paese, incontrando avventure sorprendenti.

                I lavori materiali s'intrecciavano con quelli dell'intelletto. Sotto la chiesa di S. Francesco di Sales in tutta la sua lunghezza si scavava un sotterraneo, rifacevasi con un voltone il pavimento di quella per ivi trasportare il refettorio dei giovani. Il loro antico refettorio divenne cucina. [42] Anche l'Oratorio dell'Angelo Custode in Vanchiglia richiedeva gravi spese. D. Bosco così ne scriveva ad uno dei proprietari, Signor Alessandro Bronzini Zapelloni.

 

                               Illustrissimo signor Avvocato,

 

                Appena ricevuta la venerata lettera di V. S. Ill.ma mi sono dato premura di comunicarne il tenore al Sig. T. Murialdo, con cui, dopo aver bene ogni cosa considerato, siamo venuti a questa conclusione:

                Deliberiamo anche noi di diminuire le spese per quanto sarà possibile, epperciò, non potendo fare a meno de' lavori proposti, abbiamo deliberato di concorrere in questo senso: Daremo franchi quattrocento in aiuto delle spese a farsi; oppure ci assumiamo noi di far a nostra economia eseguire tali lavori mediante che V. S. ci rimborsi franchi 1500; la qual cosa non darà incomodo, avendo già ottocento franchi depositati presso al Teologo Murialdo.

                Notisi però che noi desistiamo dalla dimanda della rinvestitura del tetto con assi, purchè ci sia assicurata la volta della chiesa dall'acqua del tetto medesimo. Fra i lavori che intendiamo di assumerci, intendiamo di escludere la riparazione del tetto, la quale debbe effettuarsi dal proprietario senza punto aver riguardo allo stato dell'Oratorio.

                Noto eziandio che i fitti sono realmente diminuiti, come Ella certamente sa meglio di me; io stesso affitto quivi un corpo di fabbrica a cui pagava franchi 950; tal somma ora è ridotta a 500; la qual cosa avvenne pure all'Oratorio di Porta Nuova e in altri edifizi.

                Questa è la risposta che possiamo farle: il fare maggiori spese supera le nostre forze. Io però sarei di parere di considerare questo Oratorio come opera di pubblica beneficenza, che da tutti deve essere sostenuta; noi consacriamo fatiche e quelle sostanze che possiamo. Ella e il Sig. Avv. Daziani bisogna che sacrifichino anche qualche cosa; e siano persuasi che tale opera sarà molto calcolata davanti a Dio, il quale non mancherà di [43] ricompensarli anche nella vita presente col benedire i loro affari e le loro famiglie.

                Con pienezza di stima reputo ad onore il potermi professare

                Di V. S. Ill.ma

                Torino da casa. I agosto 1858.

Dev.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Occupato in queste pratiche e in molti altri lavori, D. Bosco accettava tuttavia di predicare fuori dell'Oratorio, nelle chiese pubbliche e negli oratorii privati. Infatti egli scriveva al Sig. Conte Pio Galleani d'Agliano:

 

                               Benemerito signor Conte,

 

                In adempimento della mia promessa prevengo V. S. Benemerita, che sono per recarmi da Lei pel discorso di S. Filomena. Partirò Domenica col primo convoglio del dopo mezzogiorno. Giunto a Cuneo andrò in casa Vescovile indi al Palasazzo.

                Non posso però compiacerla intieramente. Al martedì col vapore delle due circa pomeridiane io debbo ripartire per Torino e perciò non posso fare il discorso sulla Natività di Maria SS. La gran penuria di preti in città, e varii miei affari mi privano del piacere di poter rimanere costà l'intiera settimana come aveva divisato.

                Dio benedica Lei, la signora Contessa e tutta la famiglia, mentre mi professo con vera gratitudine

                Di V. S. B.

                Torino, I Settembre 1858.

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Don Bosco aveva fors'anco fretta per la spedizione del fascicolo di settembre che portava il titolo: La guida della gioventù nelle vie della salute, opera di [44]

                CLAUDIO ARVISENET pubblicala in Bruxelles dalla società nazionale per la propagazione dei buoni libri - Era tradotto dal francese. L'autore dopo un'affettuosa prefazione indirizzata ai giovani, presenta alla loro meditazione le massime eterne; la necessità di mettersi per tempo a servire un Dio che li ama; i castighi anche temporali coi quali sono puniti i giovanetti che vivono nel peccato; l'obbedienza dovuta ai genitori ed ai superiori; la divozione a Maria; le virtù che debbono praticare e i pericoli che sono obbligati a fuggire; la frequenza dei sacramenti degnamente ricevuti; la sottomissione al Papa, alla Chiesa e a' suoi pastori; la devozione al santo Angelo Custode e al santo protettore del quale si porta il nome.

                Questo fascicolo era preceduto da un importantissimo documento, prova evidente della benevolenza di Pio IX e della specialissima sua stima per le Letture Cattoliche. D. Bosco aveva ottenuto l'alto favore, che Sua Santità desse ordine all'Eminentissimo suo Vicario il Cardinale Patrizi, chè con apposita circolare raccomandasse questa periodica pubblicazione a tutti gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato Pontificio e d'introdurla nelle proprie diocesi. La circolare era in data del 22 maggio.

                D Bosco stampandola, premettevale un suo indirizzo.

 

Ai benemeriti corrispondenti

ed ai benevoli lettori delle Letture Cattoliche.

 

                Sono pochi mesi che questa Direzione con animo lieto vi annunziava, come Sua Santità il Regnante Pio IX, nella sua grande bontà, degnavasi impartire l'Apostolica Benedizione sopra tutti quelli, che si occupano per la diffusione delle Letture Cattoliche; con non minor consolazione ora vi partecipo che la medesima sua Santità si è degnata in molte altre guise di favorire la diffusione [45] di questi libretti. Diede ordine all'Eminentissimo Cardinale Vicario di diramare una circolare ai Vescovi ed Arcivescovi degli Stati Pontifici, affinchè usassero la loro sollecitudine pastorale per introdurle nelle rispettive diocesi; esentò dal dazio e dalla tassa postale i pacchi o semplici fascicoli, che dovessero ivi introdursi. La voce del Supremo Gerarca della Chiesa produsse il desiderato effetto. Arcivescovi, Vescovi, Vicari generali, Parroci ed altri zelanti personaggi si diedero cura di far conoscere queste Letture e le associazioni crebbero a segno, che il loro numero oggi giorno tocca i dodici mila associati ne' soli Stati Romani.

                Queste cose sono a voi come lo sono a noi di consolazione, Le nostre deboli fatiche e le vostre costanti sollecitudini benedette dal Vicario di Gesù Cristo non mancheranno di produrre frutti proporzionati ai bisogni.

                La Direzione nutre viva fiducia che la voce del comun Padre dei fedeli sarà sentita anche tra noi e che servirà di conforto a noi ed a voi, benemeriti corrispondenti e cortesi lettori, a perseverare nella santa impresa, quale si è a far conoscer sempre più queste popolari pubblicazioni, adoperandoci che siano eziandio diffuse in que' luoghi, dove non fossero ancora conosciute.

                Riceverete pure una copia della Circolare di Sua Eminenza Reverendissima il Cardinal Vicario diramata in favore delle Letture Cattoliche.

                La benedizione del Supremo Gerarca della Chiesa vi colmi tutti di grazie e di favori celesti, siccome di tutto cuore vi auguriamo, mentre godiamo di poterci professare con gratitudine

                Torino, 15 settembre 1858.

Per la Direzione

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Ed ecco la lettera Circolare:

                                Ill.mo e Rev. Signore,

                È un fatto innegabile che dagli uomini perversi si cerchi con tutto l'impegno di demoralizzare i popoli, per averli pronti a secondare i loro pessimi disegni e così ottenerne gl'intenti. A [46] ciò fare essi si adoperano in più modi, fra i quali molto loro giova la diffusione di libri e stampe corrotte e spesso contrarie ai dommi della nostra Santa Religione. Il guasto non è all'aperto, bensì latente all'ombra di una sottile ipocrisia, adorno di uno stile fiorito ed ameno, e facendo mostra di trattare argomenti tanto interessanti e dilettevoli, che in breve sono nelle mani di moltissimi mal accorti di tutte le classi degli uomini, i quali bevono per tal modo quasi all'insaputa quel veleno, che forse li ucciderà per sempre.

                E ciò non avviene soltanto nelle città popolose, ma ancora nelle più piccole e nascoste terricciuole, ove l'antica costumanza di passare qualche tempo, specialmente nella stagione d'inverno, leggendo alcunchè della Storia Sacra, ovvero d'altro libro buono e religioso, viene surrogata dalla lettura di libriciattoli lascivi ed immorali.

                Non è però mai avvenuto che i buoni Cattolici non abbiano tentato di resistere agli sforzi degli empi; quindi è che a combattere il grave male accennato si è costituita una Società di dotte e pie persone ecclesiastiche e laiche, le quali propongonsi d'ovviare ai disordini, che debbono al presente lamentarsi, stampando dei libretti mensilmente col titolo di Letture Cattoliche, le quali e per la varietà dei temi e per la pianezza dello stile allettino e siano alla portata di tutti. L'esclusivo scopo di queste Letture sarà di conservare nell'animo dei Cattolici la integrità della fede, la santità dei costumi ed accrescere in essi quel rispetto ed amore sincerissimo, che debbesi alla sacra persona del Sommo Pontefice, siccome Padre universale di tutti i fedeli, non che a congiungerli vieppiù coi loro Vescovi.

                La Santità di N. S. sempre intenta al bene di tutti, ed informata appieno del vantaggio riportato da queste Letture Cattoliche nei luoghi dove sono state attivate, ha approvato e lodato il pio divisamento d'introdurle anche nello Stato Pontificio, ed a tal fine mi ha autorizzato ad invitare gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato medesimo per l'aiuto e sostenimento di sì bella impresa, diffondendola il più possibile per tutte le città e castelli soggetti alla spirituale loro giurisdizione.

                Quindi è che, in esecuzione dei desiderii della Santità Sua, partecipo tutto ciò a V. S. Illustr.ma e Rev.ma, pregandola ad [47] accettare insieme i sentimenti della mia più distinta stima, coi quali resto, baciandole di vero cuore la mano.

                Di V. S. Ill.. e Rev.

                Roma, 22 maggio 1858.

Servitor vero

COSTANTINO Card. Vicario.

 

                Questa lettera Circolare ottenne il desiderato effetto; onde da quel giorno le Letture Cattoliche presero a spargersi non solo negli stati Pontifici, ma in quasi tutte le diocesi d'Italia, perchè ad esempio del Vicario di Gesù Cristo molti Vescovi le raccomandarono ai propri parroci, e questi ai fedeli loro affidati. Di qui ne derivarono due vantaggi: il bene spirituale di un maggior numero di anime, che vennero istruite ed animate alla virtù, ed un canale di beneficenza pel nostro Oratorio; poichè crescendo il numero degli associati alle dette Letture, si ebbe da una parte lavoro da occupare più artigianelli, e per altra parte quel poco di guadagno che se ne ricavava, porgeva a D. Bosco il mezzo di raccogliere un maggior numero di poveri giovanetti nel suo Ospizio, e di provvedere loro vitto e vestito con una buona educazione.

                Per questo e per gli altri insigni favori, che Maria SS. aveva fatti a D. Bosco, ispirandogli di recarsi a Roma, era debito dell'Oratorio, porgerle speciali ringraziamenti. Si presentava quindi ovvia alla mente l'idea di un nuovo pellegrinaggio alla Madonna di Campagna. Infatti in quella chiesa erasi ottenuta nel 1846 la ferma sede in casa Pinardi, ed in quest'anno si vedeva assicurata, per l'adesione del Papa ai disegni di D. Bosco, la perpetuità dell'Istituzione. Un invito di quel parroco determinò il tempo. Leggiamo nell'Armonia del 21 settembre: [48]

                Nella Parrocchia di Madonna Campagna presso Torino si celebrò il 12 del corrente dalla compagnia dei figli e figlie la festa del SS. Nome di Maria; vi fu un gran concorso di parrocchiani sia alla comunione generale, sia alle sacre funzioni della mattina e sera; e sebbene ogni anno siasi sempre celebrata questa festa in questa piccola parrocchia con dimostrazioni di pietà e divozione, quest'anno però fu oltre il solito commovente, essendo state le sacre funzioni accompagnate dai dolci canti ed armoniosi suoni dei figli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, diretti ed allevati dall'istancabile e zelantissimo Sig. D. Bosco, di modo che non pochi dei parrocchiani piangevano di tenerezza e tutti encomiarono per la loro abilità.

                Nel giovedì poi seguente si ammirò un'altra ben edificante funzione, e si fu, che il prelodato Sig. D. Bosco si portò a celebrare la Messa in questa parrocchia, accompagnato da circa 80 de' suoi allievi, i quali tutti fecero la loro comunione con gran edificazione dei religiosi stessi, che ammirarono la divozione di tutti questi giovani. Fatto poi il loro ringraziamento, il buon Padre guardiano somministrò a tutti una frugale colazione.

                Fra coloro, che presero parte a questo pellegrinaggio, vi fu un giovane, al quale D. Bosco aveva predetto il suo avvenire. Ecco in qual modo andò la cosa.

                Alcuni studenti delle scuole ginnasiali del Carmine, vennero a confessarsi, da D. Bosco. Fra questi v'era un certo Coccone, al quale il buon servo di Dio disse: - Tu, un giorno sarai prete. - Al giovane, che aveva piuttosto ripugnanza allo stato clericale, fece impressione disgustosa tale annunzio, e ne parlò ai compagni, i quali di quando in quando lo berteggiavano. Don Bosco cercò di affezionarselo, lo condusse con qualche compagno insieme ai giovani dell'Oratorio a fare la passeggiata alla Madonna di Campagna, ma dopo qualche tempo, circa un anno, Coccone più non comparve all'Oratorio. Don [49] Albera poi lo incontrava già chierico e suo condiscepolo alla scuola di filosofia nel 1861.

                Passarono 15 anni dal giorno che aveva parlato con D. Bosco la prima volta, ed essendo già prete, lo raggiunse un giorno sulla collina, mentre era avviato a San Vito. Lo salutò, si accompagnò con lui, parlò di varie cose, ma non si palesò per quel che era. A un tratto D. Bosco si ferma, lo guarda e gli dice: - Lei è quel giovane al quale 15 anni fa ho detto che si sarebbe fatto prete.

                 - È vero, rispose Coccone, pieno di meraviglia.

                Questo giovane era destinato da Dio a fare gran bene nelle carceri, ed un altro ne conduceva Egli all'Oratorio in questo settembre 1858 per via non preveduta, che doveva riuscire di grande aiuto a D. Bosco. Così ci scriveva il signor Angelo Gambara da Mirabello.

                “Francesco Provera, mio conterraneo, era figlio di onesti e cristiani negozianti, ma egli desiderava farsi prete e il padre lo voleva nel negozio, perchè abile a mercanteggiare. Il suo confessore D. Giuseppe Ricaldone lo consigliava a non urtare col padre e intanto attendere l'esito della Leva ed a pregare. Estrasse il numero di coscrizione e non dovette partire pel quartiere. Allora D. Ricaldone, che conosceva se non de visu certo di fama l'Opera del Cottolengo e sapeva che al Cottolengo si cercavano giovani ben disposti a dedicarsi alla carriera ecclesiastica, inviò il giovane Provera a Torino con una lettera nella quale dava di lui le più belle informazioni e pregava fosse ammesso nella Piccola Casa fra gli studenti. Tacque sulla parte finanziaria, pensando che ne avrebbe meglio discorso a voce lo stesso Francesco. Noto che a quei tempi qui a Mirabello nulla ancora o ben poco si sapeva di D. Bosco. Francesco Provera parti per Torino; [50] e dopo qualche giorno ritornò al paese, e andò da Don Ricaldone, il quale al vederlo tutto contento gli disse:

                 - Dunque sei accettato al Cottolengo?

                E Provera: - Ma no, mi dissero che non vi è posto.

                 - Non vi è posto ? Ma hai detto che potevi pagare qualche cosa?

                 - Io no; non me lo hanno chiesto ed io ho detto niente.

                 - Ma allora torna subito a Torino; ti darò un'altra lettera che parlerà più chiaro e vedrai che ti accetteranno subito.

                 - È inutile, rispose il Provera; ho trovato un altro posto.

                 - E dove?

                 - Uscendo dal Cottolengo, mi avviava verso la strada ferrata e vidi un prete che si divertiva con dei giovani; mi fermai ad osservarli e quel prete vistomi mi chiamò a sè, mi fece varie domande, gli raccontai il motivo per cui ero là, ed esso mi disse andassi con lui ed io ho promesso di andarci. - Pochi giorni appresso Francesco Provera partiva per Torino e divenne quel salesiano che tutti sanno.

                Questa circostanza me la raccontarono più volte Don Ricaldone, la famiglia Provera e lo stesso D. Francesco”.

 

 

CAPO V. Letture Cattoliche - VITA DEL SOMMO PONTEFICE S. CALLISTO I - Venerazione degli alunni di D. Bosco per Mons. Fransoni - Magone Michele e i pericoli di chi va a casa in vacanza - La Passeggiata autunnale - Accoglienze ospitali a Chieri - Riconoscenza di Magone .per i suoi benefattori e per D. Bosco - Predisposizioni - Umili preghiere a Dio e lagrime di Magone - La festa del Santo Rosario - Escursioni in varii paesi circostanti a Murialdo - Visita alla tomba di Savio Domenico e pranzo dal Teol. Cinzano - Ritorno a Torino - Ricorso al Ministero della Guerra per ottenere vestiarii fuori di uso dai magazzini militari - Dimanda di sussidio all'Opera Pia di S. Paolo Per le spese dei sotterranei della chiesa - Predica sulla virtù della purità.

 

                Avvicinandosi il tempo della passeggiata ai Becchi, si conducevano a termine le stampe per le Cattoliche dei mesi di ottobre e novembre. In quello di ottobre si pubblicava: La Lampada del Santuario del Cardinale Wiseman, traduzione dall'Inglese. È un racconto dei più ingenui e dei più commoventi. La fiammella della lampada d'argento,  [52] innanzi all'altare di Maria, a traverso i vetri della finestra, gettava la sua luce nelle ore notturne, sopra un punto del sentiero montano, ove allo svolto si inabissava un ripido burrone. Una verginella, consacrata alla Madonna e da Lei miracolosamente guarita, una notte sale al Santuario. In quel mentre il perverso suo padre spegne la lampada per rubarla; e la fanciulla giunta al luogo del pericolo e non vedendo la solita luce, continua il cammino, mette il piede in fallo, precipita e muore. Ma la sua morte converte il padre.

                Pel mese di novembre era pronta la Vita del Sommo Pontefice

                S.Callisto I, per cura del Sac. Bosco Giovanni (G.). Egli descrive la chiesa di S. Maria in Trastevere, il martirio di S. Callisto ed esorta i cristiani a professare coraggiosamente la fede, vincendo le passioni, le lusinghe del mondo ed il rispetto umano.

                Questi fascicoli delle vite dei Papi, prima esposte da D. Bosco sul pulpito, ispiravano nel suo giovane uditorio un grande rispetto e sottomissione alle prescrizioni non solo del Pontefice, ma di tutti i Vescovi e specialmente a quelle dell'Arcivescovo di Torino. La condotta di Monsignor Fransoni, era stata giudicata meno rettamente da una parte del clero; ma i giovani educati da D. Bosco si erano mantenuti fermi e fedeli nel venerarlo e difenderlo. In quest'anno un suo chierico, trovandosi in Airasca nella casa parrocchiale, in mezzo a varii sacerdoti intervenuti ad una festa, un maestro sacerdote di Torino, prese a sparlare di Mons. Fransoni, dicendo che gli stava bene l'esilio per la sua ostinatezza irragionevole verso il Ministro Santa Rosa, al quale aveva negato il Viatico per essersi rifiutato a fare la ritrattazione per le censure incorse. Siccome nessuno si alzava a difendere l'operato [53] retto e secondo i canoni dell'Arcivescovo, si alzò il chierico a protestare e difenderlo, e lo fece con tanto calore, che stupito il detto maestro sacerdote, domandò chi fosse il suo giovane avversario. Saputo che era un chierico di D. Bosco, disse: - Oh! con quei di D. Bosco bisogna guardarsi dal toccare certe questioni.

                Il chierico era Cagliero Giovanni.

                Intanto incominciava la novena per la festa del Rosario. Magone Michele a Pasqua erasi recato a casa di .sua madre, alla quale portava grande affetto, ma non volle più andarvi nelle vacanze autunnali, anche a persuasione di D. Bosco. Gliene fu chiesta più volte la cagione ed egli si schermiva sempre ridendo.

                Finalmente un giorno svelò l'arcano ad un suo confidente. - Io sono andato una volta, disse, a fare alcuni giorni di vacanza a casa, ma in avvenire, se non sarò costretto non ci andrò più.

                 - Perchè - gli chiese il compagno.

                 - Perchè a casa vi sono i pericoli di prima. I luoghi, i divertimenti, i compagni mi strascinano a vivere come faceva una volta, ed io non voglio più che sia così - .

                 - Bisogna andare con buona volontà e mettere in pratica gli avvisi, che ci danno i nostri superiori prima di partire.

                 - La buona volontà è una nebbia, che scomparisce di mano in mano, che vivo lungi dall'Oratorio; gli avvisi servono per alcuni giorni, di poi i compagni me li fanno dimenticare.

                 - Dunque secondo te niuno dovrebbe più andare a casa a fare le vacanze, niuno a vedere i proprii parenti?

                 - Dunque secondo me vada pure in vacanza chi sentesi di vincere i pericoli; io non sono abbastanza [54] forte. Quello che credo certo si è, che se i compagni potessero vedersi nell'interno, se ne scorgerebbero molti, i quali vanno a casa colle ali da angeli, ed al loro ritorno portano due corna sulla testa come altrettanti diavolotti.

                Ma D. Bosco non permise che Magone rimanesse privo di un necessario ristoro, e a titolo di premio volle farselo compagno di viaggio, conducendolo ai Becchi, colla prima squadra di pochi altri giovani, fra i quali D. Garino Giovanni testimonio di ciò che narriamo. Si partiva il 30 settembre, festa di S. Gerolamo. Durante il cammino D. Bosco ebbe tempo a discorrere a lungo con Magone e ravvisare in lui un grado di virtù di gran lunga superiore alla sua aspettazione.

                Per la strada furono sorpresi dalla pioggia; e giunsero a Chieri tutti inzuppati. Si recarono dal Cav. Marco Gonella, il quale con bontà soleva accogliere i giovani dell'Oratorio tutte le volte, che erano di andata e di ritorno da Castelnuovo di Asti. Egli somministrò a D. Bosco ed a' suoi quanto occorreva per gli abiti e poi loro apprestò una refezione da signore.

                Dopo qualche ora di riposo ripigliarono il cammino. Percorso un tratto di strada Magone rimase indietro dalla comitiva ed uno dei compagni, pensando che fosse per istanchezza, gli si avvicinava, quando si accorse che bisbigliava sotto voce.

                 - Sei stanco, gli disse, caro Magone, non è vero? le tue gambe sentono il peso di questo viaggio?

                 - Oibò: stanco niente affatto; andrei ancor sino a Milano.

                 - Che cosa dicevi ora che andavi sotto voce da solo parlando ? [55]

                Io recitava il rosario di Maria SS. per quel signore, che ci ha accolti tanto bene; io non posso altrimenti ricompensarlo, e perciò prego il Signore e la B. Vergine, affinchè moltiplichino le benedizioni sopra di quella casa, e le doni cento volte tanto di quello che ha dato a noi.

                È difficile dire quanto Magone fosse grato per ogni favore ricevuto. Non rare volte stringeva affettuosamente la mano a D. Bosco e, guardandolo cogli occhi pieni di lagrime, diceva: - Io non so come esprimere la mia riconoscenza per la grande carità, che mi ha usato coll'accettarmi nell'Oratorio. Studierò di ricompensarla colla buona condotta e pregando il Signore, affinchè benedica lei e le sue fatiche.

                Passando intanto per Buttigliera, ove la Contessa Miglino aveva preparata la merenda pei giovani, sul far della notte giungevano festosamente ai Becchi, ove predicava D. Chiatellino.

                D. Bosco in uno di questi giorni andava in un paesello vicino per trattare coll’amico parroco di qualche suo interesse.

                Costui avea una vecchia fantesca così avara nell'interesse del suo padrone, che non solo, facendo il viso brusco e con sottili e mal preparate porzioni a pranzo, avea allontanato da lui gli amici, ma di più il padrone stesso teneva a stecchetto, più di quello che richiedesse la stessa necessità. Il prete che conoscevala fidata, riserbata nel parlare, e veramente buona cristiana tollerava e lasciava fare. Molte volte aveala avvertita delle sconvenienze di quel procedere, ma erano parole gettate al vento.

                D. Bosco adunque, sapendo con chi avea da fare, bussò alla porta della canonica.

                Si affacciò la serva con un brusco - Chi cerca? [56]

                 - Il parroco sarebbe in casa?

                 - È uscito.

                 - E starà molto a rientrare?

                 - Non lo so. Potrebbe anche star fuori qualche ora.

                 - Se permette lo aspetterò. Intanto ho piacere di poterla salutare. Ho sentito parlare tante volte così bene di lei .......

                 - Di me? replicò la serva rabbonendosi.

                 - Ma sì, sì. Non è lei la signora Domenica?

                 - Sono io. Ma come ha fatto a sapere il mio nome? Chi glie lo ha detto?

                 - Chi me lo ha detto? Ho sentito lodarla tante volte e so che la signora Domenica è una valente cuciniera, una brava signora, di abilità e di buon cuore.

                 - E lei chi è?

                 - Sono D. Bosco.

                 - D. Bosco? D. Bosco dei Becchi?

                 - Precisamente.

                 - D. Bosco! D. Bosco! Venga, venga avanti .......

                 - Non vorrei averla disturbata ..

                 - Ma no; nessun disturbo, è un piacere Si accomodi, D. Bosco! - E così l'introdusse mentre D. Bosco continuava a farle il panegirico.

                 - Si fermerà bene a pranzo con noi?

                 - Se la signora Domenica avrà la bontà di darmi un po' di zuppa .......

                 - Si immagini: troppo volentieri. Se andasse via prima di pranzo ci farebbe un gran torto.

                Intanto il parroco ritornò. La Perpetua appena egli mise il piede sulla soglia annunziogli l'arrivo di D. Bosco e poi corse in cucina. Il buon prete fece all'amico le più cordiali accoglienze, ma era in angustie pensando al [57] magro desinare, che Domenica avrebbe apprestato: tanto più si confermò nella sua opinione, perchè a mezzogiorno il pranzo non era ancora in ordine.

                Ma ecco la serva tutta raggiante di gioia venir ad annunziare, che la minestra era in tavola. Il parroco stupì al vedere un antipasto svariato ed abbondante e poi piatti sopra piatti che non volevano più finire.

                 - Brava; viva la signora Domenica che sa preparare pranzi così buoni! - diceva di quando in quando D. Bosco.

                 - Se l'avessi saputo che veniva lei oggi… ma così all'improvviso… non ci fu neppur tempo a preparare! - esclamava Domenica. E suggeriva al parroco la tale e la tal'altra qualità di vino migliore, riposta nella cella.

                 - Ma come hai fatto ad addomesticare così quella buona donna, diceva sottovoce il parroco a D. Bosco, mentre Domenica era ritornata in cucina -  insegnami il segreto.

                 - Te lo dirò poi: adesso mangia e sta allegro.

                 - Sì sì, son troppo contento della tua venuta; anzi ti prego: Vieni a farmi visita una volta per settimana.

                 - E perchè?

                 - Così potrò di quando in quando interrompere la mia eterna quaresima.

                Quelle lodi e specialmente il titolo di signora Domenica avevano operato quel miracolo.

                Così D. Bosco raggiungeva un suo fine cioè di predisporre l'animo della buona fantesca in favore de' suoi alunni quando fossero venuti in quel paese per la passeggiata. E per la sua fatica, aveale donato una buona mancia.

                Alla sera D. Bosco ritornava in mezzo ai suoi giovani che avevano avuto occasione di ammirare un bel atto di [58] virtù del caro Magone. Erano andati a divertirsi nella vicina boscaglia. Chi andava in cerca di funghi, altri di castagne, di noci; alcuni ammassavano foglie e simili cose, che per loro formavano il più gradito passatempo. Erano tutti attenti a ricrearsi quando Magone si allontana da' compagni e tacito tacito va a casa. Uno lo vede, e nel timore che avesse qualche male lo segue. Michele pensandosi di non essere veduto da alcuno entra in casa, non cerca persona, non fa parola con chicchessia, ma va direttamente in chiesa. Chi gli tien dietro, giunge a trovarlo, tutto solo ginocchioni accanto l'altare del SS. Sacramento, che con invidiabile raccoglimento pregava.

                Interrogato di poi sullo scopo di quella partenza inaspettata da' suoi compagni per andare a fare la visita al SS. Sacramento, schiettamente rispondeva: - Io temo assai di ricadere nell'offesa di Dio, perciò vado a supplicare Gesù nel SS. Sacramento, affinchè mi doni aiuto e forza a perseverare nella sua santa grazia.

                Altro curioso episodio succedette in quei medesimi giorni. Una notte mentre tutti i giovani riposavano, Don Bosco ode uno a piangere. Si mette pian piano alla finestra e vede Magone in un angolo dell'aia che mirava il cielo e lagrimando sospirava. - Che hai, Magone, ti senti male? - gli disse.

                Egli che pensava di essere solo, nè essere da alcuno, veduto, ne fu turbato, e non sapeva che rispondere; ma replicando D. Bosco la domanda, rispose con queste precise parole:

                 - Io piango nel rimirare la luna e le stelle, che da tanti secoli compariscono con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono [59] ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, l'ho disobbedito tante volte, e l'ho in mille modi offeso. - Ciò detto si mise di nuovo a piangere. D. Bosco lo consolò con qualche parola, onde egli dando calma alla commozione, andò di nuovo a continuare il suo riposo.

                Ma ormai si era alla vigilia della festa del Rosario e una sessantina di giovani dell'Oratorio, fra i quali i musici, giungevano ai Becchi seguendo lo stesso itinerario della prima squadra. All'indomani la solennità fu oltremodo edificante, perchè si vide quella divota gioventù accostarsi alla sacra mensa insieme con molte altre persone venute da que' dintorni. La musica della Messa Grande e della benedizione del SS. Sacramento, riuscì non meno devota che splendida. D. Bosco predicò.

                Anche prima della festa i giovani erano andati a visitare qualche paese vicino ai Becchi, ma le passeggiate, che meritarono dagli alunni con questo titolo fastoso, erano sempre riservate dopo la solennità del Rosario. Ancora per quest'anno le escursioni duravano per mezza giornata od una giornata intera e si ritornava alla sera ai Becchi dove era fissato il quartiere generale. Montiglio, Passerano, Primeglio, Marmorito, Piea, Moncucco, Albugnano, Montafia, Cortazzone, Pino d'Asti accolsero festosamente negli autunni i giovani condotti da D. Bosco.

                Più volte furono a vedere il Santuario del Vezolano, del quale il servo di Dio narrava loro la leggenda. Queste passeggiate si prolungavano più o meno giorni, secondo il tempo del quale D. Bosco poteva disporre.

                L'ultima visita fu alla tomba di Savio Domenico in Mondonio, dal quale alcuni dei suoi compagni, invocandolo, aveano attenute grazie segnalate, e prima di allontanarsi [60] da Castelnuovo andarono presso D. Cinzano, che aveali invitati a lieta mensa in casa sua. La sera di quel giorno arrivati tutti all'Oratorio, Magone Michele disse a D. Bosco. - Se Lei è contento domani io fo' la Comunione pel signor Prevosto, che ci ha fatto stare allegri quest'oggi. - Don Bosco non solo glie lo permise, ma esortò gli altri di fare altrettanto, come era solito di raccomandare in simili occasioni, per i benefattori dell'Oratorio.

                Ritornato in Valdocco si dava subito attorno per trovare vestiarii onde riparare dal freddo i suoi ricoverati, e danaro per pagare i lavori del nuovo refettorio, che sul finir del dicembre incominciò eziandio ad essere sala del teatrino. Per questi fini scriveva due lettere.

                Una al Marchese Lamarmora Ministro della Guerra.

 

                               Ill.mo e Benemerito Sig. Ministro,

 

                All'avvicinarsi della stagione invernale mi accorgo del gran bisogno di provvedere oggetti di vestiario per li miei poveri ragazzi. Il numero dei ricoverati in quest'anno è di circa duecento, più grande è quello di coloro che vengono alla scuola diurna e serale, di gran lunga è poi maggiore il numero di coloro, che intervengono nei soli giorni festivi per le sacre funzioni, per la ricreazione, o per aver padroni presso cui collocarsi a lavorare. Ma questi ragazzi, chi più, chi meno, si trovano tutti in bisogno.

                Egli è a nome di questi che ricorro a V. E. supplicandola a voler loro concedere qualche oggetto di vestiario: coperte, lenzuola, scarpe, mutande, camicie, giacchette, calzoni ecc. di qualsiasi taglio o colore; e comunque logori o cenciosi da noi si aggiustano e si fanno servire a coprire e riparare dal freddo un povero ragazzo e metterlo così in grado di potersi collocare presso ad un padrone. [61] Nella fiducia d'essere anche in quest'anno aiutato, e pieno di gratitudine per i favori ricevuti, Le auguro ogni bene dal Cielo, mentre con pienezza di stima mi professo

                Di V. E.

                Torino, 14 ottobre 1858.

Obbl.mo ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                PS. I due giovanetti Berardi e Litardi, dalla carità di Lei raccomandati, continuano ad essere in questa casa e sono ambedue avviati ad una professione.

                Altra lettera D. Bosco indirizzava al Presidente dell'Opera Pia di S. Paolo.

 

                               Ill.mo Signore.

 

                Tutte le volte che mi sono trovato in grave bisogno e che ho fatto ricorso alla Pia Opera di S. Paolo, per ottenere sussidio per l'Oratorio di San Francesco di Sales, son sempre stato favorito. Un caso eccezionale mi stringe pure in quest'anno a ricorrere a questa fonte di beneficenza.

                L'umidità della chiesa mentovatale in altra mia l'aveva resa veramente insalubre ai poveri giovani che ivi intervenivano, e guastava gli oggetti ed i paramenti destinati al divin culto. Fu pertanto fatta fare una volta collo scavo sotto il pavimento, lavoro che da prima sembrava non tanto dispendioso, ma che va montando ad una somma eccedente le mie forze e le oblazioni di alcuni pii benefattori. La spesa totale monta a sei mila franchi; per quattro la Divina Provvidenza ha già aperta la strada. Mancano ancora due mila franchi che mi sono d'urgenza, che non so dove prendere, e senza cui dovrei con grave danno sospendere i lavori.

                È per questa somma che io umilmente ricorro alla bontà di V. S. Ill.ma supplicandola di venire anche questa volta in mio [62] soccorso ed aiutarmi a compiere un'opera, che unicamente tende a promuovere il divin culto fra i fedeli cristiani e specialmente fra la gioventù pericolante.

                Pieno di fiducia nella provata di Lei bontà, Le auguro ogni bene dal Cielo, mentre con pienezza di gratitudine e stima mi professo

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 15 ottobre 1858.

Obbl.mo ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                E sempre da notarsi come D. Bosco in mezzo alle continue cure eziandio materiali nulla perdesse della sua unione con Dio, come lo dimostrava la sua attitudine attuale ad ogni ufficio del Sacro Ministero. D. Bonetti Giovanni ci conservò traccia ordinata di una predica fatta da D. Bosco in quest'anno sulla virtù della purità. Chi la medita sente l'efficacia che sta latente sotto quei periodi, quantunque manchi l'espressione della sua voce, del suo sguardo e la vivacità delle sue descrizioni. Don Bosco adunque così aveva parlato a' suoi giovani.

                Il mese di ottobre viene dalla S. Chiesa consacrato in gran parte a Maria SS. La prima Domenica è dedicata alla Madonna del Rosario in memoria delle innumerevoli grazie ottenute, e dei stupendi prodigi operati per la sua intercessione: grazie e favori che Maria SS. invocata con questo titolo impartì ai suoi divoti. - Nella seconda Domenica si celebra la Maternità di Maria SS.. per ricordare ai Cristiani, che Maria è nostra madre e noi tutti siamo i suoi cari figli. La terza Domenica, che quest'oggi, si celebra la sua purità, quella virtù che la rese tanto grande presso Dio e che formò di essa la più bella delle creature. Essendo già due Domeniche che voi mi udite narrare le glorie di Maria SS., questa sera, invece di parlarvi della Vergine benedetta, vi parlerò di questa bella virtù col dimostrarvi quanta stima ne abbia [63] Iddio stesso. Oh quanto io mi stimerei felice se questa sera io potessi insinuare nei vostri teneri cuori l'amore a questa angelica virtù! Statemi attenti!

                Che cosa è la virtù della purità? Dicono i Teologi che per purità si intende un odio, un abborrimento a tutto ciò che è contro il sesto precetto, sicchè qualunque persona, ciascuna nel suo stato, può conservare la virtù della purità. Questa purità è tanto grata a Dio, che in ogni tempo premiò coi più stupendi  prodigi coloro che la conservarono e punì coi più severi castighi coloro che si diedero al vizio opposto. Fin dai primi tempi del mondo, sebbene gli uomini non si fossero moltiplicati grandemente, essendosi essi posti sulla via del disordine, Enoc aveva conservato a Dio puro il suo cuore. Iddio perciò non volle che rimanesse tra gente viziosa e gli angioli mandati da Lui, tolsero Enoc dal consorzio degli uomini, trasportandolo in un luogo misterioso, da dove poi, dopo la sua morte, sarà introdotto in Cielo da Gesù Cristo.

                Andiamo più avanti. Gli uomini sulla terra si erano moltiplicati in gran numero; scordandosi del loro Creatore si erano immersi ne' vizi più vituperevoli: Omnis caro corruperat viam suam. Sdegnato Iddio di tanta iniquità, stabilì di schiantar dal mondo le umane generazioni con un diluvio universale. Salva però Noè colla sua moglie e i tre suoi figliuoli colle loro consorti. Ma perchè usa simile preferenza con costoro? Perchè conservarono la bella ed inestimabile virtù della purità.

                Veniamo più avanti. Dopo il diluvio gli abitanti di Sodoma e di Gomorra si erano dati ad ogni sorta di disordini. Iddio stabili di sterminarli, non più con un diluvio di acqua, ma con un diluvio di fuoco. Tuttavia prima che cosa fece? Girò gli occhi su quelle infelici città e vide che Lot colla sua famiglia erasi conservato virtuoso. Manda subito un angelo ad avvertire Lot acciocchè si allontani con tutti i suoi da quei paesi. Lot obbedisce, ma appena è fuori ecco un mare di fuoco con fragori orribili e lampi e tuoni piomba su quelle misere città e le sprofonda con tutti gli abitanti. Lot e la famiglia erano salvi, ma la moglie per un tratto di curiosità incorse nello sdegno di Dio. L'angelo aveva proibito ai fuggitivi di voltarsi indietro, quando avessero udito lo scroscio del castigo di Dio. Ora la moglie di Lot all'udire [64] tanti fragori, da parer che l'inferno tutto si riversasse in quella valle, non potè trattenersi dal rivolgersi indietro: ma sull'istante medesimo fu mutata in statua di pietra o sale metallico. Così se Iddio l'aveva salvata per la sua purità dal comune eccidio, nondimeno la castigò per l'immodestia dei suoi occhi. Con ciò Iddio voleva dimostrare a noi che dobbiamo tenere gli occhi modesti, non appagare ogni nostra curiosità perchè altrimenti ne resteremo vittima, non solo del corpo, come fu della donna di Lot, ma nell'anima. Gli occhi sono due porte per cui entra quasi sempre il demonio.

                Andiamo innanzi! Portatevi col pensiero in Egitto. Là vedrete un giovanetto il quale per non aver voluto acconsentire ad una azione cattiva soffre mille persecuzioni, la calunnia e la prigionia. Ma permette forse Iddio che perisca Giuseppe? No! Aspettate un po' di tempo e voi lo vedrete sul trono d'Egitto, e coi suoi consigli salvar dalla morte non solo gli Egiziani, ma la Palestina, la Siria, la Mesopotamia e molte altre nazioni. E donde gli venne tanta gloria? Da Dio il quale volle premiare il suo amore eroico per la virtù della purità.

                lo non la finirei più se volessi contarvi le glorie delle anime pure. Di una Giuditta che salvò Betulia dagli eserciti stranieri, di una Susanna, esaltata per la sua incrollabile virtù fino al Cielo, di un'Ester salvatrice della sua nazione, dei tre fanciulli illesi tra le fiamme di una fornace, di Daniele salvo nella fossa dei leoni. Perchè Dio operò tinti prodigi in favore di costoro? Per la loro purità, per la loro purità. Sì! la virtù della purità è tanto bella, tanto grata al cospetto di Dio, che in tutti i tempi, in tutte le circostanze non lasciò mai senza protezione, coloro che la possedevano.

                Andiamo pure avanti che questo non basta. Già era giunto il tempo tanto desiderato nel quale nascere doveva il Salvatore del mondo. Ma chi sarà mai colei, che avrà la gloria d'essergli madre? Dio gira gli occhi su tutte le figlie di Sion e una sola ne vede degna di tanta dignità. Maria Vergine! Da lei nacque Gesù Cristo, per opera dello Spirito Santo. Ma perchè tanto prodigio e privilegio? In premio della purità di Maria, che fra tutte le creature fu la più pura, la più casta. Qual credete voi che fosse il motivo pel quale Gesù Cristo amava tanto di stare,  [65] di conversare coi fanciulli, di accarezzarli, se non perchè questi non avevano ancor perduta la bella virtù della purità? Gli Apostoli volevano cacciarli, avendo le orecchie intronate dai loro schiamazzi, ma il Divin Salvatore riprendendoli. comandò che li lasciassero venire a lui. Sinite parvulos venire ad me; talium est enim regnum coelorum e soggiungendo che essi Apostoli non sarebbero entrati nel regno de' cieli, se non fossero divenuti semplici, puri, e casti come quei fanciulletti. Il Divin Salvatore risuscitò un fanciullo ed una fanciulla; ma perchè? Perchè, interpretano i Santi Padri, non avevano perduta la purità. Perchè Gesù Cristo dimostrò tanta predilezione per S. Giovanni? Ascende al monte Tabor per trasfigurarsi? Conduce per testimonio S. Giovanni. Vuole andare a pescare cogli Apostoli? Preferisce di montare sulla barca di Giovanni. Nell'ultima cena lascia che Giovanni declini il suo capo sovra il suo petto, lo vuole compagno nell'Orto di Getsemani, lo vuole suo testimonio sul monte Calvario. Confitto in croce si rivolge a Giovanni e dice: - Figlio, ecco qui tua madre: Donna ecco qui tuo figlio. - A Giovanni viene affidata da Gesto sua Madre, la più grande creatura che sia mai uscita dalle mani di Dio e simile alla quale nessuna giammai uscirà! Ma perchè tanta preferenza? Perchè? Perchè, o cari giovani, S. Giovanni aveva un titolo speciale all'affetto di Gesù per la sua verginale purità. E questo amore di predilezione di Gesù verso di lui era tale da destare gelosia negli altri Apostoli, sicchè già credevano che Giovanni non avesse a morire, avendo Gesù detto a Pietro: - E se volessi che costui vivesse finchè io venga, a te che importa? - S. Giovanni infatti fu colui che sopravvisse di molti anni a tutti gli altri Apostoli, e a lui Gesù Cristo fece vedere la gloria che godono in Cielo coloro, i quali hanno in questo mondo conservata la bella virtù della purità. Egli stesso scrisse nella sua Apocalisse che essendo entrato nell'ultimo cielo, vide una gran schiera di anime vestite di bianco con un cingolo d'oro e portanti una palma in mano. Queste anime stavano continuamente coll'Agnello Divino e lo seguivano ovunque egli andasse. Esse cantavano un inno così bello, così soave, che Giovanni non potendo più reggere a tanta dolcezza d'armonia, rivolto all'angelo che lo accompagnava gli disse: - Chi sono costoro che circondano l'Agnello e che cantano un inno sì bello, che [66] tutti gli altri santi non possono cantare? L'angelo rispose: - Sono quelle anime che hanno conservato la bella virtù della purità: virgines enim sunt.

                O anime fortunate che non avete ancora perduta la bella virtù della purità, deh! raddoppiate i vostri sforzi per conservarla. Custodite i sensi, invocate spesse volte Gesù e Maria, visitatelo Gesù nel SS. Sacramento, andate sovente alla Comunione, obbedite, pregate. Voi possedete un tesoro così bello, così grande, che fino gli angeli ve lo invidiano. Voi siete, come dice il nostro stesso Redentore Gesù Cristo, voi siete simili agli angioli. Erunt sicut Angeli Dei in coelo.

                E voi che per vostra disgrazia l'avete già perduta non iscoraggiatevi. Le giaculatorie, le frequenti e buone confessioni, la fuga delle occasioni, le visite a Gesù vi aiuteranno a ricuperarla. Fate ogni vostro sforzo; non temete; la vittoria sarà vostra, perchè la grazia di Dio non mancherà mai. E vero che non avrete più la bella sorte di appartenere a quello stuolo di santi, che in paradiso hanno un posto separato dagli altri, non potrete più andare a cantar quell'inno, che solo i vergini possono cantare, ma ciò non importa per la vostra futura perfetta felicità. Un posto vi è ancora per voi nel cielo, così bello, così maestoso, al cui confronto sono come fango e spariscono i troni dei più ricchi principi e più potenti imperatori, che siano stati e che potranno mai essere sovra questa terra. Sarete circondati eziandio, di tanta gloria, che lingua nè umana, nè angelica potrà mai spiegare. Potrete ancora godere della cara, bella compagnia di Gesù e di Maria, di quella nostra buona Madre che colà ansiosa ci aspetta: la compagnia di tutti i santi, di tutti gli angioli, che ora e sempre sono pronti ad aiutarci, purchè ci stia a cuore di conservare la bella virtù della purità.

 

 

CAPO VI. D. Bosco manda alunni studenti al Cottolengo - Le prime tre classi ginnasiali nell'Oratorio - Avviso ai maestri ed agli assistenti - Conferenza a tutti i chierici - Assistenza continua e prudente agli alunni - I giovani attorno a D. Bosco nell'ora della sua refezione - Le scuole di filosofia ed un inconveniente - Le massime eterne ricordale ai giovani - La vita dei Papi dal pulpito - Predica di S. Cecilia - Morte dell'Abate Aporti.

 

                Si è all'apertura dell'anno scolastico 1858 - 59. Compiute le accettazioni di nuovi alunni, accolto Albera Paolo, di None, destinato da Dio ad essere uno dei primari Superiori della Pia Società, Don Bosco continuava eziandio a far scelta di giovanetti per la classe degli studenti al Cottolengo, accompagnandoli con un suo biglietto. Uno di questi è a noi pervenuto diretto al Sig. Ch. Frattini, assistente dei Tommasini nella piccola casa della divina Provvidenza.

 

                               Carissimo Frattini,

 

                Il giovane Meotti Antonio è venuto a vedere se avvi qualche speranza per lui nella casa della divina Provvidenza. Tu lo puoi vedere, presentarlo alla bontà del vostro Venerato Sig. Padre,  [68] e poi farai ciò che meglio al Sig. Padre e a te sembrerà nel Signore.

                Il padre del ragazzo è disposto di pagare f. 10 mensili.

                Dio benedica te e le tue fatiche, prega per me che ti sono, di cuore.

                Da casa, 22 ottobre 1858.

Aff.mo

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Nell'Oratorio gli studenti di umanità e di rettorica continuavano ad andare alle scuole di D. Picco. In casa professore della prima classe ginnasiale fu il Ch. Pettiva Secondo, della seconda il Ch. Turchi Giovanni, della terza il Ch. Francesia Giovanni.

                D. Bosco al principio, e più volte nel corso dell'anno, soleva fare conferenze agli assistenti e ai maestri di scuola e di laboratorio, inculcando vivamente il pensiero dell'anima dei loro allievi; e diceva: - I nostri giovani vengono all'Oratorio; i loro parenti e benefattori ce li affidano coll'intenzione, che siano istruiti nella letteratura, nelle scienze, nelle arti e ne' mestieri; ma il Signore ce li manda, affinchè noi ci interessiamo delle loro anime, ed essi qui trovino la via dell'eterna salute. Perciò tutto il resto deve da noi considerarsi come mezzo; e il nostro fine supremo farli buoni, salvarli eternamente.

                Di una di queste conferenze, fatta a tutti i chierici dell'Oratorio verso il fine del 1858, conservossi memoria per iscritto.

                Io qualche volta ho piacere di parlare a tutti i figli dell'Oratorio, alcune volte a quelli soltanto della casa, spesse volte ai soli studenti o ai soli artigiani, talora poi in particolare ai Chierici [69] Oramai possiamo dire che il nostro anno scolastico è incominciato e perciò io bramo assai di incominciare, come facevamo l'anno scorso, ad intrattenermi qualche poco con voi, almeno una volta alla settimana. Il momento più prezioso che possiamo avere si è a quest'ora dopo le orazioni. Io non voglio qui farvi una predica; quel che voglio dirvi, ciò che desidero con tutto il mio cuore, ciò che vi raccomando si è, che voi mettiate in pratica quello, che fu tante volte raccomandato da S. Paolo, anzi che Dio stesso raccomandò a Mosè, allorchè discendeva dal monte. Siate modelli, siate veri modelli a tutti i figli dell'Oratorio. Voi dovete essere come tante false righe sulla cui traccia devono scrivere e camminare tutti gli altri figliuoli. Perciò dovete regolarvi in modo, che gli altri specchiandosi in voi possano restare edificati. Dovete procurare non solo di giovare altrui coi consigli, ma colle opere, coll'esempio. Che vale che voi raccomandiate agli altri che frequentino i SS. Sacramenti, se vedono che voi li frequentate poco? Se vi vedono divotamente accostarvi ai Sacramenti, se vi vedono composti e modesti in chiesa, oh! allora sì che dal vostro esempio potranno attingere onde alimentare le anime loro. Se per cattiva sorte udissero un chierico fare discorsi non troppo modesti, che si lascia sfuggire qualche paroletta, che sia alcun poco oltraggiosa della bella virtù della purità, ahimè, ahimè, che danno, che scandalo! Dice S. Giovanni Grisologo che un ministro del Signore è simile ad una pianta. Oh! che bel vedere fa, dice questo santo, una pianta in un bel giardino tutta circondata da siepi, che spande i suoi frondosi rami carichi di ottimi frutti. Chiunque le si avvicina resta soddisfatto dal vedere i rami così ricchi di bei frutti. Al contrario ponetemi questa pianta che alta e superba invita a sè tutti quelli che la mirano, in un vago giardino, ma scarsa affatto di bei frutti, allora vedrete che tutti sdegnati non potranno a meno che maledirla perchè occupa inutilmente un così vago luogo. Tali siamo noi. I popoli volgono a noi gli occhi e aspettano frutti buoni e se non vedono alcun frutto, oh! quale scandalo ne prenderanno! S. Ambrogio ci assomiglia alla luna. Egli dice che noi dobbiamo essere tante lune. La luna non splende di luce sua propria, ma la piglia dal sole, se ne serve per lei, quindi la dona alla terra. Così siamo noi. Noi del nostro abbiamo niente, ma dobbiamo ricevere dal sommo [70] Iddio, dal sole di giustizia quella divina parola, che illumina le menti, e dopo essercene serviti per nostra santificazione, dobbiamo spargerla per illuminare tutti gli uomini, i quali aspettano di essere da noi indirizzati sulla via, che li conduce al cielo. Sant'Agostino soggiungeva: Volete voi sapere che cosa indichi quella toga con cui si vestono i giovani Romani? Non credete già che significhi essere entrato quel giovane nei 17 anni; non indica soltanto questo; ma bensì che sotto quella toga vi è la scienza, vi è la virtù, vi sono tutte quelle buone doti di cui debbono essere adorni coloro, che la vogliono indossare. Così è pur di noi. Sotto questo abito noi dobbiamo portare quelle virtù, che merita un abito sì divino. Giosuè doveva passare il Giordano. Dio gli disse: - Manda innanzi i sacerdoti coll'arca: entrino nel fiume tenendola sulle spalle e le acque del Giordano si divideranno ed il tuo esercito passerà. - Così fecero i sacerdoti, e le acque si divisero; le superiori si alzarono come un alto muro, le inferiori, proseguendo il loro cammino, lasciarono asciutto l'alveo, e tutto l'esercito d'Israele passò al di là del Giordano. Così dobbiamo pur far noi. Noi dobbiamo coll'arca della Divina alleanza, colla S. Religione, con buone massime, con amorevoli parole, con santi esempi fare in modo, che gli uomini sani e salvi passino da questo mondo all'eternità. Adunque facciamo tutto quello che possiamo per fare del bene alle anime. Intorno a voi vi sono molti giovani che vi tengono d'occhio continuamente, adoperatevi con tutto il vostro potere per bene indirizzarli e col buon esempio e colle parole, e coi consigli e cogli avvertimenti caritatevoli. Se così fate in quest'anno, sebbene il numero dei chierici non sia più grande di quello degli anni scorsi, io sarò tuttavia contento; ed il Signore non potrà a meno che benedire me, voi e tutta la casa, continuando come sempre ha fatto, ad aiutarci col potente suo braccio, prosperando tutte le nostre fatiche. Amen. Così sia.

 

                Nelle conferenze non stancavasi di raccomandare loro l'assistenza coscienzosa dei giovani, poichè pretendere che le debolezze umane non valicassero le soglie dell'Oratorio, sarebbe stato un disconoscere il mondo. Ed egli ne [71] dava loro l'esempio. Vegliava sempre come sentinella costante, ma prudente, al fine di prevenire il male, o vincerlo qualora avesse gettato qualche radice nella casa. Nei primi venti anni dell'Oratorio compariva dappertutto e talora quando meno era aspettato. Nelle camere, nei laboratori, nelle scuole, nei refettori, nei luoghi meno osservati e più reconditi. Osservava anche le minime cose. Voleva sapere tutto e vedere tutto.

                Due giovani dopo il pranzo si fermavano soli nel loro refettorio per alcuni istanti esaminando il libro della lettura. Erano stimati buoni; ma ecco la voce amorevole di D. Bosco che li chiamava.

                Altri si erano appartati da tutti per intrattenersi di qualche loro progetto, o preparando una merenda, o qualche giuoco di quattrini, e D. Bosco all'improvviso sopraggiungeva: - Che cosa fate qui? Andate in ricreazione coi vostri compagni.

                Un allievo passeggiava tenendo per mano un compagno o mettendogli un braccio sulla spalla. D. Bosco gli si avvicinava e scherzando gli dava un colpo sul braccio o sulle dita, dicendo: - Sapete la regola di non mettervi le mani addosso? Giuochi di mano, giuochi da villano.

                Un giorno vide un giovanetto che nel cortile aveva, intrecciato il suo braccio con quello di un assistente, il quale lasciò fare. Egli attese che quel chierico fosse solo e chiamatolo allora a sè: - Oggi, gli disse, ebbi una forte tentazione di darti due schiaffi in pubblico! Hai capito?

                 - Sissignore!

                 - E ciò mi basta: e tu sta attento.

                Su questo punto D. Bosco era delicatissimo. [72]

                In molti casi la sua vigilanza era inesplicabile e pareva splendesse in lui una speciale virtù visiva, della quale ci riserviamo a dare più ampie spiegazioni. Spesse volte mentre era tutto occupato nello scrivere o nel pregare in chiesa, o intrattenendosi, coi giovani, o anche in tempo della refezione, a un tratto chiamava a sè uno de' suoi anziani e dicevagli segretamente: - Va nella tale camerata; vi sono tre (e faceva i nomi) che, chiusa la porta, leggono un giornale poco buono: di' loro che escano subito.

                Altra volta ad un allievo giudizioso: - Corri a dire all'assistente che nel tal luogo, dietro ai portici, vi sono alcuni nascosti. Che li faccia saltar fuori.

                Poi altre volte ancora a qualche chierico: - Ascendi in cima alle scale, troverai il tale e il tale. Di' loro che D. Bosco sa tutto.

                Questi fatti si rinnovarono non di rado e sempre si verificava aver D. Bosco indovinato e luoghi e persone e circostanze. Ma comunque egli esercitasse l'uffizio dell'Angelo Custode, ne imitava la discreta e paziente condotta. Per i pretesti più naturali del mondo che coonestavano le sue apparizioni, per la sua bontà e semplicità, per le continue dimostrazioni di affetto e di stima verso di tutti senza eccezione, per l'oblío di mancanze scoperte e perdonate, non si destava nei giovani nessuna diffidenza. Infatti bastava che egli si presentasse in qualche luogo della casa perchè corressero intorno a lui.

                Commovente spettacolo accadeva tutti i giorni dal principio della fondazione dall'ospizio fino circa al 1870 dopo il pranzo e specialmente dopo la cena, quando per caso non vi fosse qualche forestiere di riguardo nel refettorio dei superiori. Era questo una sala sotterranea lunga e bassa con una semplice fila di tavole in mezzo. [73]

                Gli alunni venuti fuori del loro refettorio si accalcavano nel vestibolo di quello di D. Bosco, aspettando che i chierici avessero finita la preghiera del ringraziamento; e non appena udivano il Dominus del nobis suam pacem, Amen, urtata la porta, si precipitavano entro. Qui succedeva un grazioso scontro, si licet parva combonere magnis, simile a quello dell'Orenoco col flusso dell'Atlantico. I giovani volevano entrare, i chierici uscire, ma dopo qualche istante prevalevano i giovani, che gareggiavano a chi primo arrivasse presso a D. Bosco seduto all'estremità della sala in fondo. I chierici erano obbligati ad appoggiarsi ai muri laterali per lasciarli passare e non essere travolti. Qui accadeva una scena inesprimibile. I più fortunati si sono già stretti a D. Bosco in modo che i più vicini appoggiano il loro capo sopra i suoi omeri. Dietro a lui si vede una siepe di faccette allegre, che gli fanno larga spalliera. Intanto è presa d'assalto la fila di tavole, che prima erano state sparecchiate in fretta, e su quella innanzi a Don Bosco, varie file di giovani seduti colle gambe incrociate a mo' degli orientali; dietro a questi molti altri inginocchiati, in ultimo, sempre sulle tavole, una turba in piedi. Chi non vi può salire, prende le panche, le accosta ai muri e vi monta sopra; ed ecco due lunghe file di occhi vivaci, che si fissano in D. Bosco. I più tardivi riempiono tutto lo spazio tra le panche e le tavole. Sembra che nessuno possa più giungere ad avvicinare D. Bosco; eppure alcuni piccolini tentano la prova. Si mettono a correre carponi sotto le tavole ed ecco le loro testoline sporgere tra la tavola e la persona di D. Bosco, che faceva loro una carezza.

                Sovente D. Bosco essendo stato trattenuto in camera dal lavoro, aveva incominciato solo allora a prendere un [74] po' di cibo. Eppure li accoglieva con festa e, assordato dai loro canti e dalle grida, in quell'ambiente respirato da tanti petti, che a stento rimaneva acceso il lume, finiva il suo povero pasto, rivolgendo un sorriso affettuoso, uno sguardo affabile, un motto d'incoraggiamento agli uni ed agli altri. Non si mostrava mai contrariato dall'insistente importunità de' suoi figli; anzi provava rincrescimento, quando qualche visitatore non necessario veniva a rubargli la dolcezza di questi famigliari trattenimenti.

                Talora faceva atto di voler parlare a tutti, ed all'istante cessava quella confusione di voci, e in mezzo al più profondo silenzio narrava un breve aneddoto, proponeva una questione, faceva un'interrogazione, finchè la campana scioglieva l'assemblea coll'invito alla scuola di canto o alla preghiera.

                La confidenza dei giovani non riceveva adunque alcun scapito dalla continua vigilanza del superiore, più gradita di quella di altri assistenti.

                Intanto anche per i chierici erano incominciate le scuole del Seminario, sempre occupato dall'autorità militare, che aveva lasciato libero un solo, ma ampio ammezzato per la classe degli studenti di teologia. Quindi i professori dei corsi filosofici davano lezione nelle loro case private in ora però troppo mattutina e non comoda per gli allievi. Perciò D. Bosco, con una lettera rispettosa, si rivolgeva al Rev.mo Canonico Vogliotti, Provicario diocesano e Rettore del Seminario.

 

                               Ill.mo Sig. Rettore,

                Mi raccomando alla nota di Lei bontà, per un favore che riguarda ai nostri chierici Filosofi. L'ora attuale della scuola li mette in disaccordo coll'orario della casa specialmente per la messa. [75] Se i signori Professori T. Mottura e C. Farina volessero aver la bontà di trasferire il principio della scuola alle 9 matt. sarebbe tutto aggiustato.

                Qualora però tal cosa incagliasse le occupazioni dei prefati signori, mi aggiusterei in qualche modo per uniformarmi alle loro lezioni.

                Sempre con pienezza di stima e di gratitudine mi professo.

                Di V. S. Ill.ma

                Da casa, 16 novembre 1858.

Obb. servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Ma a questo e ad altri inconvenienti, che potevano pur riuscire di scapito alla necessaria vigilanza, D. Bosco rimediava colla potenza della sua parola. Le massime eterne erano infallantemente quelle, che per le prime faceva risuonare all'orecchio dei nuovi alunni. Una sera del mese di novembre, nel 1858, Reano Giuseppe raccoglieva dal labbro di D. Bosco e ci tramandava la sua parlata: - Due cose solo io temo: il peccato mortale che dà la morte all'anima, e la morte corporale che sorprende chi si trova in disgrazia di Dio. - Quindi fece pausa per l'estrema commozione che lo agitava e dopo qualche istante ripigliò: - Io temo che qualcheduno de' miei figli non abbia ad essere vittima della propria trascuranza nelle cose dell'anima! E la morte non risparmia nessuno. Dal principio del mondo fino ai giorni nostri quanti patriarchi, principi, re, conquistatori (e alcuni ne andava enumerando) fecero la loro comparsa sulla terra e scesero nella tomba con tutte le moltitudini dei popoli loro contemporanei! Miliardi di uomini che ora sono polvere! Persuadiamoci, cari giovani, che verrà anche per noi il giorno della morte ed essa verrà come un [76] ladro! Quando uno meno ci pensa, penetra in casa e lascia cadere la falce sul filo della vita…… Aggiustiamo pertanto i nostri conti col fare una buona confessione……..

                La morte non fa anticamera da nessuno, nemmeno dai re, dai papi  Attenti!… Mors non tardat… E poi?…L'eternità!… -

                E il santo timor di Dio, ispirato dalle parole di Don Bosco, era guida e freno alla condotta dei giovani, li addestrava a robuste virtù e li rendeva degni della protezione di Maria SS.

                Anche l'amore alla Chiesa e al Papato si manteneva sempre vivo ne' loro cuori colla narrazione delle vite dei Papi, che D. Bosco teneva ogni Domenica mattina. Giunto a tratteggiare la vita di S. Urbano I, si dilungò per ben tre feste consecutive a descrivere l'eroismo di S. Cecilia. Conoscendo D. Bosco perfettamente la topografia di Roma imperiale, le costruzioni de' palazzi patrizii, de' loro atrii, portici, sale, fontane, e i costumi degli antichi Romani, li sapeva rappresentare al vivo alle fervide immaginazioni dei suoi uditori. Un di questi ragionamenti il Ch. Bonetti Giovanni volle far la prova a riportarlo in carta, e questa dopo circa trent'anni a noi la rimetteva. Scrisse ciò che ricordò, ma è sufficente per dare un saggio del metodo descrittivo e dei dialogi, che D. Bosco usava adoperare in pulpito, giovandosi di ogni più piccola circostanza, onde abbellire con frutto i suoi ragionamenti.

                Ne giudichi il nostro lettore.

                Sotto l'Imperatore Alessandro Severo la Chiesa dovette sostenere una furiosa persecuzione. Papa Urbano I per schivare tutti i pericoli erasi ritirato nelle catacombe, in un luogo lontano tre miglia da Roma. Queste catacombe sono luoghi sotterranei dove si [77] seppellivano i corpi dei Santi martiri e dove in tempo di persecuzione si nascondevano i cristiani. Viveva in quei tempi una donzella appartenente ad una delle prime famiglie di Roma. Questa chiamavasi Cecilia e professava celatamente la religione cristiana, poichè i suoi parenti erano idolatri. Essa amava molto la musica e suonava gli organi, istrumento differente da quello usato ora da noi; cantantibus organis Caecilia Domino decantabat. Cantava lodi al Signore, nulla bramando di più che intrattenersi col suo Dio e dirgli: Sia sempre il mio cuore immacolato, perchè io non resti confusa. Questa giovane erasi consacrata con voto a Gesù Cristo, a lui promettendo di mantenersi vergine per tutta la vita. Intanto i suoi genitori avevano pensato di accasarla con un giovane di alto lignaggio di nome Valeriano. Appena Cecilia udì che i parenti l'avevano promessa ad uno sposo terreno, non poco si conturbò e pensava tra sè il modo di sbrigarsi da questo imbroglio. Essa se ne stava sempre ritirata nelle sue camere, sfuggiva gli spettacoli ed aveva sempre con sè di giorno e di notte i santi vangeli, che formavano la sua delizia. Pregava continuamente il Signore perchè l'aiutasse in quel frangente; ed ecco che si sente tutta piena di coraggio ed ispirata ad abbandonarsi con vera fiducia nelle mani del suo diletto sposo Gesù; ed esclamò: - Sono felice e sicura: so io quello che debbo fare ! - Intanto si avvicinava il giorno delle nozze. Venne Valeriano a trovarla ed ella trattolo da parte gli disse: - Valeriano, ho un segreto da manifestarti! -

                Valeriano premurosamente rispose: - Di pure, o Cecilia, ciò che vuoi, giacchè io ti sarò compagno fedele.

                 - Io te lo confiderò, ma tu promettimi di non palesarlo ad alcuno.

                 - Palesami pur tutto, che nessuno saprà mai da me il tuo segreto.

                Allora Cecilia così gli disse: - O Valeriano, io mi sono consacrata ad un'altro sposo, ad uno sposo celeste. Se tu venissi mai a recarmi qualche offesa, io ho un Angelo che sempre mi custodisce, il quale all'istante ti fulminerebbe.

                 - Tu hai un angelo che sempre ti sta a fianco? ma io nol vedo.

                 - Vuoi tu vederlo? [78]

                 - Lo bramo ardentemente.

                Se tu vuoi vedere il mio angelo devi prima credere in Gesù Cristo figliuolo di Dio, il quale per salvare gli uomini discese dal cielo sulla terra e versò tutto il suo sangue per noi. Tu devi credere che vi è un Dio solo creatore del cielo e della terra e di quanto avvi in cielo e in terra: che questo Dio premia i buoni e castiga i cattivi. Quindi lavarti colle acque purificanti e solo dopo questo lavacro potrai vedere il mio angelo.

                Valeriano che non aveva mai udito parlare di Gesù Cristo e pieno di desiderio di veder l'Angelo: - Ma da chi, esclamò, io debbo andare per farmi purificare ?

                E Cecilia: - Se tu veramente ami di essere purificato, va lungo la via Appia lungi tre miglia da Roma tertio ab urbe lapide. Là vedrai dei poveri che ti chiederanno la elemosina. Tu di loro: “Dov'è il venerando vecchio?” Essi subito ti insegneranno dove esso si trova e a lui ti condurranno. Quando egli ti abbia purificato, ritornerai e vedrai il mio Angelo.

                Così egli fece. Quella parola venerando vecchio era la parola d'ordine dei cristiani per indicare il Papa, e perchè i gentili non sospettassero il ricovero di Urbano I. Valeriano giunse al terzo migliario e quivi trovò quel gruppo di poveri, i quali non erano tali, ma cristiani così trasvestiti:

                 - Dov'è il venerando vecchio ? disse loro: - Vieni con me, gli rispose uno di quei poveri; seguimi! - Poco distante vi era l'entrata di una caverna, celata da un gruppo di alberi e da vermene pendenti. Rimossi i rami Valeriano seguiva la guida in un andito oscuro. Quivi la guida presa una lampada, l'accese e ambedue si misero in cammino per uno stretto corridoio, e fatti alcuni giri e imboccata una scala ripida, che scendeva nelle viscere della terra, si trovarono ben presto ai piedi di essa. Qui incominciavano le catacombe, ossia il luogo dove si seppellivano i martiri, le quali tengono un estensione immensa di miglia e miglia. Valeriano si avanzava per quella galleria, nella quale sbucavano centinaia di altri corridoi: la lampada della guida illuminava con scarsa luce quei sotterranei. A destra e a sinistra si vedevano, le une sopra le altre, incassate ne' loculi del muro le tombe dei martiri, le quali avevano sulle lapidi scolpiti o dipinti i segni del loro martirio. - Costui, diceva la guida, indicando la tomba, ebbe il capo tronco dal carnefice; [79] quest'altro fu sbranato dalle belve feroci nell'anfiteatro: quello fu arso a lento fuoco: questi morì essendogli stato colato in bocca il piombo liquefatto. - E così continuava ad accennargli i varii generi di supplizi, verghe, graticole, croci, coi quali coloro che dormivano in quei sotterranei avevano confessato G. Cristo. I cristiani in mezzo a quelle tombe gloriose tenevano le loro assemblee, celebravano i loro riti e spesse volte mangiavano e dormivano. Valeriano nel vedere quei trofei di virtù così sublime, della quale ancora non conosceva il pregio, quasi sveniva per l'orrore e pensava fra sè: - Povero me; in qual luogo son venuto a gettarmi! - Nulla di meno si fece coraggio e continuò il suo cammino. Giunse finalmente ad un luogo alquanto spazioso, ove si incrociavano varie gallerie, il quale luogo presentava l'aspetto di un tempio. Colà eravi un altare, molte lampade accese e una folla di cristiani, che assistevano alle sacre funzioni. La guida condusse subito Valeriano presso il Pontefice Urbano, che sedeva sopra una cattedra circondata dal clero. La fisionomia, del Papa, improntata di benevolenza, il suo sguardo sereno, affettuoso, confortò non poco Valeriano. Il Papa scorgendo questo sconosciuto, che non si era ancora pienamente rimesso dal suo sbigottimento, con dolce ed amorevoli parole gli fece animo e quando gli domandò per qual fine avesse chiesto di lui, Valeriano rispose: - Io sono sposo di Cecilia. Essa mi narrò come al suo fianco stesse un Angelo invisibile a sua difesa. Io desideravo di vedere quest'angelo del cielo ed ella mi rispose, che per vederlo bisognava che venissi da te e mi facessi purificare.

                Quando Urbano intese il nome di Cecilia e che era dessa la quale aveva mandato a lui Valeriano, tutto commosso si prostrò per terra e pregò. Tutti i Cristiani avevano imitato il Pontefice e pregavano. Quand'ecco all'improvviso apparisce un vecchio venerando, con un'aria maestosa, imponente, celestiale. Valeriano intese essere quello un personaggio soprannaturale, e colto da spavento cadde per terra. Chi era costui ? Egli era l'apostolo S. Paolo comparso per confortare Urbano nelle sue tribolazioni e per incoraggiare Valeriano.

                 - Alzati Valeriano, e sta di buon animo! - disse S. Paolo. Valeriano uomo di guerra e pieno di coraggio, pure in quell'istante tremava come un fanciullo. Sentendosi chiamar per nome, alzò [80] alquanto il capo, diede uno sguardo a quell'essere misterioso e poi si levò in piedi. Allora S. Paolo gli presentò un libro dicendogli - Leggi! - Valeriano aperse il libro e vi lesse queste parole: Una sola legge, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra; un solo signore e redendolo, Gesù Cristo.

                 - Credi tu queste cose? - gli disse S. Paolo.

                 - Sì, le credo con tutte le forze dell'anima! - rispose Valeriano.

                 - Se tu le credi puoi ricevere il santo Battesimo e quindi recarti da Cecilia e vedere l'Angelo. - Ciò detto S. Paolo disparve.

                Allora Papa Urbano amministrò al convertito il S. Battesimo, lo vestì della veste candida e, siccome appena appena spuntava l'alba, così vestito lo rimandò a Cecilia.

                Valeriano giunto alla porta del palazzo di Cecilia, assediata da numerosi clienti venuti per augurare il buon giorno al padrone e ricevere la sportula, senza trovare a quell'ora nessun ostacolo dai servi ostiarii, s'innoltra negli atrii e va direttamente alla camera della santa vergine. Quivi si arresta vicino alla soglia e solleva alquanto la tendina, che velava l'entrata. Quale spettacolo contemplarono i suoi occhi! Cecilia inginocchiata pregava e accanto a lei ritto in piedi il suo Angelo. Quell'Angelo risplendeva di una luce, che, come un sole, illuminava quella camera. La bellezza del suo volto, la ricchezza delle sue vesti, il magnifico variopinto colore delle sue ali, era tale che non è dato a lingua umana di farne la descrizione. Le ali vicino alle spalle incominciavano con ogni sorta di intrecci mirabili di lavoro divino e terminavano alle estremità con vivissimi colori simili a quelli dell'iride. A tal vista Valeriano esitava se entrar dovesse, ma già quasi avvezzo alla presenza degli abitanti del cielo, per l'apparizione veduta poc'anzi di San Paolo, si fece animo ed entrò. Subito andò a porsi in ginocchio accanto all'Angelo, cosicchè l'Angelo restava in mezzo fra Cecilia e Valeriano. Valeriano sebbene fosse tutto pieno di fervore, tuttavia abbagliato da quella luce sfolgorante, a stento pregava e la sua attenzione restava alquanto distratta dal celeste personaggio. Dopo che ebbe fatta un po' di preghiera, ecco l'Angelo trarre fuori due bellissime corone di rose e metterle una sul capo di Cecilia e l'altra sul capo di Valeriano. Disse quindi: - Conservate, o giovani, queste corone, che vi ho recate dal giardino del [81] Paradiso, colla purezza del cuore e colla santità della vita. Le vostre preghiere sono state esaudite davanti al Signore: chiedete pure quel che desiderate e vi sarà concesso. Allora Valeriano: - Ti chiedo la conversione di mio fratello Tiburzio.

                 - Se questo solo brami rispose l'Angelo, ti è già concesso e disparve.

                In questo mentre si ode il passo di Tiburzio, che si avvicina alla porta, ed entra: - Oh! che deliziosa fragranza io sento in queste sale! Da quali fiori, da quali aromi si spande tale odore? In vita mia non ho mai sentito il simile.

                Allora Valeriano: - Lo sappiamo ben noi donde viene. Devi sapere che un momento fa discese un angiolo dal cielo e mise due corone di rose sui nostri capi.

                 - Ma dove sono che io non le vedo? esclamò.: e intanto guardava di qua, guardava di là e vedeva nulla. - Dove sono adunque queste rose che voi dite? Sento l'odore, ma le corone, che bramerei di contemplare, non le vedo. - E non poteva darsi pace.

                Allora Cecilia: - Se tu vuoi vedere queste corone, prima devi credere che vi è un solo Dio creatore del cielo e della terra, che questo Dio ha mandato dal cielo il suo divin figliuolo Gesù, il quale fondò una religione tutta santa, tutta pura; e poi devi essere lavato da un acqua, che purifichi da tutte le macchie l'anima tua.

                 - Come? Vi è ancora altro Dio più potente degli dei di Roma?

                Gli rispose Valeriano: - O Tiburzio, ben mi stupisco che tu con tutta la tua scienza creda che i nostri idoli siano potenti! Essi son fatti dagli uomini!

                 - È vero ciò che tu dici; ma chi è costui chè mi darà quest'acqua ?

                Egli è un vecchio venerando, che si chiama Urbano.

                 - Come Urbano? Quello che odo chiamarsi Papa dai Cristiani?

                 - Appunto.

                 - Oh non sono così stolto da presentarmi a costui. Se io fossi scoperto dai pretoriani, sarei subito condotto alla morte. E poi corrono voci così sinistre sul conto dei cristiani.

                 - Calunnie dei tristi, o mio caro. Urbano è un angiolo. Un uomo più affettuoso, più semplice, più dotto non l'ho mai incontrato da che vivo. Va, vedilo, parlagli e sarai contento. [82]

                 - A quel che pare tu forse.... ma non è possibile.... Io son giovane.... voglio godere la vita.... non sai che la morte sta sul capo di chi tratta coi cristiani?.... No; io non andrò giammai da Urbano.

                 - Aspetta, o Tiburzio, aspetta. Questo tuo timore sarebbe ragionevole, se noi avessimo a vivere solamente in questo mondo, se colla morte per noi tutto finisse. Ma tu devi sapere che, l'anima nostra è immortale, che quel Dio onnipotente, che ha fatto il cielo e la terra, ha altresì creato un paradiso, dove si gode eternamente una felicità inesprimibile da coloro soltanto che l'avranno servito in questa vita; ma devi sapere eziandio, che vi è un luogo dopo la morte dove si soffrono tutti i tormenti che puoi immaginarti e per tutta l'eternità, da coloro che questo Dio non vollero conoscere, adorare, amare ed obbedire.

                 - E chi mai può assicurarmi che vi sia un'altra vita ?

                Cecilia prese la parola ed essendo molto istruita recò le prove tratte dalla ragione, dalla rivelazione e dagli stessi autori pagani per dimostrare l'esistenza della vita futura, la felicità eterna che aspetta i giusti, la miseria eterna nella quale cadranno gli iniqui. Tiburzio che aveva ingegno e cuore, coll'aiuto della grazia di Dio, intese la forza di questi argomenti, fu persuaso, e disprezzando la morte: - Se la è così esclamò, ditemi dov'è Urbano e subito vi andrò, acciocchè ancor io possa guadagnarmi la felicità eterna e sfuggire l'eterna morte.

                Allora Valeriano gli disse: - Vieni ed io ti condurrò. Sta, certo che dopo quel lavacro salutare tu proverai una gioia, che tale hai mai provata e mente umana non può immaginare. -

                Andarono; Tiburzio fu battezzato, vide esso pure l'Angelo.

                Fin qui D. Bonetti.

                Il giorno 24 novembre, Domenica, i musici celebrarono la festa di santa Cecilia; e ne tessè le lodi il Diacono Giuseppe Re, ora Canonico della Metropolitana di Torino.

                Pochi giorni dopo, il 29 moriva d'apoplessia fulminante, in Torino, l'abate Ferrante Aporti, il quale, come abbiamo già detto, aveva introdotti in Piemonte i nuovi metodi [83] d'insegnamento e le scuole normali. Senatore del regno, proposto, ma non accettato dal Papa per Arcivescovo di Genova, aveva tenuto l'ufficio di Presidente della Regia Università di Torino fino alla pubblicazione della legge del 22 giugno 1857. Nonostante certe sue opinioni e l'abito secolaresco, deve dirsi però a sua lode, che non prese parte a nessuna legge contraria alla Chiesa, e che perciò più d'una volta i giornali libertini gli tennero il broncio.

 

 

CAPO VII. Letture Cattoliche - Sacra novena di apparecchio al SS. Natale, composta dal Beato Sebastiano Valfrè - Avvisi importanti sul modo di celebrare con frutto questa novena - Circolari in favore delle Letture Cattoliche del Vescovo di Saluzzo e dell'Arcivescovo di Vercelli - L'apparizione di Maria SS. a Lourdes - La novena dell'Immacolata nell'Oratorio.

 

                Sul principio del mese di dicembre Buzzetti Giuseppe, con l'almanacco Il Galantuomo, distribuiva l'ultimo fascicolo delle Letture Cattoliche di quell'anno: Sacra Novena in apparecchio al SS. Natale, composta dal Beato Sebastiano Valfrè della Congregazione dell'Oratorio di Torino (Paravia).

                Questa novena, seguita da altre considerazioni per ogni giorno dell'ottava, è piena di quella devota unzione, la quale solleva l'anima a Dio e la conforta colle più dolci speranze. Terminavano il fascicolo le profezie, l'inno, le antifone maggiori, i salmi, come nel Giovane Provveduto, con l'aggiunta di alcune laudi sacre a Gesù Bambino.

                D. Bosco vi faceva apporre un avviso importante.

                Affinchè la novena si faccia con gusto e gradimento di Dio e profitto di chi la fa, bisogna incominciarla in grazia di nostro Signore: e sarebbe a proposito il premettere la sacramentale [85] Confessione, o almeno far un atto di Contrizione, con proponimento di confessarsi quanto prima.

                Sarà bene recitare ogni giorno nove volte il Pater e l'Ave, il Gloria Patri e l'Angele Dei, sì in memoria de' nove mesi che la santissima Vergine portò nel suo sacratissimo seno il dolcissimo ed amabilissimo Gesù; sì per invitare i nove Cori degli Angioli in aiuto, per riverire un tanto mistero; e si per rinnovare tutti quegli atti divoti ed infuocati sospiri, che, per tante centinaia d'anni, inviarono al Cielo tanti Patriarchi e Padri antichi, per desiderio di vedere nato Gesù; supplicando la santissima Vergine d'unire i nostri poveri cuori col suo sì ricco del divino amore, acciò la nostra novena riesca più grata a Gesù .......

                L'aggiungere ogni giorno tre atti di pentimento d'aver offeso Iddio, tre atti d'amor di Dio, tre atti di offerta di sè a Dio, per potersi uno rendere più disposto ad entrare nella stalla di Betlemme, sarà un’aggiunta, che renderà più accettabile la novena. E chi s'impegnerà in moltiplicare tra i cristiani i detti atti ed altri simili, farà meglio avvertendo tutti di disporre in maniera le loro divozioni ed apparecchi, che si confacciano con lo stato e vocazione in cui Iddio li ha posti.

                Chi poi si prefiggesse la pratica quotidiana di qualche virtù in particolare e la fuga di qualche vizio parimenti in particolare, oltre il general desiderio d'acquistare le virtù tutte e di fuggire tutti i vizi, potrebbe sperare dal Cielo l'acquisto di molti favori. E però, per facilitarne la pratica, si metterà ogni giorno la virtù, che si potrà praticare ed il vizio, che si dovrà fuggire.

                Ed acciocchè la novena con sì buon principio abbia un ottimo fine, si ricorda ad ognuno la divozione e la modestia con la quale si dee stare in chiesa, massimamente in tempo dei divini uffici, e del tremendo ed adorabilissimo Sacrificio dell'altare. E chi veglierà nella notte del santissimo Natale per prepararsi alla solennità del mistero sì tenero, sì sacro, sì santo, s'astenga dalle facezie, da' bagordi, da' giuochi, in una parola dai peccati; e si occupi in letture di libri spirituali, in recitar lodi divine, in dire orazioni .......

                E chi non si sentirà la divozione di vegliare nella notte del santissimo Natale, o avendo voglia di vegliare non gli sarà concesso, o non potrà per qualche impedimento, sia almeno diligente [86] nel levarsi alla mattina del giorno solenne, per fare meglio che saprà tutti quegli apparecchi, che gli detterà la divozione del cuore .......

                Il voler poi tutti aspettare il santissimo giorno del Natale per confessarsi e comunicarsi, non è praticabile, e però prenda ognuno le sue misure per sè, e dia la comodità a' domestici di poter anch'essi aver parte nella novena.......

                In questo libretto si mettono nove esempi divoti per affezionare ognuno all'amore dell'amabilissimo Gesù, e se ne potrà leggere uno ogni giorno. E con una pia orazione posta nel fine si chiuderà la presente novena, durante la quale sono tutti pregati di raccomandare a Dio molti importanti affari concernenti l'onore di Dio, il pubblico bene ed il vantaggio delle anime.

                A questo fascicolo eransi unite due circolari vescovili pubblicate nel mese di ottobre in favore delle Letture Cattoliche. Primieramente veniva un estratto di Lettera Pastorale di Mons. Giovanni Antonio Gianotti Arcivescovo e Vescovo di Saluzzo ai venerandi parroci della sua diocesi.

                …Prima di chiudere questa nostra lettera non possiamo a meno di eccitare il vostro zelo per la propagazione di un libretto periodico, la cui lettura, attese le circostanze dei tempi, crediamo sommamente utile alle famiglie cristiane.

                Voi lo sapete, Ven. Fr., che alcuni anni sono, con apposita Lettera pastorale diretta ai fedeli di nostra diocesi, abbiamo dimostrato i gravissimi danni che cagionano alla fede ed al buon costume tanti libri e fogli empi e licenziosi, di cui sono inondate le nostre contrade. Ora, vedendo che questi danni si hanno pur troppo tuttavia a deplorare, vi suggeriamo di voler unire la vostra alla nostra sollecitudine e vegliare non solo per impedire, che il nemico delle anime semini di nascosto la zizzania nel campo evangelico, ma adoperarvi colla più industriosa carità per ispargere dovunque la buona semenza della parola di Dio e delle cattoliche dottrine. La qual cosa si potrà da voi eseguire non solo colle apposite istruzioni, che farete in chiesa, ma ancora col [87] disseminare nelle famiglie l'accennato libretto intitolato Letture Cattoliche, che già altre volte vi abbiamo raccomandato. Sia per la scelta degli argomenti, sia per la chiarezza dell'esposizione e dello stile, sia finalmente per la modicità della spesa, ci parve il più adattato all'intelligenza, come ai bisogni del popolo. E tanto più caldamente potrete raccomandarne la lettura, in quanto che il medesimo supremo Gerarca della Chiesa, Pio IX, degnavasi d'incoraggiare i collaboratori della pia impresa a continuarvi, e di più, per mezzo di circolare di S. Em. il Cardinale Vicario, eccitava tutti gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato Pontificio a diffondere il più che fosse possibile queste Letture Cattoliche per tutte le città e castelli soggetti alla spirituale loro giurisdizione.

                Preghiamo, Ven. Fr., il Dio delle misericordie, affinchè riguardi con occhio pietoso le afflizioni della sua Chiesa, e faccia risplendere sopra la nostra cara patria giorni più sereni e tranquilli per la nostra santa cattolica religione, e che intanto ci accordi la pazienza, il coraggio e lo zelo di cui, come suoi fedeli ministri, abbisogniamo per combattere le sue guerre, trionfare de' suoi nemici, e condurre le anime, affidate alla nostra cura spirituale, al sospirato porto della beata eternità.

                Saluzzo, il 9 ottobre 1858.

GIOVANNI Arciv. Vescovo.

G. GARNERI Segretario.

 

                Il Can. arciprete della Nostra Cattedrale s'incarica dell'associazione e della distribuzione mensile dei fascicoli.

                Altra lettera circolare era pure indirizzata da Sua Eccellenza Reverendissima l'Arcivescovo di Vercelli ai Molto Reverendi parroci della sua diocesi.

 

                               Molto Ill.re e Rev.do Signore,

 

                Egli è fuor d'ogni dubbio che, allorquando l'empietà fa tutti gli sforzi per diffondere i perniciosi suoi scritti, non vi è, nè vi può essere opera più santa e più salutare di quella, per cui altri sì [88] studii di apprestar buoni libri, i quali mirino a conservar nell'animo dei Cattolici la integrità della fede e la santità del costume.

                E ciò tanto più qualor si tratti di allontanare dal pericolo della seduzione quella porzione eletta del cristianesimo la quale, se per la semplicità della sua fede e de' suoi costumi è a Dio più cara, è però più esposta al rischio di restare imbevuta di quei falsi principii, che la irreligione ed il libertinaggio vanno continuamente disseminando.

                Ond'è che sarà sempre meritevole degli elogi di quanti sono veri amici del popolo colui, il quale al veleno, che per mezzo di empie scritture vien propinato, oppone l'efficace antidoto di libri, i quali, e per la facilità del dettato, e per l'amenità del racconto, e per la tenuità del prezzo, possono facilmente giungere alle mani delle classi anche meno istrutte e facoltose, ed essere letti con grande spirituale profitto.

                Or il bisogno di porre un argine alla inondante colluvie di libercoli contrarii alla santa nostra fede ed ai buoni costumi dei nostri popoli, fu vivamente sentito da un pio, dotto e zelante sacerdote, il quale per ciò appunto inaugurava in Torino, sei anni or sono, la tanto utile associazione a quelle Letture, le quali pel fine che si propongono di raffermare gli spiriti ed i cuori nella vera fede e nella sana morale, sono veramente degne del glorioso titolo di Cattoliche, che portano in fronte.

                Nè i fascicoli mensili fin qui pubblicati falliscono allo scopo che la Direzione si proponeva, che anzi felicemente lo raggiungono. Osserviam di fatto lo stile pianissimo in cui sono dettati, la varietà ed amenità dei temi che trattano, la forma d'ordinario dialogistica con cui li espongono, le vite dei Santi che vengonsi mano mano alternando con materie istruttive e talor apologetiche i racconti che servono mirabilmente ad inspirare l'amore ad una virtù o l'orrore ad un vizio, il prezzo finalmente dell'annuale associazione non maggiore di L. 1, 80, e dovremo conchiudere che, se nulla poteva essere più opportuno ai tempi che corrono e più vantaggioso ai fedeli, nulla eziandio poteva meglio desiderarsi, perchè le Letture Cattoliche fossero alla portata di tutti, ed a tutti di facile acquisto.

                Di questa così commendabile Associazione io feci parola a V. S. Molto Ill.re e Rev.da nell'anno scorso, coll'occasione che [89] diramava una Pastorale sulla Fede Cattolica nel Divin Sacramento e Le raccomandai di promuoverla fra i suoi parrocchiani. Ora però che ben veggo come gli sforzi dell'empietà non cessano, ma si fanno ognor più audaci ed aprono l'adito a libri ed a giornali pessimi fin anco nei piccoli paesi, io crederei di venir meno ad un sacro mio dovere, se non Le rinnovassi l'invito a raccomandarle con tutto lo zelo al suo gregge; persuaso che sempre, ma specialmente nella invernale stagione cui andiamo incontro ed in cui i lavori della campagna o cessano o scemano, si potranno cogliere in abbondanza da cotali Letture quei frutti preziosi, che son nate fatte a produrre nel cuore di chi si faccia a percorrerle.

                E questo invito io glielo rinnovo tanto più volentieri, avendo testè veduto nel fascicolo VII delle Letture Cattoliche di quest'anno, che l'Eminentissimo Cardinal Vicario per ordine del Regnante Sommo Pontefice ha diramato nel p. p. maggio una circolare in cui si leggono queste parole che le trascrivo: “La Santità di nostro Signore sempre intenta al vero bene di tutti ed informata appieno del vantaggio riportato da queste Letture Cattoliche nei luoghi ove sono state attivate, ha approvato e lodato il pio divisamento d'introdurle anche nello Stato Pontificio, ed a tal fine mi ha autorizzato ad invitare gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato medesimo, per l'aiuto e sostentamento di sì bella impresa, diffondendola il più possibile nelle città e castelli soggetti alla spirituale loro giurisdizione”.

                Dopo le quali parole che ben dimostrano quanto il Sommo Pontefice apprezzi le Letture Cattoliche e quanto gliene stia a cuore la maggior possibile diffusione, certo io crederei di fare opera inutile se Le volessi aggiungere nuovi motivi per muoverla a raccomandare caldissimamente la sullodata Associazione.

                Ma se questa stima specialissima che il Santo Padre tiene delle Letture Cattoliche basta e soprabasta, perchè io sia certo ch'esse, per opera di V. S., verranno più largamente diffuse in cotesta sua Parrocchia, non posso però, nè debbo lasciar d'invitarla a vegliare con ogni maggior sollecitudine, perchè non s'introducano fra il suo popolo gli scritti d'irreligione e del libertinaggio, ed insieme a far pregare continuamente e fervorosamente per la estirpazione delle eresie e per la propagazione della cattolica fede. [90] Nella ferma fiducia pertanto che, per di Lei cura, le Letture Cattoliche troveranno fra i suoi parrocchiani gran numero di associati, passo all'onore di raffermarmi con ben distinta stima Di V. S. M. Ill.re e Rev.da

                Vercelli, 18 ottobre 1858

Dev.mo aff. Servo

ALESSANDRO Arc.

D. MOMO Segr.

 

                Lieto D. Bosco di tali incoraggiamenti celebrava la festa dell'Immacolata Concezione di Maria SS. Tanto più che in quest'anno un portentoso avvenimento aveva in tutto il mondo fatto risuonare la gloria e la bontà della celeste Madre e D. Bosco l'aveva narrato più volte ai suoi giovani e più tardi ne consegnava alle stampe la relazione. L'11 Febbraio 1858 l'innocente pastorella di 14 anni Bernardetta Soubirons usciva da Lourdes piccola città ai piedi dei Pirenei per andare alla campagna e raccogliere un po' di legna per la cucina di sua famiglia. Non sapeva nè leggere, nè scrivere: tutta la sua istruzione si riduceva al Pater, Ave, Gloria, Credo. Non aveva ancor fatta la sua prima comunione. Giunta in falda ad una grotta detta di Massabielle, mentre voleva passare il canale quasi asciutto di un molino, ecco un rumore, un soffio, come di vento gagliardo, si fa sentire rimanendo immobili tutti i rami delle piante. Meravigliata Bernardetta volge il guardo verso la grotta e tutta tremante si getta ginocchioni a terra. Al disopra di questa, in una nicchia rustica, alla quale giungevano i lunghi rami di un rosaio selvatico, tra lo splendore di una luce magnifica, stava ritta, librata in aria una Signora graziosissima sopra ogni concetto, meravigliosamente luminosa e bella. [91]

                Di statura mezzana, volto ovale, perfettamente regolare, occhi azzurri, soavi e dolci oltre ogni dire, aveva l'aspetto di una giovane sui vent'anni. Dal viso suo splendeva una bellezza, una grazia, una maestà ed una gravità, una sapienza, una virtù superiore ad ogni immaginazione. Le sue vesti candide come la neve: portava cinta ai fianchi una fascia di color celeste azzurro, la quale, annodata sul davanti, pendeva fino ai piedi duplicata. Avvolgevale il capo un bianco velo, il quale svolto copriva le spalle, e scendeva giù lungo tutta la persona. I suoi piedi posavano leggermente sui rami del rosaio senza farli piegare, e sopra ciascuno dei due piedi eravi una rosa fiorita. Le sue mani, divotamente giunte, tenevano un rosario, i cui grani bianchi parevano infilzati in un cordone di oro. E sembrava recitasse questa preghiera, poichè vedevansi i grani scorrere tra le sue dita, ma le sue labbra non si movevano, e gli occhi teneva rivolti su Bernardetta.

                Bernardetta sulle prime atterrita trasse fuori il suo rosario, ma non le bastarono le forze per farsi il segno della croce: la Signora segnossi quasi per incoraggiarla.

                La fanciulla sentì allora svanire ogni sua paura e con una viva gioia incominciò a recitare il rosario. Come l'ebbe terminato la visione disparve. Diciotto furono le apparizioni dall'11 febbraio al 16 luglio sempre alla sola Bernardetta e nello stesso luogo. Il 18 febbraio quella Signora le aveva per la prima volta fatto udire il suono della sua voce:

                 - Fammi il piacere di venir qua per quindici giorni di seguito. - Delle poche parole che Ella pronunciò con volto ora sorridente ed ora mesto, memorabili sono queste: - Io non ti prometto di farti felice in questo mondo, ma nell'altro. - Desidero che qui venga gente. - Pregate per i peccatori [92] Penitenza, penitenza, penitenza. - Figliuola, da parte mia fa sapere ai sacerdoti che desidero, mi venga eretta qui una cappella! - Il 25 febbraio Bernardetta per suo comando, in un canto arido, oscuro della grotta, colle mani faceva un piccolo scavo nel terreno ed ecco zampillare una fontana di acqua perenne che dà ancora oggigiorno circa cinquemila litri di acqua all'ora. Il 25 marzo richiesta per tre volte del suo nome con infinita dolcezza rispondeva: - Io sono l'Immacolata Concezione. -

                Fin dalla prima apparizione, la gente avutane notizia correva a quella grotta a decine e decine di migliaia, l'acqua della fontana operava miracoli senza numero e più luminosi del sole e non bastavano i confessori a contentare i fedeli, che desideravano riconciliarsi con Dio. E così incominciò quella serie di meraviglie, che resero il santuario di Lourdes una testimonianza continua della potenza di Maria.

                I giovani dell'Oratorio, sempre più accesi da questi racconti di amore per la Madonna, avevano fatto quella novena e quella festa con particolare fervore, e molti si erano scritti gli atti di pietà, che si proponevano di praticare in quei giorni. Era stato questo un consiglio di D. Bosco. Magone scrisse pure i suoi proponimenti ed erano di questo tenore:

                “Io Magone Michele voglio far bene questa novena e prometto di:

                1. Staccare il mio cuore da tutte le cose del mondo per darlo tutto a Maria.

                2. Fare la mia confessione generale per avere poi la coscienza tranquilla in punto di morte.

                3. Ogni giorno lasciare la colazione in penitenza de' miei peccati, o recitare le sette allegrezze di Maria a fine [93] di meritarmi la sua assistenza nelle ultime ore di mia agonia.

                4. Col consiglio del confessore fare ogni giorno la santa Comunione.

                5. Ogni giorno raccontare un esempio a' miei compagni in onore di Maria.

                6. Porterò questo biglietto ai piedi dell'immagine di Maria e con questo atto intendo di consacrarmi tutto a Lei, e per l'avvenire voglio essere tutto suo sino agli ultimi istanti della mia vita.”

                Le pratiche suddette gli furono concesse da D. Bosco ad eccezione della confessione generale, che aveva fatto non molto tempo prima; e il lasciare la colazione commutatagli nel recitare ogni giorno un De profundis in suffragio delle anime del Purgatorio.

 

 

CAPO VIII. Il sermoncino della sera - D. Bosco sulla tribuna - Sua eloquenza - Industria per dare pascolo alla fantasia dei giovani - Parlate nel mese di dicembre - Napoleone: il catechismo e la prima Comunione - Gregorio Nazianzeno, Basilio e Giuliano apostata agli studi in Atene - Correggersi dai difetti e dalle mancanze leggere - Non insuperbirsi per le lodi e mantenersi calmi e pazienti per i biasimi - Una vittoria sul rispetto umano ricompensata - Non vergognarsi di essere obbedienti a Dio Dopo il sermoncino - Sala destinata per le rappresentazioni drammatiche - Regolamento pel teatrino.

 

                L'edifizio morale dell'Oratorio si manteneva stabile e splendido ed erane la chiave maestra il discorsetto di tutte le sere dopo le orazioni. Don Bosco non cedeva ad altri questo, che egli stimava suo dovere, a meno che non fosse stato assolutamente impedito; e non voleva che il suo supplente parlasse più di tre o cinque minuti secondo che esigeva il bisogno e la circostanza. Egli consigliava: - Poche parole; una sola idea di maggior importanza, ma che faccia impressione, sicchè i giovani vadano a dormire ben compresi della verità stata loro esposta. [95] Ma il desiderio dei giovani era di ascoltar lui che tanto li amava.

                Così si esprime il Teol. Ballesio, nella sua Vita intima di D. G. Bosco. “Terminata la scuola serale di canto e di suono per gli uni, di grammatica e di aritmetica per gli altri, alla concitata ed argentina chiamata del campanello, ci adunavamo per la preghiera. Caro e sublime momento; il mio cuore tripudia di dolcissima gioia a pur rammentarlo! S'intona una lode e trecento giovani fanno un coro imponente, che i cittadini odono da lontano. Tutti insieme ad alta voce si prega con D. Bosco in mezzo a noi, ginocchioni sul pavimento di pietra, o nel parlatorio, o sotto il porticato. Ed oh se era bello e santamente composto D. Bosco in quegli istanti! Finita la preghiera, egli dolcemente aiutato da noi montava sulla piccola tribuna, ed al vederlo comparire lassù con quel suo sguardo paternamente amorevole e ridente, che si aggirava su di noi, udivasi in tutta quella grande famiglia un senso, una voce, un dolce mormorio, un lungo respiro di soddisfazione e di contentezza. Poi in religioso silenzio, gli occhi e gli sguardi di tutti fissi in lui”.

                In quel momento alcuni alunni gli presentavano gli oggetti trovati, che venivano annunciati e restituiti al proprio padrone. Quindi incominciava a parlare. Il suo aspetto diceva chiaro: - Tutto quello che io faccio non sono che mezzi da me adoperati per riuscire a salvarvi eternamente; e quanto tollero di fatiche e di stenti, tutto è per le anime vostre. O figliuoli ascoltare i precetti del padre, e così fate per esser salvi[1]. E D. Bosco comunicava [96] ordini per l'indomani, raccomandava, qualche opera di pietà, faceva la commemorazione di un benefattore defunto, dava qualche breve spiegazione del catechismo. In ogni occasione raccomandava agli alunni la frequenza dei santi Sacramenti, senza farne loro una obbligazione speciale; ma invitavali con tanta soavità, li infiammava con tanto ardore, da ottenere quanto desiderava; promoveva con ardore impareggiabile la visita al SS. Sacramento, imparadisava parlando della bontà, provvidenza e misericordia di Dio; accennava alla passione di Gesù Cristo, e allora lo si vedeva talvolta entusiasmarsi ed altre volte commuoversi in guisa da restarne soffocata la parola.

                Era di una varietà sorprendente sicchè la sua parola non recava mai noia o disgusto. Da tutta la sacra Bibbia, dalla Storia Ecclesiastica e da moltissime storie profane di popoli antichi e moderni; dalle vite dei Santi, dei filosofi, degli artisti celebri; dalle opere del Magister sententiarum, Giovanni Gersone, celebre cancelliere dell'università di Parigi; dai Bollandisti, e da altri moltissimi autori aveva raccolto un tesoro inesauribile di fatti e sentenze che egli esponeva mirabilmente ogni volta che facevano pel suo argomento.

                Raccontava anche privati e pubblici avvenimenti contemporanei, accompagnati con una riflessione adattata al bisogno ed all'ammaestramento dei giovani.

                Ma D. Bosco parlando non aveva solo per fine immediato l'ordine morale ed il progresso spirituale, ma procurava eziandio, con mezzi molteplici ed appropriati, di impossessarsi delle menti dei giovani, a fermare la loro volubilità. Pel momento un sol fatto ce ne faccia intravedere molti altri, che a tempo debito esporremo. [97]

                Quando D. Bosco aveva stabilito di concedere una passeggiata o dare altro simile divertimento ai giovani, indettava un prete, il quale poi a metà del discorso della sera lo interrompeva, chiedendogli se non gli sembrasse conveniente concedere ai giovanetti quello spasso. D. Bosco faceva qualche obbiezione ed osservazione, dimostrandosi esitante a concedere. L'altro instava. I giovani naturalmente prendevano interesse vivissimo ad una disputa che speravano riuscisse a loro favore, e finalmente Don Bosco concedeva. Questi dialoghi servivano per ottenere certe promesse di miglior condotta, manifestare certi disordini da rimediare, rimproverare certe mancanze ecc. contro la regola, ma senza offendere nessuno, con maniere festive, e con sicurezza di ottenere un grande miglioramento. Con ciò si tenevano le menti dei giovani occupate, e talora per più settimane, nel pensiero di ciò che era stato annunziato, e quindi era questo l'argomento dei loro discorsi, ne scrivevano a casa, sospiravano il giorno aspettato, formavano i loro allegri progetti e ne restavano quindi escluse dal loro cuore le fantasie, che avrebbero potuto recar danno all'anima. Per lo stesso motivo promoveva ed annunziava colle descrizioni più seducenti ora feste religiose, ora accademie, o teatrini, o lotterie. Talvolta raccontava avvenimenti portentosi, descriveva sogni di una bellezza incomparabile o palesava i grandiosi progetti che andava meditando.

                I giovani e i chierici rimanevano così impressionati da questi sermoncini di D. Bosco, che il domani alcuni di essi li scrivevano sopra un quaderno, anche per conservare gli ammonimenti ascoltati e, rileggendoli, farne profitto. A noi furono consegnati non pochi di [98] questi scritti e da venerandi sacerdoti della nostra Pia Società, e da preti diocesani e da illustri secolari nostri antichi allievi, come cari ricordi della loro fanciullezza, perchè fossero da noi tracopiati. Sono semplici tracce, ma talvolta prolisse: manca, ma non del tutto la santa unzione dell'uomo di Dio; la forza della sua parola languisce: tuttavia avvi molto del suo spirito, e ci fanno rivivere in quegli anni benedetti, ne' quali essi ebbero l'inestimabile fortuna di abitare con lui.

                È perciò che noi a quando a quando riporteremo i preziosi compendii delle parlate del nostro caro padre; incominciando da alcune da lui dette nel dicembre, in sei distinte sere. Siccome queste nel manoscritto non sono precisate, così le distingueremo con numeri romani.

 

I

 

                Napoleone Buonaparte benchè nemico del Papa, superbo, di un'immensa ambizione, pure aveva fede e, rilegato a Sant'Elena, parlando di Dio, ne discorreva in modo che tutti ne rimanevano incantati.

                Una volta un suo generale gli disse: - Ma voi parlate di Dio così che pare lo vediate: io invece non so persuadermi che Dio esista.

                Napoleone a queste parole replicò: - Prendete un compasso e poi misurate il cielo!

                 - Ma non si può, rispose il generale.

                 - Ebbene, concluse l'Imperatore: negate allora che il cielo esista.

                Altra volta accorgendosi che un altro suo generale ne sapeva poco di religione, egli stesso si mise a parlargliene. Quindi concluse: - Avete capito?

                 - Ben poco, rispose l'altro.

                 - Come non avete capito? Che ingegno piccolo è il vostro! Ebbi torto a farvi generale. [99]

                Napoleone aveva un grande ingegno e alcune delle pagine da lui scritte potrebbero essere poste fra quelle dei Santi Padri. In fine di vita si convertì e fece una morte da buon cristiano. Ma sapete perchè? Da giovanetto aveva studiato bene il Catechismo, aveva fatta bene la sua prima comunione.

 

II

 

                In Atene si trovavano due studenti. Uno chiamavasi Gregorio Nazianzeno, l'altro Basilio. Essendo compagni, si amavano teneramente e il fine della loro amicizia era l'edificazione vicendevole e il crescere sempre meglio nella virtù. Era una delizia vedere come stavano in chiesa, come cantavano le lodi del Signore, come pregavano, come facevano progressi nella scienza. Era pure con loro un terzo compagno di nome Giuliano. Il suo viso avea l'impronta della cattiveria, il suo sguardo svelava una malizia precoce, sul suo labbro errava un sorriso maligno. I due buoni amici si accorsero come costui fosse un compagno malvagio e lo fuggivano continuamente, benchè colui cercasse di avvicinarli. Giuliano li derideva tutte le volte che li vedeva andarsi a confessare, a comunicare, e ad altri esercizi di pietà. Gregorio un giorno diceva a Basilio: - Guai, guai alla Chiesa se costui salirà sul trono dei Cesari. Sarà il più formidabile persecutore dei Cristiani. - Giuliano era nipote dell'Imperatore Costanzo. E fatto si avverò. Giuliano divenne imperatore, fu detto l'apostata e divenne nemico ferocissimo di Gesù Cristo. Ma non scampò lo sdegno del Signore, poichè dopo alcuni anni di governo, perì in una battaglia, bestemmiando il nome di Colui, che non aveva voluto confessare per Dio. Gregorio e Basilio invece, crescendo sempre più in virtù di mano in mano che crescevano in età, divennero due grandi luminari della Religione. Ambedue ora sono venerati sugli altari, l'uno e l'altro santi Dottori della Chiesa. Ecco, o miei cari giovanetti, come colui il quale vuole realmente divenir grande, ha bisogno di incominciare fin da giovane a battere coraggiosamente la via della virtù. Chi incomincia bene da giovane ha tutto a sperare che il Signore lo aiuti in ogni circostanza della sua vita, ma se in tempo di gioventù poco o nulla si cura di religione,  [100] anzi cerca ancora di deridere gli altri, che la praticano, costui tema, ma tema molto, perchè tardi o tosto lo sdegno di Dio piomberà sopra di lui.

 

III

 

                S. Filippo giovanetto, essendo ancora a Firenze, soleva frequentare il convento dei Domenicani, ed uno di quei frati più d'una volta narravagli il seguente fatto. Due religiosi erano soliti, prima di andare a recitare il mattutino in coro, di confessarsi l'un l'altro. Una notte il demonio si volle burlare di essi, quindi all'ora prefissa andò a bussare alla porta di uno di quei due frati, invitandolo a scendere in chiesa. Il frate credendo essere stato chiamato dal compagno, andò e giunto in coro vide uno, che all'aspetto, all'abito, al passo sembrava tutto il suo compagno, andarsi a porre in confessionale. Quindi egli si accostò alla grata per confessarsi secondo il suo costume. Mentre esso raccontava alcune sue colpe con sua meraviglia si udiva rispondere: - Oh! È niente! è niente! - Tuttavia procedendo nell'accusa, e avendo, manifestata una mancanza più grave, udì la voce del confessore che continuava a ripetere: è niente; è niente! - Allora dubitando di qualche inganno si fece il segno della croce e subito tacque la voce del confessore. Fece un'interrogazione e nessuno, rispose. Guardò ed il confessore ossia il diavolo era scomparso. Figliuoli cari, tenete a memoria che la solita parola che usa il demonio quando vuole spingerci al male si è: Oh! è niente! Di certe amicizie troppo spinte e che i superiori vedono mal volentieri: - Oh! è niente! - Di certe mormorazioni contro i compagni e contro le regole: - Oh! è niente! - Certe volte si ruba un po' di frutta ai compagni e il demonio ripete: - Oh! è niente! - Di quelle disubbidienze a certi comandi, di certe merende fuori di tempo: - Oh è niente! - Talora certi dubbi gravi, che ci vengono su certe azioni o certi pensieri e che abbiamo rossore di confessare: - Oh è niente!

                Non vi dico di riputar cose gravi le cose leggiere, ma però, vi metto sull'avviso, che non diate ascolto al demonio, quando vi ripete che è niente. Una mancanza sarà sempre mancanza e quindi bisogna correggersi. E poi non dimenticate che qui spernit modica paulatim decidet. [101]

 

IV.

 

                Un giovane presentossi un giorno a S. Macario per essere accettato da lui come discepolo. S. Macario lo accolse amorevolmente e gli disse: - Vedi là quel cimitero?

                 - Si Io veggo.

                 - Ebbene va fra quei tumuli e di loro tutte le imprecazioni, tutti gli improperii, tutte le parole di scherno che saprai e che potrai inventare.

                 - Subito! rispose il giovane: e andò e fece come S. Macario aveagli comandato. Dopo circa un'ora ritornò e S. Macario gli chiese: - Hai fatto ciò che ti dissi?

                 - Sì lo feci!

                 - Ritorna adunque fra quelle tombe e incomincia a far loro tutti gli elogi, i complimenti, i panegirici, le adulazioni che saprai e che potrai inventare.

                Il giovane ritornò al cimitero e ad alta voce prese a lodare tutti quei morti, come se fossero eroi di scienza, coraggio, virtù, santità; quindi si presentò a S. Macario.

                S. Macario lo interrogò di bel nuovo: - Hai fatta l'obbedienza?

                 - Sissignore!

                 - Che cosa hanno risposto quelle tombe ai tuoi improperii ed alle tue lodi?

                 - Niente!

                 - Ebbene, se tu vuoi essere mio discepolo devi mostrarti impassibile e morto, come quelle tombe, a quante ingiurie e a quante lodi ti potranno da qui innanzi essere fatte!

                Grande è la virtù dell'indifferenza, o miei cari, in tutto ciò che può toccarci di bene o di male, e ciò per amor di Dio. Non già che io voglia esigere da voi la perfezione di questa virtù, ma sibbene desidero che siate meno sensibili agli elogi, e alle critiche. E ciò in faccia a Dio e in faccia agli uomini. Talora si vede un giovane che ha qualche speciale dono dal Signore, che è riuscito a far bene il suo lavoro, o ad avere un posto distinto nella scuola o un bel voto all'esame, pavoneggiarsi, ringaluzzir tutto per l'onore guadagnato, credersi perciò qualche cosa di [102] grosso, andare a stuzzicare l'uno e l'altro per farsi ripetere il proprio panegirico, tenere i proprii compagni come inferiori a sè e offendersi se non è trattato come crede meritarsi. Questa è superbia che reca discapito, perchè ci facciam ridere alle spalle, offendiamo la suscettibilità degli altri, e Dio presto o tardi ci umilierà.

                Così vi sono dei giovani, che non sanno soffrire una paroletta e molto meno una burla, un atto ironico, un motto ingiurioso; diventano rossi come la cresta del gallo, saltano su, rispondono per le rime, menano le mani e guai a chi li guarda. E questa è superbia che ci fa mancare alla carità, che ci fa dimenticare il precetto del perdono, ci aliena gli animi dei compagni, e ci rende odiosi a tutti, finchè non troviamo qualcuno più forte di noi, che ci rende pan per focaccia. E allora dispiaceri, malumori, rabbie e brutte figure.

                Dunque se siamo lodati, se le nostre cose van bene, ringraziamone il Signore: ma siamo umili pensando che tutto viene da Dio e che Dio può toglierci tutto in un momento. Se siamo biasimati osserviamo se il biasimo è ragionevole e correggiamoci: se non è ragionevole, pazienza e calma, sopportiamolo per amore di Gesù, che fu umiliato per noi. Assuefatevi a saper frenare voi stessi che è questo il modo di avere molti amici, e nessun nemico. Se poi vi fosse qualche importuno che non vi lasciasse aver pace ci sono i superiori, che prenderanno le vostre parti. Tuttavia notate che colui il quale è umile ed amorevole sarà sempre amato da tutti, da Dio e dagli uomini. Beati i mansueti perchè possederanno la terra.

 

V

 

                Si legge di un soldato che essendo solito ad esercitare con piena libertà le sue pratiche di divozione, sebbene i suoi compagni poco o nessun conto facessero della pietà, pure egli coraggiosamente la praticava. La prima sera che i commilitoni lo videro inginocchiarsi e recitare le sue preghiere prima di andare a dormire, ruppero per lunga ora in urla, fischi, scherni, battezzandolo per bigotto, gesuita, ipocrita. Ma egli non si commosse, e proseguì tranquillamente nella recita delle sue orazioni. Gli [103] altri vedendo come rimanesse impassibile a tutto quel baccano, a poco a poco fecero silenzio. La sera vegnente di bel nuovo lo burlarono, ma non più così rabbiosamente come il giorno prima; e a poco a poco prima che finisse quel mese, lo lasciarono in libertà di fare ciò che meglio gli piaceva. Intanto siccome prestavasi a fare ogni servizio, a scriver lettere, ad assistere gl'infermi, a surrogare i compagni in qualche loro incombenza, il quartiere incominciò a risuonare delle sue lodi e tutti i soldati volevano essere i suoi amici. Era però giusto che il Signore, il quale non lascia mai di premiare i suoi servi fedeli, coloro che non arrossiscono di confessarsi, di andare alla Comunione, di sentir messa, gli desse segno di sua protezione. Si ruppe la guerra cogli stranieri, e Belsoggiorno, così chiamavasi il nostro soldato, partì col suo reggimento. Venne il giorno della battaglia campale. Tutto l'esercito procedeva per occupare le posizioni prestabilite. Il nemico compariva in lontananza come tante macchie nere, fra le quali vedevansi balenare ai raggi del sole la lama delle baionette. A un certo punto la compagnia di Belsoggiorno si ferma ad uno squillo di tromba. Le schiere nemiche si avanzavano, ma erano ancora lontane. Belsoggiorno in quell'istante si ricordò che non aveva recitati sette Pater, Ave e Gloria, che soleva dire ogni mattino in onore dei sette dolori di Maria Vergine. Senz'altro approfittandosi di quell'alt si getta in ginocchioni sul luogo ove trovasi. I suoi compagni scorgendo quell'atto, e sdegnati per ciò che chiamavano vigliaccheria: - Eccolo là il nostro guerriero, esclamavano; prega adesso ed è tempo di combattere;  e gli scagliavano tutte le villanie delle quali era ricchissimo il loro repertorio. Ma egli continuava i suoi Pater. All'improvviso si fa udire vicina una formidabile detonazione e una stridente gragnuola di ferro passa sul capo di Belsoggiorno. I nemici avevano spinta avanti e mascherata quella batteria dì cannoni. Le grida disperate dei feriti, il rantolo dei moribondi risuonava attorno A nostro soldato, il quale, sulle prime sbigottito, alzato alquanto il capo, che pregando aveva inclinato fino a terra, si vede esser rimasto incolume e tutti gli altri stesi al suolo o uccisi o morenti.

                Ecco, o miei cari figliuoli, come il Signore soccorre coloro che non temono le dicerie del mondo e non si vergognano di confessarsi veri cristiani. [104]

 

VI

 

                L'ultima volta che ebbi il piacere di parlarvi, vi dissi come il Signore proteggesse un soldato il quale non si era vergognato di pregare in pubblico. Stasera farò ancora un'osservazione sul rispetto umano. Quanti cristiani non avrebbero la franchezza di manifestare a quel modo il loro ossequio a Dio! L'uomo talora non ha paura di affrontare il cannone, non teme le armi, non le bestie feroci, non il mare burrascoso, non viaggi per foreste immense, per deserti senza confini, ma poi non si sente il coraggio di vincere un vile rispetto umano, un vile rossore. Ha paura di uno scherno, di un sorriso maligno! Eppure si tratta di obbedire a Dio e alla sua santa Chiesa in cose gravissime; come ascoltar la messa alle feste, astenersi dalle carni venerdì e sabato, accostarsi ai Sacramenti alla Pasqua, non tener bordone a certi osceni parlatori, e via via. E facendo diversamente ne va di mezzo l'eterna salute! Non è questa una pazzia? Perder l'anima per le sciocche parole di qualche minchione, che si riderà della vostra dappocaggine! Ah ricordatevi ciò che ha detto Gesù Cristo: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole, si vergognerà di lui il Figliuolo dell'uomo, quando verrà colla maestà sua e del Padre e de' santi Angeli… E chiunque mi rinnegherà dinanzi agli uomini, lo rinnegherò anch'io dinanzi al Padre che è ne' cieli”.

                Guardate S. Paolo ed imitatelo! Allorquando si recò nella città di Damasco ed entrò nella Sinagoga, manifestò lui stesso la sua conversione, dicendo con franchezza innanzi a tutti - Io sono quello che perseguitava i cristiani; ma ora sono io stesso cristiano. Gesù è il Messia promesso. E il vero Figliuol di Dio. -

                Tutti restarono attoniti alla sua professione di fede, specialmente poi quando videro i suoi miracoli. Gli infermi guarivano al solo tocco delle sue mani, o col baciare il sudario o altro oggetto che gli appartenesse. Così Iddio premiava la generosità colla quale aveva obbedito al suo comando; e quegli che esercitava il mestiere di fabbricare tende di pelli per i soldati, divenne il grande apostolo delle genti. E in lui si avverò la parola del Divin Salvatore: “Chiunque mi confesserà dinanzi agli uomini, anch'io lo confesserò dinanzi al Padre mio che è ne' cieli”. [105]

                Così D. Bosco, aveva parlato nelle prime settimane del dicembre, e ogni volta che terminava il sermoncino come un padre ai figli, pronunciava l'augurio: Buona notte; e i giovani lo ricambiavano con un generale, fragoroso, cordiale saluto: Grazie!

                Disceso dalla cattedra i giovani gli si stringevano attorno bramosi che dicesse a ciascuno di loro una parola confidenziale. Ed egli con grande calma e bontà li accontentava. “A me ragazzo, attesta il Can. Anfossi, avvenne più volte di intendere un amorevole rimprovero o avviso dal solo suo sguardo accompagnato da una stretta di mano; ed essendo io afflitto, senza bisogno di far parola, era da lui inteso e consolato con qualche sentenza morale. E quello che faceva con me, faceva colla stessa amorevolezza con tutti, sicchè i ragazzi si dipartivano da lui per recarsi al dormitorio in silenzio, raccolti e soddisfatti.”

                E l'augurio di D. Bosco li accompagnava, poichè la buona notte era preparata colle sue parole e accompagnata dalle sue prescrizioni. Appena i giovani erano entrati in camerata e mentre si coricavano, un lettore incominciava a leggere per dieci minuti un libro spirituale e finiva con un: Tu autem Domine, miserere nobis, al quale non tutti rispondevano Deo gratias, perchè già presi dal sonno; e si abbassavano i lumi. Al mattino al suono della campana un battimano dell'assistente e un Benedicamus Domino svegliava i giovani, i quali rispondevano Deo gratias per averli il Signore conservati in vita.

                Intanto il sotterraneo sotto la chiesa condotto a termine e destinato per refettorio, potendo per la sua vastità accogliere gran numero di persone, fu deciso che servisse anche per sala di teatro. Il palco scenico si preparava [106] volta per volta, e su questo recitarono le loro parti in modo splendido, Bongiovanni Domenico, un vero gianduia, Gastini, Tomatis, Cora e tanti altri. I drammi commoventi, grandiosi, le commedie con scene di famiglia, le farse spiritose, le mimiche buffe, le musiche scelte, i varii pezzi cantati di opere classiche, le celebri romanze del Ch. Cagliero, le poesie giocose in dialetto piemontese di Bongiovanni Giuseppe, facevano accorrere, invitate, le prime famiglie di Torino. Fino al 1866 queste rappresentazioni ebbero luogo nel refettorio e quindi fu scelta per esse la sala di studio.

                D. Bosco non tardava a preparare un regolamento pei comici!

 

REGOLE PEL TEATRINO.

 

                1. Scopo del Teatrino è di rallegrare, educare, istruire i giovani più che si può moralmente.

                2. È stabilito un capo del teatrino che deve tener informato volta per volta il Direttore della Casa di ciò, che si vuol rappresentare, del giorno da stabilirsi e convenir col medesimo, sia nella scelta delle recite, sia dei giovani, che devono andare in scena.

                3. Tra i giovani da destinarsi a recitare si preferiscano i più buoni di condotta, che, per comune incoraggiamento, di quando in quando saranno surrogati da altri compagni.

                4. Quelli che sono già occupati nel canto o nel suono, procurino di tenersi estranei alla recitazione; potranno però declamare qualche brano di poesia, o d'altro negli intervalli.

                5. Per quanto è possibile siano lasciati liberi dalla recita i Capi d'arte.

                6. Si procuri che le composizioni siano amene ed atte a ricreare e divertire, ma sempre istruttive, morali e brevi. La troppa lunghezza, oltre il maggior disturbo nelle prove, generalmente stanca gli uditori e fa perdere il pregio della rappresentazione e cagiona noia anche nelle cose stimabili. [107]

                7. Si eviti quelle composizioni che rappresentano fatti atroci. Qualche scena un po' seria è tollerata, sieno però tolte di mezzo le espressioni poco cristiane, e quei vocaboli che detti altrove, sarebbero giudicati incivili o troppo plateali.

                8. Il capo si trovi sempre presente alle prove, e quando si fanno di sera non sieno protratte oltre alle ore 10. Finite le prove, invigili che, in silenzio, ciascuno vada immediatamente a riposo senza trattenersi in chiacchiere, che sono per lo più dannose, e cagionano disturbo a quelli che già fossero in riposo.

                9. Il capo abbia cura di far preparare il palco nel giorno prima della recita, in modo che non abbiasi a lavorare nel giorno festivo.

                10. Sia rigoroso nel provvedere vestiarii decenti e di poco costo.

                11. Ad ogni trattenimento vada inteso coi capi del suono e del canto intorno ai pezzi da eseguirsi in musica.

                12. Senza giusto motivo non permetta a chicchessia l'entrata sul palco, meno ancora nel camerino degli attori; e su questo invigili, che durante la recita non si trattengano qua e là in colloqui particolari. Invigili pure che sia osservata la maggior decenza possibile.

                13. Disponga in modo che il teatro non disturbi l'orario solito; occorrendo la necessità di cambiare, ne parli prima col Superiore della Casa.

                14. Nessuno vada a cena a parte; non si diano premi o segni di stima o lode a coloro che fossero da Dio forniti di attitudine speciale nel recitare, cantare, o suonare. Essi sono già premiati dal tempo, che loro si lascia libero, e dalle lezioni che si compartono a loro favore.

                15. Nell'apparecchiare e sparecchiare il palco impedisca per quanto è possibile le rotture, i guasti nei vestiarii e negli attrezzi del teatrino.

                16. Conservi diligentemente nella piccola biblioteca teatrale i drammi e le rappresentazioni ridotte ed adattate ad uso dei nostri collegi.

                17. Non potendo il capo disimpegnare da se solo quanto prescrive questo regolamento, gli sarà stabilito un aiutante, che è il così detto suggeritore. [108]

                18. Raccomandi agli attori un portamento di voce non affettato, pronuncia chiara, gesto disinvolto, deciso; ciò si otterrà facilmente se studieranno bene le parti.

                19. Si ritenga che il bello e la specialità dei nostri Teatrini consiste nell'abbreviare gli intervalli tra un atto e l'altro e nella declamazione di composizioni preparate e ricavate da buoni autori.

Sac. Bosco GIOVANNI

Rettore.

 

                N.B. In caso di bisogno il capo potrebbe affidare ad un maestro fra gli studenti, ad un assistente fra gli artigiani, che esercitassero i loro allievi a studiare e declamare qualche farsa o piccolo dramma.

 

 

CAPO IX. Esclamazione imprudente di una madre - Ordinazione sacerdotale di Don Rocchietti - Generosa carità di Don Bosco - Il Santo Natale: D. Bosco annunzia che finirà di vivere a cinquant'anni se i giovani non pregano per lui - Risposta di D. Bosco agli augurii del chierico Ruffino - Suoi ricordi ed avvisi agli alunni nell'ultimo giorno dell'anno: annunzia che uno di essi morrà prima del Carnevale - Necrologio.

 

                Lo zelo col quale D. Bosco coltivava le vocazioni allo stato ecclesiastico consumava quasi tutte le sue forze; pensieri, parole, azioni erano in continuo movimento per raggiungere questo scopo. È difficile farsi un idea della venerazione che professava a così eccelso stato. In questi anni accadeva un fatto che ciò metteva in piena luce, e nello stesso tempo dimostrava essere cosa indubitata, che D. Bosco vedesse le sorti future di molti, che venivano a lui per ricevere la sua benedizione.

                Un giorno fu a visitarlo la Contessa D… L… accompagnata da quattro suoi figliuoletti e lo pregò di volerli benedire. Quindi gli chiese: - Mi dica un po' che cosa sarà di essi in avvenire. [110]

                 - Lei mi fa una domanda assai singolare, rispose D. Bosco; l'avvenire lo sa solamente Iddio.

                 - Questo lo capisco, replicò la Contessa; a tutti i modi me ne dica qualche cosa, almeno come per augurio. -

                Allora D. Bosco scherzando fece passare in rassegna ad uno ad uno quei fanciulli, dicendo:

                 - Questo verrà un gran generale: di quest'altro ne faremo un grande uomo di Stato: Enrico sarà un dottore che alzerà grido di sè.

                La madre gongolando di sì felici pronostici animava i suoi figli a sperar bene, dicendo: - Oh! figli miei, non siete i soli della nostra famiglia che abbiano occupati posti eminentissimi nella società.

                Il quarto fanciullo era dinanzi a D. Bosco aspettando la sua parte di profezia. La madre ansiosa attendeva. D. Bosco aveva posta la destra sul capo al fanciullo e lo mirava fissamente e con affetto.

                 - E quale sarà la sorte di quest'ultimo? - chiese la Signora.

                 - Della sorte di questo non so se la signora Contessa sarà contenta.

                 - Dica pure ciò che le sembra. Noi facciamo per ridere.

                 - Ebbene: di costui ne faremo un ottimo sacerdote.

                La nobil dama allibbì e benchè fosse veramente una buona cristiana pure, per i pregiudizi del mondo che hanno tanta forza sugli animi dei grandi, quasi riputasse disonorevole avere in famiglia un sacerdote, strinse al suo cuore il fanciullo, come per salvarlo da una disgrazia, e, fuori di se, esclamò: - Mio figlio prete? Piuttosto che egli abbracci un simile stato, prego Dio che me lo tolga di vita!

                D. Bosco colpito da queste parole si alzò in piedi per ritirarsi, tanta fu la sua dolorosa meraviglia. La signora [111] in quell'istante di esaltazione non aveva neppure badato al grave insulto, che faceva a chi era insignito del carattere sacerdotale.

                 - Ma perchè lei vuole ritirarsi? - Proseguì confusa la Contessa a quell'atto di D. Bosco.

                 - Io, rispose D. Bosco, credo di non avere più nulla a fare con una persona, la quale ha in tanta cattiva stima lo stato più bello, più nobile che vi possa essere sulla terra, e son certo che Dio esaudirà la sua insolente preghiera. - La Contessa costernata per quelle frasi risolute e per quella minaccia, balbettò ancora qualche scusa per lenire l'ingiuria, ma presto si conchiuse secco secco quel colloquio. All'indomani la nobil donna, fatte le sue riflessioni sullo sproposito che aveva detto, ritornava a far visita a D. Bosco.

                 - Mi perdoni, gli diceva, la mia impetuosa inconsideratezza. Veda; compatisca la mia posizione. È vero che se mio figlio si facesse sacerdote ne verrebbe per me e per la mia famiglia un grave scapito; io però non voglio oppormi alla volontà di Dio: sono pronta, sono rassegnata ad obbedire.

                 - Signora Contessa, rispose D. Bosco, lei disprezza il più gran dono che Dio possa fare a lei e alla sua famiglia, come è quello di una vocazione così sublime. È un disonore essere prescelto al servizio di Dio?

                 - Le domando nuovamente scusa: preghi per me.

                 - Io pregherò; ma la sua parola venne fissata da Dio dal punto che fu pronunciata. - La povera dama tornò a casa più addolorata di prima. Erano trascorsi alcuni mesi dopo questa visita ed ecco che un parente di quella Signora si presenta a D. Bosco per invitarlo ad andare al palazzo per benedire quel figlio caduto infermo. D. Bosco [112] si ricusò. Ma all'indomani vennero a scongiurarlo vari altri congiunti, amici, la madre stessa in persona, annunziando con lagrime come il piccolo infermo si aggravasse ad ogni istante. I medici in consulto dichiararono di ignorare completamente la natura del male. D. Bosco, benchè a malincuore, finalmente condiscese. Entrò nella stanza del moribondo. Quel povero giovanetto prese la mano a D. Bosco e gliela baciò; quindi guardava con occhio mesto e languido, ora D. Bosco, ora la madre e taceva: era una scena che veramente straziava il cuore. Dopo un lungo silenzio, il figlio fece uno sforzo e, stendendo la mano scarna verso la madre, esclamò: - Mamma, ti ricordi, là da D. Bosco?.... sei tu... e il Signore mi prende con sè! -

                La madre a questo lamento, mandò un grido e ruppe in singhiozzi inconsolabili, dicendo: - No, figlio mio; era il mio amore per te, che mi ha fatto parlare in quella guisa... O figlio mio, vivi all'amore di tua madre... Prega, prega D. Bosco che ti guarisca.

                D. Bosco, commosso, non poteva proferire parola. Infine suggerite alcune ragioni di conforto alla madre, benedisse l'infermo e partì. Il decreto di Dio fu però irrevocabile.

                La preziosa eredità del Signore perduta dal figlio della nobile Dama, toccava ad un poverello dell'Oratorio. Il ch. Rocchietti Giuseppe, con gaudio indicibile di Don Bosco veniva ordinato prete nelle tempora dell'Avvento in quest'anno. Era il secondo sacerdote scelto da Dio fra gli alunni di Valdocco.

                D. Rocchietti, come tutti gli altri suoi compagni, aveva sempre esperimentata la gran carità di D. Bosco. Un giorno abbisognando assolutamente di una veste talare. [113] si recò nella camera di D. Bosco pregandolo a provvedergliela. Non aveva più parenti e mancava di ogni mezzo. In quel mattino stesso era stata portata a D. Bosco una veste nuova di cui egli pure abbisognava. Or bene; alla preghiera del Ch. Rocchietti, facendo egli il suo solito sorriso, gli disse: - Eccone qui una mandata a bella posta per te: Vedi un po' se ti sta bene. - E gliela diede. Il Ch. Anfossi incontrò Rocchietti nel mentre se ne ritornava nella sua cella giubilante e l'udì narrare l'atto caritatevole di D. Bosco.

                Il prete novello amava D. Bosco e quantunque malaticcio, desiderava stare con lui. All'aspetto sembrava Sant'Alfonso Maria de' Liguori; e non si può dire quanto fosse viva in lui la pietà, ardente la sua predicazione, continue le sue belle azioni.

                La festa della sua prima messa, celebrata il 19 dicembre, servì ai giovani di preparazione a quella del S. Natale, celebrata alla mezzanotte con gran fervore e raccoglimento, tanto più che erano stati profondamente colpiti da una parola di D. Bosco. Egli aveva detto che la propria vita non poteva naturalmente durare oltre i 50 anni; e che il prolungamento di questa sarebbe stato concesso alle preghiere dei giovani.

                Da questo giorno, nelle feste, toccò a D. Rocchietti celebrare la Santa Messa alle 10 del mattino prima della predica. Finora era stata celebrata da D. Bosco, che da quel punto prese a dirla alle 5, pronto però a supplire D. Rocchietti quando mancava. Alle 7 saliva all'altare D. Alasonatti e un gran numero di interni ed esterni faceva la S. Comunione. Prima di questa messa era proibito ogni giuoco.

                Una grande occupazione aveva D. Bosco in questi [114] giorni; scrivere lettere di augurio ad un gran numero di persone benefiche e rispondere a tutti gli augurii, che gli giungevano da ogni parte. E non dimenticava i suoi giovani amici.

 

                Al signor chierico Ruffino nel Seminario di Bra.

 

                               Car.mo Ruffino,

 

                Ti ringrazio degli augurii che mi fai; Dio centuplichi quanto mi hai pregato. Fa di crescere nell'età e nel timore di Dio. La scienza della Teologia unitamente al santo timor di Dio siano l'oggetto delle tue sollecitudini.

                Viriliter age: non coronabitur nisi qui legitime certaverit, sed singula huius vitae certamina sunt totidem coronae, quae nobis a Domino parantur in coelo. Ora pro me.

 

                28 10 bris. 1858.

Tuus Sac. Bosco.

 

                Il dicembre giunse al suo termine, e nell'ultima sera del 1858 Don Bosco dava nel refettorio nuovo, dopo le orazioni, i seguenti ricordi ai giovani della casa.

                “Passeranno secoli e secoli prima della fine del mondo, altri popoli ed altre nazioni si succederanno sulla terra, ma l'anno 1858 non ritornerà indietro mai più. Il tempo e gli uomini si sprofondano nell'eternità. Questo è il primo pensiero. Il secondo si rivolge all'anno 1859 che incomincia e, come suolsi in questi giorni fare da tutti, io pure auguro a voi una lunga vita. Ma questa lunga vita non è ciò che io più di tutto desidero augurarvi. I santi in questa occorrenza anch'essi solevano a vicenda farsi degli augurii, ma erano ben diversi da quelli, che fa il mondo. Dicevano: - La grazia del Signore sia di continuo con voi in quest'anno. - Possiate fare sempre la volontà di Dio. - La Vergine Santissima vi tenga sempre sotto la sua [115] protezione. - Possiate crescere in meriti colle vostre opere buone.

                 - Anch'io adunque voglio stasera lasciarvi alcuni ricordi che giovino all'anima e questi sono: Ai chierici: buon esempio ricordandosi sempre che sono Lumen Christi. Agli studenti: maggiore frequenza che possono alla SS. Eucaristia. Agli artigiani: siccome non possono frequentare tanto i SS. Sacramenti nei giorni feriali, frequenza ai SS. Sacramenti nei giorni festivi. A tutti in generale poi: buone confessioni, aprire candidamente il vostro cuore al confessore, poichè se il demonio fa tanto di poter indurre un giovane a tacere un peccato in confessione, costui giace in uno stato ben infelice e carico di sacrilegi è sull'orlo dell'eterna perdizione. Dunque confessatevi bene ed oltre la sincerità, in tutte le vostre confessioni vi siano il dolore ed il proponimento fermo: altrimenti sarebbe inutile anzi dannoso l'accostarsi al tribunale di penitenza; invece di benedizioni tireremo sui nostri capi la maledizione. Una cosa poi che abbiamo fra di noi in modo specialissimo, e non la conosciamo abbastanza, si è la protezione di Maria e quanto sia efficace il ricorrere a questa buona Madre. Recitate adunque e fatevi familiari quelle belle parole, che a Lei disse l'Angelo: Ave, Maria, gratia plena: e quelle che la S. Chiesa va ripetendo: Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis. Alla sera quando andate a coricarvi dite sempre: Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis. Al mattino appena siete svegliati ripetete sempre: Ave, Maria e vedrete il mirabile effetto di questa invocazione. Ciascheduno di voi faccia quello che ho detto, e il Signore vi conceda ogni felicità nell'anno, che sta per incominciare. Intanto voi non dimenticate di ringraziare la Divina Bontà dei tanti benefizii, che vi ha impartiti nel tempo trascorso”. [116]

                Ciò detto D. Bosco tacque per un istante, girò lo sguardo affettuoso sulla folla dei giovani, e quindi ripigliò: “Mettetevi tutti nel santo impegno di passare il nuovo anno nella grazia di Dio, poichè forse per taluno di noi sarà l'ultimo anno di vita. Anzi, dirò, soggiungeva, vi è tra i qui presenti un giovanetto, che deve passare all'eternità prima che finisca il Carnevale”.

                Mentre così parlava teneva la mano sopra il capo di colui, che gli era più vicino, ed era Magone. Questi fissandogli in volto gli occhi, che avevano uno splendore di purezza angelica, gli domandò: - Dica! Sono io? - Don Bosco non rispose.

                 - Ho capito, replicò Magone; sono io che debbo farmi il fagotto per l'eternità; bene; mi ci terrò preparato. - Coteste parole furono dai compagni accolte con riso, ma non se ne dimenticarono. Neppure Magone se ne scordò, ma non ne fu alterata la sua allegria e la sua giovialità; onde continuò ad adempiere colla massima diligenza i doveri del suo stato. Così D. Bosco chiudeva il 1858.

                In quest'anno nell'Oratorio non vi era stato alcun funerale. Un sol giovane era passato all'eternità. Morgando Giuseppe da Torino, moriva all'Ospedale del Cottolengo il 24 novembre in età di 17 anni.

 

 

CAPO X. 1859 - Si conferma l'avveramento delle profezie di D. Bosco - Malattia, santa morte e funerali di Magone Michele - Nuove disposizioni ottenute dal parroco pei funerali dei giovani dell'Oratorio - La festa di San Francesco di Sales - Muore Berardi Costanzo - Un documento arretrato in lode di D. Bosco - Sua iscrizione Per la tomba del padre di D. Chiatellino.

 

                L'effetto prodotto nei giovani dalle parole dette da D. Bosco nell'ultima sera dell'anno fu pari alla stima che essi avevano di lui. Il Can. Ballesio, allora studente, che aveale udite e fu testimone del loro avveramento, così scrisse:

                “Sebbene D. Bosco godesse presso di noi fama di uomo riccamente dotato di doni naturali nell'anima e nel corpo, come ingegno, memoria pronta, felice e tenace, grande bontà di animo, fortezza e destrezza fisica: sebbene noi lo credessimo meritamente dotato di molto e svariato sapere, tuttavia quello che ce lo rendeva sopratutto caro e venerando, era la nostra persuasione, che in lui Dio aveva posto, molti doni straordinarii e sopranaturali. È notorio, e noi tutti il crediamo fermamente e fondatamente, che D. Bosco in molti casi aveva il dono della profezia. [118]

                Più di una volta ci annunziò pubblicamente che entro un determinato tempo, breve, per es. un mese, uno della sua già numerosa famiglia, allora in ottima salute, sarebbe venuto a morire. E questo paterno suo annunzio dava in un modo così grave e prudente ed accompagnato da tali consigli, che noi si rimaneva salutarmente impressionati, ciascuno metteva in ordine i fatti suoi; e, senza che cessasse la solita nostra chiassosa allegria, si stava più buoni, si lavorava e si studiava di più, ed il solo a portare la pena della profezia era il profeta medesimo, che aveva molto più da lavorare nell'ascoltare le confessioni fatte con più buoni propositi e nel rispondere a tante interrogazioni che naturalmente gli venivano mosse.

                Ho sentito a dire che D. Bosco, prima senza darlo a vedere e poi a suo tempo ed in modo prudente, disponeva l'interessato. L'evento sempre confermava la predizione ed è per questo che noi gli aggiustavamo fede”.

                Ed ora veniamo alla memorabile profezia. La sera del 31 dicembre un giovane poco lontano da D. Bosco avea udito l'interrogazione di Magone. Costui si chiamava Berardi Costanzo della Chiusa di Cuneo di 16 anni. Alle parole di D. Bosco eragli entrato in cuore la ferma persuasione sè essere il designato, e incominciò a dire: - Tocca a me! - Preparatosi perciò con una buona confessione, scrisse senz'altro una lettera ai suoi genitori, chiedendo scusa dei mancamenti, che aveva commessi quando era a casa; e, congedandosi da loro, affermava dover egli partire per l'altra vita. Chiesta licenza ed ottenutala, volle andare al Cottolengo, ove era stato ricoverato per due anni, a salutare per l'ultima volta il Canonico Anglesio e gli antichi amici. Parlava francamente del gran [119] viaggio, affermando essere al termine de' suoi giorni. Tutti i suoi conoscenti nell'Oratorio e fuori lo credettero monomaniaco. Alcuni giovani andarono narrare a D. Bosco la fissazione di Berardi, ma D. Bosco senza stupirsene rispose con un - Uhm! - che diceva nè sì, nè no.

                Da ciò nella casa nacque il sospetto che realmente fosse Berardi colui che doveva morire. Egli intanto andava tranquillamente ripetendo: - Tocca a me di morire!

                “Una settimana dopo, narrò D. Garino Giovanni, io con altri miei compagni, un mattino in tempo che D. Bosco prendeva un po' di caffè nel refettorio, ci trovavamo secondo il solito accalcati intorno a lui, ridendo e faceziando e desiderosi di sentire dal Servo di Dio alcuna cosa. Non so come, si incominciò a interrogarlo da diversi, quanti anni dovessero. ciascuno vivere. Io pure lo interrogai, e D. Bosco presami la mano, e considerando attentamente la palma della medesima, come soleva fare, quando, da alcuno lo si richiedeva degli anni di vita, che ancor gli rimanessero, mi disse scherzando un certo numero di anni. Come a me, rispose pure ad altri miei compagni, anzi a tutti, un solo eccettuato. Questi fu il santo giovanetto Magone Michele, mio condiscepolo, il quale non sapeva che dirsi di questa eccezione a suo riguardo”.

                Anche gli altri giovani, che osservavano attentamente ogni parola ed ogni atto di D. Bosco, notarono come egli non avesse badato a Magone, che porgevagli la mano e varie furono le loro opinioni, che si riferivano all'avveramento della predizione.

                Intanto la Domenica del 16 gennaio i giovani della compagnia del SS. Sacramento, di cui faceva parte Magone, si radunarono come solevano tutti i giorni festivi. Dopo la consueta preghiera e lettura, dati quei ricordi,  [120] che sembravano più adatti al bisogno, uno dei compagni prende il taschino dei fioretti ovvero dei bigliettini sopra cui era scritta una massima da praticarsi lungo la settimana. Con esso fa il giro, e ogni giovanetto ne estrae uno a sorte. Magone tira fuori il suo e vede sopra di esso scritte queste notabili parole: “Al giudizio sarò solo con Dio”. Lo legge e con atto di meraviglia lo comunica ai compagni dicendo: - Credo che questa sia una citatoria mandatami dal Signore per dirmi che mi tenga preparato. - Dopo andò da D. Bosco e gli mostrò lo stesso fioretto con molta ansietà, ripetendo che egli lo giudicava una chiamata del Signore, che lo citava a comparire davanti a Lui. D. Bosco lo esortò a vivere tranquillo e tenersi preparato, non in virtù di quel biglietto, ma in virtù delle replicate raccomandazioni, che Gesù Cristo fa a tutti nel santo Vangelo di tenerci preparati in ogni momento della vita.

                 - Dunque, replicò Magone, mi dica quanto tempo dovrò ancor vivere?

                 - Noi vivremo finchè Dio ci conserverà in vita.

                 - Ma io vivrò ancora tutto quest'anno? disse alquanto commosso.

                 - Datti pace, non affannarti. La nostra vita è nelle mani del Signore, che è un buon padre; Egli sa fino a quando ce la debba conservare. D'altronde il sapere il tempo della morte non è necessario per andare in paradiso; ma bensì il prepararci con opere buone.

                Allora tutto malinconico: - Se non vuole dirmelo è segno che sono vicino.

                 - Nol credo, soggiunse D. Bosco, che tu sia tanto vicino, ma quando anche ciò fosse, avresti forse a paventare di andare a fare una visita alla B. Vergine in Cielo ? [121]

                 - È vero, è vero. - Presa quindi la ordinaria giovialità se ne andò a fare ricreazione.

                Fu l'unica volta che D. Bosco fidandosi nella virtù e amor di Dio veramente grande, che ornava il cuore di questo giovane, siasi lasciato sfuggire qualche parola di più, che indicassegli, benchè oscuramente, essere vicino il suo ultimo giorno. Ma il turbamento dal quale lo vide agitato, benchè per breve ora, fu tale, che egli fece fermo proponimento di non lasciar mai più trapelare simili segreti coi giovanetti, che Dio designavagli maturi per l'eternità.

                Questa parola detta a Magone erasi risaputa da molti e Berardi mutata opinione incominciò a dire: - Dunque non sono io che devo morire!

                Lunedì, martedì ed il mattino del mercoledì Magone fu sempre allegro, nè provò alterazione alcuna nella sua sanità e adempì regolarmente tutti i suoi doveri.

                Solamente nel dopo pranzo del mercoledì D. Bosco lo vide che stava sul balcone a rimirare gli altri a trastullarsi, senza che discendesse a prendervi parte; cosa affatto insolita, e indizio non dubbio che egli non era nello stato ordinario di sanità.

                Alla sera D. Bosco gli domandò che cosa avesse, ed egli rispose sentirsi alquanto incomodato dai vermi, che era la sua solita malattia. Fu visitato dal medico, che gli prescrisse i rimedii per somiglianti incomodi, ma non ravvisò in lui alcun sintomo di male grave. Senonchè venerdì mattina non potè alzarsi da letto perchè più aggravato. Alle due dopo mezzodì D.Bosco andatolo a vedere si accorse che, alla difficoltà del respiro, erasi aggiunta la tosse e che lo sputo s'era tinto di sangue; e mandò subito a chiamare il dottore. In quel momento sopraggiunse la madre: - Michele, gli disse, intanto [122] che si attende il medico non giudicheresti bene di confessarti?

                 - Sì, cara madre, volentieri. Mi sono soltanto confessato ieri mattina, ed ho pure fatto la S. Comunione; tuttavia vedendo che la malattia si fa grave, desidero di fare la mia confessione. - Si preparò quindi per qualche minuto, fe' cenno a D. Bosco che si avvicinasse e si confessò. Dopo con aria serena, disse ridendo a D. Bosco e a sua madre: Chissà se questa mia confessione sia un esercizio della buona morte, oppure non sia realmente per la mia morte?

                 - Che te ne sembra? gli rispose D. Bosco, desideri di guarire, o di andare in paradiso?

                 - Il Signore sa ciò che è meglio per me; io non desidero di fare altro se non quello che piace a lui.

                 - Se il Signore ti offrisse la scelta o di guarire o di andare in paradiso, che sceglieresti?

                 - Chi sarebbe tanto matto da non scegliere il paradiso?

                 - Desideri tu di andare in paradiso ?

                 - Se lo desidero! Lo desidero con tutto il cuore, ed è quello che da qualche tempo domando continuamente a Dio.

                 - Quando desidereresti di andarvi ?

                 - Io vi andrei sull'istante, purchè piaccia al Signore.

                 - Bene; diciamo tutti insieme: in ogni cosa e nella vita e nella morte facciasi la santa, adorabile volontà del Signore.

                In quel momento giunse il medico, che trovò la malattia cangiata affatto di aspetto.

                 - Siamo male, disse; un fatale corso di sangue si porta allo stomaco, e non so se ci troveremo rimedio.

                Si fece quanto l'arte può suggerire in simili occasioni. Salassi, vescicanti, bibite, tutto fu messo in opera a fine [123] di deviare il sangue che furioso tendeva a soffocargli il respiro. Tutto invano.

                Alle nove di quella sera, Magone chiese con desiderio e gli fu portato il Santo Viatico; e prima di riceverlo disse a D. Bosco: - Mi raccomandi alle preghiere dei compagni! - Fatto un quarto d'ora di ringraziamento, parve che fosse sorpreso da repentino sfinimento di forze. Ma indi a pochi minuti con aria ilare, e quasi in forma di scherzo fe' cenno di essere ascoltato e disse: - Sul biglietto di domenica vi era un errore. Là stava scritto: Al giudizio sarò solo con Dio, e non è vero; non sarò solo, ci sarà anche la B. Vergine che mi assisterà; ora non ho più nulla a temere; andiamo pure quando che sia. La Madonna SS. vuole ella stessa accompagnarmi al giudizio.

                Erano le dieci ed il male appariva ognor più minaccioso; perciò, nel timore di perderlo in quella notte medesima, D. Bosco stabilì che il sacerdote D. Zattini, entrato nell'Oratorio nel 1858, un chierico ed un giovane infermiere passassero la metà della notte con lui; D. Alasonatti poi prefetto della casa, con altro chierico e con altro infermiere prestassero regolare assistenza pel restante della notte sino a giorno. D. Bosco dal canto suo, non ravvisando alcun imminente pericolo, disse all'infermo: - Magone, procura di riposare un poco: io vado alcuni istanti in mia camera e poi ritornerò.

                 - No, rispose tosto il giovane; non mi abbandoni.

                 - Vado soltanto a recitare una parte del breviario, e poi sarò di nuovo accanto a te.

                 - Ritorni al più presto possibile.

                Ma D. Bosco era appena giunto in camera, quando si sentì chiamare in fretta perchè l'infermo pareva avvicinarsi [124] all'agonia. Il sacerdote Zattini Agostino gli amministrava in quell'istante l'Olio Santo e il morente ad ogni unzione aggiungeva una giaculatoria. Gli fu quindi data la benedizione Papale coll'indulgenza plenaria. Sembrò allora che volesse prendere un momento di sonno, ma tosto si risvegliò. Quantunque i polsi facessero conoscere trovarsi egli all'estremo della vita e la rottura di un viscere dovesse cagionargli un patimento generale in tutte le facoltà morali e corporali, pure l'aria serena, la giovialità, il riso, l'uso della ragione era quello di una persona in sanità. Egli di quando in quando recitava devote giaculatorie.

                Scoccavano le dieci e tre quarti quando egli chiamò D. Bosco per nome e gli disse: - Ci siamo, mi aiuti!

                 - Sta tranquillo, gli rispose D. Bosco, io non ti abbandonerò, finchè tu non sarai col Signore in paradiso. Ma poscia che mi dici d'essere per partire da questo mondo, non vuoi almeno dare l'ultimo addio a tua madre? - Sua madre che avevalo assistito era andata a riposarsi alquanto in una camera vicina.

                 - No, gli rispose Magone, non voglio cagionarle tanto dolore. Povera mia madre! Ella mi ama tanto!

                 - Non mi lasci almeno qualche commissione per lei?

                 - Sì, dica a mia madre che mi perdoni tutti i dispiaceri, che le ho dati nella mia vita. Io ne sono pentito. Le dica che io l'amo: che si faccia coraggio a perseverare nel bene: che io muoio volentieri: che io parto dal mondo con Gesù e con Maria e vado ad attenderla dal Paradiso.

                Queste parole commossero profondamente tutti gli astanti. Tuttavia D. Bosco fattosi animo, e per occupare in buoni pensieri quegli ultimi momenti, gli andava di quando in quando facendo alcune domande.

                 - Che cosa mi lasci da dire a' tuoi compagni? [125]

                 - Che procurino di fare sempre delle buone confessioni.

                 - Quale cosa in questo momento ti reca maggiore consolazione di quanto hai fatto nella tua vita?

                 - La cosa che più di ogni altra mi consola in questo momento si è quel poco che ho fatto ad onore di Maria. Sì, questa è la più grande consolazione. O Maria, Maria, quanto mai i vostri divoti sono felici in punto di morte! Ma, ripigliò, ho una cosa che mi dà fastidio; quando l'anima mia sarà separata dal corpo e sarò per entrare in Paradiso, che cosa dovrò dire? a chi dovrò indirizzarmi?

                 - Se Maria ti vuole Ella stessa accompagnare al giudizio, lascia a Lei ogni cura. Ma prima di lasciarti partire pel Paradiso vorrei incaricarti d'una commissione.

                 - Dica pure, io farò quanto potrò per obbedirla.

                 - Quando sarai in Paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli, che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa, abbia a perdersi.

                Farò volentieri questa commissione; ed altre cose? Per ora niente altro, riposati un poco.

                Sembrava difatto che egli volesse prendere sonno. Ma sebbene conservasse la solita sua calma e favella, ciò nonostante i sintomi annunciavano imminente la sua morte. Per la qual cosa si cominciò a leggere il proficiscere. Alla metà di quella lettura, egli, come se si svegliasse da profondo sonno, colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra, disse a D. Bosco: - Di qui a pochi momenti farò la sua commissione, procurerò di farla esattamente; dica a' miei compagni che io li attendo tutti in Paradiso. [126]  - Di poi strinse colle mani il crocifisso, lo baciò tre volte, poscia proferì queste sue ultime parole: - Gesù, Giuseppe e Maria, io metto nelle vostre mani l'anima mia. - Quindi aprendo le labbra come se avesse voluto fare un sorriso, placidamente spirò.

                Quell'anima fortunata abbandonava il mondo per volare, come piamente speriamo, in seno a Dio alle ore undici di sera, il venerdì 21 gennaio 1859, in età appena di quattordici anni.

                Fattosi giorno, alla notizia: Magone è morto, i giovani ruppero in pianto, e nello stesso tempo ripetevano: - In questo momento Magone è già con Savio Domenico in cielo. - Si recitarono intanto molti rosari, l'ufficio dei defunti e si fecero moltissime confessioni e comunioni, mentre ognuno cercava qualche oggetto che gli fosse appartenuto come i quaderni e le pagine, per conservarle quali reliquie. Per dare poi un segno esterno del grande affetto che da tutti portavasi all'amico defunto, fu fatta una sepoltura solenne quanto era compatibile coll'umile condizione della casa.

                Con cerei accesi, con cantici funebri, con musica istrumentale e vocale accompagnarono la cara salma fino alla tomba, dove, pregandogli riposo eterno, gli diedero l'ultimo addio, nella dolce speranza di essergli un giorno compagni in una vita migliore della presente. Fu seppellito nel quadrato di mezzanotte, fila 70, fossa 22, come attestò il vice cappellano D. Fissore.

                Nè qui finirono le onoranze funebri, poichè, in riguardo alle sue straordinarie virtù, fu celebrata nell'Oratorio una messa solenne di trigesima ed il Sac. Zattini, celebre oratore, espose in patetico e forbito discorso l'elogio del giovane Michele. D. Bosco però, volendo impedire che [127] dal funerale di Magone si prendesse motivo di stabilire un'usanza, che sarebbe stata sconveniente per una casa di poveri, d'accordo col parroco si stabilì che le sepolture dei morti nell'Oratorio si farebbero per carità, cioè more pauperum. La permissione ottenuta dal parroco era scritta in questi termini:

                1. Si ordina il trasporto del cadavere in capo alla tettoia, passando per la via di S. Pietro in Vincoli con quattro, tra preti e chierici, vestiti di cotta e seguito di lumi;

                2. Si accorda di accompagnarlo fin là pregando ad alta voce, ma non cantando;

                3. Là giunti i chierici partano subito. Restino i laici con torchie e candele. Seguano il feretro fino alla chiesa e in fine riportino la loro cera a casa.

                4. La bara sia portata come meglio aggrada.

                5. Qui in parrocchia canterassi messa presente cadavere.

 

                Alcun tempo dopo si ottenne di poter celebrare ogni funzione funebre nell'Oratorio, e mandare direttamente la salma al Camposanto, ma senza accompagnamento di clero.

                Dopo i giorni di lutto, un giorno di festa. Il 30 gennaio si celebrava nell'Oratorio di Valdocco la solennità di S. Francesco di Sales. Ne fu priore il signor Delponte Giovenale, al quale si dedicò e stampò un bel sonetto in onore del santo Patrono. Un invito sacro ci conserva la memoria e l'ordine di questa solennità[2]. [128]

                Potrà sembrare cosa superflua che fra i tanti programmi, quasi tutti simili delle nostre molteplici feste religiose, noi riproduciamo questo. Ma una gran ragione ci persuade di perpetuarlo. Il nostro caro Santo dava formalmente il suo nome alla Pia Società Salesiana convocata in questo anno come tale per la prima volta, nome che durerà come nostra insegna e programma per secoli e secoli, se così piacerà a Dio benedetto e alla Sua santissima Madre.

                Mentre svolgevansi questi fatti, Berardi Costanzo, visto morire Magone, più non pensava ai suoi pronostici. Però fra molti giovanetti dell'Oratorio eravi un presentimento che alcun altro tra breve dovesse morire. Quand'ecco che il 25 gennaio D. Bosco annunziava alla sera non essere Magone quello che egli aveva voluto indicare come vicino all'eternità;  che perciò stessero tutti preparati, perchè colui che doveva morire non fosse sorpreso dalla morte in un cattivo momento. E soggiunse: - Ciò accadrà prima che passi un mese. Sarò io, sarete uno di voi? Stiamo preparati.

                Berardi allora, con una sicurezza che tutti sorprese, ripigliò la sua prima frase: - Dunque tocca a me star [129] preparato! - E avvicinatosi a D. Bosco gli chiese: - Sono io che devo morire? - D. Bosco non gli diede risposta. Era sano, prendeva parte ai divertimenti, compieva i suoi doveri come qualunque altro.

                Non si era visto mai tanto fiorire di sanità nei giovani della casa come in quei giorni e sul finir di gennaio, non vedendosi alcun ammalato, più d'uno andava dicendo: - Questa volta D. Bosco la sbaglia e nessuno morirà entro questo mese. - Eravi pertanto una grande aspettazione.

                Il sette febbraio dopo aver pranzato Berardi Costanzo si trovava in ricreazione e poi andava a scuola cogli altri. Il giovane Garino, che aspettava egli pure con ansietà, se avveravasi la parola di D. Bosco, così ci narrava: “Accanto a me nella scuola (era la sala posta al primo piano) ed a mia destra, aveva un compagno più grande di me per nome Berardi. Ci era stato assegnato un lavoro di prova, un tema di versione. Attendevamo ciascuno al nostro compito, quando, verso la metà della scuola, il detto Berardi si rivolge a me e mi dice: - Guarda un po' che cosa ho qui - e mi mostrava col dito il labbro superiore, ove cominciava ad apparire una pustoletta. - Senti, continuò a dirmi, se fosse un po' un male pericoloso? D. Bosco disse che uno in questo mese deve morire. Dopo Magone non c'è morto ancora nessuno: se fossi un po' io il designato! - E così dicendo quasi piangeva, e intanto irritando la pustoletta col troppo fregarla, le fece dar sangue”.

                Dopo la scuola prese ancor parte alla ricreazione della merenda, quindi andò nella stanza di studio e continuò a lamentarsi col giovane Albera Paolo, che la pustola sul labbro cresceva e gli faceva molto male. Nella notte fu assalito dalla febbre e al mattino, non essendosi levato [130] da letto, ad Enria Pietro, che gli portò un po' di brodo, parve quel malessere una cosa da niente. D. Bosco però mandò a chiamare in tutta fretta il medico. Questi avendo constatato trattarsi di carbonchio alla bocca, lo fece trasportare subito all'Ospedale Mauriziano. Malgrado ogni cura Berardi tutto sfigurato moriva all'indomani nove di febbraio; e precisamente prima della fine di un mese dalla morte di Magone e quindi prima del Carnovale, secondo l'annunzio dato da D. Bosco l'ultimo giorno del 1858.

                D. Rua Michele è uno dei duecento testimoni dell'avveramento di queste predizioni.

                Ad un terzo duolo in quei giorni aveva dovuto prendere parte D. Bosco. Più volte era stato a Carignano, eziandio con un numero de' suoi giovanetti cantori. Il parroco Don Capriolo Teol. Giuseppe, il clero, e molti cittadini nutrivano per lui viva affezione. Eguale stima gli professava la famiglia del Senatore Conte Mola di Larissé, che si ricordava con dispiacere non aver egli potuto accettare l'ufficio di precettore di sua nobile figliuolanza:, avendolo D. Cafasso destinato per l'Ospedaletto della Marchesa di Barolo[3]. Ma sovratutto l'amicizia dì D. Chiatellino attraevalo a quella città. Ora essendo morto il venerando [131] vecchio padre di questo santo prete, il figlio e gli altri amici, si rivolsero a D. Bosco, perchè dettasse un'iscrizione da scolpirsi sulla lapide di quella tomba. D. Bosco acconsentì e scrisse, volendo che il marmo funebre predicasse l'amore alla Chiesa Cattolica.

 

                CHIATELLINO DOMENICO - MODELLO DI VITA CRISTIANA - RARO ESEMPIO AI PADRI DI FAMIGLIA - CALDO PROPUGNATORE DELLA MUSICA SACRA - ZELANTE PEL DECORO DELLE ECCLESIASTICHE FUNZIONI - LARGO IN BENEFICARE I POVERELLI - SEBBEN DI MEDIOCRE FORTUNA - FERMO CATTOLICO - COSTANTE NELL'AFFETTO VERSO IL SOMMO PONTEFICE - AMATO DA QUANTI LO CONOBBERO - COMPIANTO DAI PARENTI E DAGLI AMICI - NELLA MATURA ETÀ D'ANNI 80 - MORIVA IL 23 DI GENNAIO 1859 PREGHIAMO CHE L'ANIMA DI LUI - VADA A RIPOSO NELLA BEATA ETERNITÀ - NOI SEGUIAMONE GLI ESEMPI.

 

 

CAPO XI. Il Piemonte preparato alla guerra contro l'Austria - Per una dimenticanza due chierici dell'Oratorio non sono annoverali tra quelli esenti dal servizio militare - Consiglio provvidenziale a D. Bosco del Ministro dei Culti - Il diritto di esenzione è assicurato ai due chierici - Un arruolatore di volontari nell'Oratorio.

 

                Negli ultimi mesi dell'anno 1858 e nei primi del 1859 maturavano avvenimenti, che dovevano mutare le sorti degli Italiani e nello stesso tempo dar campo a D. Bosco di esercitare la sua prudenza e la sua carità. Correvano voci insistenti di guerra, che da lungo tempo andavasi preparando.

                Il Governo Piemontese aveva agguerrito l'esercito, provveduto all'erario, cercate alleanze potenti, costrutte ferrovie e nuove strade di comunicazione tra le provincie, per ritentare la prova di scacciare gli Austriaci dal Lombardo Veneto. Quando il fisco austriaco aveva posto il sequestro sui beni dei fuorusciti lombardi, ritenuti complici della fazione sanguinosa accaduta in Milano nel febbraio del 1853, il Governo subalpino ne faceva forti richiami alle Potenze Europee. E il Parlamento votava allora un credito per compensare i fuorusciti del danno patito. Ciò aveva dato origine al ritiramento degli ambasciatori di Piemonte e d'Austria.

                Poi nel Congresso di Parigi, che, nel febbraio del 1856,  [133] determinava le condizioni della pace colla Russia, il Conte di Cavour muoveva gravi accuse contro il Governo di Napoli, proponeva di separare amministrativamente da Roma le Pontificie legazioni, ossia le provincie di Bologna, Ravenna e Ferrara, e di mettere fine all'occupazione Austriaca in Italia. Una gran colpa aveva l'Austria in faccia alle sette. Era sempre accorsa a difendere il potere temporale del Papa ogni qualvolta lo vedea minacciato.

                Il Congresso però nulla aveva risoluto, ma Cavour dovette certamente ottenere promesse di aiuto dalla Francia e dall'Inghilterra. Infatti i settarii si diedero qua e là a sommuovere le provincie italiane e a raccogliere le file della rivoluzione. Varii governi avevano per bonomia rimessi in tanti ufficii dello Stato, anche dei più gelosi ed importanti, liberali, convinti di aver congiurato contro di essi, persuadendosi che non sarebbero più stati traditori. E così preparavano la propria rovina. Il soldato Agesilao Milano tentava di uccidere con un colpo di baionetta Ferdinando II, e varie torme armate sbarcavano sulle coste del Napoletano; ma capitavano male.

                Finalmente lo scoppio delle bombe Orsini decideva Napoleone ad obbedire alle ingiunzioni dei capi delle sette; e nell'estate del 1858 invitato da lui Camillo Cavour ai bagni di Plombières, fu stabilita verbalmente l'Unità d'Italia sotto la Monarchia Sabauda, la spogliazione della S. Sede riducendo il Papa a un piccolo stato oltre Roma, e la cessione alla Francia di Nizza e Savoia in compenso dell'aiuto, che avrebbero prestato ai piemontesi gli eserciti dell'Impero.

                Tutte queste disposizioni erano tenute segretissime, finchè Napoleone III nel suo discorso al corpo diplomatico, venuto a complimentarlo il dì primo dell'anno 1859, volgendosi all'ambasciatore Austriaco così gli diceva: - Duolmi [134] che le nostre relazioni col vostro Governo non siano più così buone come pel passato! - E tutti intesero essere prossima la guerra.

                Faceva eco a Napoleone Re Vittorio Emanuele, il quale al 10 gennaio inaugurando l'apertura del Parlamento, diceva: - L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno e non siamo insensibili al grido di dolore, che da tante parti d'Italia si leva verso di noi !....

                Il 18 gennaio Cavour e Lamarmora a nome del Re, il principe Napoleone ed il generale Niel a nome dell'Imperatore, firmarono in Torino il trattato di alleanza difensiva tra la Francia ed il Piemonte. Il 17 febbraio le camere votavano un imprestito di cinquanta milioni per la difesa nazionale, mentre le nuove reclute erano chiamate sotto le armi.

                Fra queste dovevano essere annoverati i Chierici Cagliero e Francesia iscritti nella leva del 1858, se D. Bosco non avesse trovato il modo di salvarli.

                La legge del 1854 concedeva il diritto alle Curie Vescovili di presentare ogni anno al Governo la lista di que' loro chierici, che dovevano essere esentati dal servizio militare: cioè uno ogni ventimila diocesani. Il Ch. Cagliero erasi presentato a quella di Torino per avvisarla come egli e Francesia non dovessero essere esclusi da tale esenzione; ed il Rettore del Seminario, Can. Vogliotti, avealo assicurato che sarebbero ambedue messi in nota. Distratto da molti affari, Cagliero non badò, prima che spirasse il tempo fissato alla presentazione dei nomi degli esenti, a ricordare in Curia tale promessa con una domanda per iscritto. Intanto un curiale aveva stesa la lista completa omettendo i nomi di Cagliero e Francesia. Questi per dimenticanza ed inesperienza non avevano ritirata dal 1855 la patente di vestizione [135] clericale, e quindi non erano stati inscritti nell'elenco degli ecclesiastici diocesani. Da ciò la causa di quell'omissione.

                Quand'ecco un mese dopo venir recato all'Oratorio dall'Autorità militare l'ordine a Cagliero e Francesia di partire entro dieci giorni per i quartieri loro assegnati. Don Bosco, che aveva ricevuto quel foglio, lo presentò ai due chierici. Cagliero ne rimase grandemente stupito e non sapeva darsene ragione; passò tosto in Curia per riconoscere come fosse andata la cosa, ma ebbe dei rimbrotti per quelle patenti di vestizione chiericale non ritirate.

                 - Siete venuto troppo tardi! gli disse il Curiale.

                 - E perchè?

                 - La lista di coloro pei quali si domanda l'esenzione al Governo fu già presentata al Ministero.

                 - Ma non potrebbero mandare un supplemento?

                 - Il numero è completo.

                 - E se ci usassero la gentilezza di verificare se in altre diocesi, per es. Alba, Susa, Asti, mancasse il numero concesso per legge e farci iscrivere fra quelli?

                 - Non c'è più tempo.

                 - Dunque bisognerà che noi partiamo per la guerra!

                 - Ci rincresce, ma non sappiamo cosa farci.

                Senta, concluse Cagliero. Lei sapeva che noi eravamo chierici. La nostra età constava dalle carte di nascita e battesimo loro consegnate; abbiamo messa la veste clericale con loro licenza; abbiamo subìto i nostri esami e con buon esito frequentando per cinque anni le loro scuole. Se non fummo diligenti nel presentarci una seconda volta per replicare la domanda si è chè non riflettemmo a tale necessità; tanto più che riposavamo tranquilli sulla risposta del signor Can. Vogliotti: ma è strano che siansi loro signori dimenticati di noi, essendo i nostri nomi registrati con quelli [136] degli altri chierici nei registri scolastici del Seminario. Ma non importa: ci rivolgeremo a D. Bosco; ed egli farà.

                 - Avendo D. Bosco, non hanno più bisogno di noi, rispose il Curiale, e vedremo come se la caveranno.

                Se gli uni avevano ragione, gli altri in sostanza non avevano torto; ma la Divina bontà così disponeva, perchè si conoscesse come nelle grandi e piccole difficoltà a Don Bosco non mancasse il suo aiuto.

                Il Ch. Cagliero ritornato all'Oratorio narrò ogni cosa a D. Bosco e vedendo farsi pensoso, aggiunse: - Se bisogna partire per la guerra andrò; Vittorio avrà un soldato di più: o ci lascio la testa o ritorno colle spalline, ma non voglio che lei si prenda fastidii per me.

                 - Ma voglio ben prendermeli io e per te questi fastidii, soggiunse D. Bosco.

                E quindi consigliò il Ch. Francesia a presentarsi al Can. Vogliotti per chiedere consiglio sul da farsi. Ma il Canonico, in modi cortesi, lo assicurò che la Curia non poteva più far nulla essendosi compiuta in ogni sua parte la pratica col Governo: in quello stesso giorno essere spirato l'ultimo termine per tale presentazione; rincrescergli quell'ommissione per incolpevole dimenticanza e i due dell'Oratorio si industriassero per salvarsi come meglio potevano.

                Quando il Ch. Francesia rientrava nell'Oratorio, Don. Bosco era in sull'uscire: - Ebbene? gli disse D. Bosco.

                 - Niente! rispose il Ch. Francesia.

                 - Allora mi presenterò al Ministero della Guerra.

                Ma prima di andare si rivolse a Dio nella preghiera. Egli aveva provata l'influenza di questa nel piegare a' suoi desiderii l'animo dei potenti, ogni volta che pel passato aveva dovuto trattare con essi; e così continuò a fare in tutto il tempo della vita in simili circostanze. - Con questo mezzo,  [137] ei ci diceva, se sarà bene, si ottiene quanto si desidera, e si otterrà ancorchè si domandasse a chi non ha per noi nè affezione, nè stima; perchè Iddio in quel momento toccherà il cuore a tale uomo, sicchè accolga favorevolmente la nostra richiesta. - Infatti Neemia raccontando come esponesse una sua domanda di grande importanza ad Artaserse, così si esprime: “Ho fatto preghiera al Dio del cielo, e quindi ho detto al Re... e il Re mi ha conceduto ogni cosa, perchè la mano aiutatrice del mio Dio era meco[4].

                Il Maggior generale d'Artiglieria Valfré di Bonzo Cavalier Leopoldo, uno dei più alti impiegati nel Ministero della Guerra, accolse D. Bosco con ogni gentilezza. Il servo di Dio narratogli il suo caso, lo pregò di suggerirgli, se vi fosse modo di togliere i suoi chierici da quella condizione, o almeno, almeno di non permettere che fossero allontanati da Torino.

                 - Se fossimo in tempo dì pace, rispose benignamente il generale, cancellerei i suoi chierici dal ruolo con un sol tratto di penna; ma stante la guerra imminente non posso farlo. L'assicuro però che i suoi chierici non saranno mandati al fuoco, ma li destinerò a scrivere in qualche ufficio dell'arsenale in Torino, aggregati allo Stato Maggiore. Tuttavia mi sembrerebbe opportuno che lei si presentasse anche al Ministro degli affari Ecclesiastici, di Grazia e Giustizia, il quale potrebbe meglio di me darle un consiglio in affare di sua competenza.

                D. Bosco recossi allora al Ministero di Grazia e Giustizia. Era Ministro Guardasigilli il Conte De Foresta Avvocato Giovanni, Senatore del Regno, il quale aveva spesso dato [138] motivo ai lamenti dei Vescovi e del Sommo Pontefice. Don Bosco domandò udienza e l'ottenne quasi subito. Il Ministro lo ricevette assai bene, si rallegrò di poter far la sua conoscenza personale, ammirò ed approvò il bene che faceva educando tanti poveri giovanetti e concluse: - In che cosa posso servirla ?

                D. Bosco, che aveva temuto un'accoglienza diversa, a queste parole incominciò a respirare e disse: - Eccellenza, io mi trovo in un impaccio gravissimo e avrei proprio bisogno di lei: ho due chierici, i quali me li ho tirati su, perchè mi assistano nelle mie opere, e da sei o sette anni lavorano con me. Ora essi non furono iscritti dalla Curia nella lista di quelli, che hanno diritto di essere esenti dalla leva militare; questa lista fu già presentata al Ministero. Se i miei chierici partono per la guerra, io resto senza il loro aiuto nell'assistenza di tante centinaia di fanciulli. Mi dicono essere cosa difficile trovar mezzo per esentarli, ma supplico caldamente l'Eccellenza vostra ad aiutarmi in questa fastidiosa circostanza.

                 - Io sarei ben lieto di poterglieli salvare...Vediamo intanto il da farsi. - E tirò il cordone dei campanello e, comparso un usciere, gli ordinò: - Pregate il Conte Michele di Castellamonte di passare da me un momento. - Questi venne e rispose che le note delle Curie erano già arrivate e che quella di Torino era completa.

                Il Ministro riflettè per un istante e poi si rivolse a Don Bosco: - Le hanno detto che i suoi chierici non possono essere dispensati dal servizio militare. Tale esenzione però mi sembra essere la cosa più facile di questo mondo, senza violare la legge. Segua un mio consiglio. Persuada la Curia ad esaminare e togliere dalla lista presentata al Governo coloro, che sarebbero esenti per altri motivi oltre quello [139] di essere chierici; per cagione cioè di famiglia, di sanità o di altri corporali difetti, e vedrà che ci sarà posto anche per i suoi raccomandati.

                D. Bosco si recò subito in Curia pel detto scopo; ma si scusò il Cancelliere, per altri lavori urgenti che aveva tra mano, dallo scrivere alle famiglie dei chierici presentati. Don Bosco allora si offerse a fare egli stesso questa incombenza. Il Cancelliere gli diede quella lista e tosto egli scrisse vent'una lettera, quanti erano i chierici; ed ebbe la fortuna di trovare, che due erano esenti, anche perchè figli unici di madre vedova. D. Bosco allora si portò di nuovo dal Ministro De Foresta e questi fece d'ufficio gli atti necessarii per sostituire Cagliero e Francesia ai due, che erano stati indicati. Il buon prete dovette faticare tre giorni in questo affare con gran pena del suo cuore, perchè, fra i chierici che aveva nell'Oratorio, Cagliero e Francesia erano tra quelli sui quali poteva meglio contare. Il Ch. Cagliero intanto che dal terrazzo aveva in quei giorni viste le migliaia di coscritti che partivano pel campo, andato a far vidimare e a ritirare certe carte necessarie, disse al Curiale: - Sono contento, perchè così io debbo tutto al solo D. Bosco. - Cagliero sentì sempre vivamente le ripulse e le umiliazioni, che D. Bosco doveva soffrire. Ma quegli vedendolo talora triste e di malo umore per tal cagione, sorridendo usciva in qualche facezia e lo rallegrava, dicendogli: - Goloso ! Vuoi tu sempre avere dei dolci? Bisogna bene accostumarsi al lavoro colle contraddizioni; queste fortificano il petto!

                Intanto emissarii erano spediti nei diversi Stati d'Italia per indurre giovani volontarii ad accorrere in Piemonte per arruolarsi nell'esercito. Si contarono più migliaia, la maggior parte lombardi, che furono mandati a Cuneo, dove si componeva una divisione militare, la quale sarebbe stata [140] comandata dal generale Garibaldi. Altri arruolatori s'aggiravano tra la gioventù piemontese non ancora Soggetta alla leva, allettandola colla speranza di ascendere facilmente ai gradi militari e di conseguire onori e gloria. E un grave rischio per questo motivo incorreva D. Bosco in quei giorni di tanti torbidi.

                Si era introdotto nell'Oratorio un giovanotto disinvolto di bell'aspetto, col pretesto di visita a qualche alunno del suo paese. Dicevasi commissario di leva, e nascostamente potè parlare a lungo ad un certo numero di giovani, invitandoli a volersi arruolare tra i volontari dell'esercito. Già alcuni avevano acconsentito, quando D. Bosco venne a sapere la cosa. Colla solita tranquillità egli prima pensò bene al da farsi; e poi, a scongiurare il pericolo, sia per lui e per la casa, sia per i giovani, operò in questo modo.

                Fece chiamare in sua camera quel commissario, il quale accortosi che D. Bosco sapeva tutto, buon parlatore com'era, s'introdusse con franchezza. Parlò dell'amore patrio, della guerra, della necessità di avere sotto le armi molti giovanotti risoluti e prodi: asserì nell'Oratorio esservene molti abili e desiderosi: averne già iscritti cinque: dirglielo schiettamente sapendo egli quanto amor patrio si racchiudesse nel cuor di D. Bosco: e tirava giù giù, argomenti e paroloni senza fine. D. Bosco lo lasciò parlare per una mezz'ora, onde poter essere a giorno di tutto. Il commissario continuando venne fino al punto di proporre: - Io non intendo di costringere nessuno, ma se D. Bosco permette io ne parlerei in pubblico a tutti i giovani radunati, solamente per dare comodità a chi desidera di far parte dell'esercito.

                Qui D. Bosco lo interruppe dicendo: - Io amo la patria davvero e non intendo di oppormi a nessuna cosa che le possa giovare. Qui però per questi giovani vi è una sola [141] difficoltà, che cioè io non sono loro padrone, ma solamente educatore. Essi hanno i genitori o chi ne fa le veci. Questi me li consegnarono e bisogna che a loro io li restituisca. La cosa però si può aggiustare benissimo: io rilascio questi giovani coscritti, di cui mi parlò, a' proprii parenti; dalle loro case potranno mettersi in relazione con lei, e partire anche per la guerra, se i genitori saranno contenti.

                 - Non dica così, D. Bosco; e certo che i loro padri e le loro madri si opporranno o metteranno innanzi delle difficoltà. Io ho già mandato i nomi di cinque de' suoi alunni al ruolo e sono già fissati i numeri di matricola. Ora non resta più altro che parlare ad essi ancora una volta, consegnando a ciascuno il proprio numero: e la cosa sarà fatta.

                 - Anzi, meglio: facciamo così; mi dica il suo nome, cognome, e dimora che prenderà qui in Torino. Io all'istante rimando i giovani a casa loro, e scrivo ai parenti che si mettano in diretta relazione con lei. Quindi fin da questo momento ella può essere in libertà, cessando il motivo che lo consiglia a fermarsi in questa casa.

                 - Ma neppure parlare ancora una volta a questi giovanotti?

                 - Neppure una volta. Io adesso darò ordine ai giovani che si ritirino nelle scuole e nei laboratorii ed appena ritirati, la S. V. potrà partirsene.

                 - Ma sappia che i suoi giovani sono amici di Garibaldi e vorrebbero .....

                 - Anch'io sono amico di Garibaldi e prego il Signore, che egli possa trovarsi tranquillo ed in grazia sua nel punto di morte.

                Intanto i giovani si ritirarono dal cortile. Don Bosco accompagnò quell'intruso fino alla portieria, lo salutò cortesemente,  [142] e diede quindi al portinaio la proibizione di lasciarlo più entrare in casa o di parlare con chicchessia.

                Tuttavia siccome nell'Oratorio si era destato un po' di fermento e si parlava d'amor patrio, di guerra, di volontariato, D. Bosco mandò a chiamare i giovani compromessi. Non li rimproverò, ma disse loro con calma: - Vostro desiderio non è più di fermarvi nell'Oratorio, poichè volete arruolarvi tra i volontarii. Ora siccome mi siete stati consegnati dai vostri genitori, andate pure alle case vostre. Io non mi oppongo al vostro divisamento: consegnatevi ai vostri parenti, esponete ad essi il vostro desiderio e fate quanto vi suggeriranno. - E loro faceva premura di partir subito.

                 - Ma così restiamo scacciati dall'Oratorio? Esclamavano quei giovani.

                 - Non vi scaccio, rispose D. Bosco: andate solo a consultarvi coi parenti e poi se desiderate tornare mi scriverete in proposito e vedrò il da farsi. Però badate bene a non ritornare prima di aver ricevuta una lettera d'accettazione; poichè per rientrare ci vuole una nuova accettazione formale.

                Quei giovani dovettero partire.

                Se D. Bosco non trattava bene quel commissario di leva o non gli esponeva la ragione della dipendenza dai genitori, sarebbero potuto succedere dei guai. Di quel giorno stesso sarebbero accaduti tumulti popolari alla porta dell'Oratorio.

                Gli altri alunni non ebbero più parole e tutta quell'effervescenza svanì.

 

 

CAPO XII. Letture Cattoliche: VITA DEL GIOVANETTO SAVIO DOMENICO - Come regola D. Bosco la frequenza alla Santissima Comunione - Gli alunni dell'Oratorio osservatori spregiudicati delle azioni di D. Bosco - Memorabile sua confutazione di smentita fatta alla biografia di Savio Domenico - VITA DEL SOMMO PONTEFICE SAN URBANO I - Il Vicario generale di Torino raccomanda in una circolare ai parroci le Letture Cattoliche - Lettera a D. Bosco del Cardinale Arcivescovo di Bologna - Una spiegazione del Vangelo predicata da D. Bosco.

 

                Mentre tutto l'Oratorio sul principio dell'anno 1859, era commosso per la morte edificante di Magone Michele, il fascicolo delle Letture Cattoliche pel gennaio recava la Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales per cura del Sacerdote Bosco Giovanni. Era indirizzato ai suoi figliuoli la seguente prefazione.

                                Giovani carissimi,

                Voi mi avete più volte dimandato, giovani carissimi, di scrivervi qualche cosa intorno al vostro compagno Savio Domenico; ed io ho fatto quello che ho potuto per appagare questo vostro [144] pio desiderio. Eccovi la vita di lui descritta con quella brevità e semplicità, che so tornare a voi di gradimento.

                Due difficoltà si opponevano alla pubblicazione di questo lavoro; la prima è la critica a cui per lo più va soggetto chi scrive cose delle quali avvi moltitudine di testimoni viventi. Questa difficoltà credo di aver superato col farmi uno studio di narrare unicamente le cose, che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima.

                Altro ostacolo era il dovere più volte parlare dì me, perciocchè essendo questo giovane vissuto circa tre anni in questa casa, mi tocca sovente di riferire cose, a cui ho preso parte. Questo ostacolo credo pare di aver superato tenendomi al dovere dello storico, che è di scrivere la verità dei fatti, senza badare alle persone. Tuttavia se troverete qualche fatto, ove io parli di me con qualche compiacenza, attribuitela al grande affetto che io portava all'amico defunto e che porto a tutti voi; il quale affetto mi fa aprire a voi l'intimo del mio cuore, come farebbe un padre che parla a' suoi amati figli.

                Taluno di voi dimanderà perchè io abbia scritta la vita di Savio Domenico e non quella di altri giovani, che vissero tra noi con fama di specchiata virtù. È vero, miei cari, la Divina Provvidenza si degnò di mandarci parecchi modelli di virtù; tali furono Fascio Gabriele, Rua Luigi, Gavio Camillo, Massaglia Giovanni ed altri: ma le azioni di costoro non sono state ugualmente note e speciose come quelle del Savio, il cui tenor di vita fu notoriamente maraviglioso. Per altro, se Dio mi darà sanità e grazia, ho in animo di raccogliere le azioni di questi vostri compagni, per essere in grado di appagare i vostri ed i miei desideri col darvele a leggere e ad imitare in quello che è compatibile col vostro stato.

                Intanto cominciate a trar profitto da quanto vi verrò descrivendo; e dite in cuor vostro ciò che diceva S. Agostino: Si ille, cur non ego? Se un mio compagno, della stessa mia età, nel medesimo luogo, esposto ai medesimi e forse maggiori pericoli, tuttavia trovò tempo e modo di mantenersi fedele seguace di Gesù Cristo, perchè non posso anch'io fare lo stesso? Ricordatevi però bene che la religione vera non consiste in sole parole; bisogna venire alle opere. Quindi, trovando qualche cosa degna d'ammirazione, non contentatevi di dire: questo è bello, questo mi piace. Dite piuttosto: [145] voglio adoperarmi per far quelle cose che lette di altri, mi eccitano alla maraviglia.

                Dio doni a voi e a tutti i lettori di questo libretto sanità e grazia per trar profitto di quanto ivi leggeranno; e la Vergine santissima, di cui il giovane Savio era fervoroso divoto, ci ottenga di poter fare un cuor solo ed un'anima sola per amare il nostro Creatore, che è il solo degno dì essere amato sopra ogni cosa, e fedelmente servito in tutti i giorni di nostra vita.

 

                Non è qui il caso di fare l'elogio di un'operetta, della quale essendosi stampate innumerevoli copie in molte lingue, queste corrono per le mani di mezzo mondo con vantaggio incalcolabile della gioventù. Piuttosto una cosa sola non vogliamo passare sotto silenzio, cioè come Don Bosco intendesse dover essere regolata la frequenza alla Santa Comunione, ciò risultando dal modo col quale egli diresse nello spirito Savio Domenico. Così leggesi nel capo decimo quarto.

 

                Egli è comprovato dall'esperienza che i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della Confessione e della Comunione. Datemi un giovanetto che frequenti questi sacramenti, voi lo vedrete crescere nella giovanile, giungere alla virile età e arrivare, se così piace a Dio, fino alla più tarda vecchiaia con una condotta, che è l'esempio di tutti quelli che lo conoscono. Questa massima la comprendano i giovanetti per praticarla; la comprendano tutti quelli che si occupano dell'educazione dei medesimi per insinuarla. Prima che il Savio venisse a dimorare all'Oratorio frequentava questi due Sacramenti una volta al mese secondo l'uso delle scuole. Dipoi li frequentò con assai maggior assiduità. Un giorno udì dal pulpito questa massima: “Giovani, se volete perseverare nella via del cielo, vi si raccomandano tre cose: Accostatevi spesso al Sacramento della Confessione, frequentate la S. Comunione, sceglietevi un confessore cui osiate aprire il vostro cuore, ma non cangiatelo senza necessità”. Comprese Domenico l'importanza di questi consigli. [146]

                Cominciò egli a scegliersi un confessore, che tenne regolarmente tutto il tempo che dimorò tra noi. Affinchè questi potesse poi formarsi un giusto giudizio di sua coscienza volle fare la confessione generale. Cominciò a confessarsi ogni quindici giorni, poi ogni otto giorni, comunicandosi colla medesima frequenza. Il confessore, osservando il grande profitto che faceva nelle cose di spirito, lo consigliò a comunicarsi tre volte per settimana, e, nel termine di un anno gli permise la comunione quotidiana.

 

                Questa biografia che portava il ritratto del santo giovanetto disegnato da Carlo Tomatis e impresso dal litografo Hummel, esponeva le prove di una verità. consolante. Savio Domenico era stato per l'Oratorio quale, un avvenimento; poichè, se la bellezza e la fragranza di un fiore dimostra la bontà del terreno che gli dà la vita; se la bellezza e la soavità di un frutto palesa la bontà dell'albero che lo porta; ben si può dire che la santità di Domenico Savio sia prova non dubbia della bontà dell'istituzione dell'Oratorio, che gli fu scala a sì alta perfezione.

                Ed è per questo che lo spirito maligno cercò di far cadere in discredito quelle soavi pagine.

                Il fascicolo era stato distribuito agli alunni interni che l’aspettavano con viva curiosità. Ma i critici questa volta non dovevano mancare in un ospizio così numeroso, tanto più che D. Bosco permetteva una ragionevole libertà a ciascuno nell'esprimere le proprie opinioni. I suoi giovani, benchè rispettosi, erano sinceri e disinvolti, tali formandoli l'educazione che ricevevano, la quale non sopportava timidezze, ipocrisie o adulazioni. E questo è da notarsi, perchè ne risulta una gran verità. I giovani non erano infatuati di D. Bosco e ciechi credenzoni a ciò che egli affermava, ma lo amavano per la realtà delle sue virtù osservate attentamente e tali giudicate. Nessuno metteva [147] in dubbio l'avveramento della sua predizione in quei giorni, ed era per tutti evidente che D. Bosco non aveva potuto per scienza umana conoscere il futuro. Tuttavia in questo stesso mentre erano sorte contestazioni sulla veracità di alcuni fatti narrati nel libro di D. Bosco. Tutti riconoscevano il Savio come giovane di virtù straordinarie, ma da alcuni non si voleva vedere in certe sue azioni nulla di sovranaturale, perchè ignoravano ciò che l'umiltà e la prudenza avevano fino allora tenuto nascosto. Altri aggiungevano aver Don Bosco inventati certi episodii per il buon fine di proporre ai cristiani un modello di giovane perfetto; e siccome un terzo e più dei giovani erano entrati nell'Ospizio dopo la morte di Savio, l'opinione di chi aveva vissuto con lui poteva far del male mettendo dubbi in non pochi di loro. Fra quelli che osavano parlare irreverentemente e con maggior libertà di questa biografia si notava un chierico. Gli alunni erano divisi in vari pareri. Tuttavia molti cercavano di star lontani da que' critici non volendo prender parte alle loro discussioni.

                Quand'ecco si viene a conoscere un fatto che pareva dar ragione ai contradditori di D. Bosco. Egli aveva narrato l'invito che era stato fatto a Savio Domenico di andare al nuoto ed aveva omessa la particolarità dell'essersi il giovanetto arreso una prima volta alle istanze di un compagno. Or bene; questo suo compagno e compaesano, un certo Z… che era nell'Oratorio come studente, uscì fuori a negare apertamente che Savio si fosse rifiutato d'andare al bagno, poichè egli stesso avevalo invitato, ed era andato con lui. Lo stordito si faceva di ciò quasi un vanto. Fu quindi uno scandalo. L'edifizio di virtù, quantunque vere, innalzato da D. Bosco pareva dovesse crollare. Provato falso un fatto, potevansi negare anche gli altri. D. Bosco però per [148] qualche giorno nulla disse a sua difesa neppure in privato, benchè avesse piena cognizione di quelle dicerie.

                Finalmente una sera dopo le orazioni dette nel refettorio, salì sovra una sedia, con un volto così serio quale rare volte si vide. Si trattava di salvare la verità, ed ei prese a parlare senza preamboli e colla solita calma.

 - Quando Savio morì, io ho invitato i suoi compagni a dirmi se nei tre anni, che dimorò fra di noi, avessero notato nella sua condotta qualche difetto da correggere o qualche virtù che gli fosse mancata da suggerire; ma tutti furono d'accordo di non avere mai trovato in lui cosa che meritasse correzione; e che non avrebbero saputo quale virtù aggiungere in lui. Ed io di quanto ho scritto, o ne fui testimonio io stesso, o lo seppi da persone della casa, che sono qui presenti, od estranee ma degne di ogni fede.

                Sul principio del suo discorso qualcuno tentò di sorridere, ma il sorriso gli morì subito sulle labbra, vedendo il contegno grave di quelli che gli erano attorno. D. Bosco proseguì: - Eppure in questi giorni avete udite alcune osservazioni sopra certi fatti della vita di Savio Domenico, vostro compagno, e, fra le altre cose, che io era incolpato di aver detto una bugia. Si negò che Savio si fosse rifiutato di andare al bagno. Sì è vero: andò a bagnarsi!...

                Nel racconto però bisogna distinguere due circostanze. Egli fu invitato due volte. La prima si lasciò condurre, ma ritornato a casa e narrato alla madre quanto gli era occorso, da essa fu avvertito di non andar più. E il povero Savio pianse tanto quando conobbe di aver fatto male! Ma la seconda volta invitato si rifiutò risolutamente. Io volli solamente scrivere e pubblicare della seconda, perchè nell'Oratorio vi è quel compagno che avealo condotto una volta e tentato di condurlo un'altra. Io sperava di aver salvato costui dalla [149] vergogna: io credeva che questo tale riconoscesse il suo errore, che mi fosse riconoscente del mio silenzio; ma invece volle prendere me in contraddizione, darmi una smentita e fare al suo compagno uno sfregio che non meritava. Sappiate adunque che io per risparmiare una triste figura al compagno vivente e per nascondere ciò che doveva formare il suo eterno rimorso, il pericolo cioè al quale si era esposto di tradire un amico, ho narrato solo del secondo fatto. Egli volle scoprirsi da sè. Se avrà da arrossire, egli solo ne ha la colpa. Dopo di aver tradito il compagno in vita volle tradirlo dopo morte. Allora si mise a rischio di togliergli l'innocenza, ora l'onore.

                Il giovane così apostrofato era presente. La sua confusione era estrema, poichè gli occhi dei compagni erano tutti fissi sopra di lui. Poche volte D. Bosco parlò in questa forma, ma è impossibile descrivere l'impressione che produsse sugli animi.

                Come ebbe finito fu un bisbiglio generale di approvazione, cessarono da quel momento le dicerie. D. Bosco però ordinava la ristampa di quella biografia, aggiungendo il fatto ommesso coi debiti commenti.

                Pel mese di febbraio gli associati delle Letture Cattolche ricevevano la Vita del Sommo Pontefice sant'Urbano I per cura del Sacerdote Bosco Giovanni (FI). Vi è descritto il martirio di S. Cecilia e de' suoi compagni; e si conclude contro i protestanti, provando la venerazione delle reliquie dei santi, la loro invocazione, essere approvate dalla sacra Bibbia e dai miracoli per loro mezzo operati da Dio. L'Armonia del 26 febbraio annunziava questo nuovo opuscolo.

                Vediamo con piacere che le Letture Cattoliche, pubblicate per cura del sacerdote Giovanni Bosco, tanto benemerito della gioventù cristiana, continuano sempre prospere e applaudite. Le [150] Vite dei Romani Pontefici, che si alternano con altri opuscoli di grande utilità, sono giunte alla vita del Sommo Pontefice sant'Urbano I, il quale ascese sulla cattedra di S. Pietro l'anno 226 dell'era volgare. Noi non aggiungiamo parole di lode a questa eccellente pubblicazione popolare, essendone da tutti conosciuti i pregi ed i meriti.

 

                Col sullodato fascicolo chiudevasi la serie dell'anno VI delle Letture Cattoliche e si pubblicava un estratto della circolare per la quaresima di Mons. Vicario Generale della città e diocesi di Torino ai reverendi signori Parroci e Curati in favore di queste.

 

                ....Mentre io accenno ai disordini dei tempi ed ai bisogni ed ai mezzi di andarvi al riparo, mi cade il bel destro, e ben volentieri me ne valgo, per additare un altro mezzo efficace che sta pure a cuore del Vicario di Cristo. Voi sapete abbastanza e deplorate che specialmente per mezzo della stampa oggidì s'insinua l'errore, si diffondono le cattive massime, e si corrompe il costume, e che gli empi si adoperano a preparare e porgere in giornali e libri irreligiosi l'esca ed il veleno ad ogni classe e condizione di persone, e come tal sorta di fogli si vendano a buon mercato e si distribuiscano pure gratuitamente.

                Per parte loro i buoni si argomentano pure colla stampa e colla diffusione di buoni libri e di smascherare l'errore, di ammaestrare i popoli e mostrare loro il bello della virtù e farla amare. Tale è l'intendimento delle Letture Cattoliche. Esse vi furono già raccomandate altra volta, ed hanno ormai per loro il favore di molto bene che vanno operando, e portano eziandio il vanto di avere pure l'approvazione del Sommo Pontefice ed il suo desiderio che vengano attivate. Io tengo sott'occhio la circolare con cui S. E. il Cardinale Vicario di Roma, secondando la mente di Sua Santità, invitava gli Arcivescovi e Vescovi (degli Stati Pontifici a promuovere la diffusione delle Letture Cattoliche nelle loro diocesi; e mi sento un nuovo impulso a raccomandarle di nuovo, specialmente nei luoghi dove non sono ancora guari [151] conosciute, e sono persuaso che voi pure meco lo sentirete, e quindi le proporrete con sollecitudine alle vostre popolazioni. La materia ridotta alla più bassa intelligenza, lo stile popolare, la tenue spesa mi promettono che l'opera vi tornerà facile.

                Benedica il Signore dall'alto le vostre preghiere, le vostre fatiche ed il vostro zelo, e la grazia di Gesù Cristo sia con tutti voi.

                Gratia  Domini nostri Iesu Christi vobiscum (Rom. XVI, 20).

 

CELESTINO FISSORE.

Vic. Gen.

 

                Intanto un altro lavoro aveva per le mani D. Bosco come si scorge dalla seguente lettera: cioè aggiungere alcune Biografie di uomini illustri ad una nuova edizione della Storia d'Italia.

 

                               Molto Rev.do Signore,

 

                Mi è grato di soddisfare al desiderio della S. V. M. R. inviandole, per le notizie che Ella desidera del Cardinal Mezzofanti, una biografia del medesimo.

                Anzi mi valgo dell'occasione per farle conoscere il programma di un lavoro, che tra breve uscirà in luce su la vita e gli studi di questo Em.mo, lavoro affidato a persone meritevoli, di intiera fiducia, ed il quale però è degno dell'attenzione di tutti i dotti.

                Conto sulle preghiere che Ella si compiace di promettermi e Le confermo la mia stima.

                Di V. S. M. Rev.da

                Bologna, 12 febbraio 1859.

Aff.mo nel Signore

OTT. Card. VIALE Arc.

 

                Ma ciò che sempre aveva a cuore si erano le vite dei Papi, che egli esponeva in modo, da destare negli uditori la massima curiosità ed interesse. A questo scopo, finita una di tali vite, la dava alla stampa e prima di riprenderne un'altra,  [152] per un mese circa, s'intratteneva su argomenti varii e specialmente sul santo Vangelo. Tale aspettazione rendeva più vivo il desiderio dei giovani, che reclamavano ansiosi nuovi fasti della Chiesa. Terminata infatti la vita di S. Urbano I, egli fece una predica che fu scritta dal Ch. Bonetti Giovanni.

 

                Questa mattina invece di continuare il nostro corso di storia Ecclesiastica sulla vita dei Papi, avendo finito quella di S. Urbano, ho piacere, prima d'incominciare quella del Pontefice che vien dopo, di spiegarvi il Vangelo della Domenica. È questo molto adatto a voi, o miei cari giovani.

                Udite adunque il racconto del santo Vangelo. Nostro Signor Gesù Cristo era andato a predicare sovra una montagna molto alta e siccome non tutti potevano ascendere fino lassù, desideroso che nessuno fosse privo della sua parola di paradiso, scese a basso nella pianura. Eravi in quei dintorni un povero infermo carico di lebbra, che è una delle malattie più ributtanti e contagiose come sarebbe quella detta volgarmente la rogna. Questo uomo disgraziato, messo fuori dalla città, respinto dal consorzio dei parenti e degli amici, privo di sostanze, era costretto a vivere all'aperta campagna, procacciandosi il cibo come meglio poteva, odiato e schivato da tutti. Sentendo che Gesù di Nazaret faceva tanti miracoli sul monte vicino, anch'egli desiderava di condursi colà per impetrare la grazia di guarire da un male così brutto; quando gli giunge la notizia che nostro Signore discendeva alla pianura. Allora egli tutto giubilante andò ad aspettarlo e quando vide le turbe che si avanzavano, fattosi largo in mezzo ad esse andò a gettarsi ai suoi piedi, adorandolo: Et veniens adorabat eum.

                Qui è da notare che viene a Gesù adorans, adorandolo. Da ciò si vede che questo lebbroso era persuaso, credeva che Gesù fosse vero Dio, perchè solo a Dio si deve adorazione. I santi, gli angeli, Maria SS. noi non li adoriamo, ma li rispettiamo, li veneriamo, li preghiamo ad intercedere per noi. Iddio solo si adora.

                Certamente quando Gesù vide quel povero uomo inginocchiato ai suoi piedi, essendo egli tanto compassionevole verso gl'infelici, tanto mansueto anche coi peccatori, certo l'avrà interrogato [153] amorevolmente di molte cose della sua patria, dei suoi parenti, dei suoi dolori e forse anche dello stato dell'anima sua. Il Vangelo però ci dice niente di questo; solo ci narra che quel lebbroso proruppe in queste parole: Domine, si vis, potes me mundare. Signore, se vuoi mi puoi guarire. Solo che vogliate subito io sarò risanato. Domine! Signore! Ecco che subito lo chiama Signore, riconoscendolo il Re dei re, il Signore dei signori, il Padrone dei padroni. Si vis, potes me mundare. Se vuoi mi puoi guarire. Mirate che fede! Non sta lì a dirgli: Se voi pregate il vostro Eterno Padre egli per le vostre preghiere mi guarirà; ma no: egli dice invece: se volete voi, io guarirò.

                Gesù vedendo che quell'infelice aveva il cuore così ben disposto (perchè Gesù vuole il cuore) risoluto di contentarlo e di premiare la sua fede gli disse: Volo; mundare! Voglio; sii guarito! Non disse: voglio che tu sia sano; ma voglio e poi glielo comandò: sii sano: imperativo: mundare. Gesù non aveva ancor finito di pronunciare queste parole che quelle piaghe, le quali formavano come un'intera crosta su tutto il corpo del lebbroso, caddero a pezzi a pezzi e la sua pelle restò sull'istante bianca come neve. Immaginatevi che contentezza non avrà mai provato quell'uomo! Pensate quali ringraziamenti non avrà mai fatto a quel suo caro liberatore!

                Quando Gesù lo volle licenziare Ai disse: Vade, ostende te sacerdoti. Va e presentati al sacerdote che ti veda: volendo dire con ciò: è vero che io ti ho guarito, ma colla condizione che ti presenti al sacerdote, altrimenti rimarrai quel che eri prima. Si deve sapere che in quei tempi coloro, che erano infermi di lebbra erano scomunicati dal sacerdote, cioè separati dal popolo e costretti a stare alla campagna sino a tanto che fossero guariti. Guariti che fossero, per ritornare nelle loro case e vivere fra i cittadini, dovevano prima presentarsi al sacerdote, il quale solo dopo aver verificata la guarigione poteva ammetterlo in mezzo al popolo.

                Ecco qui, o miei cari figli, il senso di questo fatto. La lebbra è il peccato, il quale rende talmente schifosa l'anima nostra, che il Signore non ci tiene più per suoi, ci scomunica, ci separa dal numero dei suoi figli. È orribile, e nauseante al cospetto di Dio l'anima che ha il peccato. E che cosa ci vuole per essere liberi da questa lebbra? Ostende te sacerdoti, dice il Signore: Va, fatti vedere, presentati al sacerdote. Se noi vogliamo essere guariti [154] dal peccato, essere mondati da questa schifosa malattia, dobbiamo accostarci al sacerdote, il quale ha facoltà da Dio di lavarci dal nostro peccato. Poteva bene Gesù Cristo dire a quell'uomo: Sii guarito senza aggiungere di andarsi a far vedere dal sacerdote? Certamente! ma non volle, per dimostrare che sebbene ei possa perdonare senza che noi andiamo dal sacerdote, tuttavia non ci perdona se non lo accostiamo, confessando con sincerità i nostri peccati ai piedi del sacerdote. Tanti vanno dicendo: - Eh! il Signore non ha bisogno che noi andiamo a raccontare i peccati al confessore per perdonarci; può perdonarci senza dì questo! Il Signore, io direi a costoro, se per caso ve ne fosse qui qualcuno ad ascoltarmi, il Signore potrebbe ben fare che il grano nasca maturo e che quindi da per sè se ne vada nel granaio senza tanta fatica dei poveri contadini. Perchè' Iddio, il quale essendo onnipotente, che ha creato dal nulla tutto quanto vi è sulla terra e nel cielo, che ha creato con una sola parola tanti corpi così belli, così vasti, così magnifici, che noi vediamo nel firmamento in notte serena, perchè, dico, non potrebbe fare che il grano nasca maturo e se ne vada nei granai senza la mano dell'uomo?

                Certamente che lo potrebbe fare. E perchè non lo fa? Domandatelo a Lui: Egli ve lo dirà.

                Intanto io vi assicuro che se volete liberarvi dal peccato non avete altro mezzo che la confessione: e che Iddio è pronto a perdonarvi qualunque peccato, purchè con cuore contrito ve ne confessiate umilmente al confessore, al sacerdote ministro di Dio.

                In ultimo Gesù impose al lebbroso guarito che non dicesse parola ad alcuno. Mirate che umiltà di Gesù! Un miracolo così stupendo non vuole che sia saputo. Vera lezione per noi i quali tanto bramiamo che gli altri, per poco bene che facciamo, subito ci lodino e andiamo a dire al terzo e al quarto le nostre virtù, affinchè ci tengano per uomini dabbene, per persone onorate. Ah Gesù non fece così, no, godendo che solo sapesse il suo Padre celeste quel bene che Egli faceva. Così pure dobbiamo fare noi: non fare il bene perchè ci vedano, ci lodino, ma solo per piacere a Dio, e per quanto si può, nascondere agli uomini quel poco di bene che facciamo. Se poi non possiamo nasconderlo lasciamo pure che gli uomini lo vedano, ma stiamo all'erta di non insuperbirci, perchè distruggeremmo dinanzi a Dio quello che avremo fatto.

 

 

CAPO XIII. La quaresima - Oratorio di S. Luigi: illustri Catechisti: zelo e generosità del Teol. Murialdo; le scuole diurne; i maestri; i giovani più ignoranti condotti a confessarsi da D. Bosco; scuola e regolamento per la musica istrumentale che viene poi sciolta - Oratorio di Vanchiglia: teatrino - Oratorio di Valdocco: D. Bosco regala una croce ad un nobile catechista: virtù del maestro della scuola diurna: le passeggiate degli oratoriani più rare e più brevi: causa della diminuzione di questi giovani - Fondazione dell'Oratorio di S.Giuseppe - Il Vescovo di Nizza Marittima fa il catechismo in Valdocco - D.Bosco in cerca di giovani per esortarli a confessarsi - Un fanciullo infermo visitato da D. Bosco persuade i suoi parenti a riconciliarsi con Dio - I Cattolici insidiati continuamente dai Protestanti - Ravvedimento di un venditore di libri eretici - Letture Cattoliche: indirizzo agli associati - D. Bosco estingue il sito debito antico co' Rosminiani - Sua avversione alle liti.

 

                QUEST'ANNO 1859 la quaresima durava dal 2 marzo al 24 aprile. L'Oratorio di S.Luigi era numerosissimo sotto la direzione del Teol. Leonardo Murialdo il quale essendo i locali angusti, disadatti e poco [156] solidi, vi faceva molte spese del proprio e arricchiva l'altare della misera Cappella con un tabernacolo e gradini di marmo. Fra i giovani, colla frequenza dei Sacramenti, faceva fiorire i buoni costumi, e in alcuni di questi si manifestarono sode vocazioni ecclesiastiche. I suoi catechisti ed assistenti venivano dall'Oratorio di Valdocco mandati da D.Bosco e dipendevano con esemplare umiltà dal Teologo Murialdo. Fra questi, ora insieme, ora successivamente, furono i chierici Rua Michele, poi Celestino Durando, Lazzero Giuseppe, Francesco Cerruti, Francesco Dalmazzo, Albera Paolo, Savio Angelo. Fra i laici distinguevansi per zelo veramente ammirabile, oltre al già accennato Avv. Gaetano Bellingeri, il Conte Francesco di Viancino, giustamente onorato poscia come il campione del laicato cattolico piemontese, l'Avv. Ernesto Murialdo fratello di Leonardo, il Marchese Scarampi di Pruney, il Conte Pensa, e per qualche tempo l'Ing. G. Batt. Ferrante, uomini tutti dotati di un grande spirito di sacrifizio e ardente di carità sincera verso i poveri giovanetti.

                Le fatiche di questi zelanti cristiani riuscivano molto più efficaci, dal momento che si erano aperte le scuole diurne.

                Tale scuola, che raccoglieva oltre ad un centinaio di ragazzi, per la più parte rifiuto delle altre scuole civiche e bisognosi di educazione quanto lo erano di pane e di vesti, proseguì a fare del gran bene, anche dopo che il Teol. Murialdo dovette lasciare l'Oratorio di S. Luigi e prendere la direzione dell'Opera Pia degli Artigianelli. Egli però finchè vi rimase, oltre all'adoperarsi nel mantenerla in fiore, soccorreva col danaro molte famiglie degli scolari perchè non si lasciassero guadagnare dall'eresia. E la sua carità produsse frutti meravigliosi. Il santo prete, come fece sempre D. Bosco, e con lui tutti i zelanti e generosi sacerdoti [157] praticava una dottrina conforme a quella di S. Paolo: non prius quod spirituale est, sed quod animale: deinde quod spiritale[5].

                Ottimi i maestri e fra questi ricordiamo un certo Signor Formica. Il bravo insegnante coadiuvava potentemente i chierici e il Direttore nei giorni festivi; assisteva i giovani, faceva loro il catechismo. Desiderando la salvezza delle anime, chiese un giorno consiglio a D. Bosco sul modo più efficace per invitare i giovani ad accostarsi al sacramento della Penitenza e nello stesso tempo renderli persuasi della facilità di confessarsi bene. D. Bosco dopo avergli date alcune norme, concluse: - I più grandi conducili da me in Valdocco. Essi diranno che non sanno confessarsi e per questo non vanno. Di' loro che è una cosa facilissima una buona confessione. Basta che mi rispondano tre sole parole: si, no, sai nen, (non so) il restante lo dirà tutto D.Bosco, ed essi non avran alcun fastidio o paura d'imbrogliarsi.

                Così lo zelo dei maestri rendeva fruttuose per circa venti anni le loro scuole opponendosi direttamente alle scuole dei Valdesi aperte in via dell'Arco: ed impedì che centinaia e forse migliaia di ragazzi si lasciassero guadagnare dall'eresia.

                Il Teol. Murialdo intanto volendo affezionare maggiormente i più grandicelli all'Oratorio, fondava una scuola di canto nelle sere dei giorni feriali e ne incaricò il M°. Elzario Scala; e i giovani addestrati nel canto corale eseguirono delle messe solenni nell'umile cappella di S. Luigi.

                Si decise parimente d'istituire una banda, e dopo averne parlato a D. Bosco, gli presentò un regolamento, perchè pronunciasse il suo parere. Eccone il tenore: [158] La scuola di musica e canto stabilita nell'Oratorio di San Luigi ha per iscopo di affezionare i giovani all'Oratorio onde lo frequentino nei giorni festivi, si avvezzino a compiere i doveri religiosi, e tengano una cristiana e morale condotta.

                Saranno quindi esclusi dal farne parte coloro che si rendessero negligenti alle funzioni religiose dell'Oratorio, che tenessero notoria cattiva condotta, o che fossero causa di gravi sconcerti fra i compagni e restii sovente agli ordini ed alla disciplina stabilita.

                Ad invocare il divino aiuto su quest'opera si reciteranno in comune le orazioni della sera dopo le lezioni.

                Durante le lezioni si farà silenzio e si potrà solo dirigere la parola al maestro. Bisognerà trovarsi esatti alla lezione e non uscire prima del tempo senza permesso. Non si potrà toccare e suonare l'istrumento di un altro senza suo permesso. L'infrazione a questa regola va soggetta a multa di un soldo fino a quattro.

                Ciascuno dovrà perciò fare un fondo di soldi venti per l'eventualità della multa. Consumato che sia non potrà seguitare le lezioni se non lo rinnova.

                Chi ha ricevuto un istrumento dal direttore della musica deve mese per mese compiere la quota convenuta, se no verrà ritirato l'istrumento e non gli sarà rimesso se non quando si trovi al corrente degli acconti convenuti.

 

                Il Teologo, ottenuto il consenso di D.Bosco, poichè nella sua meravigliosa umiltà nulla faceva di proprio arbitrio, insieme coll'Avv. Bellingeri comprò gli strumenti, sostenendo spesa non lieve. Desiderando però che tutto procedesse con ordine, egli coll'Avvocato assistevano in persona alle prove, coadiuvavano il maestro ed incoraggiavano gli esordienti musicisti. Ma questa istituzione non corrispose al suo scopo, perchè dava più disturbi che edificazione e si dovette sciogliere; e D. Bosco, non permise poi mai negli Oratorii festivi di Torino la musica istrumentale, perchè la banda del suo Ospizio di Valdocco poteva render loro servizio nelle solennità. Solo negli ultimi anni, malaticcio ed oppresso dalle insistenze, cedette a malincuore e lasciò fare. [159]

                Come l'Oratorio di Porta Nuova così quel di Vanchiglia era gremito di fanciulli, e D. Bosco aveva fatto eseguire riparazioni e miglioramenti in quelle povere tettoie adattate a sale, in una delle quali un teatrino attirava le turbe giovanili alle sacre funzioni ed ai catechismi. Anche qui Direttori, catechisti, maestri, assistenti, venivano da Valdocco, e cogli altri il Ch. Cagliero.

                Ma quello di S. Francesco di Sales teneva sempre il primato sugli altri per il numero e la pietà dei giovani. L'appoggio che gli prestavano nobili signori, era contraccambiato da D. Bosco con segni di vivo affetto, piccoli doni, letterine, che erano ricevute con molto gradimento. Fra l'altro il 2 marzo 1859 scriveva al Cav. Zaverio Provana di Collegno: “Eccole la croce benedetta. Se Dio mi esaudisce essa colmerà di benedizioni e di timor di Dio chi sarà per portarla. Auguro a Lei, a papà, e a tutta la famiglia, sanità e grazia dal Signore, mentre mi professo con gratitudine ecc.”.

                Le scuole diurne elementari quotidiane erano bene avviate anche in Valdocco. Ne era affidato l'insegnamento a D. Zattini di Brescia. Questi, benchè professore di filosofia, con mirabile, pazienza ed umiltà si assoggettò per circa due anni alla pesante occupazione d'insegnare l'alfabeto e qualche elemento di grammatica italiana ad una numerosa scolaresca ineducata e talora schernitrice. Essendo egli ignaro del dialetto piemontese, succedevano equivoci.

                Dico pera, esclamava, parlando coi chierici dell'Oratorio e intendono pietra; dico bara ed essi capiscono bastone! - Tale era il significato di queste parole in dialetto.

                D. Bosco procurava sempre ai suoi giovani svariati divertimenti, ma le passeggiate si erano fatte molto rare specialmente quelle di un'intera giornata e ben presto cessarono. [160] Dopo che egli ebbe una cappella stabile, esigeva che tutti assistettero alle sacre funzioni, perchè altrimenti la regolare istruzione delle prediche e dei catechismi, la frequenza dei sacramenti ne avrebbe sofferto. È perciò che l'Oratorio di Vanchiglia e quello di Portanuova non ebbero mai le passeggiate generali di tutti insieme i loro giovani.

                In Valdocco però vi era un'usanza che bisognava rispettare, cioè un premio che ogni anno D. Bosco non aveva mancato mai di concedere ai suoi giovani esterni. Questo consisteva nello svago di mezza giornata festiva, presso una chiesa non lontana dalla città. Se la camminata facevasi al mattino i giovani partivano schierati, pregando o cantando laudi sacre. Giunti al luogo stabilito si compievano le pratiche di pietà; e, distribuita da D. Bosco la colazione, che quivi avevano portata alcuni somarelli, ognuno se ne andava pei fatti suoi.

                Se la passeggiata facevasi dopo il mezzo giorno, allora si andava in collina, con qualche strumento musicale, si distribuiva la merenda, e in qualche chiesa si prendeva parte alla predica ed alla benedizione. Avvicinandosi la notte, tutti schiamazzando e cantando, scendevano alla barriera di Torino e, fatto quivi silenzio, sciamavano a gruppi per le vie che conducevano alle loro case.

                D. Bosco procurava questo spasso ai suoi Oratoriani due o tre volte all'anno, come ci narrava chi ci prese parte dal 1855 al 1861, e i giovani erano sempre più di trecento. D. Bosco provvedeva abbondantemente il necessario, ma siccome nel numero vi erano di quelli che appartenevano a famiglia piuttosto agiata, avvertiva gli uni che si portassero pane e companatico da casa, altri invitava a quotarsi di un venti soldi a testa per concorrere almeno in parte al bisogno di tanti poveretti che nulla possedevano; e [161] quei giovani volentieri lo secondavano, ricompensati dal pensiero dell'opera buona che facevano e dalla sincera allegria, che loro procurava quel divertimento, in compagnia di D. Bosco.

                D. Bosco così studiavasi di attirare i giovanetti all'Oratorio festivo, poichè quantunque numerosi ancora, tuttavia li vedeva diminuire di anno in anno dal 1859 al 1870. E le cause di queste diserzioni non si potevano togliere. La prima erano i giovani alunni dell'Ospizio che, crescendo continuamente, occupavano a poco a poco quasi tutta la chiesa di S. Francesco; ed anche per loro riuscivano ristretti i cortili della ricreazione; e la seconda che i padroni di fabbrica senza timor di Dio costringevano i garzoni a lavorare anche alla Domenica.

                Tuttavia nel complesso non era scemato il bene che i giovani ricevevano da D. Bosco, poichè nel 1859 si apriva in Torino nel borgo di S. Salvario un quarto Oratorio festivo dedicato a S. Giuseppe. Il cav. Carlo Occelletti aveva destinato una parte della sua casa a questo nobilissimo scopo, ove era un vasto cortile e, da lui preparata, una vaga e grande cappella; e i preti della parrocchia di S. Pietro e Paolo vi esercitavano il Sacro Ministero. Avendo poi chiesto a D. Bosco, suo intimo amico, chierici e preti per dirigerlo, questi acconsentì premurosamente e cominciò nel 1863 a mandarvi tutte le Domeniche D. Francesia e poi D. Tamietti Giovanni e altri preti a celebrarvi la S. Messa, a confessare e a predicare. I viceparroci di S. Pietro e Paolo alla sera venivano a prestarvi l'opera loro. Il Cavaliere non cessò mai di provvedere co' suoi danari a tutti i bisogni dell'Oratorio, del quale era instancabile catechista ed assistente; e i figli di D. Bosco continuarono sempre ad averne la direzione spirituale. [162]

                Abbiamo detto che i giovani esterni nelle Domeniche erano diminuiti, ma bisogna che osserviamo come il loro numero tornasse a crescere nel tempo dei giornalieri catechismi quadragesimali, poichè non intervenendo gli alunni interni, essi gremivano tutta la chiesa di S. Francesco. Così avviati vi si accalcavano anche alla Domenica quanti vi potevano stare ed era uno spettacolo degno di essere ammirato, come affermarono illustri prelati. Un giorno entrava all'improvviso in chiesa Mons. Sola, Vescovo di Nizza Marittima, mentre vi si faceva il catechismo, e osservando commosso quella moltitudine, si avanzò, prese il libro della Dottrina Cristiana dalle mani di un catechista ed egli stesso continuò a spiegarla ai giovanetti. Lo stesso fecero in varie circostanze altri Vescovi con grande piacere dei figli del popolo.

                Di questi D. Bosco ne andava in cerca e di raro tornava a casa solo, specialmente al sabato sera. A bello studio egli passava in quei luoghi nei quali con più facilità poteva avere tali incontri. Anzi nei dintorni dell'Oratorio, come luoghi conosciuti, entrava nel cortile e nelle stesse abitazioni, domandando piacevolmente alle madri: - Avete figliuoli da vendere? - E pregandole ad un tempo che li lasciassero venire con lui. In tale modo ne raccoglieva una bella schiera or di qua, or di là e li persuadeva a venirsi a confessare. Poscia condottili all'Oratorio, faceva loro un po' di catechismo, li confessava, s'informava della loro condizione e col consiglio e coll'opera provvedeva a quanto era necessario pel bene delle anime loro. Continuò queste sue caccie spirituali fino al 1864, cioè fin quando il numero degli alunni interni della casa più non gli permise tale apostolato.

                Non dimenticava però mai certi giovanetti operai, che [163] avevano lasciato l'Oratorio festivo o vi si facevano veder solo a quando a quando. Con loro e in modo particolare con quelli che sapeva trovarsi nei pericoli ed essere un po' trascurati delle cose dell'anima, usava un tratto di maniere ammirabili e direi quasi inimitabili. Incontrato qualcuno di costoro, dopo averlo intrattenuto per qualche istante del mestiere, della sanità, della famiglia, infine con una dolcezza, che rapiva il cuore, gli diceva prima di lasciarlo: - Vieni poi a trovarmi! - Egli era subito capito ed il giovane prometteva ed attendeva. D. Bosco era sempre pronto a confessarli ogni qual volta si presentavano, eziandio in mezzo ai giovani interni che riempivano la sagrestia, facendoli passare per i primi.

                Il bene intanto che D. Bosco prodigava ai giovani dell'Oratorio festivo, ridondava anche a vantaggio de' loro parenti come abbiamo già accennato altrove. Egli stesso raccontava il seguente fatto discorrendo dopo pranzo co' suoi alunni il 14 settembre 1862.

                “Circa due anni fa andai a confessare un nipotino di un caffettiere, giovane di ottime speranze che frequentava l'Oratorio. Lo zio e la zia lo amavano teneramente. Il piccolino fatta la confessione, vedendo i suo cari che stavano intorno al letto tristi e melanconici pel suo male, che andava ognor più peggiorando, rivolto ad essi il discorso, disse: - Questa vostra tenerezza non è ancor quello che mi consoli: se volete contentare il mio cuore preparatevi a fare una buona confessione; questo sì che mi piacerebbe. - Immaginatevi! Quello zio e quella zia sentendo parlare così quell'unico conforto che avevano al mondo, e che tanto amavano, furono commossi fino alle lacrime: -Ebbene, dissegli lo zio: se è questo solo che ti possa consolare, voglio darti questa consolazione. - E subito [164] egli, la moglie, i garzoni tutti si inginocchiarono e fecero la loro confessione. Debbo notarvi che costoro, come si può supporre di gente da caffè erano poco amanti della confessione e la trascuravano. Già erano confessati gli uomini, rimaneva ancora la donna e questa era per me un imbroglio. Come fare? Dirle che venisse poi a trovarmi a casa non conveniva, perchè poteva darsi che passato quel fervore passasse pure il buon proposito. Che feci? Ho preso le tendine del letto e le aggiustai in modo che servissero di grata. Ma vedendomi quella buona donna occupato in quello, secondo lei, strano lavoro, - Che cosa vuol fare? mi disse.

                - Faccio il tappezziere!

                - Lasci pure, mi replicò; io mi confesserò come gli altri!

                - Non si può!

                - Oh! si che fa bisogno di tante cerimonie.

                - Non sono cerimonie, ma così è prescritto; cioè per le donne si deve usare la grata e siccome qui non c'è dobbiamo aggiustarci in altro modo.

                - Ah! se è così, faccia pure!

                Aggiustato che ebbi alla bella meglio quel confessionale, le dissi: - S'inginocchi lì, ma un po' discosta.

                Così fece e si confessò.

                Miei cari, ringraziamo il Signore. Si vede proprio che Dio alcune volte produce colla sua grazia veri prodigi. Felici coloro che corrispondono alla grazia di Dio: ma infelici quelli che sentendolo battere alla porta del loro cuore, gliela chiudono: essi corrono grave pericolo, che più non torni e così se ne muoiano nel loro peccato, che Dio stesso nella Scrittura minaccia di fare. Quaeretis me et non invenientis et in peccato vestro moriemini. Dopo quel tempo, tanto il padrone quanto i garzoni continuarono a [165] confessarsi regolarmente. Venivano a trovarmi nell'Oratorio e, quando non avessero potuto, me lo facevano sapere, ed io andava a confessarli in casa”.

                Un altro giovane dell'Oratorio festivo fu occasione della salvezza spirituale di suo padre. La propaganda protestante continuava in Piemonte i suoi attentati contro la religione cattolica e aveva stabilito in Torino la società dei trattati religiosi per l'Italia con una libreria evangelica, ed avea poste in circolazione 31.372 copie di opere eretiche tra grandi e piccole, delle quali 27.124 in lingua italiana e 4.248 in francese. I libri erano mandati da Parigi, Dublino e Londra e da questa anche grosse somme di danaro. Tale società aveva anche aperta in Torino una tipografia per la pubblicazione del giornale La Buona novella, che in otto mesi dava alla luce non meno di due milioni e mezzo di pagine blasfeme e calunniose. Un gran numero di emissarii ne procurava la diffusione, recandosi in tutte le città e paesi o frequentando i mercati, o tenendo banco, o aprendo botteghe per dare spaccio a questa merce avvelenata.

                Il figlio adunque di uno di questi emissarii e manutengoli frequentava l'Oratorio, e suo padre per avidità di guadagno vendeva in Torino giornali e libri pessimi.

                I giovani esterni non tardarono a venire in cognizione di tale cosa, e siccome D. Bosco aveva detto loro più volte, che tali emissarii cooperavano direttamente ed immediatamente al male, corsero a manifestargliela. Egli allora si avvicinò a quel povero figlio ad avute maggiori informazioni e preghiera che volesse rimuovere il padre da quell'abbominevole mestiere, si recò alla sua bottega. Colle buone maniere tanto disse e tanto fece che indusse quell'uomo a cedergli tutta quella mercanzia eretica, e se la fece portare all'Oratorio; ove fatto un grosso mucchio di quei libri e [166] giornali protestanti in mezzo al cortile alla presenza dei giovani, diede loro il fuoco e li ridusse in cenere. In contraccambio si affrettò a mandare al libraio altrettanta quantità di libri buoni, quanti ne poteva contenere un ben capace carretto. Tra quelli eravi il Giovane Provveduto, il Cattolico istruito nella sua religione, ed altri moltissimi opuscoli delle Letture cattoliche.

                Di queste egli vedeva l'urgente bisogno e continuava con alacrità l'opera sua. Il fascicolo di marzo fu accolto con entusiasmo dai giovani e dagli associati. Era il racconto anonimo: La croce accanto alla strada. Si narra di un fanciullo tirolese che smanioso di viaggi fugge da' suoi monti; pentito però di aver cagionato dolore al padre e alla madre, ravveduto pel ricordo di una croce piantata vicino alla sua capanna, dopo avventure ora terribili, ora liete, visitate varie missioni Cattoliche d'America, riacquistato una ragguardevole fortuna, che gli era stata rapita, ritorna a consolare i vecchi suoi genitori. E D. Bosco con sagge osservazioni faceva notare ai lettori l'importanza dei benefizi recati al mondo dalla propagazione del Vangelo; e la differenza tra le missioni della Chiesa Cattolica in terre infedeli perchè guidate da Dio, e quelle dei protestanti perchè emissarii del demonio.

                L'opuscolo incominciava con questo indirizzo:

 

                Ai benemeriti corrispondenti ed associali delle Letture Cattoliche.

 

                Entriamo col presente fascicolo, nel settimo anno delle nostre popolari pubblicazioni con coraggio e fiducia che i nostri signori Corrispondenti ed Associati vorranno, come negli anni scorsi, continuarci la desiderata cooperazione.

                La Direzione spera di non aver mancato allo scopo che s'era prefisso, e, se non potè ottenere ancora tutto quel bene che desidera, è lieta però di conoscere che non è scarso il male impedito. [167]

                I tempi corrono difficili ora più che mai, ma la nostra confidenza essendo riposta in Colui che tutto può e nei nostri benemeriti Cooperatori ed Associati, speriamo tuttavia di superarli.

                Perciò con tanto maggior impegno proseguiremo nel nostro compito, in quanto che sappiamo di far cosa ottima, avendone non solo l'approvazione, ma il più incalzante e caro incoraggiamento dal Padre dei fedeli il Sommo Pontefice Pio IX, il quale volle non solo fossero introdotte le Letture Cattoliche negli Stati Pontificii, ma che un'apposita edizione fosse pubblicata in Roma stessa, avente lo stesso titolo, formato e scopo.

                Mentre ringraziamo tutti quelli che ci aiutarono e promossero in qualsiasi modo le Letture Cattoliche, ci raccomandiamo caldamente a volerci continuare i loro favori, promettendo, per quanto è in noi, di apportarvi tutti i miglioramenti che saranno possibili negli argomenti a trattarsi, onde renderle sempre più interessanti.

La Direzione.

 

                Mentre così D. Bosco difendeva il regno di Dio, e molte anime riconduceva in seno ad esso, Iddio rendeva stabile sempre più il suo Oratorio per mezzo di D. Cafasso. Il Padre Pagani Superiore dell'Istituto della Carità gli aveva chiesto il rimborso delle 20.000 lire stategli imprestate dall'Abate Rosmini con una parte dei frutti scaduti e non pagati. D. Bosco si dichiarò pronto a pagare il capitale, ma di quelli interessi asseriva che l'Abate Rosmini, poco tempo prima di morire, avevagli fatto intendere non doversi più fare parola. Aggiungeva che il defunto Padre Gilardi non aveva insistito per tali pagamenti conoscendo i motivi, che avevano inclinato il Superiore a quella condonazione. Il Padre Pagani allora fece conoscere a D. Bosco i bisogni nei quali si trovava il suo Istituto, ed egli accettò un proposto accomodamento.

                L'11 marzo 1859 con atto rogato dal notaio Turvano D. Bosco e D. Cafasso sborsavano lire 15.000 al Teologo [168] Bertetti in saldo del debito che essi avevano con l'Abate Antonio Rosmini, per il prestito fatto dal suddetto nella compra degli stabili Pinardi. Questo atto nota che il debito veniva estinto da D. Bosco con danaro comune a D. Cafasso Poco tempo prima erano state pagate 5000 lire. Il campo dei sogni restava sempre proprietà de' Rosminiani.

                Sorse ancora qualche contestazione di poca importanza coll'uomo d'affari dell'Istituto della Carità e ciò appare da una lettera di D. Bosco, che fa testimonianza quanto egli fosse alieno dai litigi.

 

                Al Pregiatissimo Signore, il Sig. Zaiotti Giuseppe, presso il venerando Istituto di Carità. - STRESA.

 

                               Preg.mo Signore,

 

                Il Signore ci doni la santa virtù della pazienza. La sua lettera mi ha dato non poco fastidio. Specialmente per quelle parole che minacciano di usare mezzi legali per quei cento franchi di cui Le sembrò essere incorso errore. Ho dovuto sospendere le mie occupazioni e spendere non poco tempo per questo affare. Anzi tutto Le devo premettere che da diciotto anni tratto affari coll'Istituto della Carità e non vi fu mai ombra di sospetto, nè di freddura; anzi il Sig. D. Carlo Gilardi, di compianta ricordanza, ma sempre di grata memoria, egli faceva il segretario per me e per lui, ed io mi rimetteva ai conti che egli mi dava senza nemmeno fare osservazione di sorta. Questi conti furono sistemati il 10 luglio 1857; Ella mi va a cercare una lettera mia, secondo la quale (che ha data del 10 febbraio 1855) sarebbe incorso un errore. Sarebbe un dire che io e D. Carlo avessimo ambedue la testa nel sacco; perciocchè per lo più i conti erano sempre sistemati in presenza di ambedue, e ci davamo premura di contare soldi e centesimi nel timore reciproco di dare il minimo danno ad una delle parti.

                Noti anche che quando io faceva qualche pagamento lo significava per lettera a D. Carlo, ma nel totale dei conti quelle lettere [169] servivano di semplice memoria e si faceva nota a parte di debito e credito. A me pare che il ricercare lo sbaglio avvenuto antecedentemente, a conti aggiustati in questo modo, si è un cercarsi fastidii, ove non v'è nè cagione, nè motivo di sorta. Tuttavia, anche nella ferma e piena persuasione che questi cento franchi siano stati compresi nella sistemazione dei conti 1856 - 57, La prego di dire a chi fa da Superiore in questi affari, che io non voglio per nessun motivo venire a mezzi legali, e che a semplice cenno io manderò per la posta un vaglia di cento franchi, purchè tale sia la volontà del Superiore di Lei.

                In quanto poi a fr. 1,60 di cui non aveva spezzati onde saldare a casa del Cav. Notaio Turvano, era proprio persuaso che avessi saldato ogni cosa, mercè il cambio fatto di una moneta di 14,50, e sembrami averle dato tre monete da otto soldi, una da quattro, e due soldi. Tuttavia non avendomi notato nulla, ed essendomene potuto sbagliare come Ella mi dice, senza difficoltà di sorta, Le mando un vaglia corrispondente.

                Per diminuire disturbi io la prego di non occuparsi nè del mio torto, nè della mia ragione, ma dirmi semplicemente se debbo mandare i cento franchi; in caso diverso occorre nemmeno che mi risponda. Il Signore Le doni sanità e grazia e augurandole benedizioni dal cielo sopra tutto l'Istituto, mi professo colla debita stima.

                Di V. S. Preg.ma

                Torino, 4 aprile 1859.

Dev.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                P. S. La prego di volermi inviare la scrittura di obbligazione segnata dal Teologo Murialdo, Borrel, Cafasso, Bosco. L'ho cercata presso il Notaio Turvano e non si è trovata.

 

 

CAPO XIV. D. Bosco strumento nelle mani di Dio - Sua fiducia nella Divina Provvidenza e suo abbandono in Lei - I giovani esortali alla preghiera per ottenere all'Oratorio soccorsi nelle materiali necessità - Effetti meravigliosi della preghiera - Elemosine generose e provvidenziali dei ricchi - 0fferte dei poverelli - Alcuni falli.

 

                La splendida generosità di D. Cafasso verso l'Oratorio, non solo era ispirata da un'ardente amore verso Dio e verso il prossimo, ma eziandio dalla persuasione di cooperare ad un'impresa duratura per secoli: quindi amò di avere il merito intero della compra di Casa Pinardi, ponendo così egli stesso le fondamenta di un edifizio che sarebbe divenuto mondiale. Conosceva le rette intenzioni, la fedeltà ai disegni della Divina Provvidenza del suo discepolo, ed era certo che egli avrebbe corrisposto pienamente alla sua vocazione. Soprattutto ammirava in lui la fermissima fiducia di conseguire da Dio tutti gli aiuti necessarii a compiere le sue grandi opere di religione e di carità.

                D. Bosco infatti intrapresa una di queste, più non vi desisteva, ancorchè sprovvisto de' mezzi richiesti dalla prudenza umana, nè per difficoltà che insorgessero, nè per opinioni e giudizii contrarii, malignità o vessazioni degli [171] uomini, nè per disgrazie, nè per contrattempi che accadessero. Egli non dubitò mai che Dio non gli sarebbe venuto in soccorso; e anche in gravissimi bisogni sempre lieto e tranquillo diceva: - Iddio è un buon padre, che provvede agli uccelli dell'aria, e non lascierà certamente di provvedere ai bisogni dell'Istituto. - E soleva recare la ragione della sua fiducia: - Di queste opere io non sono che umile strumento; l'artefice ne è Iddio. Or tocca all'artefice e non allo strumento provvedere i mezzi di proseguirle e condurle a buon fine: ed egli lo farà quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani.

                Quindi non si infastidiva mai per l'avvenire; e se qualche benefattore gli avesse lasciato alcuna sostanza, egli era pronto a vendere tosto edifizii e terreni, impiegando il prezzo per i bisogni urgenti della Casa o per opere nuove. Giorno per giorno spendeva quanto aveva ricevuto e non conservava alcune somme, perchè era sempre pressato dai creditori. Sovente i prudenti lo consigliavano a non arrischiare con tanti debiti l'esistenza dell'Oratorio, ma egli, mostrandosi sicuro di ciò che affermava, più volte disse: - Dopo la mia morte questa Istituzione non solo continuerà, ma prospererà vie maggiormente e si diffonderà per ogni parte del mondo.

                “La sua confidenza in Dio e nella Beata Vergine, era portentosa, esclamò Mons. Cagliero. Durante trentacinque anni che stetti al suo fianco, non mi ricordo averlo veduto un sol momento infastidito, scoraggiato ed inquieto per debiti dei quali era aggravato, eziandio pel sostentamento de' suoi giovanetti”.

                D. Bosco non possedeva nulla, assolutamente nulla, ma Dio era il suo cassiere, che ha per suoi agenti tutte le [172] persone buone e generose, le quali sanno che il danaro non è scopo, ma mezzo concesso a loro per far del bene a se stesse e ai loro simili.

                Quindi egli si rivolgeva a Dio, perchè gli mandasse questi buoni angeli terreni e sovente nel sermoncino della sera diceva agli alunni: - Pregate, e coloro che possono facciano la Santa Comunione secondo la mia intenzione. Vi assicuro che prego ancor io, anzi prego più di voi. Mi trovo in gravi imbarazzi. Ho bisogno di una grazia. Vi dirò poi quale sia.

                E dopo qualche sera raccontava, per esempio, che un ricco signore gli aveva portato una grossa somma pari al suo bisogno, soggiungendo: - La Vergine SS., oggi, oggi stesso ci ottenne un segnalato favore. Ringraziamola di cuore e continuate a pregare che il Signore non ci abbandonerà. Ma se nella casa entrasse il peccato, poveri noi! Il Signore non ci soccorre più. Attenti adunque a respingere le insidie del demonio e frequentare i sacramenti.

                Gli stava perciò moltissimo a cuore che gli alunni pregassero bene.

                Era solito, quando poteva, venir alla sera a recitar in comune coi giovani studenti le orazioni. Più di una volta quando per qualche motivo doveva protrarre la sua cena in tempo delle preghiere, o trattenersi in refettorio, lasciava ora all'uno ora all'altro l'incarico d'andare a sorvegliare o ad avvertire certi alunni, che invece di dire le preghiere o dormivano o chiacchieravano.

                Alcune volte si alzava in fretta da tavola e andava lui stesso a fare questo ufficio, tanto gli stava a cuore la recita devota delle orazioni. Non poteva tollerare che i giovani in questo tempo si appoggiassero al muro o stessero seduti sulle calcagna, diceva egli, come i cagnolini. [173] Qualcheduno fece a D. Bosco questa osservazione: - Non sarebbe meglio che invece di far recitare dai giovani le preghiere in comune e ad alta voce, si lasciasse che ciascuno le dicesse sotto voce e si assuefacesse alquanto all'orazione mentale?

                D. Bosco rispose: - I ragazzi sono così fatti che se non pregano ad alta voce cogli altri, lasciati a sè non direbbero più le preghiere nè vocalmente, nè mentalmente. Quindi posto anche che le dicessero solo materialmente, anche distratti, mentre sono occupati a pronunziare le parole non possono parlare coi compagni, e le stesse parole che dicono anche solo materialmente servono a tener lontano da loro il demonio.

                Insisteva eziandio molto che quando i giovani fossero raccolti per le preghiere in comune, nessuno stesse a far ricreazione chiacchierando o passeggiando nel cortile o sotto il porticato. Voleva che ognuno dei chierici o preti andasse a recitare le orazioni coi giovani, o si ritirasse in chiesa od in camera, perchè il fare diversamente lo giudicava scandalo da evitarsi a qualunque costo. Esigeva il silenzio perfetto, dalla sera dopo le orazioni fino al mattino seguente dopo la santa Messa. Questo silenzio riputavalo di somma necessità perchè gli animi non divagati potessero conseguire tutto il frutto della preghiera.

                Una volta D. Bosco discendendo dalla sua camera per le confessioni s'incontrò in una squadra di giovani studenti, che andavano in chiesa per ascoltare la S. Messa. Avendone visto alcuni a chiacchierare forte e liberamente, li avvertì con qualche parola o segno di far silenzio. Uno di quelli però non si diede per inteso di quell'ammonimento. Allora D. Bosco gli andò incontro ed egli stesso lo castigò, dimostrandosi poi assai malcontento, perchè gli assistenti non [174] esigevano quel silenzio che egli aveva tante volte raccomandato.

                Per tutte queste sue premure le preghiere della comunità salivano gradite al trono di Dio e si avveravano pienamente quelle parole di Isaia Profeta: “Non si affaticheranno, invano i miei eletti, nè avranno figliuoli, che sian loro di affanno, perchè stirpe benedetta dal Signore sono essi. E prima che alzin la voce, io li esaudirò e prima che abbiano finito di dire, li avrò uditi”[6].

                Sul principio del 1858, dovea D. Bosco estinguere un grosso debito pel 20 gennaio e non possedeva un soldo. Il creditore aveva già aspettato alquanto tempo ed ora voleva assolutamente essere soddisfatto. Si era già al 12 del mese e nulla di nuovo per assicurare le speranze di D. Bosco. Trovandosi egli adunque in tali strettezze, disse ad alcuni giovani in privato: - Quest'oggi ho bisogno di una grazia particolare: io andrò in Torino, e per quel tempo che vi rimarrò procurate che vi sia sempre qualcuno di voi a pregare in chiesa. - Così si fece. D. Bosco andò in città e quei giovani alternativamente andarono a pregare in chiesa.

                Mentre D. Bosco camminava per Torino, vicino alla chiesa dei Lazzaristi gli si presenta un signore sconosciuto e dopo averlo salutato, gli domanda:

                - D. Bosco! È vero che ha bisogno di danari?

                - Altro che bisogno! necessità!

                Se è così prenda! - E gli presentò una busta nella quale erano più biglietti da mille lire. D. Bosco rimase meravigliato di quel dono, ed esitava nell'accettarlo, pensando che quel signore non facesse da senno o celiasse. [175]

                - Ma a che titolo mi dona questa somma? gli chiese. D. Bosco.

                - Prenda, le replico, e se ne giovi per le necessità de' suoi giovani.

                - Grazie adunque e la Madonna lo ripaghi... E se vuole le farò due righe di ricevuta.

                - Non fa bisogno.

                D. Bosco prese quei biglietti che l'incognito gli porgeva e continuò:

                - Almeno favorisca di dirmi il suo nome, affinchè possa conoscere il mio benefattore.

                - Non cerchi di più! Il donatore non vuol esser conosciuto. Desidera solamente che si preghi per lui... Ella può fare ciò che vuole di questo danaro... e non si curi di altro. - Così dicendo si allontanò in fretta.

                Era evidente un tratto della Divina Provvidenza e D. Bosco mandò subito a pagare il suo creditore.

                Narrò Mons. Cagliero: “Un giorno dell'anno 1859 D. Bosco a mezzodì discese nel refettorio, ma non per mangiare, sibbene con mantellina e cappello in procinto di uscire. Maravigliati noi dicemmo: Oh ! D. Bosco, non mangia oggi con noi? - Non posso, rispose, pranzare oggi all'ora solita, anzi, ho bisogno che usciti di refettorio, vi incarichiate (rivolto a D. Alasonatti Prefetto, a D. Rua, a me e ad altri chierici) ho bisogno che da quest'ora fino alle tre, vi sia sempre alcuno di voi ed alcuni dei nostri fanciulli, scelti tra i migliori per pietà e fervore, dinanzi al SS. Sacramento Stasera se otterrò la grazia, che ci è neccessaria, vi spiegherò il perchè di questa preghiera.

                Eseguimmo i suoi ordini e si pregò fino alle ore tre. Verso sera arrivò D. Bosco tranquillo e calmo come quando era partito a mezzo giorno. E disse rispondendo alle nostre [176] importune e curiose domande: - Oggi alle tre scadeva un compromesso serio col libraio Paravia di diecimila lire: se non l'avessi soddisfatto ne avrebbe avuto grave danno lui e gravi danni l'Oratorio. Altri debiti urgevano con altri creditori, che non ammettevano più dilazione e questi ammontavano ad altri dieci mila franchi. Sono uscito in cerca di provvidenza e senza sapere dove sarei andato. Giunto alla Consolata entrai e pregai la Vergine SS. a volermi consolare ed a non abbandonarmi in quel frangente! Uscitone andai di contrada in contrada dal tocco sino alle due, quando giunto in un vicolo presso la chiesa di S. Tommaso, che metteva in via dell'arsenale, mi si avvicina un uomo pulitamente vestito che mi dice: - Oh se non m'inganno lei è D. Bosco!

                - Sì, per servirla; risposi.

                - Veda; è proprio lei che io cercava e se non l'avessi incontrato avrei dovuto andare fino all'Oratorio: così mi risparmia una passeggiata: ecco: il mio padrone mi ha incaricato di portarle questo plico.

                - E che cosa contiene?

                - Io non lo so; disse quel domestico - Allora io lo apersi e vi trovai cartelle del debito pubblico.

                - E da chi provengono queste cartelle? domandai.

                - Non debbo dirlo... ed ora la mia commissione è fatta. Stia bene. -E senz'altro se ne andò. Io allora mi recai in casa di Paravia, ed esaminato il pacco e le cartelle, trovai tanto da pagare a lui dieci mila lire per la stampa delle Letture Cattoliche ed anche per soddisfare ad altri urgentissimi impegni! Oh! figliuoli! Come è grande la divina Provvidenza! Come ci vuol bene! Come dobbiamo esserle riconoscenti! Siate sempre buoni! Amate sempre e non offendete mai il Signore ed egli non ci lascierà mancare il necessario. [177]

                Noi vedevamo in quel momento il suo volto più raggiante del solito, udivamo la sua voce più affettuosa e soave non tanto per la gioia e per la meraviglia, quanto per la gratitudine e l'amore verso Dio. E noi eravamo compresi dello stesso suo stupore e riconoscenza, accrescendosi in noi l'ammirazione verso il nostro buon padre.

                Tratti prodigiosi e simili a questi della divina Provvidenza si sono poi ripetuti molte altre volte in favore dell'Oratorio e delle altre Case della Congregazione”.

                Nel 1860 un giorno di sabato o altra vigilia di festa verso le 11 del mattino si presentava a D. Bosco il panattiere dicendogli bruscamente, che se non era pagato all'istante non avrebbe mandato più pane per la cena di quel giorno. E in casa non ve n'era che il puro necessario per il pranzo. Non valsero a calmarlo le buone parole e le promesse.

                D. Bosco, dopo aver pranzato, mandava a prendere il suo cappello e il suo mantello. Era un'ora e mezzo pomeridiane ed il Chierico Turchi con Anfossi e altri compagni, fra i quali Garino Giovanni, stavano discorrendo sotto al porticato presso la scala che scendeva nel refettorio. Ed ecco comparire D. Bosco in atto di uscir di casa. Avvicinatosi ai chierici, disse loro: - Fatemi un piacere: andate subito in chiesa a pregare per un venti minuti innanzi al SS. Sacramento secondo la mia intenzione. Datevi lo scambio due alla volta, fino all'ora in cui andrete a far scuola. Oggi mi trovo in un gran bisogno.

                I chierici senza sapere il perchè eseguirono subito quanto egli desiderava e mentre erano in iscuola D. Bosco rientrava nell'Oratorio.

                D. Turchi ci narrava: - Alla sera io era ansioso di sapere il risultato della cosa, ma D. Bosco dovendo attendere alle confessioni, non era venuto neppur a cena colla comunità, [178] secondo il solito nelle vigilie delle feste. Io però chiesi al Prefetto D. Alasonatti, se sapeva nulla del risultato delle nostre preghiere: - Sì, sì, rispose; tutto andò bene e Don Bosco ve ne parlerà. All'indomani dopo le orazioni Don Bosco così ci disse: Vi ringrazio che ieri avete pregato. Io doveva fare un grosso pagamento al panattiere Magra provveditore dell'Oratorio, il quale si protestava di non poter più somministrare le provvigioni, se non veniva pagato. Io non aveva denari e non sapeva dove dar del capo per trovarli. Mentre voi eravate in chiesa io andava per la città fantasticando dove potessi rivolgermi, quando sento un uomo che mi chiama, mi raggiunge e mi dice: - Oh D. Bosco, andava precisamente da lei, mandato dal mio padrone, il quale è infermo e desidera parlargli. - Acconsentii subito e il servitore mi accompagnò presso un bravo signore, che da tempo era obbligato a stare in letto. Egli mi accolse con grande bontà, mi chiese notizie dell'Oratorio, e dopo avermi intrattenuto in altri ragionamenti, mi consegnò un plico con entro il danaro del quale io abbisognava. E così abbiamo potuto in giornata soddisfare il panattiere. Un'altra sera D. Bosco raccontava agli alunni ch'avevano pregato per lui: - Io mi era avviato per cercar fortuna: Sapevo che sotto la parrocchia dei Martiri abitava una signora facoltosa e senza famiglia, ma che non voleva saperne di far beneficenze. Trovandomi in forte bisogno, andai dal curato D. Bruno a chiedergli se non avesse a male che io andassi da quella sua parrocchiana a chiederle un qualche aiuto. Il Curato mi disse: - Vada pure e se spillerà qualche cosa sarà bravo: io ho già tentato più volte pei bisogni della parrocchia e non potei averne un becco di quattrino. E ciò non ostante io ci andai e la signora mossa a compassione di me e di voi mi diede diecimila lire. Incontratomi [179] poi col Curato, ed avendogli esposto quanto aveva ottenuto, ne rimase altamente meravigliato.

                Circa il 1862 D. Bosco doveva dare varii acconti all'impresario delle costruzioni e ai provveditori di legnami, ferri, cuoi e panni e di altri oggetti per i laboratori.

                Egli pertanto, mentre i giovani erano a scuola, pieno di fiducia nella Provvidenza divina, pregò il capo cuoco Gaia ed altre pie persone della casa di andare in Chiesa e recitare il Santo Rosario: quindi usciva di casa per cercare soccorso. Ma allontanatosi di poco dall'Oratorio incontrò sul viale fiancheggiante il manicomio un cotale, il quale consegnatogli un piego suggellato gli disse: - Per le sue opere! - e senza dir altro se n'andò. D. Bosco, aperto quell'involto, vi trovò settemila franchi e ringraziando l'amabilissima Provvidenza di Dio, tutto allegro, se ne ritornò alla sua stanza.

                Ma se le cento volte egli andava in cerca della divina Provvidenza, questa madre amorosa veniva le cento volte e le mille in cerca di lui co' suoi soccorsi.

                Nell'anno 1861 il sig. Magra panattiere al quale D. Bosco doveva dodici mila lire, per provvista fatta di pane, si era rifiutato di mandargliene dell'altro. D. Bosco anche allora, come sempre soleva ripetere ai suoi creditori, gli fece dire che non dubitasse, che la divina Provvidenza aveva mai fatta bancarotta, continuasse a provvedere il pane a' suoi giovanetti, e che il Signore avrebbe pensato a mandargli del danaro.

                Il sig. Magra mandò il pane, ma venne per riscuotere il suo avere o almeno un acconto. In casa non si aveva punto di danaro. Era un mattino di festa e D. Bosco stava confessando in sagrestia un gran numero di giovani, quando venne il creditore dicendo al sagrestano, che a tutti i costi voleva parlare con D. Bosco. Il sagrestano tentò d'impedire [180] questo disturbo, ma il panattiere si fa largo in mezzo ai giovani e va diffilato innanzi a D. Bosco e incomincia ad insistere affermando d'aver gran bisogno della somma dovutagli. Don Bosco lo guardò tutto tranquillo e gli disse: - Aspetti alcuni momenti che io abbia finito di confessare. Ma l'altro: - No che non posso aspettare, ho bisogno che mi paghi subito.

                D. Bosco per tutta risposta continuò a confessare e il panattiere vedendo che egli non se ne dava per inteso delle sue proteste, si ritirò in disparte guardando D. Bosco quasi con stupore. Quindi uscì a passeggiare sotto i portici aspettando che egli uscisse. D. Bosco finito che ebbe, pregò il Signore che lo aiutasse in quell'angustia e in quel mentre entrava in sagrestia un signore a lui ignoto, il quale gli consegnò una lettera chiusa e, salutatolo cortesemente, se ne andò senz'altro. D. Bosco pose quella lettera nel suo breviario e celebrata la S. Messa, andò in refettorio, accompagnato da D. Savio Angelo e da alcune persone esterne. Allora il Savio gli ricordò il debito urgente e D. Bosco senza scomporsi incominciava a dirgli che bisogna aspettare altro momento, che allora nulla egli aveva. In quell'istante però, essendo stata recata la posta, si sovvenne della lettera che aveva ricevuta in sagrestia e apertala vi trovò una somma considerevole, che tosto consegnò a D. Savio per contentare sufficientemente il panattiere. Incontratolo poco dopo gli diceva: - Vedete! La Provvidenza è grande ed è venuta in nostro soccorso! Ora vi manda un acconto e presto vi farà tenere il saldo. Sia ringraziata la Madonna.

                Così narrarono Mons. Cagliero, D. Savio, Enria e lo stesso D. Bosco.

                D. Savio Angelo, economo dell'Oratorio, aggiungeva a questo altri fatti. - Un creditore, dopo una sfuriata, per non essere ancora stato pagato, già stava per andarsene [181] dalla camera di D. Bosco, minacciando di far spiccare contro di lui una citazione giudiziaria. Quand'ecco un benefattore presentarsi a D. Bosco e consegnargli tremila lire, precisamente la somma necessaria per pagare quel debito.

                - Un'altra volta trovandomi io stesso in bisogno di dar le paghe ai muratori per le costruzioni già fatte, ricorsi a D. Bosco, ma egli nulla aveva di che darmi. Nel mentre che D. Bosco mi licenziava, dicendomi di tornare in altro momento, entrava in sua camera, se ben mi ricordo, il Conte Callori, il quale consegnò una vistosa somma che servì a meraviglia in quella critica circostanza.

                Da queste pagine adunque risulta l'efficacia della preghiera, la carità sorprendente delle anime buone; ma nello stesso tempo esse racchiudono un mistero di fatiche, traversie, angustie senza numero come ognuno può bene intendere, sopportate però da D. Bosco quasi scherzando. Egli scrisse un giorno al Can. Anfossi un biglietto in questi termini: “Mio caro; son carico di debiti: fa una colletta per me, altrimenti faccio bancarotta”. E il Can. Anfossi recatosi da lui per presentargli una elemosina negli ultimi tempi della sua vita, sentissi a dire: - In questo anno solo si fecero già quattro milioni di spese e grazie a Dio sono tutte pagate: il poco fa il molto: ho bisogno che mi aiutino come fai ora tu, anche con offerte da poco”.

                E le offerte da poco venivano a lui dalle mani di persone poverette e di bassa condizione, ma tanto numerose, da sorpassare di gran lunga quanto avevano fatto tutti i ricchi insieme. Si legge nei Proverbi al Capo XIX versicolo 22: “L'uomo che è nell'indigenza è misericordioso, provando egli ciò che sia il patire”. A milioni furono gli esigui, ma eroici atti di beneficenza di questi umili messaggieri della divina Provvidenza. Scegliamo due fatti. [182]

                Mentre D. Bosco era angustiato per un debito di 300 lire che bisognava pagare senza dilazione, ecco entrare in cortile un uomo di età matura il quale avvicinatosi a lui, gli disse: - Io sono un impiegato governativo in ritiro. Ho fatto qualche risparmio sulla mia pensione ed ho pensato di fare un po' di bene per l'anima mia. - Così dicendo porgeva a D. Bosco una borsa.

                - Ma poi lei, si è serbato qualche cosa per caso di malattia? chiese D. Bosco.

                - C'è la Provvidenza, concluse il bravo uomo: e poi prima di morire voglio mandarmi innanzi all'eternità qualche merito. Se verrò ammalato, ci sono gli ospedali. - E senza dire altro se ne andò.

                In quella borsa vi erano precisamente 300 lire.

                Un dì venne all'Oratorio per parlare a D. Bosco una vecchia di circa 75 anni. Egli credeva che venisse solamente per farsi scrivere una supplica da indirizzarsi a qualche autorità o a un qualche ricco signore.

                - No, quella rispose, ho bisogno di parlare con Don Bosco.

                D. Bosco la condusse in disparte, la fece sedere ed essa così prese a parlare. - Io sono una povera vecchia: ho sempre lavorato per poter vivere: aveva un figlio e mi è morto; ora non mi resta che morire io pure; non ho eredi necessarii; mio figlio prima di morire mi disse di dare in limosina tutto quello che mi fosse sopravvanzato. Ecco: ho cento franchi, risparmio di 50 anni di lavoro continuo, e li consegno a vostra signoria. Ho ancora quindici franchi e li conservo per la bara dove mi porranno dopo la mia morte. Ho eziandio un'altra piccola somma per pagare il medico. Questa sera vado a pormi in un letto e sarà affare di pochi giorni. [183]

                - Io prendo questi 100 franchi, rispose D. Bosco, e ve ne ringrazio, ma vi assicuro che non li toccherò fin dopo la vostra morte; e perciò in qualunque occorrenza venite pure che sono vostri.

                - No; sia piuttosto così; io ho fatto limosina e ne ho il merito; ella si serva pure di questo danaro. Qualora io avessi bisogno verrò a domandarle limosina ed ella, facendola, ne avrà eziandio il merito. Ma lei poi verrà a vedermi ammalata?

                - Sicuramente! rispose D. Bosco.

                Il domani D. Bosco, colpito dalla carità così ingenua di quella poveretta volgeva in pensiero di andarla a visitare, ma non si ricordava più della strada e del numero dell'abitazione. Passarono due giorni, quando un'altra donna venne a chiamarlo. D. Bosco andò subito. Appena entrato nella stanza riconobbe la vecchia che sorridendo gli fe' segno di aver bisogno di nulla.

                - Ma sì, esclamò D. Bosco, ella ha bisogno, del resto non mi avrebbe chiamato.

                - Sì; ho bisogno di ricevere i SS. Sacramenti.

                Li ricevette tutti con viva fede e se ne morì in pace.

                Oh amabile carità! E D. Bosco tutti i giorni di sua vita potè ripetere: - Come è buono il Signore! Sapeva che eravamo in bisogno e ispirò alle caritatevoli persone di venirci in aiuto. - E nello stesso tempo verificavasi la promessa del Salmo XXXII “Santi tutti del Signore temetelo, imperocchè non manca nulla a coloro che lo temono. I ricchi si trovarono in bisogno e patirono la fame; ma a coloro che temono il Signore non mancherà nessun bene”.

 

 

CAPO XV. Le varie Compagnie nell'Oratorio - Smarrimento dei loro verbali - Due conferenze di D. Bosco tenute alla Compagnia del SS. Sacramento - Bisogno di una nuova Compagnia per gli artigiani - Un giovanetto convertito per una preghiera recitata in onore di S. Giuseppe - Divozione di D. Bosco a questo santo Patriarca - Giuseppina Pellico traduce per D. Bosco dal francese  Le sette domeniche di S. Giuseppe - Istituzione della Compagnia di S. Giuseppe e suo regolamento - Frulli consolanti - D. Bosco scrive promettendo un suo artigiano per un Ospizio incipiente - 1 chierici sostegni delle Compagnie - Due lettere di D. Bosco al Rettore del Seminario e suo giudizio sulla condotta di qualche chierico.

 

                Un mezzo potentissimo per tener viva la divozione erano le compagnie di S. Luigi, dell'Immacolata e del SS. Sacramento. D. Bosco si recava in seno or dell'una or dell'altra per farvi udire la sua desiderata e persuasiva parola.

                E i segretarii di ciascuna Compagnia cercavano di trascriverla il più fedelmente che fosse possibile nei loro verbali, che volta per volta redigevano. Era un vero tesoro, che andavano accumulando di massime, esempi, consigli, esortazioni [185], per trasmetterlo a quelli che loro sarebbero succeduti col trascorrere degli anni. Ma pur troppo le loro note non sono giunte fino a noi; invano le abbiamo diligentemente ricercate. Il mutamento dei locali dove si tenevano quelle care assemblee, per le continue fabbricazioni di nuovi edifizii; il passare di simili documenti dall'uno all'altro in mani private, che li custodivano presso di sè, perchè le sale servivano a più usi diversi; la morte di qualcuno di essi dei quali talora gli scritti o rimanevano inosservati o andavano smarriti; la santa avidità di chi, ritornando alla propria famiglia, se ne impadroniva per recare con sè una memoria della sua fanciullezza e di D. Bosco; il trasloco poi di ufficio e di casa dei segretarii, furono causa che per noi ora sono perdute.

                Di due sole conferenze fatte da D. Bosco alla Compagnia del SS. Sacramento, in questo anno 1859, noi abbiamo ritrovate le traccie. In queste, come sempre, D. Bosco ha di mira in primo luogo l'istruzione religiosa dei giovani, perchè basata su questa, più ferma si mantenga la loro fede. I nostri lettori saranno contenti che noi assicuriamo la perpetuità eziandio di queste idee di D. Bosco; e quindi noi qui le riportiamo.

 

CONFERENZA PRIMA.

 

                Il profeta Isaia aveva annunziato che alla venuta del Signore i monti si sarebbero scossi e che i cuori più induriti si sarebbero accesi di amore. Così fu! Ma se oggigiorno dal regno dei beati volgesse i suoi sguardi sulla terra, come vedrebbe raffreddato quel sacro entusiasmo, che egli forse sperava duraturo, intenso, ognora crescente fino alla fine dei secoli!

                I Patriarchi e tutto il popolo Ebreo desideravano di vedere i giorni di Gesù Cristo, sospiravano di averlo in mezzo a loro, [186] di essere da lui benedetti. E noi, ora che lo possediamo, che lo abbiamo nelle nostre chiese continuamente, che possiamo adorarlo presente, accoglierlo nel nostro cuore, parlare con lui, chiedergli tutto, perchè egli è padrone di tutto, come lo trattiamo? Per scuoterci dalla nostra ingratitudine, dalla nostra indifferenza, facciamoci queste due interrogazioni. 1. Che cosa fa per noi Gesù in Sacramento? 2. Che cosa dobbiamo far noi in conseguenza verso di Lui?

                Che cosa fa Gesù per noi celato nel SS. Sacramento? Egli continua un atto il più profondo di umiltà, per darci esempio di questa virtù così necessaria. Tutta la sua vita mortale fu, è vero, un continuo umiliarsi; ma se io lo vedo nascere in una grotta, se giace su poca paglia, io pur odo il canto degli angioli, vedo una brillante stella che lo annunzia ai grandi della terra, ai Re Magi, i quali tosto si muovono ad adorarlo; se io lo vedo fra le turbe, disprezzato e svillaneggiato dagli Scribi e dai Farisei, vedo pur anche che ovunque egli passa lo accompagnano i più strepitosi miracoli; se io lo vedo pendere dalla croce, io vedo pur anche che al suo dolore si rattrista e si sconvolge il firmamento e il sole niega la sua luce; trema ed oscilla la terra sotto i piedi della croce; i morti risorgono dalle tombe; la natura scompigliata annunzia all'universo la morte del Dio fatto uomo. Ma nel SS. Sacramento non vedo cosa che mi possa in qualche modo indicare che vi stia nascosto un Dio onnipotente e terribile nelle sue giustizie, come infinitamente buono nelle sue misericordie. E perchè ciò? Per amore degli uomini! Per potersene rimanere con noi quasi nostro eguale, per insegnarci ad essere umili... Se egli lasciasse sfolgorare un raggio solo di sua maestà, chi mai regger potrebbe innanzi a lui? .....

                E poi, se così fosse, che merito avrebbe un cristiano? Il merito sta nella fede; ma se questo Dio visibilmente si palesasse sui nostri altari tosto mancherebbe ogni nostro merito di credenti. Egli vuol darci facile, affettuosa occasione di acquistarci questo merito, col credere alle sue parole, che sono parole di un amico divino. Ma quale vivezza di fede egli trova in noi?

                Innanzi ad un Dio così buono come dovremo giudicare la nostra indifferenza verso la sua carità? Si entra in chiesa sbadatamente; non si degna il tabernacolo di una genuflessione, [187] oppure gli si fa un inchino solo per metà; alcuni paiono quegli stessi Giudei i quali, bendato Gesù, lo inchinavano per dispregio! Ah, miei cari, entrando in chiesa fissate gli occhi nel tabernacolo ove sta Gesù Cristo. Benchè non lo vediate egli è là! Ravvivate la vostra fede; pensate che quivi abita colui, innanzi al quale tremano tutte le legioni degli angioli e tutte le schiere dei santi stanno colla fronte a terra.

                Domando ancora: che cosa fa nostro Signor Gesù Cristo nel SS. Sacramento dell'altare? Egli prega continuamente l'Eterno suo divin Padre per noi: rattiene i suoi castighi, i suoi fulmini che ci scaglierebbe pei nostri peccati. Se nel mondo non si vedono e non si sentono più certi così terribili castighi, che piombavano sul popolo ebreo nel tempo dell'antica legge, non è già perchè i nostri peccati non siano tanto enormi, oppure che minore sia il loro numero. Anche voi sapete quali e quanti empii uomini regnino fra di noi. Chi rattiene il braccio della giustizia eterna tutti i giorni, tutti i momenti, senza intermissione ? È Gesù sui nostri altari, che specialmente nella S. Messa si offre vittima per noi. Alla vista delle sue piaghe l'angelo sterminatore rinfodera la spada...

 

CONFERENZA SECONDA.

 

                Avete udito nell'ultima conferenza che cosa fa Gesù per noi nel SS. Sacramento: resta ora che esaminiamo ciò che si deve fare per lui. Egli qui se ne sta sui nostri altari in continue umiliazioni, s'immola, prega per noi; e noi dobbiamo 1. per le sue umiliazioni dimostrargli riconoscenza di una vera fede; 2. pei suoi patimenti una riconoscenza di acceso amore; 3. per le preci che di continuo porge per noi una riconoscenza di perfetta contrizione.

                1. Egli, Dio così grande, se ne sta nascosto, annientandosi sotto le specie di poco pane e di poco vino. Questo suo abbassamento dovrebbe essere agli uomini di stimolo per crederlo più fermamente Dio d'amore, che per solo amore, ed amore per chi poco lo ama, così si umilia. Eppure quanti sono mai gli eretici, che per questo appunto che non veggono alcuna apparenza di divino, osano negarlo in Sacramento..... [188] Vorrebbero costoro vedere co' proprii occhi la divina faccia di Gesù Cristo, vorrebbero sentire le angeliche armonie di tutti quelli spiriti beati, che di continuo gli fanno corona. Ma sappiano costoro che, chi non crede alla parola di Gesù Cristo, non vedrà mai la sua faccia, e sarà condannato. Sconoscenti, ingrati, di dura cervice, della stessa razza di quei perfidi Ebrei, i quali, non potendo negare i miracoli, che Gesù Cristo in loro presenza andava operando, dicevano che tali miracoli egli operava in virtù del demonio. In tal modo adunque, o mio Divin Salvatore, vi viene dagli uomini pagato il vostro abbassamento ? Ah! mio Gesù! È vero che vi sono alcuni tanto ingrati, che non vi riconoscono, ma fra tanta ingratitudine vi sono moltissime anime, vi sono tutti questi giovanetti, che vi credono con tutta la forza del loro cuore, vivo e vero presente nel SS. Sacramento. Sì, credono che voi siete il figlio dell'eterno Padre, del Dio vivente, padrone assoluto di tutto il creato: vi credono vero figlio di Maria da cui nasceste per liberarci dagli artigli dell'infernal nemico .....

                2. O tempi felici della primitiva Chiesa in cui quei fervidi campioni di Cristo cotanto si segnalavano per la loro carità, quanto siete mai desiderati ai giorni nostri. Qual fosse l'amore dei primi cristiani verso Gesù Cristo nel SS. Sacramento si può apprendere dalla storia. Non dimenticavano un solo istante il Calvario e la Croce. Con qual riverenza, con quale adorazione, con quale divoto raccoglimento essi stavano al suo cospetto, andavano a visitarlo, assistevano al S. Sacrifizio, facevano la comunione! In quei sacri templi chi piange di gioia, chi manda dal petto affocati sospiri, chiètratto come in estasi fuori di sè. Verginelle ed innocenti fanciulli inneggiando al Divino Agnello, come si fa dagli Angioli nella celeste Sionne, par loro lento a venire quel fortunato istante in cui possano stringere al seno il loro Gesù. E con Gesù nel cuore,èper amor suo, che li vedete andare incontro eroicamente ad un glorioso martirio e col sangue e colla vita, render grazie a Gesù di quel sangue e di quella vita che Egli ha consumata per loro sulla croce. Ma ohimè! Volgendo i miei sguardi da quei cristiani ai cristiani di oggidì, qual differente spettacolo non mi si affaccia! che rilassatezza, che freddezza, che negligenza nel mortificare i proprii sensi! Ma se non vale ad accendere d'amore i nostri cuori quel che tanto ha fatto e [189] sofferto per noi il Divin Salvatore Gesù, che cosa mai potrà accenderlo?

                3. In ultimo le preci che Gesù porge per noi devono spingerci a dimostrargli una riconoscenza di perfetta contrizione. E chi mai non avrà da rimproverarsi di qualche irreverenza, se volge i suoi pensieri alla vita passata? Quanti mancamenti di rispetto alla sua presenza, quante distrazioni! Quante comunioni fatte con un cuore freddo, indifferente, fatte solo forse per convenienza, per non dar nell'occhio! Chi sa ancora che qualche volta non si abbia rinnovato il tradimento di Giuda col sacrilegio! E Gesù fu sempre così buono, così compassionevole per la nostra miseria! Ah! ognuno vi pensi un po' sul modo col quale ha trattato Gesù e risolva per l'avvenire di accendere nel suo cuore una fede viva in riconoscenza delle tante umiliazioni a cui per nostro amore si assoggettò questo nostro buon Dio; di far ardere il suo cuore d'amore verso questo buon Gesù per i patimenti che gli tocca soffrire nel SS. Sacramento dagli ingrati suoi figli; di eccitarci ad un vero pentimento di tutti i nostri peccati, in riconoscenza delle preghiere che porge al suo Eterno Padre per noi ......

 

                Mentre così D. Bosco animava al bene i soci del SS. Sacramento, vedeva non essersi nell'Oratorio provveduto ancora abbastanza colle Compagnie ai bisogni di tutte le classi degli alunni. Per gli adulti interni di virtù soda, era la Compagnia dell'Immacolata, che li esercitava nella carità spirituale verso i compagni e ai quali udimmo D. Bosco proporre affettuosamente come modello S. Giovanni Evangelista, il quale aveva meritato per la sua innocenza e per il suo zelo di ricevere in custodia Maria SS. Per i suoi catechisti, sia interni sia esterni, stavano le conferenze aggiunte di S. Vincenzo de' Paoli, del quale Santo egli descriveva l'industriosa carità. La Compagnia del SS. Sacramento col Piccolo Clero era esclusivamente formata dagli studenti. Quella di San Luigi avrebbe dovuto abbracciare tutti i giovani interni ed esterni, ma il numero considerevole degli studenti che vi [190] erano ascritti, la diversità degli orarii, il prudente consiglio di non togliere ai giovani qualche tempo di ricreazione nei giorni festivi, la diversità di inclinazione, istruzione e dimestichezza faceva sì, che pochi fossero talvolta gli artigiani che la frequentassero.

                D. Bosco adunque deliberò che pure gli artigiani avessero una compagnia loro propria, alla quale sarebbero stati aggregati i più volenterosi del bene; e fu quella di S. Giuseppe modello del buono, laborioso e cristiano operaio. D. Bosco era certo che i suoi cari artigiani, ascoltando nelle conferenze istruzioni convenienti al loro stato, sentirebbonsi portati alla pietà ed alla divozione.

                Una sera raccontava loro quanto S. Giuseppe amasse i giovanetti. - Or son pochi anni, ei diceva loro, un povero garzone della città di Torino, il quale non aveva ricevuto nessuna istruzione religiosa, andò un giorno a comperare un soldo di tabacco. Ritornato fra i suoi compagni, che lo aspettavano, volle leggere quel pezzetto di carta stampata nel quale il tabacco era stato involto dal bottegaio. Era un'orazione a S. Giuseppe per ottenere una buona morte. Stentava il buon giovane a comprenderne il senso, eppure era così commosso da quel poco che intendeva, da non poter staccare gli occhi dalla carta. I suoi amici, spinti dalla curiosità, avrebbero voluto ancor essi leggerla, ma egli se la nascose in seno e prese a divertirsi. Era per altro impaziente di rileggere quell'orazione tanta era l'ineffabile dolcezza, che aveva provato nel leggerla la prima volta. Infatti la studiò tanto che la ritenne a memoria e la recitava ogni giorno, ma quasi materialmente, senza intenzione formale di ottenere qualche grazia.

                S. Giuseppe non fu insensibile a quell'omaggio, direi involontario: toccò il cuore di quel povero giovane, il quale, [191] essendosi presentato a D. Bosco, gli procurò la fortuna inestimabile di ricondurlo a Dio. Il giovane corrispose alla grazia: ebbe il tempo d'istruirsi nella religione, che fino allora aveva trascurata non conoscendola, e potè far bene la sua prima comunione; ma poco dopo cadde in una malattia della quale morì, lodando ed invocando il nome di S. Giuseppe, che a lui aveva ottenuto pace e consolazione in quegli estremi momenti.

                La parola di D. Bosco era di fuoco perchè accompagnata dall'esempio. Non è a dire quanto egli amasse S. Giuseppe e lo dimostrò con atti continui in tutta la sua vita, come ce ne fanno testimonianza gli allievi più illustri di tutti i suoi tempi. Lo aveva nominato tra i patroni dell'Oratorio, aveva messi gli artigiani sotto la sua protezione, e lo aveva proclamato eziandio protettore degli esami per gli studenti. A lui ricorreva ne' suoi bisogni ed esortava gli altri ad invocarlo. Più volte parlava lungo l'anno alla sera dell'efficacia della sua intercessione, faceva celebrare la festa del Patrocinio nella terza Domenica dopo Pasqua e soleva prepararvi gli alunni con fervorini di un'unzione particolare. I giovani santificavano il mese dedicato a questo Santo in chiesa, o individualmente, o uniti in gruppi senza averne alcun obbligo di regola, ma tanta era la loro divozione da lui instillata, che quasi tutti prendevano parte alla pia pratica. D. Bosco poi nelle chiese che edificò volle sempre fosse dedicato un altare a S. Giuseppe. Godette molto e dimostrò una grande contentezza allorquando il Papa Pio IX lo proclamò Patrono della Chiesa Universale; e nel 1871 dichiarò che in tutte le sue case si dovesse farne la festa il giorno 19 marzo dagli studenti e dagli artigiani con perfetto riposo in ogni lavoro. In quegli anni, in Piemonte, il 19 marzo era cancellato dal numero dei giorni festivi. [192] Di questa sua divozione costante dava prova nel 1859, aggiungendo nel Giovane Provveduto una pratica in memoria dei sette dolori e delle sette allegrezze di S. Giuseppe; una preghiera allo stesso per ottenere la santa virtù della purità; un'altra per impetrare una buona morte e bellissime laudi sacre in suo onore. Nel regolamento poi dell'Oratorio festivo, metteva la seguente nota nella parte 3 a, capo v. “Nelle sette Domeniche precedenti alla festa di S. Giuseppe avvi Indulgenza Plenaria per chi si accosta al santo Sacramento della confessione e comunione; perciò se ne dia avviso per tempo e si indirizzano ai giovani speciali parole d'incoraggiamento”.

                Di ciò non contento incaricava la sorella di Silvio Pellico a tradurre dal francese un opuscolo intitolato: Le sette Domeniche di S. Giuseppe, che intendeva dare alle stampe e divulgare tra il popolo. Pubblichiamo una lettera di questa buona signora scritta sul principiar dell'inverno intorno a detto opuscolo.

 

                               Ill.mo e Molto Rev.do,

 

                Giacchè andò a monte il piacere ch'io sperava di veder la S. V. Ill.ma alla mia casa di campagna, mi permetta ch'io La ringrazi dell'onore che degnavasi procurarmi.

                Sembrandomi che per correggere quella piccola mia traduzione delle Sette Domeniche di S. Giuseppe Le sia necessario il testo francese, feci cercare in Torino quell'opuscoletto, ma non c’è; Le invio pertanto il qui unito, il quale, quantunque cosa sì da poco, desidererei riavere, perchè, come vede, lo tengo dall'autore; perciò mi raccomando.

                V. S. Ill.ma che ha tante conoscenze, deh! guardi di ricoverare Hinger in qualche modo per quest'inverno che s'avanza! Come farà egli con niente? vorrebbe lavorare, ma con niente non si può fare niente. [193] V. S. dirà con ragione, ch'io sono importuna; ma no, non lo dirà, perchè V. R. ha la carità nel cuore, e a quest'ora saprà da Hinger stesso, che per aver già fatto per lui il più ch'io potei, sono ora indebitata non poco, e che da più di quattr'anni son perseguitata dalla grandine e da altre avversità. Siane lodato Iddio, sì, ma non mi restano mezzi per aiutare ancora quel poveretto.

                Cosa c'entro io, mi dirà V. R. e cosa posso fare? Ah! prenda la cosa a cuore e qualche Provvidenza l'aiuterà!

                Mi perdoni per amor di S. Giuseppe, soccorra Hinger per amor di S. Giuseppe, e S. Giuseppe proteggerà ognor più il suo Stabilimento e benedirà le sue fatiche. Colla più viva fiducia, ho l'onore rassegnarmi con profondo rispetto

                Della S. V. Ill.ma e M.to Rev.da

                27 ottobre 1859

Umil.ma, dev.ma ed obbligat.ma serva

GIUSEPPINA PELLICO.

 

                Per la venerazione adunque che D. Bosco professava a S. Giuseppe, preparavasi a stabilire una Compagnia in suo onore. Il Ch. Bonetti Giovanni, che aveva per un anno fatti gli studii di filosofia nel Seminario di Chieri, attratto dall'amore che portava a D. Bosco e dalla memoria della vita incantevole di famiglia che si godeva presso di lui, era tornato nell'Oratorio. Ora essendogli stata affidata l'assistenza degli artigiani, conoscendo egli le intenzioni di D. Bosco, chiedeva ed otteneva di poter dare principia ed ordine a tale Compagnia. Annunciato il progetto ai giovani artigiani, questi lo accolsero con vivo piacere.

                Moltissimi risposero premurosi all'appello e il giorno dell'iscrizione, probabilmente il 20 marzo, Domenica, diede luogo ad una bella festa religiosa e ricreativa. Da quel punto la Compagnia di S. Giuseppe ebbe continua e prospera vita fino ai giorni nostri. [194]

                D. Bonetti ne pose le basi con un regolamento ispirato e corretto da D. Bosco, al quale poi si fecero varii cambiamenti, ma lo spirito rimase sempre lo stesso.

                Nel modo seguente era ideata la nuova Compagnia:

 

I.

 

SCOPO DELLA COMPAGNIA DI S. GIUSEPPE.

 

                Scopo di questa Compagnia è di promuovere la gloria di Dio e la pratica delle virtù cristiane specialmente nei giovani artigiani educati nell'Ospizio di S. Francesco di Sales.

 

II.

 

MEMBRI COMPONENTI LA COMPAGNIA.

 

                La Compagnia sarà composta d'un Presidente, Vice - Presidente e d'un Segretario nominati dal Direttore dell'Istituto.

                Membri effettivi potranno essere pertanto i giovani artigiani, i loro Maestri d'arte, Assistenti, Catechista e tutti quelli, che soddisferanno alle condizioni in appresso indicate.

 

III.

 

CONDIZIONI D'ACCETTAZIONE.

 

                Per far parte di questa Compagnia è necessario:

                1. - Che il giovane faccia apposita domanda diretta o mediata al Presidente della medesima.

                2. - Che sia stato ammesso alla santa Comunione.

                3. - Che abbia dato prove di buona condotta per due mesi.

                4. - Che sia giudicato idoneo dai membri componenti la Direzione della Compagnia, e v'intervenga l'approvazione del Superiore dell'Istituto.

                5. - Che abbia lette le Regole della medesima e prometta di osservarle.

                6. - Sarà aspirante per due mesi; dopo i quali, se avrà data prova d'idoneità, verrà inscritto nel registro dei Soci effettivi.

                7. - Nel giorno di sua accettazione si accosterà ai SS. Sacramenti, riceverà la medaglia benedetta di S. Giuseppe, coll'attestato di ammissione. [195]

                Si raccomanda a tutti di portare divotamente al collo questa medaglia, anche per lucrare le molte indulgenze che vi sono annesse.

 

IV.

 

REGOLE GENERALI.

 

                I giovani che fanno parte della Compagnia di S. Giuseppe, confidando nel potente aiuto di questo gran Santo, promettono:

                1. Di osservare diligentemente tutte le Regole dell'Istituto.

                2. Di prestare un'esatta ubbidienza ai Superiori, ai quali si sottomettono con una illimitata confidenza; e di edificare i compagni, sia col buon esempio, sia ammonendoli caritatevolmente colle parole ogni qualvolta se ne presenti l'occasione, eccitandoli al bene e distogliendoli dal male.

                3. - Di adoperarsi colla massima carità per impedire le risse ed ogni sorta di dissenzioni tra i compagni in qualsiasi luogo o circostanza.

                4. - Di evitare rigorosamente, e di impedire, o per sè, o per mezzo di altri, i cattivi discorsi e qualsiasi altra cosa contraria alla modestia.

                5. - Di avere in abbominazione l'ozio, procurando che siano ben occupati tutti i momenti della giornata.

                6. - Di vincere il rispetto umano, non facendosi schiavi di vani od immaginari timori.

                7. - Di mortificare i sensi esterni per potersi conservare puri e casti nei pensieri, nelle parole e nelle opere, ad imitazione di S. Giuseppe, che fu il primo ad offrire a Dio con voto la sua purità, e meritò d'essere Custode della stessa purezza, Gesù Cristo.

 

V.

 

REGOLE PARTICOLARI.

 

                Non vi sono preghiere speciali; nulladimeno raccomandiamo queste poche pratiche:

                1. - La frequenza ai SS. Sacramenti una volta alla settimana o almeno ogni quindici giorni.

                2. - Di onorare in modo particolare il nostro Patrono San Giuseppe nelle sue feste, come sarebbe il santo suo sposalizio [196] (23 gennaio), il giorno della preziosissima di Lui morte (19 marzo) ed il suo Patrocinio (III Domenica dopo Pasqua). Sarà cosa ottima fare precedere a tali feste, una novena di Comunioni in onore del Santo.

                3. - Di fare qualche pratica di pietà nel mese di S. Giuseppe, alla quale potranno prendere parte anche quelli non ascritti alla Compagnia.

                4. - In tutte le solennità dell'anno i figli di S. Giuseppe, procureranno d'accostarsi divotamente alla Santa Comunione.

                5. - Avvenendo il caso che alcuno dei soci ammalasse, il Presidente ne parlerà nella prossima conferenza, affinchè si facciano preghiere speciali per lui.

                6. - Se sarà opportuna la notturna assistenza, il Presidente potrà darne avviso a due dei membri della Compagnia, che compiano sì bell'opera di carità; e se il malato continua ad averne bisogno, i soci compiranno questo ufficio, due per ciascuna notte, come crederà meglio il Direttore.

                7. - Se il compagno infermo passasse all'altra vita, i Soci, col consenso del Direttore della Casa, assisteranno al funerale, e ne accompagneranno il cadavere alla sepoltura. Si farà da ciascun membro la Comunione in suffragio del medesimo, e nella prossima conferenza, invece di altra opera di carità, si reciterà la terza parte del Rosario pel compagno defunto.

                Per tranquillità di ciascuno si dichiara che le suddette regole, per se stesse, non obbligano sotto pena di colpa neppur veniale, se non in quelle cose che fossero già in questo senso comandale o proibite dai precetti di Dio e della Chiesa.

 

VI.

 

REGOLAMENTO PER LE CONFERENZE.

 

                1. - I membri della Compagnia di S. Giuseppe si raduneranno una volta alla settimana, assistiti dal Presidente. Durante l'ingresso si farà lettura di un tratto della vita di S. Giuseppe, o di qualche altro libro edificante.

                2. - Si aprirà la Conferenza coll'invocazione dello Spirito Santo e colla chiama di tutti i Soci effettivi ed aspiranti.

                3. - Nelle Conferenze si tratteranno cose spettanti al culto di S. Giuseppe, l'imitazione delle sue virtù, la diffusione di buoni [197] libri; insomma s'inculcherà tutto ciò che riguarda il benessere spirituale e materiale dei Soci della Compagnia.

                4. - Nelle Conferenze si faranno proposte di Postulanti, ed i membri componenti la Direzione potranno dare il loro parere sull'Accettazione degli Aspiranti, di cui il Presidente ne terrà conto, mentre potrà rimandare l'accettazione o farla come giudicherà meglio nel Signore.

                5. - Le Conferenze in generale saranno brevi e si chiuderanno con un Pater, Ave, Gloria, Versetto ed Oremus in onore di S. Giuseppe.

                6. - Ogni mese si renderà conto al Superiore della Casa di quanto si è fatto nelle Conferenze, dell'aumento o diminuzione dei Soci, dell'osservanza delle Regole e del progresso della Compagnia.

 

                Tale fu il regolamento della Compagnia di S. Giuseppe, il quale così assegnava gli uffizi ai membri componenti la Direzione. - Era ufficio del Presidente convocare le adunanze della Compagnia, di aver cura dell'istruzione religiosa dei soci e di promuovere, con tutti quei mezzi che la prudenza gli suggeriva, il maggior progresso spirituale e materiale che gli fosse possibile tra i confratelli. - Il Vice - Presidente doveva supplire il Presidente ogni volta che questi fosse impedito di presiedere le radunanze, e coadiuvarlo in tutte quelle cose, che non potesse disimpegnare. Il Segretario aveva l'incarico di notare le assenze dei soci ed aspiranti, di tener conto del soggetto di ogni conferenza e dei punti principali di esse, stendendone il verbale per poscia trasportarlo su apposito registro. A lui spettava eziandio notare quanto accadeva di più importante riguardo alla Compagnia e tenere un elenco esatto di tutti i soci ed eziandio degli Aspiranti. - I Consiglieri e Decurioni dovevano invigilare, affinchè i Soci osservassero esattamente il Regolamento della Compagnia. [198] Per dare la dovuta importanza a questa Compagnia furono dichiarati membri onorarii i Superiori maggiori dell'Oratorio e fu dessa equiparata a quella di S. Luigi. Mentre per essere membri delle Compagnie dell'Immacolata, del SS. Sacramento e del Piccolo Clero bastava farsi iscrivere; per appartenere alla Compagnia di S. Giuseppe, dovevasi recitare una formola di adesione[7].

                I benedetti risultati di questa nuova Compagnia appariranno evidenti dal complesso delle nostre pagine, e fin d'allora erano prevedibili per la buona condotta di gran parte degli artigiani. Era questa talmente nota che di essi facevasi richiesta in varii laboratori ed Istituti del Piemonte, e poi dell'Italia e di molte altre parti del mondo. Dei nomi di questi vi sarebbe da fare un elenco sorprendente. [199]

                Abbiamo ancora una lettera di quest'anno, scritta da D. Bosco ad un fondatore di un ospizio di carità che gli chiedeva un artigiano.

 

                               Carissimo nel Signore,

 

                L'aspetto torbido delle cose politiche mi hanno fatto indugiare alquanto a rispondere alla venerata di Lei lettera. Dirò adunque:

                Qualora si continui nel progetto mentovato, io Le potrei mandare uno de' miei giovani, non famoso calzolaio, ma capace di tagliare e fare l'oggetto di sua arte. Riguardo alla condotta, spero, non vi saranno lagnanze, ad eccezione che decada dall'attuale maniera di vivere. Le farò trarre copia del regolamento di questa casa e glielo farò tenere. Per la radunanza festiva sarebbe mestieri [200] parlarci; perciò se mai venisse a Torino faccia di poter passare qualche giorno festivo con noi e vedrà come ce la caviamo in nomine Domini. Quando ci sia qualche cosa di fatto mel dica e si Dominus dederit, Le andrò a fare una visita.

                Qualora gradisse meglio un giovane sarto l'avrei pure.

                Umili saluti all'intrepido D. Fenoglio. A tutti e due gran coraggio nel Signore. Faccia un milione di associati alle Letture Cattoliche; preghi per me e per li miei poveri figli; mentre mi professo

                Di V. S. C.ma nel Signore

                Torino, 3 aprile 1859

Obbl.mo Servitore Amico

Sac. Bosco G.

 

                Ed ora finiamo questo capitolo con una osservazione. Se della compagnia di S. Giuseppe e di tutte le altre era anima la frequenza alla SS. Comunione, la formazione, l'incremento e il vincolo che stringeva i membri di tali istituzioni, si deve attribuire allo zelo ed al buon esempio dei chierici. Don Bosco quasi ogni settimana li radunava in sua camera ad intime conversazioni nelle quali inculcava loro le sue idee, dava norme perchè mantenessero un'illibata condotta; e descrivendo le virtù di S. Francesco di Sales, non di rado faceva caldi elogi della sua dolcezza, purità e spirito di sacrificio nell'adoperarsi in ogni modo e a costo della stessa sua vita per la salvezza delle anime.

                Questi chierici oggetto delle sue più tenere cure se gli era tirati su lui fin dalla prima loro età e corrispondevano ai ricevuti insegnamenti. E non doveva essere diversamente; poichè egli non ammetteva nel suo clero o in quello dei Seminarii, se non quei giovani che davano sicurezza di buona riuscita; e li aiutava in ogni modo nel conseguimento dei loro santi desiderii. [201]

                Così egli scriveva al Can. Vogliotti Rettore del Seminario e Provicario diocesano:

 

                               Ill.mo Signor Rettore,

 

                Il chierico Alasia da Sommariva, seminarista di Chieri, mi scrive che gli è fatta dimanda della pensione. Egli andò in Seminario nella speranza di averla gratis, siccome Ella avevami fatto sperare. Io mi raccomando affinchè V. S. venga al medesimo in aiuto, altrimenti, non potendo pagarsi nemanco un soldo, sarebbe costretto di andarsene a casa. - Il Chierico Bonetti la godeva intiera l'anno scorso; Ella mi ha fatto sperare che prendendo io in casa il Bonetti, l'avrebbe trasferita al giovane Chierico Alasia.

                Pieno di fiducia nella sua bontà mi professo con pienezza di stima

                Di V. S. Ill.ma

                Da casa, 6 aprile 1859

Obl. Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Coloro poi che non tenevano buona condotta, li escludeva senza riguardi dallo stato clericale, dando al Superiore ecclesiastico informazioni sincere. Egli aveva risposto ad una domanda del sopraddetto Rettore del Seminario in questi termini:

 

                               Ill.mo e molto Rev.do Signor Rettore,

 

                Sono un po' imbrogliato a dare notizie del giovane……di…... Le dirò coram Domino le cose siccome le conosco. Di studio bene, di condotta mediocre e fu licenziato dalla casa per motivo da non nominarsi fra i cristiani. Quivi ha fatto fino alla Rettorica inclusivamente; e può darsi che da due anni, da che non è più qui, abbia tenuto miglior condotta e perciò si meriti speciale onorevole raccomandazione. [202] Credo che tali informazioni basteranno, disposto a spiegare le cose più minutamente qualora ne faccia mestieri, mentre mi professo con gratitudine Di V. S. Ill.ma

                Da casa, 15 marzo 1859

Obbl. Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                N. B. Quando detto giovane si presentò per l'esame di Vestizione, io gli rifiutai la fede di buona condotta; ed egli andò a farsela fare dal suo Curato.

 

 

CAPO XVI. Qualche norma ai catechisti per l'insegnamento della Dottrina Cristiana - Studio e spiegazione del Nuovo Testamento: lezioni di eloquenza sacra: il predicatore impreparato - La scuola di sacre cerimonie - Varie conferenze settimanali a tutti gli studenti - Istruzioni intorno alla buona creanza e convenienza di queste - D. Bosco modello di perfetta educazione - Urbanità e carità nel parlare e nell'ammonire - Tacere e riflettere se l'animo è agitato: una ridicola sfuriata - Buona creanza nelle azioni: D. Bosco e il giuoco della cavallina - Delicatezza colla quale D. Bosco avvisa alcuni giovani per qualche atto incivile - Cortesie nell'accogliere in casa i visitatori - Traccia di una commedia che insegna il galateo - Profitto dei giovani nell'attendere alle esortazioni di D. Bosco - Elogio.

 

                L’uomo saggio si rende amabile con sue parole dice l'Ecclesiastico: ed è perciò che persuade e attira a far la sua volontà quelli che lo ascoltano. Tale era D. Bosco e questa amabilità inculcava al suoi coadiutori, ripetendo a loro per assicurare il buon andamento della Comunità: - Parlate, parlate! - Ed è per questo santo fine che moltiplicava le occasioni di parlare [204] non solo per sè stesso, ma anche per i Superiori della Casa, e per varii santi preti della città, pieni del suo spirito che invitava ad intrattenersi nell'Oratorio. Costoro parlavano in sua vece quando egli era assente o impedito, si facevano eco della sua parola, ricordando le sue massime, e si adoperavano perchè fossero appagati i suoi desiderii.

                D. Bosco adunque oltre le prediche, l'esposizione delle vite dei Papi, il discorsetto della sera, le conferenze alle Compagnie, la lettura settimanale dei voti meritati dagli studenti, l'esposizione e spiegazione del regolamento della casa, radunava i suoi alunni per esporre loro argomenti di molta importanza che riguardavano l'educazione religiosa e civile. Sono cose che non bisogna dimenticare, e che qui le esponiamo perchè il dirle altrove non cadrà in taglio.

                In primo luogo diremo del catechismo. A quando a quando D. Bosco, per lo spazio di almeno vent'anni dal 1846 al 1866, soleva radunare i suoi chierici e i giovani più adulti e più buoni per insegnar loro il modo di fare con profitto il catechismo ai loro compagni esterni ed anche interni. La sagrestia era il luogo preferito per queste radunanze. Sovente spiegava il Regolamento degli Oratorii festivi. Raccomandava ai maestri che in tempo di catechismo, stessero in piedi per dominare colla persona i ragazzi seduti, per poterli veder tutti, e così ottenere con facilità il silenzio

                Insisteva pure che le risposte al catechismo si accompagnassero con qualche brevissima riflessione senza perdersi in ispiegazioni che non sarebbero capite. D. Savio Angelo e Villa Giovanni ci narrano il bene che facevano queste radunanze e aggiungevano come egli nelle scuole domenicali e serali impiegasse più ore alla settimana nel raccontare ai giovani con molto gusto e riverenza, i fatti della Sacra [205] Scrittura, citando i Libri Santi, per ragionare colla stessa parola di Dio. Così continuava gli insegnamenti che avevano uditi in chiesa da valenti Teologi del Convitto mandati da D. Cafasso nelle Domeniche.

                Anche i giovani interni divisi per classi avevano in chiesa il catechismo domenicale. Ma oltre a ciò, D. Bosco procurava che fosse loro assegnato settimanalmente da studiare a memoria circa un capitolo della Dottrina Cristiana, da recitarsi dagli artigiani nella lezione, che ricevevano alla sera di ogni Domenica; e dagli studenti nelle loro scuole. Questi non erano ammessi all'esame finale delle materie scolastiche se non avevano ottenuta la promozione nell'esame di catechismo, esame dato dagli stessi insegnanti regolari oppure da loro presieduto. E ciò perchè gli scolari si avvezzassero a dare la prima importanza all'insegnamento, religioso sopra l'italiano, il latino, il greco e le altre materie accessorie.

                Ai chierici delle scuole di teologia, ed eziandio a quelli dei due corsi di filosofia, aveva ordinato che ogni settimana studiassero dieci versicoli del Nuovo Testamento e li recitassero letteralmente al mattino del giovedì, nel refettorio, in tempo di colazione.

                Questa usanza ebbe principio nel 1853. Quando D. Bosco entrò nel refettorio per inaugurarla, tutti i chierici tenevano in mano il volume della volgata latina, e lo avevano aperto, osservando le prime linee del Vangelo di S. Matteo. Liber generationis Iesu Christi filii David. Di qui pareva che necessariamente D. Bosco avrebbe dovuto incominciare, ma egli recitato l'Actiones, prese a dire: - Vangelo di San Matteo, CAPO XVI V. 18 - Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam. Et tibi dabo [206] claves regni coelorum: et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis; ci quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis.

                Descritta quindi con poche parole l'autorità del Romano Pontefice, assegnò per lo studio in quella prima settimana i primi dieci versicoli del Vangelo che aveano tra le mani. Per più anni egli medesimo presiedette a questa recita facendovi una breve spiegazione letterale con pochi, ma veramente magnifici, commenti, concludendo con una massima che eccitava l'amore verso Dio ed era norma di condotta. Questa sua parola dotta ed attraente, piaceva così ai chierici, che lungo la settimana tutti aspettavano che venisse il giovedì.

                Verso il 1857 essendo egli sovente trattenuto fino a tarda ora nel confessionale, si fece sostituire dal Ch. Rua Michele; nel 1863 diede questo incarico a D. Ruffino Domenico e poi successivamente a varii altri, ma egli di quando in quando assisteva a queste radunanze e talora le presiedeva.

                A questo esercizio, detto volgarmente Testamentino egli talora aggiungeva qualche osservazione sull'importanza e sul modo di annunziare la parola di Dio; raccomandando una semplicità e chiarezza nel dire, atta a fare impressione nei cuori. La salvezza delle anime, ei ripeteva, dover essere l'unico fine del predicatore.

                Per questo motivo uscì un giorno in una singolare espressione udita da D. Cerruti Francesco. I chierici davanti a D. Bosco ridevano delle esagerazioni lette nei sacri sermoni dei Secentisti, ed egli loro diceva: - E se in quel secolo fosse stato necessario quello stile e quelle figure per ottenere ascolto dal popolo e per far frutto di anime, che cosa ci sarebbe a ridire? Io trovo che avrebbe fatto male, chi altrimenti si fosse regolato. [207]

                Altra volta discorreva della diligente preparazione richiesta, e dell'ordine della materia da esporsi prima di salire il pulpito. E condiva il suo discorso con fatti ameni, che dimostravano la misera figura alla quale si esponeva un Sacerdote trascurato o inetto nel compimento di questo suo stretto dovere.

                Noi eravamo presenti allorchè prese a narrare: - Un cappellano era conosciuto per la sua gran bonomia. Per dipingerlo basta accennare al metodo classico, oltre ogni dire, che teneva nel predicare. Saliva il pulpito e cogli occhi chiusi e colle mani posate sul parapetto della cattedra faceva l'esordio. Ogni volta che predicava passava in rassegna il decalogo: - Guardate, incominciava, sarò breve, molto breve: Sappiate adunque che il Vangelo di quest'oggi... (ma là quelle donne! lo so bene che voialtre donne avete la lingua lunga, ma almeno alla predica state zitte)... Dunque il Vangelo di quest'oggi racconta la moltiplicazione dei pani. Guardate perciò di andarvi a confessare perchè questo precetto si può anche ricavare dal Vangelo d'oggi. Incominciate dal far l'esame sul primo comandamento... (Ma eih, tu, sacrestano prendi un po' lo spegnitoio e va a regalare due colpi di canna a quella ragazzaccia là)... e facendo l'esame di coscienza visto il primo comandamento, passate a riflettere sul secondo... (Ma non c’è verso farli star queti quei fanciulli all'altar maggiore? ... ) Continuando il nostro argomento osservate se avete ubbidito al terzo precetto...

                E così proseguiva non già spiegando ma recitando i dieci comandamenti. Diceva di esser breve, ed era breve davvero giacchè non istava mai in pulpito più di dieci minuti. Quando la popolazione si aspettava che incominciasse egli già scendeva dal pulpito. Ora che ve ne pare di questo tratto d'eloquenza? quai frutti può recare? sdegno, risa [208] o sonno! E così accade sempre o per un motivo o per l'altro a chi sale in pulpito senza preparazione, con scapito grande delle anime e tremenda sua responsabilità al tribunale di Dio. Si riconosca questo dovere del Sacerdote e si raccoglierà larga messe. - “Appartiene all'uomo, sta scritto nei Proverbi al capo XVI, preparare l'animo suo (collo studio, la meditazione e la preghiera): e al Signore governare la lingua (colla sua grazia)”.

                Si ponno annoverare tra le conferenze la scuola di Sacre Cerimonie ai chierici. D. Bosco stesso la incominciò, e la proseguì per vario tempo il Teol. Bertagna Giov. Batt. Verso il 1857 D. Gherardi vice - curato di Santa Maria si assunse volentieri questo insegnamento, poichè i chierici dell'Oratorio erano stati aggregati al clero della sua parrocchia e nelle feste solenni vi si recavano per servire alle sacre funzioni. Avendo tempo libero insegnava anche a tutti i giovani ricoverati le cerimonie per servire le messe private, benchè vi fossero altri maestri deputati ad esercitarli in questo nobilissimo ufficio. D. Bosco infatti esigeva che ogni suo alunno servisse la Santa Messa e sapesse servirla bene. I chierici amavano D. Bertagna e D. Gherardi per la loro amabilità e per l'esattezza ammirabile del loro, insegnamento e più d'uno degli antichi ci ricordarono come essi corressero loro affettuosamente incontro per baciar la mano quando entravano nell'Oratorio.

                A D. Gherardi successe il nostro carissimo compagno, il Sacerdote D. Rocchietti Giuseppe, il quale continuò fino al 1862, allorchè dovette uscire a malincuore dall'Oratorio per la sua malferma salute.

                D. Giovanni Cagliero fu allora incaricato delle Sacre Cerimonie e dopo di lui D. Bongiovanni Giuseppe, l'opera dei quali altri poi continuarono. [209] D. Bosco aveva anche iniziata una conferenza alla sera di ogni mercoledì per i giovani studenti, perchè progredendo nello studio, non trascurassero gli altri doveri; e non potendo egli continuarla con regolarità si raccomandava a diversi Sacerdoti suoi amici, perchè lo supplissero. Nel 1856 - 57 D. Casassa, venerabile Sacerdote per età e per virtù, Direttore delle Suore di Sant'Anna, trattò del peccato, delle virtù, dei sacramenti, ora nella sala di studio, e più sovente nella cappella di S. Luigi al venerdì, mettendo sempre cotta e stola. La sua conferenza morale riusciva sempre carissima ai giovani e durava una mezz'ora e non più. Oltre a ciò egli predicava alla Domenica a sera fino al 1863, alternandosi col Teol. Borel e col Can. Borsarelli.

                Nel 1857-58, affinchè gli studenti cantassero gli inni della Chiesa intendendone bene il senso, invitò il Sacerdote Prof. Matteo Picco a spiegarli ogni giovedì, e a questa spiegazione si portavano anche gli studenti del Cottolengo.

                Nel 1859 il Bresciano D. Zattini, aspirante alla Pia Società, ebbe l'incarico della suddetta conferenza e talora il mercoledì e talora la Domenica mattina dopo la seconda Messa, spiegava il salmo e tutte le altre preghiere e risposto dei servienti al Santo Sacrificio, acciocchè s'intendesse bene ciò che si recitava.

                Nel 1860, 61, 62, 63 proseguì questa usanza del mercoledì il Teol. Borel in un camerone a doppio braccio, l'uno quello dell'attuale infermeria, l'altro sotto la camera di D. Bosco; ove le due sale facevano angolo, il Teologo si poneva a sedere vestito di cotta e stola e tutti i giovani studenti e i chierici stavano schierati alla sua destra ed alla sua sinistra. Egli esponeva un catechismo ragionato. Per un anno intero parlò della fede in modo così chiaro che tutti capivano. Fides sine operibus mortua est; sine fide impossibile est [210] placere Deo. Riusciva veramente sublime quando descriveva la bellezza di questa virtù teologale, ci disse il Prof. Don Garino che era presente.

                A lui per qualche anno succedette nel dettar lezioni morali nella sala di studio D. Bongiovanni e quindi questa usanza cessò.

                In ultimo diremo della conferenza o scuola di buona creanza, che si teneva una volta la settimana nella sala di studio, al giovedì mattina, oppure talvolta alla domenica prima del pranzo. Spettava al Prefetto della casa questa incombenza e primo a far questa parte fu D. Alasonatti nel 1855. Era il coronamento della cristiana educazione, perchè i giovanetti, venuti dalle campagne e dalle officine non avevano apprese le maniere per diportarsi garbatamente in società.

                Queste norme erano tratte dai libri santi del nuovo e vecchio testamento, i quali parlano del come diportarsi a mensa, del non sedersi quando altri è in piedi, del contegno nel presentarsi ai superiori, nello stare tra i compagni, nel conversare colle persone distinte, nel ricrearsi, in una parola, del come diportarsi in ogni circostanza della vita. L'atteggiamento di una persona è un tacito interprete del cuore e da questo si può congetturare qual sia il suo naturale carattere. Dice lo Spirito Santo nell'Ecclesiastico: “L'uomo si conosce all'aspetto, e da quel che apparisce sul volto si conosce l'uomo assennato. La maniera di vestire, di ridere e di camminare annunziano l'essere dell'uomo”.

                Perciò D. Bosco voleva che assennati comparissero i suoi alunni e che la compostezza di ogni atto, il garbo, l'ingenuità e l'onesta verecondia loro conciliassero presso la gente stima e benevolenza. Egli talvolta prestavasi a salire la cattedra della sala di studio invece del Prefetto, [211] ma più delle parole il suo esempio fu una continua lezione di galateo. Egli era un modello di uomo bene educato; attento ad ogni suo gesto o parola, non offese mai nè lo sguardo, nè l'udito di alcuno, trattando tutti col massimo rispetto come insegna S. Paolo: Cui honor, honor. Non falliva a nessuno di quei riguardi che si devono usare a chi veniva a fargli visita. I patrizii che lo osservavano attentamente se ne meravigliavano e più volte furono uditi esclamare: - Ma dove ha imparato simili cortesie? È un perfetto gentiluomo! - D. Albera sentì ripetere mille volte queste frasi anche in Francia, ed era una delle ragioni se si vuole secondarie, ma reale, del desiderio che avevano i gran signori di ospitarlo nei loro palagi. Simili gentilezze le usava egualmente coi poveri e non entrava mai nella loro casa senza scoprirsi il capo. Eziandio cogli alunni era di una cortesia incantevole. - Vorrei affidarti quella tal cosa: che ne dici tu? - Fammi grazia di eseguire una commissione. Permetti che ti dia un avviso? - Puoi aiutarmi in questo lavoro? - In tutte queste sue azioni nulla vi era di affettazione, perchè erano informate dalla carità di Nostro Signore, come si addice ad un prete.

                I giovani si specchiavano nei portamenti di D. Bosco, il quale, sia in pubblico come in privato, non cessava di far loro sentire i suoi avvisi e le correzioni opportune. Egli nella buona creanza vedeva il germoglio di molte virtù, quindi il saggio educatore indicava il tempo di parlare e il tempo di tacere. Gli alunni erano avvertiti di guardarsi dal palesare le avversioni, che destano le maniere grossolane, presuntuose, o troppo sostenute o troppo scherzevoli di taluni. Di non raccontar mai al compagno ciò che altri avesse detto malignamente di lui: di far le viste di non avvedersi di un motto satirico lanciato contro di essi. Di non insistere, [212] anche cogli eguali, e con ostinazione nel proprio parere. Di non prodursi mai come esempio dicendo: io avrei fatto diversamente, quando si udisse raccontare un'azione non riprovevole del prossimo. Di non contraddire mai ad alcuno che palesa un proprio sentimento. Di ascoltare senza dar segni di noia, anzi dimostrando interesse, chi ripete un fatto che ha già narrato altre volte, come se fosse una novità, e usare tale riguardo specialmente ai vecchi: di non rimanere sempre muto in una conversazione di amici: di non mai interrompere chi parla, o rispondere senza essere interrogato, e di temperare e moderare sempre la risposta colle parole, mi pare ovvero a me sembra, e non mai dare sentenza in senso assoluto, quando non è in campo una verità della religione. In una questione, quando diversi sono i pareri, di non vociare molti insieme, cercando di soprastare gli uni gli altri, ma sibbene contentarsi di attendere la loro volta per aprir bocca.

                Allorchè qualche alunno dimenticava i suoi avvisi, D. Bosco aveva un modo speciale per correggere e per dare una lezione. Se chi parlava con lui pronunciava uno sproposito di grammatica, gli rincresceva che i presenti facessero atto di critica o di scherno, ed egli rispondendo a quel tale faceva entrare nella sua risposta la parola errata, correggendola, senza fare alcuna osservazione sicchè l'uno e gli altri capivano.

                Un giorno D. Bosco esponeva qualche suo pensiero ad alcuni fra i chierici anziani circa provvedimenti da prendersi; ma uno appena udita la cosa rispose con poca cortesia: essere quella un'idea in grado superlativo inopportuna e opponeva difficoltà insuperabili. D. Bosco senza scomporsi interpellò dicendogli: - Quid est hyperbole? -  Tutti si misero a ridere, ma D. Bosco, non disse di [213] più. Voleva forse fare intendere a quel tale, che fintanto che si trattasse solo di figure grammaticali e cose letterarie, poteva egli essere giudice competente. Motto enigmatico, ma grazioso per non mortificare chi faceva una poco pensata obbiezione.

                Più volte taluno emetteva qualche proposizione errata in fatto di scienze o di storia ed egli con pacatezza faceva segno di non approvare e soggiungeva: - Tu es magister in Israel et haec ignoras? - Ma non diceva parola che potesse recar confusione.

                Intanto egli raccomandava che prima di parlare si pensasse due volte a ciò che si voleva dire, rammentando la sentenza dell'Ecclesiastico:[8]Il cuore degli stolti è nella loro bocca (cioè parlano senza pensare) e la bocca de' saggi è nel cuor loro (pensano e considerano tutto quello che debbono dire). E dimostrava quanto fosse necessaria tale riflessione, ad ottenere ciò che si desidera, per non dire spropositi, per non tradire segreti, per non crearci dei nemici, per non tirare sopra a noi stessi gravi danni, per non offendere il Signore.

                Non ommetteva un'osservazione su certi naturali sbadati, sospettosi, di primo impeto i quali se non sono messi a freno, prorompono facilmente in sfuriate, insultano quelli dai quali credono aver ricevute offese, malignano sulle intenzioni altrui, e sono persuasi di avere tutte le ragioni del mondo. E intanto si alienano gli amici, diventano odiosi alla società, sono la favola di tutti. Quanti se ne incontrano di questi screanzati, i quali non cadrebbero nel ridicolo se ponessero attenzione, ad essere tardi nel parlare, [214] lasciando sbollire la loro fantasia, anzi dissimulando e tacendo sempre.

                D. Bosco avvalorava questa sua lezione coi fatti, tra i quali il seguente.

                - Io mi trovava un giorno nella sacrestia di S. Francesco d'Assisi, quando venne per dir Messa certo D. Corradi. Dimenticandosi di deporre la piccola mantellina che aveva alle spalle, si vestì degli indumenti sacri ed andò a celebrare. Finito il ringraziamento, prende il cappello per uscir di chiesa e cerca la mantellina, che non trova. Domanda al sacrestano, il quale si mette a ridere e non risponde. Don Corradi s'infuria. - Dove me l'avete nascosta? - Cerca in tutti gli angoli della sacrestia, e poi ritorna dal sacrestano minacciandolo se non gli diceva dove l'avesse nascosta o chi l'avesse presa. Il sacrestano continua a ridere, assicurandolo che non l'aveva toccata, nè aveva visto alcuno a prenderla. Si volge allora a me e agli altri presenti, chiedendo della mantellina, e senza aspettare risposta fa chiamare il Custode della Chiesa, il quale, all'udire tanto rumore, domandò premuroso a D. Corradi che cosa ci fosse di nuovo.

                Egli rispose:

                - Costoro mi presero… mi nascosero la mantellina, ed ora devo andare a casa e non me la vogliono dare; non può essere altri che il sacrestano capace di fare una simile burla, ed egli ride e si beffa di me.

                Il Custode, che si accorse subito di tutto, finse di nulla e pacatamente chiama al sacrestano:

                - Oh! è vero che gli hai preso la mantellina? o è forse qualcun altro che gliel'abbia nascosta? Dagliela perchè deve andare a casa.

                Protestandosi tutti di non averla toccata, D. Corradi ancor più agitato corre di bel nuovo per ogni angolo e dice: [215]

                - Pure l'ho deposta qui... e non c'è... in quest'altro luogo neppure... come ha fatto a scomparire?

                Intanto viene D. Cafasso e vedendo la sacrestia polverosa e tutta sossopra, ne domanda a D. Corradi la cagione, che dà la solita risposta.

                - Ma ditemi, riprese D. Cafasso, delle mantelline ne avete due?

                - No, una sola, una sola.

                - E che cosa dunque cercate?

                - La mantellina.

                - Ma se l'avete indosso!

                D. Corradi porta la mano dietro alle spalle e tocca e solleva un lembo della mantellina. Rimasto un istante immobile per la confusione, più non disse parola, più non si volse a guardare alcuno, nascose la faccia, infilò diritto l'uscio che metteva fuori e via.

                Ma oltre la buona creanza nelle parole, D. Bosco la voleva negli atti. Essendo egli un modello di cristiana dignità nella compostezza della persona, abborriva da ogni scherzo villano, da ogni giuoco che portasse di mettere le mani addosso ai compagni, ed ogni altra specie di famigliarità sconveniente, come sarebbe camminare a braccetto, il tenersi per mano e simili. Egli asseriva essere questi tratti contro il galateo e la buona educazione: e raccomandava agli assistenti che vegliassero, perchè fosse da tutti osservato con esattezza il suo avviso. Ed anche in questo caso aveva il suo aneddoto scherzevole per far intender bene, ciò che desiderava.

                - Quando io giovanetto, andava alle scuole di Castelnuovo, ero avverso al giuoco della cavallina, e non solo ricusai sempre di prendervi parte, ma biasimava quei compagni che, prima o dopo la scuola, in simile modo si trastullavano. Ora accadde che un giorno tardando il maestro Don [216] Moglia nel venire a far scuola, io stessi davanti al mio banco aggiustando alcuni libri. Quand'ecco uno dei compagni slanciarsi a un tratto sulle mie spalle, e subito un altro sulle spalle del primo e poi un terzo. Io però non dissi parola, ma afferrate strettamente le gambe dell'ultimo salito, le strinse ai fianchi dei sottoposti in modo, che nessuno si potesse più muovere e poi con tutta facilità uscii di scuola con quello strano fardello. I giovani così portati, sentendosi stretti fortemente e soffocando, chiamavano pietà e misericordia. Io non dando loro retta procedeva trionfante pel paese. Tutti correvano sul mio passaggio stupiti e schiamazzando. I condiscepoli mi seguivano fischiando e battendo le mani. Andai fino sulla piazza della chiesa e poi ritornai indietro. Quei poverelli che erano sulle mie spalle guaivano e supplicavano: - Bosco, lasciaci andare; non saliremo mai più sulle tue spalle: non giuocheremo mai più a cavallina.

                Ma io continuava a tacere e con passo franco e tranquillo rientrai in iscuola dove D. Moglia attendeva la scolaresca per incominciare la lezione.

                Il maestro, che era stato informato della cosa diede in uno scoppio di risa vedendo quella torre vivente e ambulante e a stento potè dirmi: -Lasciali andare.

                Ma quei poveretti erano così indolenziti che non potevano più scendere. Allora ad un per uno andai a posarli sui banchi e fermandomi loro innanzi: - Vi piace, dissi loro, il giuoco della cavallina?

                Quella lezione di buona creanza li persuase a lasciarmi in pace.

                In mezzo al cortile egli vedeva e notava ogni atto de' suoi alunni e sottovoce dava a ciascuno l'avviso conveniente. A questo diceva: -Sta diritto sulla persona, non curvarti [217] in quel modo: sembra che tu abbi la gobba. - Ad altri: - Non infossare la testa fra le spalle, che fai la figura di una civetta. - Quelle braccia non muoverle così goffamente: pare che tu non sappia cosa farne. - Leva le mani di saccoccia: è un segno sconveniente di padronanza.

                Sovente correggeva uno sbadato con un gesto senza che altri se ne avvedesse, per non mortificarlo. Per esempio se avesse sputato per terra alla presenza di persone di riguardo, o sul pavimento della camera, egli faceva atto di avere un simile bisogno e si portava il fazzoletto alla bocca. Lo stesso faceva se uno tossiva, sternutava, o sbadigliava sguaiatamente. Se scorgeva che qualcuno dopo aver mangiato non si era pulita la bocca, egli facevasi passare sulle labbra la sua bianca pezzuola con un gesto significativo del capo. A chi aveva macchia sul vestito con un sorriso glie la indicava, mettendovi sopra il dito; e ciò bastava.

                Il Canonico Sorasio ci narrò che andato D. Bosco a Caramagna per la vestizione clericale del giovane Fusero, si intratteneva coi preti della parrocchia, in sacrestia. Fusero intanto teneva il gomito sul banco dei sacri paramenti e sulla mano appoggiava la testa. D. Bosco allora si rivolse a lui pian piano, prese il suo braccio e lo rimosse in modo così cortese che il Canonico, allora secolare, ammirò tanta delicatezza e non potè mai dimenticarla.

                Fra queste e altre continue lezioni, che D. Bosco dava di galateo, Reano Giuseppe ne ricorda una di non leggera importanza. Il 28 aprile 1858 egli raccomandava agli alunni di salutare, levandosi il berretto, quei forestieri distinti e specialmente i sacerdoti, che avessero incontrati nell'Oratorio; e di usare buone e cortesi maniere con tutti e specialmente con quelle persone, che domandano di parlare al [218] Superiore, accompagnandole alla stanza del medesimo a capo scoperto, e rispondendo con garbo alle loro interrogazioni. Quindi descriveva ciò che ebbe a provare egli medesimo in occasione di una visita fatta il 18 febbraio di quello stesso anno. Andando in una casa ricevette accoglienze così fredde che ne restò non offeso, ma alquanto mortificato. Egli pensò allora a ciò che debbono sentirsi nell'animo i benefattori, se venendo nell'Oratorio fossero ricevuti in simil guisa ed alle conseguenze che ne potrebbero venire. E faceva osservare: - Quando si va in una casa per intrattenersi col padrone, se si presentasse anche un solo fanciullo ad aprire la porta, se questi con buone maniere vi dicesse: - I padroni non ci sono in casa, mi rincresce molto che abbia fatto invano i suoi passi; potrà ritornare alla tale ora, - chi è ricevuto con queste o altre simili gentili espressioni, ne rimane soavemente colpito e acquista stima e tiene buona memoria di tale famiglia.

                Qui noi aggiungeremo che in questi anni D. Bosco aveva disposta una commedia in tre atti, per esporre come in compendio le mancanze contro il galateo. Non ci restò che una traccia trovata fra le sue carte. L'argomento è questo. Da un paesello di montagna un certo Silvio manda a Parigi due suoi figliuoli, perchè si guadagnino il pane l'uno facendo lo spazzacamino, l'altro il saltimbanco. Alcun tempo prima Silvio erasi comprato un abito usato e nel ripararlo aveva trovato cucito nella fodera alcune cedole al portatore per l'annua rendita di 20.000 franchi. Essendo galantuomo, annunziò all'autorità la sua scoperta che venne pubblicata sui giornali in tutte le forme volute dalla legge. Nessuno essendosi presentato a reclamare il tesoro con sufficienti dati di riconoscimento, il Magistrato lasciò a Silvio la sua fortuna. Questi allora va da un suo compaesano avvocato, stabilito [219] in città, uomo probo e suo coetaneo, e gli domanda consiglio sul modo di impiegare quel capitale! L'avvocato gli suggerisce di far ricerca dei figli, di provvederli di un educatore e maestro, acciocchè imparino i rudimenti della grammatica, si correggano dei rozzi loro modi, e divengano giovanetti di buon tratto; nello stesso tempo gli fa comprare un podere. L'avvocato, un medico, il maestro, l'educatore, un servo e un mezzaiolo di campagna e i due figli ritrovati dopo strane avventure, sono i personaggi della commedia. I due giovanetti rivestiti civilmente nel corso dell'azione, compariscono ora seduti alla lezione del maestro, ora nel giardino in ricreazione, ora a pranzo col padre e gli amici di famiglia, ora nella sala dove alla sera si radunano a conversazione i notabili del paese. Uno è goloso e si busca una indigestione, l'altro è più moderato e più docile, ma ambedue sono la quintessenza della rozzezza. Grattarsi il cranio, cacciarsi le mani nei capelli, prendere in mano le scarpe, il ficcarsi le dita nel naso, tenere il cappello in testa, non usare il moccichino, asciugarsi il sudore nella manica, camminare strisciando i piedi e cento altre gentilezze di simil genere si succedono rapidamente. La scena del pranzo fa morir dalle risa. Ma i savi consigli del maestro si succedono ad ogni villanata, ora in prosa, ora in versi con qualche proverbio. Gli alunni si indispettiscono, brontolano fra di loro e coi servi, ma facilmente si acquetano alle rimostranze del padre, alle osservazioni degli amici, alle buone maniere del maestro, che darà principio alla loro istruzione religiosa. Promettono adunque di apprendere le buone creanze, di farsi molti amici, trattando rispettosamente quanti a loro si avvicineranno, e ringraziano il Signore di aver mutato la loro condizione. Un invito a modesto festino chiude l'azione, della quale si deve proprio dire che castigat ridendo mores. [220] La scuola di galateo, formò una preziosa regola di condotta civile per quelli che ne approfittarono. Un distinto avvocato nostro antico allievo ed altri con lui, ci attestarono che usciti dall'Oratorio, loro bastò il ricordo delle norme di buona creanza ascoltate nella scuola di D. Bosco, per saper vivere onoratamente in società ed essere stimate persone cortesi e compite.

                Ed ora concludiamo interrogando.

                D. Bosco che cosa poteva fare di più per l'educazione dei suoi figliuoli? A lui ben può applicarsi l'elogio di S. Giovanni Grisostomo: Omni certe pictori, omni certe statuario, coeterisque huiusmodi, omnibus excellentiorem hunc duco, qui juvenum animos fingere non ignoret.

 

 

CAPO XVII. Preparativi di guerra in Piemonte contro l'Austria - Il Convitto Ecclesiastico ospedale militare - D. Cafasso avvisa i suoi alunni di non entrare in questioni politiche - Il catechismo quadragesimale disturbato dall'effervescenza guerresca dei giovani esterni - Una sassaiuola fatta cessare da D. Bosco - Tre Letture Cattoliche - L'Arcivescovo di Genova e i Vescovi di Mondovì e di Cuneo le raccomandano ai loro diocesani - Grazie ottenute da Savio Domenico - Lettera di D. Bosco ad un parroco della diocesi d'Asti - Ispezione governativa nell'Oratorio per gli alloggi militari - La guerra dichiarata e l'esercito francese in Italia - Torino minacciata dagli Austriaci: D. Bosco dice a' suoi giovani di non temere - La quarta grande lotteria di D. Bosco e due circolari - D. Bosco annunzia a’ suoi allievi l'erezione nell'Oratorio di una chiesa con grande cupola - Un orto liberato dai bruchi.

 

                Dalle pacifiche conferenze dell'Oratorio passiamo ai  rumori di guerra. Sul finire di marzo l'esercito regolare del Piemonte forte di 8o.ooo uomini, stava scaglionato alle frontiere tra Alessandria ed il Ticino. In varie città i volontari di Garibaldi erano continuamente esercitati nelle piazze alle manovre ed al maneggio [222] delle armi. Ai legionarii della guardia nazionale era affidata la custodia dei bastioni nei luoghi fortificati. Le popolazioni vedevano, soffrivano, tacevano ed aspettavano con ansietà gli avvenimenti. Torino era innondata da opuscoli politici e da giornali liberali che eccitavano gli animi alla guerra. Le vie erano percorse da solite plebi frementi ed acclamanti. Il Governo però simulava amore di pace e voleva costringere l'Austria a farsi assalitrice, perchè apparisse di essere stato egli provocato e costretto alla difesa. Ed ogni cosa era pronta per entrare in campagna, perfino gli edifici destinati per gli alloggi dei militari, e per la cura dei feriti. Il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi era pur destinato ad ospedale dei militi, e D. Cafasso nel congedare i suoi alunni diceva loro: - Non prendetevi a cuore le cose politiche. La politica del prete è quella del Vangelo e della carità. Troverete un gran fermento nei paesi, perchè dappertutto si parla di politica e di guerra. Siate prudenti. Se per caso trovandovi in conversazione od in viaggio qualcheduno vi rivolgesse la parola: -Signor Abate, che cosa dice lei di tutte queste cose? - Io non dico nulla, rispondete, io prego. - Ma per chi prega? per i nostri soldati o per gli Austriaci? - Prego perchè le cose vadano bene. - Così si schiva ogni contestazione. - Le stesse pratiche raccomandazioni faceva D. Bosco, come fece sempre, ai suoi chierici, acciocchè non entrassero in questioni politiche.

                Ma la politica intanto minacciava di spopolare i catechismi della quaresima.

                “Nel 1859, narrò Pietro Enria, nei giovani popolani di Torino, come nel 1848 e 1849, erasi acceso un vivo fermento di guerra. A centinaia si riversavano nei campi che si stendevano fuori della città, si dividevano in due partiti, e, per dar prova di valentia, l'uno assaliva l'altro con battagliole [223] che si dicevano finte, ma che riscaldando gli animi finivano sempre con vere tempeste di pietre. Questi giuochi pericolosi si rinnovavano, si può dire, tutte le feste, ed io più volte ne fui spettatore.

                “Una domenica D. Bosco andò in chiesa per fare il catechismo e con sorpresa vi trovò i soli alunni interni. - Dove sono gli altri? - ei chiese; ma nessuno seppe dirglielo. Allora uscì sulla via della giardiniera e vide una moltitudine di ragazzi, i quali, nello spazio sul quale poi si eresse la Chiesa di Maria Ausiliatrice, combattevano accanitamente. Erano più di trecento, tutti dai 15 ai 18 anni, e grossi erano i sassi che venivano lanciati. D. Bosco allora entrò in mezzo a quella mischia. Io stavo osservando in lontananza, e temeva di veder D. Bosco colpito dai sassi, i quali cadevano spessi attorno a lui. Ma non fu così. Nessuna pietra lo toccò e dovetti persuadermi che la Beata Vergine facevagli scudo col suo manto. Egli si avanzò per una cinquantina di passi, ma quando tutti lo videro, si arrestarono, invitati da lui gli si avvicinarono, e con belle maniere li indusse ad entrare in chiesa. Nessuno cercò di fuggire, e D. Bosco colla sua aria ridente, come se nulla fosse stato, die' principio al catechismo”.

                Nello stesso tempo in mezzo a tanti trambusti egli occupavasi della stampa delle sue Letture Cattoliche.

                Il fascicolo che usciva pel mese d'aprile portava una: Raccolta di fatti edificanti. - Uberto, ossia lo scultore delle Alpi. - Storia di un mendicante: gran perdono. Per fare elemosina non è necessario esser ricco. - Infanzia di Alberto. - La confessione. - Efficacia di un'Ave Maria. - Il Generale Gerard divoto a Maria; egli non si azzardò mai nei combattimenti senza prima aver invocato Nostra Signora. - Tre di questi fatti riguardano la Francia. [224] All'opuscolo erano unite le raccomandazioni di due Vescovi per la diffusione delle Letture Cattoliche e noi ne aggiungeremo una terza.

                Mons. Charvaz Arcivescovo di Genova e martello dei Valdesi, così aveva scritto, il 19 febbraio 1859, nella sua lettera pastorale per la quaresima.

 

                Avvertiamo i signori Parrochi essere nostro vivo desiderio che vogliano adoperarsi per la diffusione delle Letture Cattoliche, che coll'approvazione del Sommo Pontefice si pubblicano mensilmente in Torino. Lo scopo dì cotali Letture si è di contribuire a mantenere l'integrità della fede e la santità dei costumi nel popolo contro gli sforzi degli empii, che con fogli e libercoli d'ogni maniera si studiano di pervertirlo e corromperlo.

 

                Mons. Vescovo di Mondovì, nella stessa occasione e collo stesso intendimento, così si era espresso.

 

                Approfittiamo di questa occasione per raccomandare specialmente al Clero di promuovere l'associazione delle Letture Cattoliche.

                Anche il Vescovo di Cuneo, Mons. Clemente Manzini, annunziando ai suoi diocesani l'indulto quaresimale il 15 febbraio 1859, così aveva espresso il suo desiderio.

 

                Raccomandiamo vivamente al nostro Clero, ed in ispecie ai signori Parrochi un'opera intrapresa e promossa con ispirito veramente cattolico e che non può a meno di tornare a grande vantaggio delle anime. Quest'opera è quella delle Letture Cattoliche, le quali vorremmo vedere maggiormente diffuse nel popolo, persuasi come siamo de' frutti preziosi, che da esse si verrebbero a cogliere, mentre dall'una parte allontanando i fedeli da quei libercoli e giornali avvelenati, con cui cercasi con ogni arte più diabolica di corrompere la fede, loro somministrerebbero dall'altro [225] canto un pascolo salutare atto a rassodarne ed a migliorarne i costumi. Di ciò ne è garante l'approvazione che n'ebbero dal S. Padre, il quale con lettere dell'Eminentissimo Card. Vicario nel maggio u. s. e altamente le commendava e le voleva introdotte e diffuse nello Stato Pontificio.

                A ricevere le associazioni alle Letture Cattoliche è per questa diocesi designato il M. R. D. Borgarino, cappellano della Confraternita di S. Sebastiano in questa città.

 

                Pel mese di maggio era pronta l'operetta del santo prete Frasinetti Giuseppe, Priore di S. Sabina in Genova. Erano le Memorie sulla vita della pia zitella Rosa Cordone morta in Genova ai 26 novembre dell'anno 1856. Con questa biografia egli dimostra che un'anima cristiana può giungere alla maggior perfezione ed unione con Dio, ancorchè non sia arricchita di grazie e doni straordinarii e senza prolungare orazioni ed aspre penitenze.

                Pel mese di giugno D. Bosco disponeva che si stampasse un fascicolo anonimo: Il Santuario della Bassa e suoi dintorni; rimembranze di una festa. Sul frontispizio portava il verso: Tot tibi sunt dotes, Virgo, quot sidera Coeli. È uno dei santuari del Piemonte Posto sui monti di Rubiana, il quale testifica quanto sia grande la bontà di Maria, nell'esaudire le suppliche di coloro che a Lei ricorrono.

                Mentre D. Bosco rivedeva le sue bozze che trattavano delle più umili e tranquille virtù, quasi contrapposto delle violenti passioni che nel regno agitavano gli animi, era grandemente confortato dalle prove di cara protezione, che Savio Domenico assicurava dal cielo all'Oratorio, ai suoi antichi compagni ed agli alunni. Una sera d'aprile ei leggeva alla comunità radunata una lettera di Galleano Matteo colla quale faceva testimonianza, come egli sul principio del mese, aggravato da un atroce mal di capo e da un acuto dolore [226] di denti, dopo due giorni di sofferenze si fosse deciso di ricorrere al buon Domenico. Recitato in suo onore un  Pater noster, alle parole sed libera nos a malo, istantaneamente aveva sentito svanire quelle doglie e scomparire le gonfiezze.

                Era presente a questa lettura Dematteis Carlo che da parecchie settimane spasimava per male ai denti, senza poter avere refrigerio dalle medicine. Animato dal felice successo del compagno chiese a D. Bosco:

                - Dovrò pur io fare la prova di raccomandarmi a Savio?

                - Sì, fanne prova, gli rispondeva D. Bosco; digli di questa sera medesima un Pater ed Ave e poi confida in lui. - Dematteis si recò in camera, recitò l'orazione indicatagli e si pose a letto. Mentre le notti antecedenti le aveva passate in gran parte vegliando a motivo dei patimenti, egli si addormentò subito e non si svegliò prima che la campana suonasse la levata. Era perfettamente guarito e d'allora in poi non ebbe più a soffrire mal di denti.

                Anche il giovane Mazzucco Giacinto, da circa un mese, era così travagliato dal mal d'occhi che si trovava nella necessità di abbandonare la scuola. Il mercoledì santo, 20 aprile, disse a D. Bosco:

                - Debbo anch'io raccomandarmi a Savio? Ha guarito tanti altri che non l'hanno neppure conosciuto; ed a me che gli ero compagno, non vorrà ottenere la grazia di poter guarire? Tanto più che io debbo lavorare nel preparare in chiesa il Santo Sepolcro!

                D. Bosco gli rispose:

                - Bene, recitagli un Pater ed un'Ave, e domani tutto confidando in lui, eseguisci i lavori che hai da fare; procura però di offerirli ad onore di Dio. [227]

                Alla sera Mazzucco recitò la breve preghiera, e all'indomani si sentì molto migliorato, dimodochè potè compiere i suoi lavori intorno al Santo Sepolcro senza incomodo. Al Sabato Santo egli era perfettamente guarito.

                Queste grazie dovevano procurare a D. Bosco un gran sollievo nei dispiaceri da lui talvolta provati per la poca corrispondenza alle sue cure di qualche allievo: e nello stesso tempo lo rassicurava dai disturbi e dalle angustie che poteva cagionargli la guerra ormai imminente.

                Di questi dispiaceri e disturbi egli fa cenno in una lettera a D. Giov. Batt. Torchio Arciprete di S. Martino Alfieri, Asti.

 

                               Mio Rev.do e Car.mo nel Signore,

 

                Siamo a Pasqua e per farla bene debbo aggiustare le cose mie con V. S. verso cui sono debitore di alcune risposte specialmente riguardo al giovane B...

                Per reciproca soddisfazione e norma Le dirò che non ho fatto quanto desiderava, perchè la condotta di questo giovanetto, cui ho sempre portato speciale affezione, fu sempre dubbiosa. Nello studio, nella scuola, nella pietà si tenne sempre in tale mediocrità, che mai non mi diede un punto sopra cui raccomandarlo presso a persone benemerite, siccome era desiderio di V. S., del padre, che è ottima persona, e siccome desiderava io medesimo. Questo è il motivo per cui non ho potuto appagare l'aspettazione di V. S.

                In quanto al Saglietti Le debbo dire che per ora non mi è possibile il riceverlo. Perchè? Perchè il governo ha fatto visitare quanti soldati potrebbero dormire in questa casa in grave bisogno, il che vuol dire che da un momento all'altro posso essere al punto di dovermi fare il fagotto. Le notizie politiche di quest'oggi sono gravi e assai allarmanti.

                Se verrà a Torino venga a vedermi. Ma in ogni circostanza l'assicuro, che farò sempre quel che posso a suo favore. [228] Preghi per me e per li miei poveri giovanetti e mi abbia sempre tra quelli che si professano

                Di V. S. M.to Rev.da

                Torino, 22 aprile 1859.

Aff.mo servo ed amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                In questa lettera D. Bosco accenna ad una visita che dall'Autorità governativa era stata ordinata nell'Oratorio di Valdocco. Infatti sul principio del mese di aprile vennero due periti a fare una ispezione, per riconoscere se il fabbricato si prestava ad alloggiare soldati o a convertirsi in ospedale pei feriti, ovvero a servire di alloggio militare per gli ufficiali. D. Bosco accolse cortesemente quei signori, e li condusse a visitare tutta la casa. In fine disse loro: - Ora li pregherei che volessero riferire a chi li ha mandati i sentimenti di D. Bosco ed una sua preghiera a questo proposito. Nei pericoli e nei bisogni della patria ogni cittadino deve porgere quell'aiuto, che le proprie forze gli permettono, e per questo motivo D. Bosco è disposto a fare quanto è in poter suo: l'ha fatto sei anni or sono in tempo di peste, e saprà farlo ora in tempo di guerra. Ma io debbo pure far osservare che questa casa serve oggidì di ricovero a quasi 300 giovanetti dei più poveri ed abbandonati, e perciò prego il Governo che voglia risparmiarmi il dolore di rimetterli sopra la strada. Io credo che in Torino non manchino dei pubblici edifizii, che possono servire o da quartiere o da ospedale meglio assai che non questo fabbricato, che, come vedono, manca di molte comodità; ed ha scale e corridoi troppo stretti. - Nel costrurre la casa D. Bosco aveva preveduta tale eventualità.

                Che cosa abbiano i due periti esposto al Governo nol [229] sappiamo; ma il fatto si fu che l'Oratorio non venne disturbato e gli alunni continuarono a rimanervi tranquillamente.

                Del resto D. Bosco prestò in quel tempo un servizio ben più utile, che non tanti altri. La improvvisa chiamata di varie classi sotto le armi che si trovavano in congedo illimitato, come pure quelli che dalla seconda categoria avevano fatto passaggio alla prima in occasione della guerra di Crimea, gettò i paesi in grande costernazione. I più di costoro si erano ammogliati. Dovettero partire nel cuore della primavera, quando era giunto il momento di attendere ai lavori delle campagne. Quindi molte famiglie rimasero prive delle robuste braccia che loro procuravano il sostentamento, e molte madri cariche di figliuolanza si trovarono nella più grande miseria. Ciò fu tanto vero che si dovettero istituire nelle principali città varii Comitati, a fine di promuovere e raccogliere limosine, onde provvedere alle famiglie più bisognose. Or che fece D. Bosco? Quantunque per la circostanza della guerra e pel rincaro dei viveri, egli si trovasse ben sovente in grave penuria, tuttavia accettò ancora nel suo Ospizio parecchi figliuoli dei poveri soldati.

                Finalmente risuonava il primo grido di guerra e il 23 aprile l'Austria, stanca dei maneggi del Governo Subalpino, mandava ad intimargliela se fra tre giorni non disarmasse e non licenziasse i volontari. Le fu risposto con un aperto rifiuto, e il 26 la flotta francese carica di truppe era in vista del porto di Genova. Intanto scoppiava la rivoluzione in Toscana, e costretto il Gran Duca a ritirarsi, Vittorio Emanuele vi nominava commissario il Buoncompagni con pieni poteri. Il 28 aprile il Re Sabaudo cogli ufficiali dello Stato, i membri del Senato e della Camera andavano alla Metropolitana di Torino, assistendo alle solenni supplicazioni per il buon esito della guerra. Il 30 l'esercito Austriaco forte [230] di ben più di 200.000 uomini, comandato dal generale Francesco Conte Giulay, passava il Ticino, occupava Novara e s'innoltrava nelle fertili pianure tra il Ticino, il Po e la Sesia. Vittorio Emanuele partiva per il campo e Napoleone III il primo dì maggio scriveva a Pio IX “... Voglio francamente dichiarare a Vostra Santità che nel mio cuore non divido la causa della religione e del potere temporale della S. Sede, dalla causa dell'indipendenza d'Italia; devo confessare che l'una e l'altra mi sono egualmente care.” Il Papa avevalo invitato a ritirare da Roma i suoi soldati che ivi aveano quartiere fin dal 1849, annunziandogli che quantunque debole egli affidavasi alla Provvidenza che non lo avrebbe abbandonato. Ma Napoleone per risposta aveva fatto sbarcare nuove truppe a Civitavecchia. Egli voleva fare la guardia al Papa, per renderne più facile e più sicura la spogliazione e per impedire che altri lo soccorresse.

                Intanto il 2 maggio gli Austriaci occupavano Vercelli e per passare il Po assalivano i Piemontesi a Frassineto ed a Valenza, ma furono ributtati dall'artiglieria. Riuscirono però a passarlo a Cornale e il 3 maggio si spinsero fino a Tortona.

                Divisi in tre corpi uno era tra Casale ed Alessandria, il secondo sulla riva destra e sulla sinistra del Po, il terzo a Vercelli dove si fortificava e accennava di muovere verso Torino. In quei giorni sbarcavano a Genova, scendevano dal Moncenisio e dal Monginevra, e venivano da Nizza 180.000 guerrieri francesi per unirsi all'esercito Sardo.

                Giulay in quel mentre, essendo in possesso di Mortara e Vigevano, spingeva da Vercelli un corpo d'armati a Santhià, Livorno e Biella, e un'altra parte de' suoi, il 9 maggio occupava Trino e pareva prepararsi a marciare sulla Capitale del Piemonte, che facilmente sarebbe caduta in [231] suo potere. In Torino si temeva che gli Austriaci da un momento all'altro occupassero la città. Eziandio nell'Oratorio i giovani parlavano di tale imminente pericolo, ma Don Bosco disse loro presente il Ch. Anfossi: - Non temete; anche quando venisse il nemico, l'Oratorio, difeso dai santi martiri Solutore, Avventore, ed Ottavio, ne rimarrà illeso.

                Ei sentiva profondamente la divozione a questi santi che avevano sofferto il martirio presso l'Oratorio, e confidava talmente nella loro protezione, che occupavasi di una lotteria come se lo Stato fosse in piena pace. In mezzo alla miseria universale bisognava provvedere ai suoi giovani. Perciò nell'aprile aveva trattato coi membri della Commissione per la lotteria del 1857, della quale presidente era stato il Conte Carlo Cays di Giletta, e si concertò sul da farsi. Quindi esposta la cosa all'autorità civile, e ottenuto il permesso, D. Bosco procuravasi e numerava i premii, faceva scrivere a mano i biglietti col timbro dell'Oratorio e stampare o litografare le circolari, delle quali ordinavane spedizioni alle persone benevoli verso l'opera sua; una in aprile, l'altra sul principio di maggio. Ad ogni circolare era unito un elenco dei premi, contenuto in un foglio a pie' del quale D. Bosco faceva scrivere il seguente Nota bene: Per maggior comodità l'importo dei biglietti si può trasmettere ad alcuno dei membri della Commissione per la precedente Lotteria.

                E se ne notavano i nomi a penna. Ecco il tenore della circolare:

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Non è più una lotteria che io raccomando alla provata carità di V. S. Ill.ma; è una liquidazione di oggetti, parte rimasti da antecedente lotteria e parte offerti testè a favore dell'Oratorio [232] di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova e del Santo Angelo Custode in Vanchiglia.

                Ho scelto cinquecento di tali oggetti, ne sommai il prezzo secondo l'estimo approvato dall'Intendenza Generale, e ribassatolo di un terzo, lo divisi in cinquecento quote, quanti appunto sono gli oggetti. Il prezzo di ciascun biglietto riuscì di franchi 5, ma ogni biglietto ha un premio assicurato; però colla eventualità che il premio può essere di un valore maggiore o minore secondo il risultato dell'estrazione.

                Tale estrazione avrà luogo il giorno 26 del prossimo maggio nella casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

                Io Le mando biglietti N con preghiera di volerli accettare.

                Qualora però tra Lei e le caritatevoli persone di sua conoscenza non istimassero di ritenerli tutti, la prego rispettosamente a tollerare il disturbo e farli trasmettere a questa casa alcuni giorni prima dell'estrazione. L'oggetto vinto sarà portato a domicilio.

                Tali oggetti si sarebbero potuti mettere in vendita, ma la cosa sarebbe andata a lungo, nè avrei ottenuto un pronto aiuto siccome le attuali strettezze di questa casa richieggono.

                Comunque sia, io desidero che Ella non abbia altra mira se non di fare un'opera di carità: dal canto mio non mancherò di unirmi ai poveri giovani che frequentano questi Oratorii per invocare da Dio e dalla Vergine santissima grazie e benedizioni, che è il centuplo che Dio promette a chi fa opere di carità nella vita presente coll'aggiunta dell'eterna felicità nell'altra.

                Con pienezza di gratitudine e con profonda stima mi professo

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 5 maggio 1859.

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Fatta l'estrazione della lotteria, che ebbe pienamente l'esito desiderato da D. Bosco, egli davane avviso a coloro che avevano comprato i biglietti, trasmettendo gli oggetti loro assegnati dalla sorte. [233]

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Mi reco a dovere di far trasmettere a V. S. Ill.ma gli oggetti vinti nell'estrazione del 26 cadente mese seguita in questa casa in presenza della Commissione dell'antecedente lotteria.

                Al N….corrispose il N….

                La prego di volerli gradire siccome sono; e spero che Ella vorrà piuttosto considerare l'opera di carità, che il pregio materiale ai medesimi unito.

                Dal canto mio non mancherò d'invocare dal Cielo sopra di Lei sanità e grazia; e mentre raccomando me, gli ecclesiastici e tutti i giovani beneficati di questi Oratorii alla carità delle divote di Lei preghiere colla più sentita gratitudine mi professo

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 31 maggio 1859.

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Con questo mezzo D. Bosco aveva eziandio assicurato per un po' di tempo, anche ai giovani del suo Ospizio il pane quotidiano, mentre faceva sorridere innanzi alle loro fantasie un avvenire caro e stupendo preparato dalla Divina Provvidenza. Narrò il Ch. Anfossi: - Mi ricordo con molta precisione, che un giorno quando non si parlava neppur ancora delle fondamenta della Chiesa di Maria Ausiliatrice, essendogli io vicino nel cortile, D. Bosco disse: Lì (accennando al luogo ove ora sorge la Chiesa) s'innalzerà un gran tempio! - E alzando gli occhi in maniera come se già esistesse la cupola, e la vedesse, continuava: - Questa chiesa avrà una gran cupola e vi si celebreranno straordinarie solennità. - In quei giorni queste parole non potevano a meno che produrre sull'animo nostro straordinaria impressione di meraviglia, principalmente che conoscevamo benissimo, in quanto gravi strettezze, finanziare si trovasse [234] il nostro D. Bosco, mancando talora anche del denaro necessario per provvedere il pane. Ciò nondimeno quasi scherzando, cominciò più tardi ad invitare il Ch. Ghivarello, allora per nulla architetto, a tracciare il piano della futura chiesa le cui dimensioni egli poi allargò invitando il medesimo chierico a dare un secondo disegno, che fu poi presentato all'ingegnere Spezia.

                In questi stessi giorni D. Bosco colla benedizione sacerdotale otteneva una singolare vittoria che fece ridere molto gli alunni, i quali dicevano: - Peccato che Don Bosco non sia generale! Ha trovato un mezzo facile per far sgombrare il nemico da un territorio da lui occupato! - Così scrisse di questo fatto a D. Bonetti, Giuseppe Reano.

                “Un giorno venne da D. Bosco una vecchia giardiniera, che teneva in affitto un orto vicino all'Oratorio dicendo tutta desolata: - Nel mio orto vi sono tanti piccoli bruchi nocivi alle piante ed agli erbaggi.

                - E con questo, buona donna, cosa volete? disse Don Bosco. -Voglio che mi mandi via tutte quelle bestie, che ho nel giardino; mi distruggono tutto, mi mandano in malora; loro dia la benedizione, le faccia morire.

                “E D. Bosco sorridendo: - E perchè far morire quelle povere bestie? Loro darò la benedizione e le manderò in altri luoghi ove non possano far danno ad alcuno.

                “All'indomani io andai con Buzzetti in un piccolo orto incolto, che era di fianco alla chiesa di S. Francesco, cinto da un muro alto tre metri circa, che apparteneva all'Oratorio. Là vedemmo una sterminata quantità di quei bruchi immobili e attaccati al muro, i quali coprivano anche certi travi distesi per terra, mucchi di mattoni e pietre ivi riposte, e alcuni alberelli rachitici. Ogni cosa ne era coperta. E l'orto della vecchia era libero perfettamente da quell'invasione”.

 

 

CAPO XVIII. I Francesi in Torino - Afflizione di D. Bosco - Primi fatti d'arme - Montebello, Palestro, Magenta - I feriti Austriaci nel Convitto Ecclesiastico - D. Bosco coi Turcos a Collegno - Congiure e rivoluzioni nei Ducati e nello Stato Pontificio - Le feste nell'Oratorio: Dimostrazioni di riconoscenza a D. Bosco ed ai  maestri Scuole e laboratorii cristiani.

 

                I torinesi avevano temuto per un istante di veder comparire gli Austriaci fra le loro mura; perciò si abbandonarono ad un delirio di gioia, e con plausi e fiori accolsero i battaglioni francesi.

                E D. Bosco si mostrava pensieroso ed accorato all'annunzio dei continui reggimenti che entravano in Italia per marciare contro l'Austria; e sovente fu udito esclamare: - Sono tutti uomini che vengono contro il Papa. Si tratta di incominciare il suo spodestamento e con questa guerra togliergli ogni aiuto straniero e nazionale.

                Gli Austriaci intanto che già stavano per piombare sovra Ivrea, il 9 maggio, saputo l'arrivo dei Francesi, cominciarono un movimento retrogrado, concentrandosi tra la Sesia, il Ticino e il Po verso Stradella e Piacenza, in attesa delle mosse degli alleati. Il 19 maggio Giulay abbandonava Vercelli e trasportava il suo quartier generale a Mortara. [236]

                Il 12 l'Imperatore Napoleone era giunto a Genova e due giorni dopo arrivava ad Alessandria come duce supremo degli eserciti. Nel proclama alle truppe egli aveva detto: Noi non andiamo in Italia a fomentare disordini, nè a rovesciare il potere del S. Padre, che noi abbiamo riposto sul trono, ma a toglierlo da quella pressione staniera che grava su tutta la penisola.

                Il 20 maggio vi fu un primo scontro d'importanza a Montebello tra Voghera e Casteggio, e i Gallo - Sardi perduti 700 uomini costrinsero gli Austriaci a ritirarsi. I vinti ripassarono il Po e si recarono a Pavia, lasciando sul terreno 7000 dei loro. Contemporaneamente Garibaldi partiva da Biella con sei battaglioni di volontarii e facendo un largo giro sopra Novara in potere degli Austriaci, marciava fino ad Arona. Di qui disceso a Castelletto, passava il Ticino nella notte dal 22 al 24 maggio, e recavasi a Varese. Il 24 sostenuto un felice combattimento col generale Urban accorso da Milano, lo faceva sloggiare da Como e da Visconti Venosta Regio Commissario veniva gridato Re e Signore di quelle terre Vittorio Emanuele.

                Urban però ripresa Varese, ritornava a Como per la riscossa, quando ricevette ordine di congiungersi col grosso dell'esercito.

                Si pronosticava che la guerra sarebbe stata sanguinosa oltre ogni previsione e Vittorio Emanuele vedendosi ad ogni istante in pericolo di morte, il 25 maggio scriveva al Papa, promettendo e supplicando perchè lo sciogliesse dalle censure; e Pio IX lo scioglieva, ricordandogli però che l'assoluzione per esser valida non poteva andar disgiunta dal proponimento di riparare nel miglior modo possibile ai danni recati alla Chiesa e dalla volontà di astenersene per l'avvenire. [237]

                Il 30 maggio gli avamposti Austriaci trincerati tra Vercelli e Bobbio sono assaliti a Palestro e costretti a sgombrare. L'esercito Piemontese dimostrava grande bravura. Tre delle loro brigate scacciarono il nemico da Vinzaglio, da Confienza e occupavano Casalino. Il giorno dopo gli Austriaci tentavano di riprendere queste posizioni, ma non riuscivano. Al fine del combattimento le loro perdite erano di 1600 uomini e di 600 circa quella degli alleati.

                Tutto l'esercito francese era ormai concentrato tra Vercelli e Novara; una divisione avanzavasi fino a Trecate e l'altra a Galliate sulla riva destra del Ticino. Giulay accortosi allora che si minacciava Milano, da Vigevano e da Garlasco faceva immantinente passare tutto il suo esercito alla sinistra del Ticino e lo concentrava a Magenta. Gli alleati su due ponti passavano lo stesso fiume e il 4 giugno si veniva a battaglia. Lungo e terribile fu lo scontro, ma la vittoria arrise agli alleati. L'Austria aveva perduto tra morti e feriti 10.000 soldati e 7000 prigionieri; i francesi 4.000 tra morti e feriti e 1000 prigionieri.

                Il giorno 5 gli Austriaci incominciarono la ritirata sul Mincio abbandonarono Milano, e nel quadrilatero si apparecchiarono a fare una vigorosa resistenza. Ivi si raccoglievano 150.000 soldati dei quali l'Imperatore Francesco Giuseppe era venuto a prendere il supremo comando.

                L'8 giugno la retroguardia Austriaca era sconfitta dai francesi a Melegnano presso l'Adda: tra una parte e l'altra erano uccisi 2.200 uomini; e Garibaldi occupava Bergamo e respingeva da Seriate un battaglione nemico. In questo giorno Vittorio Emanuele e Napoleone entravano trionfalmente in Milano. Nel Piemonte per richiesta del Ministero si cantò in tutte le chiese l'inno di ringraziamento; e nella Metropolitana il principe luogotenente Eugenio di Savoia. [238] Carignano convenne coi membri e gli ufficiali del governo.

                Intanto i feriti, che avevano potuto sopportare il viaggio, erano stati ricoverati in parecchie città subalpine. In Torino ne erano pieni gli ospedali e a nessuno mancarono i soccorsi dell'arte e della religione e lo zelo delle figlie della carità.

                Al Convitto Ecclesiastico erano stati condotti Austriaci feriti e prigionieri. D. Bosco andato a visitare D. Cafasso, al quale il Governo aveva lasciate alcune stanze, s'intratteneva con essi dicendo qualche parola di compatimento e di conforto religioso. Incontravali nel cortile colla testa fasciata, o colle braccia al collo o una gamba di legno, raccolti all'ombra del caseggiato. Erano ungheresi, polacchi, tirolesi e quasi tutti sapevano tanto di latino in maniera, di poter tenere un po' di conversazione.

                Coi soldati francesi però ebbe D. Bosco maggiori attinenze e l'Oratorio divenne qual luogo di convegno per quelli stanziati in Torino e specialmente per gli invalidi. Uno degli alunni più adulti che parlava discretamente la loro lingua, cominciò a contrarre relazione con alcuni di essi, loro parlò di D. Bosco e li condusse a fargli visita. Don Bosco accolse quei militari con grande amorevolezza, s'intrattenne con loro in piacevoli discorsi, li invitò a venire all'Oratorio con libertà, anzi lasciò loro l'incarico di menarvi quanti compagni il bramassero.

                - Voi potete venire, disse loro, per scrivere ai vostri parenti, e qui troverete carta, penne, inchiostro e i necessari francobolli; potete venire per leggere libri francesi, di cui abbonda la nostra biblioteca, e se taluni bramassero d'imparare la lingua italiana o l'aritmetica, io destinerò loro un apposito maestro. Siccome poi, soggiunse D. Bosco, noi siamo tuttavia in tempo pasquale, e potrebbe darsi [239] che non tutti abbiate finora avuto comodità di adempire al precetto della Santa Chiesa, così vi avverto che in questa nostra cappella voi troverete confessori che conoscono la vostra lingua, e che si presteranno sempre volentieri a vantaggio dell'anima vostra.

                Questa graziosa accoglienza e queste parole riempirono di entusiasmo quei cari figli della Francia; onde ritornati in caserma raccontarono la cosa ai loro commilitoni, e destarono in molti il vivo desiderio di recarsi ancor essi all'Oratorio. Il fatto si è che in capo a pochi giorni nelle ore libere si vedeva come una processione di soldati francesi a scendere in Valdocco, e a venirsi a trattenere con D. Bosco e co' suoi suoi allievi siccome fratelli. Più centinaia di loro si accostarono eziandio ai Sacramenti e con un contegno così edificante, da ben dimostrare che appartenevano a famiglie di molta pietà e religione. D. Bosco, oltremodo contento, di tratto in tratto ne invitava alcuni a pranzo con lui; ed era allora un grazioso spettacolo il vedere i calzoni rossi risaltare presso le sottane nere, e chierici, Sacerdoti, e soldati fraternizzare insieme, gareggiando gli uni a parlare francese e gli altri a masticare italiano. Qualche uffiziale vi si intratteneva con tanta domestichezza che pareva come uno di casa.

                Dopo alcun tempo erano in sì gran numero quelli i quali conoscevano D. Bosco di persona, che difficilmente egli usciva in Torino senza che si vedesse accompagnato o di tratto in tratto fermato da qualche soldato francese. Un giorno, diceva D. Turchi, incontratone un drappello per Torino, che lo salutarono con un Viva l'Italia, li avvicinò, ebbe per loro buone parole e li invitò a recarsi al suo Oratorie. Accettarono l'invito e D. Bosco fece recare ad essi un rinfresco con tanta cordialità, che ne restarono [240] ammirati. Altra volta doveva egli recarsi a visitare un malato a Collegno, paese distante quattro miglia da Torino. Quando fu sulla via di Rivoli, ecco a farglisi incontro una dozzina di turcos, parte convalescenti, parte solo feriti al braccio od alla mano. Andando essi al passeggio, domandarono a Don Bosco di accompagnarvelo per qualche tratto di via, ed egli vi aderì molto volentieri. Di discorso in discorso e all'ombra degli annosi olmi che fiancheggiano lo stradale, la via parve sì breve, che la gioconda brigata quasi senza avvedersene giunse sino a Collegno. Colà pervenuti, i turco, volevano ritornare indietro, ma D. Bosco disse loro: - Giacchè come invalidi avete il permesso dei vostri superiori, attendetemi un poco; io farò presto, e ritorneremo a Torino insieme; - ed eglino si fermarono. Ma contro, la sua aspettazione D. Bosco non potè sbrigarsi così tosto come sperava, e quando uscì dalla casa dell'infermo l'orologio segnava mezzogiorno. Venuto a' suoi compagni di viaggio: - Mi rincresce, disse loro, di avervi fatto aspettare sì a lungo: ora come vedete è mezzogiorno: voi avrete certamente appetito, e i convalescenti avranno bisogno di ristoro, e non conviene che ci rimettiamo in via collo stomaco vuoto: venite dunque con me, e andremo a fare come dite voi non une ribote, ma una modesta allegria. - Ciò detto, li menò in un albergo, pagò loro un pranzo, mangiò con essi, facendo loro passare uno dei giorni più lieti. Dire la contentezza di quei turcos è cosa impossibile. Ritornati in città raccontarono la cosa al loro superiore, il quale ne fu così tocco di ammirazione, che al domani venne all'Oratorio a ringraziare D. Bosco, con parole improntate della più viva riconoscenza, e con gentilezza veramente francese. Nello stesso tempo D. Bosco mandava il ch. Celestino Durando a raccogliere oblazioni presso molti sacerdoti e altri [241] distinti signori, per poter comprare un gran numero di libri istruttivi e dilettevoli scritti in lingua francese. Li portava egli stesso ai soldati o li faceva recapitare alle suore di carità, che servivano negli ospedali; come pure libri di religione in tedesco spargeva fra i soldati austriaci, raccolti e custoditi nel Convitto Ecclesiastico.

                Per tutte queste ed altre ragioni i soldati della Francia, residenti in quel tempo tra noi, presero tanto affetto all'Oratorio, che quando ricevettero ordine di partire da Torino vennero a riverire D. Bosco e i loro maestri, mostrando colla più profonda gratitudine una grande commozione. Parecchi di loro continuarono a lungo un carteggio epistolare con D. Bosco e con alcuni della casa, specialmente con D. Michele Rua, stato loro maestro d'aritmetica.

                Intanto i liberali degli altri Stati d'Italia si agitavano secondando le istruzioni occulte di Napoleone III e di Cavour. Triste presagio degli avvenimenti preparati era stata il 22 maggio la morte per veleno del Re Ferdinando di Napoli. Il 9 giugno dopo un mese di agitazioni popolari e di incertezze la Duchessa di Parma, udite le vittorie degli alleati abbandonava i suoi dominii ove erano tosto innalzate le insegne Piemontesi. L'11 il Duca di Modena visto la ribellione di Massa e Carrara, tosto occupate dai soldati sardi, saputo che una divisione francese, dalla Toscana si avvicinava alla volta de' suoi Stati, se ne andò; e dopo un voto di unione al Piemonte, Re Vittorio vi spediva suo commissario per l'Emilia Carlo Luigi Farini. La divisione francese era comandata dal principe Napoleone, nimicissimo del Papa, mandato apposta per far stare a segna i fautori dell'ordine. Il 12 la rivoluzione scoppiò a Bologna, essendosi ritirati i mille austriaci ivi di guarnigione. Il Marchese Pepoli cugino di Napoleone III era capo del partito [242] unionista. Armata la plebe, stabilitosi un Governo provvisorio, s'intimò al legato pontificio di partirsene.

                Eziandio le legazioni di Ravenna e Ferrara abbandonate dalle truppe dell'Austria, eransi ribellate e tosto il ministero Piemontese mandava commissario in Bologna Massimo d'Azeglio.

                A Perugia il partito dell'Unione col Piemonte, a capo del quale era Maria Bonaparte Contessa Valentini, cugina di Napoleone III, aiutato da una squadra armata venuta dalla Toscana scacciava il delegato e sottraeva la città dal dominio del Papa.

                Ma il 20 giugno un reggimento papale di Svizzeri non ostante la difesa accanita degli insorti la ricuperò al legittimo Sovrano. In altre città dell'Umbria e delle Marche i settari avevano cercato commuovere le plebi, ma dopo questo fatto ogni casa ritornò alla calma.

                Da qualche giorno anche in Lombardia era cessato pel momento il fragore delle armi, e in Valdocco si pregava per il Papa, pel Re, per l'esercito e per la pace. Ma quivi si alternavano anche le gioie e le feste delle quali l'affetto e la gratitudine erano il movente. Tale fu sempre il carattere dell'Oratorio. La divozione colla frequenza dei Sacramenti ne erano il principio ed il compimento. Si spandevano gli alunni fuori di chiesa e riempivano i cortili di canti, suoni, applausi e grida di contentezza. La poesia soprattutto adoperavasi a rendere più cari questi giorni che erano molto frequenti. Gli onomastici dei superiori, le onoranze ai priori nelle festività dei Santi Patroni, il titolare delle camerate, le gite che avevano per iscopo una solennità in qualche parrocchia, erano circostanze da accendere l'estro dei cultori delle muse. Noi raccogliemmo e conservammo più centinaia di quelle poesie essendo cara cosa ciò che rammenta [243] gli antichi compagni. Alcune sono alquanto rozze, molte veramente belle, in tutte però c’è il cuore che parla.

                Ma la più solenne di queste feste, direi civili, era sempre quella dell'onomastico di D. Bosco. Per lui un seggio bene adorno a guisa di trono, cortile splendidamente illuminato, omaggio di graziosi doni, inno ogni anno diverso per argomento poetico e per musica, e composizioni di vario genere e in varie lingue. Dello slancio dei giovani in questo giorno avremo campo a parlarne ampiamente narrando i fatti degli anni successivi.

                Alle feste che si facevano per D. Bosco si unirono poi le feste, che ciascheduna classe di studenti o di artigiani facevano ai proprii maestri in occasione degli onomastici. Ogni maestro rappresentava D. Bosco in mezzo ai giovani, che gli erano stati affidati, quindi non è a dire quanto giulive fossero queste parziali festicciuole. Un mazzo di fiori, un piccolo dono comperato per sottoscrizioni e che servisse di memoria, alcuni dolci, poesie e prose erano mezzi per legare sempre più i cuori. La scuola e il laboratorio in quel giorno, erano adornati con qualche addobbo, che copriva la cattedra o il banco. D. Bosco alcune volte interveniva, ma non come per regola ordinaria. La Comunione generale della classe era il principio della festa. Alla sera, una mezza vacanza e una piccola passeggiata col maestro, coronava la contentezza di tutti. La mezza vacanza, la passeggiata, la merenda e le sottoscrizioni furono però più tardi abolite per gli abusi che si erano introdotti. Il maestro quel giorno aveva occasione di rendersi padrone di qualche cuore che teneasi chiuso, di riavvicinare qualche alunno che si era alienato da lui, di incoraggiare un negligente che erasi lasciato perdere di animo promettendogli il suo aiuto speciale, di perdonare qualche mancanza a chi temeva, che questa [244] avrebbe avuti risultati spiacevoli per lui al fine dell'anno. L'espansione degli alunni in questo giorno essendo più viva, facilmente si manifestavano e si dileguavano certe ombre, certe suscettibilità, certe gelosie, ed anche qualche disordine, che altrimenti sarebbe stato nascosto con danno dell'ordine e talora delle anime. Il fine pel quale D. Bosco permetteva queste dimostrazioni d'affetto e di riconoscenza era sempre la vita eterna. Tale fine si manifestava nelle espressioni dei giovani, nelle loro composizioni, e nelle loro promesse, tale nelle risposte del maestro ai loro indirizzi. Il maestro non mancava mai di raccomandare una buona confessione, e chiedere con affetto ai giovani che si mettessero in grazia di Dio, qualora non ci fossero. Diceva chiaramente, che se qualcuno avesse per disgrazia taciuto qualche peccato per rossore, andasse a confessarlo in quel giorno, perchè Gesù benedetto fosse da tutti consolato; e che per il maestro il pensare che un solo dei suoi allievi potesse in quel momento aver sopra il capo l'ira di Dio, era cosa da turbare ogni gioia più cara. I giovani intendevano come questo fosse il più bel regalo pel maestro e il bene che producevano allora le parole di chi li amava, Dio solo lo sa. Da ciò che si poteva conoscere era grandissimo eziandio per le vocazioni. I giovani restavano come elettrizzati e più d'uno, preso il maestro da parte, prima che tramontasse il sole: - Sono contento, sa, ma proprio contento.

                La scuola a quei tempi era come un piccolo santuario, poichè, come adesso, la statua di Maria santissima era collocata sopra un altarino in faccia al Crocifisso e non le mancavano candele e fiori. Tutti i sabati al finire della lezione della sera si recitavano innanzi a lei le litanie, nel mese di maggio tutti i giorni le si faceva una piccola preghiera in comune, tutte le feste della Madonna erano annunziate [245] dal maestro nella vigilia, con un'esortazione ad accostarsi ai Sacramenti. Allo stesso modo si annunziavano le feste principali dell'anno, perchè era notorio come D. Bosco non concepisse essere buona una festa, senza la confessione e la comunione. Non era una predica, sibbene un semplice annunzio di pochissime parole.

                Da ciò che si è detto si può arguire come fiorisse l'ordine e quindi lo studio in tali scuole o in tali laboratorii, poichè anche i laboratorii avevano quelle costumanze. Per conseguenza dove regna la carità regnando la felicità, ne veniva che al fin dell'anno scolastico, benchè i giovani anelassero a ritornare coi parenti, tuttavia era per loro causa di pena distaccarsi dal proprio maestro.

 

 

CAPO XIX. La battaglia di Solferino - D. Bosco predice imminente il trattato di pace - Ristampa della Storia d'Italia - Lettera del Sindaco di Torino che ne accetta una copia in dono - Letture Cattoliche: LA VITA DE' SOMMI PONTEFICI S. PONZIANO, S. ANTERO E S. FABIANO - Un figlio prodigo ricondotto da D. Bosco alla casa paterna - Suoi consigli ad un giovanetto sul modo prudente di leggere certi libri.

 

                I chierici dell'Oratorio avevano finito il corso annuale dei loro studii. Dal 1859 in poi esistono nei nostri archivii i voti dei loro esami subiti nella sala del Seminario di Torino e da questi registri risulta come essi si dedicassero con diligenza allo studio della filosofia e della teologia. Il 23 giugno alla sera si festeggiò D. Bosco, e all'indomani S. Giovanni Battista; ma sul tramontar di quel giorno le prime notizie di una spaventosa battaglia mutarono la gioia in dolore.

                Il 23 gli Austriaci, ripigliata l'offensiva, erano passati sulla riva destra del Mincio e per centri di loro azione avevano fortificato Solferino e S. Martino. Nello stesso tempo gli alleati traversavano il Chiese. Il 24 si attaccava la battaglia. Per quattordici ore 274.000 uomini combattevano senza [247] posa. La sorte delle armi piegava in favore dei Franco - Sardi rimasti in possesso delle contestate alture, quando una orribile bufera di vento, tenebre paurose, pioggia torrenziale, grandine con rimbombo di tuoni e scoppio di folgore, faceva tacere il frastuono di settecento cannoni e poneva fine alla pugna. I campi, narra Cesare Cantù, erano seminati di quasi 40.000 soldati o morti o feriti, fra i quali 13.000 Austriaci, e di 1500 ufficiali con tre marescialli.

                Nell'Oratorio temperarono l'impressione dolorosa di tante morti, le preghiere e le comunioni colle quali Don Bosco volle suffragate le anime del Purgatorio, e la festa in onore di S. Luigi Gonzaga solennemente celebrata il 29 giugno. Era priore il Sig. Delponte Giovenale. Un inno a lui dedicato, ed in onore al santo Patrono della gioventù, fa palese quale distinto poeta fosse il Ch. Bongiovanni Giuseppe.

                Le famiglie intanto o piangevano i loro cari morti in battaglia o trepidavano sulla sorte dei sopravvissuti. La guerra pareva dovesse ancor durare. Le truppe alleate avevano passato il Mincio ed erano accampate in vista di formidabili fortezze, che non si potevano vincere senza lunghi assedii. Presso a Verona tutti prevedevano un'altra battaglia, sanguinosa come quella di Solferino. Le navi francesi erano entrate nell'Adriatico unendosi ad Antivari colla flotta sarda. Il 10 luglio era fissato per dare l'assalto a Venezia. In mezzo a tanta generale trepidazione D. Bosco prediceva la pace. Così ci scriveva la Contessina Suor Filomena Cravosio.

                “Nell'anno 1859 mentre ferveva la guerra in Lombardia, una sera la mia povera madre, che aveva nell'esercito un figlio ed anche un fratello già ferito, col cuore affranto dal dolore e collo spavento del temuto avvenire dipinto sul volto, [248] mi pregò di accompagnarla da D. Bosco. Quella volta, cosa straordinaria, D. Bosco ci fece introdurre nel refettorio dove aveva appena finito di cenare co' suoi preti, che lo circondavano ancora. Più lungi seduti chi sul tavolo, chi su rozza panca, alcuni allievi si esercitavano nel canto colle carte di musica in mano. Di tanto in tanto un ragazzetto si avvicinava per dire all'orecchio di D. Bosco una breve paroletta, alla quale D. Bosco rispondeva colla medesima segretezza. Dopo averci salutate con pochissime parole e fatte accomodare vicino a lui, parlò di cose indifferenti, ma di quando in quando dava a mia madre un'occhiata piena di espressione. Quando tutti i preti furono usciti dal refettorio disse a mia madre: - Signora Contessa, io so tutto ciò che ella vuol dirmi, ma faccia cuore (abbassando il tono della voce). Questa notte stessa Napoleone farà la pace e la guerra sarà finita.

                E mia madre: -Ma questo è impossibile! Ella dice così per consolarmi, ma i fatti sono ben diversi.

                All'indomani circa le ore sette del mattino mia madre ed io ci recavamo alla chiesa di S. Dalmazzo per udire la Messa e attraversando la via Garibaldi allora detta Dora Grossa, sentimmo gridare dai venditori dei fogli: - Pace di Villafranca conchiusa stanotte fra l'Imperatore Napoleone, Vittorio Emanuele e l'Imperatore Francesco II d'Austria.

                Dopo la messa fummo nuovamente da D. Bosco, che nel cortile ci venne incontro e disse per il primo: - Ringraziamo il Signore che i patti sono stati accettati. - E ci condusse nella cappella dove pregammo un poco”.

                Che cosa era adunque accaduto? La Contessa Cravosio aveva parlato con D. Bosco la sera del 6 luglio verso le 8. Napoleone III si trovava a Villafranca suo quartier generale; era sbigottito dalla carneficina vista a Solferino e preoccupato [249] per notizie venute dalla Germania, che lo avvisavano essere pronte alcune Potenze a muoversi in aiuto dell'Austria. Questa stessa sera verso le 9, essendo a tavola, faceva chiamare il Generale Fleury e, dategli alcune istruzioni, gli consegnava una lettera colla quale domandava una sospensione d'armi al Sire Austriaco. Il Generale entrava in Verona alle dieci e mezzo. L'Imperatore Francesco Giuseppe era a letto e si andò a svegliarlo. Vestitosi in fretta, il Generale Fleury fu introdotto alla sua presenza. Nel leggere la lettera di Napoleone l'emozione e la sorpresa si dipinsero sopra il suo viso, e ascoltate le spiegazioni a voce espostegli dal Generale, dichiarò che erano giuste, e all'indomani acconsentiva alle proposte. L'11 luglio i due imperatori s'incontravano a Villafranca, convennero nelle condizioni, e la pace era fatta[9].

                Ed ecco le condizioni: “Cessione della Lombardia all'Imperatore di Francia, che l'avrebbe rimessa al Re di Sardegna: Mantova, Roccaforte e Peschiera restavano all'Austria.

                Conservazione della Venezia sotto il dominio Austriaco, che però entrerebbe in una confederazione di tutti gli Stati italiani sotto la presidenza Onoraria del Papa.

                Non si impedirà il ritorno dei principi spodestati nei loro dominii e si aumenteranno i possessi del Granduca di Toscana.

                Amnistia generale da una parte e dall'altra.

                Non una parola delle Legazioni e del Duca di Parma.

                Questa convenzione fu poi sancita a Zurigo il 10 novembre 1859 e davasi anche facoltà alle corporazioni religiose lombarde di disporre dei loro beni, quando le leggi [250] dello Stato sotto cui passavano, non ve le mantenessero in possesso. Ma di tutte queste condizioni furono osservate quelle solamente che riguardavano la cessione delle terre lombarde e dell'amnistia. Tutte le altre rimasero lettera morta.

                Il 15 luglio il Re e Napoleone III entravano in Torino accolti con grande apparato di feste e l'Imperatore partiva tosto per Parigi accompagnato dal Re fino a Susa.

                Ma nè la guerra, nè la pace potevano in nessun modo influire sull'attività di D. Bosco. Nel mese di giugno aveva fatto stampare da Paravia con qualche aggiunta la seconda edizione della sua Storia d'Italia in 2500 copie. Giova ripetere come in questo libro narrasse l'origine del potere temporale dei Papi e ne sostenesse il diritto, e ne dimostrasse i vantaggi: e faceva dono di molti esemplari a personaggi cospicui del clero e del laicato. Fra gli altri il Sindaco di Torino ringraziandolo in questi termini:

 

                CITTA' DI TORINO.

Torino, addì 16 luglio 1859.

 

                Il pregievole dono teste fatto dalla V. S. Ill.ma della Storia d'Italia raccontata alla gioventù dai suoi primi abitatori fino ai giorni nostri, la rende meritevole di vera gratitudine per parte di codesta Civica Amministrazione; ed il Sindaco sottoscritto è ben lieto di farsene presso di Lei interprete, nell'atto che Le rassegna anche i più sentiti ringraziamenti per la di Lei cooperazione nell'attuazione di una pubblica Biblioteca Municipale che ridonderà a vantaggio sicuro della popolazione di Torino.

                Gradisca gli attestati del predistinto ossequio di chi si pregia di protestarsi

                Di V. S. Ill.ma

D. O. servitore

Il Sindaco NOTTA [251]

 

                Nella metà di luglio avevanlo occupato, gli esami, le premiazioni, le pagelle dei voti, le pubbliche estrazioni e le private ai singoli alunni che erano chiamati dai parenti alle loro case per le vacanze.

                Sul principio del mese, coll'aiuto del giovane Chiala, Don Bosco aveva pubblicato pel mese di luglio il fascicolo anonimo delle Letture Cattoliche che portava il titolo: Antonio e Ferdinando, ossia il trionfo dell'innocenza. Racconta di uno studente, figlio di poveri artigiani, che percorre splendidamente la carriera degli studi, contristato però dalla prepotenza di un suo emulo di famiglia nobile, al quale sono concessi que' premii che a lui erano dovuti. Soccorso da uno sconosciuto benefattore, che poi si scopre essere il Ministro dello Stato, riesce a conseguire la laurea di avvocato, che egli onora col respingere le insidiose promesse di chi voleva farlo istrumento di ingiustizia, il calunniato, è chiuso in carcere, ma infine la verità si fa palese, e gli è conferita una carica importantissima e lucrosa. Il racconto prova che la Divina Provvidenza permette talvolta, che la nostra vita sia oppressa dai tristi, ma quando meno lo crediamo ella viene in nostro aiuto. La virtù è ricompensata anche nella vita presente, cui certamente terrà dietro una eterna mercede nella patria dei beati.

                Pel mese d'agosto l'opuscolo preparato era: La Vita dei Sommi Pontefici S. Ponziano, S. Antero, e S. Fabiano per cura del Sac. Bosco Giovanni.(H). Era lavoro tutto suo. Colla storia di questi Papi che versarono il sangue per la fede, descrive la conversione, la vita santa e il martirio di Ponzio senatore romano, il battesimo dell'Imperatore Filippo e di suo figlio e la sommissione di Origene alla Chiesa.

                Ultimate le correzioni di questo opuscolo D. Bosco andava [252] a S. Ignazio dove egli avrebbe ritrovata una pecorella smarrita della quale da vari anni andava in traccia.

                Un giovanetto di nome Francesco D... d'ingegno svegliato, studente di ginnasio aveva frequentato l'Oratorio di Valdocco. Egli apparteneva ad una famiglia ricca di censo e di virtù. Suo padre e sua madre gli avevano infuso nel cuore il santo timor di Dio e D. Bosco secondava le loro premure raccomandando al giovane un'esatta obbedienza ai suoi genitori. Francesco non aveva segreti per lui. Ritornando a casa dall'Oratorio si dilettava di narrare quanto D. Bosco aveva detto e fatto e ripeteva il suo nome ad ogni istante, sicchè i suoi parenti speravano ogni bene da quella santa amicizia.

                Ma Francesco era agitato da una smaniosa curiosità di leggere, sapere e conoscere e avendogli i compagni imprestato qualche romanzo, non immorale, ma tale da scaldargli fuor di misura la fantasia, egli si appassionò talmente in quelle letture, da raffreddarsi nella pietà, nello studio, e da venirgli a noia l'Oratorio.

                Il padre accortosi di quel cambiamento ne cercò e ne trovò la causa, rimproverò il figlio, gli tolse quei libri e non trovando in lui la doverosa arrendevolezza, lo minacciò di un severo castigo. Il fanciullo colla mente squilibrata da quelle letture, caparbio e sgomentato fuggì di casa. Dopo essersi aggirato tra le colline di Superga, temendo di essere inseguito si fermò innanzi all'aia di una cascina ove i contadini all'ombra di un grande albero, interrotto il lavoro di battere il grano, merendavano allegramente. Estenuato dal caldo, dalla fame e dalla sete, per un istante li osservò con invidia. L'amor proprio lo ratteneva, la necessità spingevalo, ma fattosi finalmente coraggio si avvicinò e chiese loro una fetta di polenta. [253] Stupirono i contadini che loro chiedesse l'elemosina un giovanetto che la fisionomia e l'abito palesavano cittadino dì condizione signorile e gli domandarono chi fosse e donde venisse: ma Francesco seppe inventare una favoletta che commosse quei semplici cuori. Disse loro: sè essere orfano di padre e di madre che per sventure commerciali lo avevano, lasciato nell'estrema miseria; e quindi, per togliersi al rossore di porgere la mano in una città dove era conosciuto, aveva deliberato di andare in paesi lontani. Ebbe allora la sua parte di polenta, e uno di quei coltivatori gli disse:

                - E come farai da qui innanzi a vivere? Bisognerà che ti metta a lavorare.

                - Se mi volete con voi, rispose Francesco, io sono pronto.

                - Tu così delicato, maneggiare la zappa e la vanga!

                E tutti gli altri diedero in uno scroscio di risa.

                - E perchè no? replicò Francesco; provatemi!

                - Ebbene; prendi questo correggiato... e avanti.

                Francesco deposta la giubba incominciò a battere le spighe. Benchè non fosse assuefatto a fatiche manuali, lavorava con tanto ardore, che quei buoni contadini compassionandolo gli dissero:

                - Ebbene sta con noi; polenta e pane non ti mancherà; nel pagliaio ci sarà il tuo posto per dormire. Sei contento?

                Francesco qui soffermossi per due settimane, eseguendo quanto gli era comandato, ma importunando i suoi padroni, perchè lo mettessero a servizio in qualche masseria più lontana da Torino. E quella buona famiglia lo mandò presso certi suoi parenti che abitavano a Sciolse. Qui Francesco si assoggettò a qualunque fatica ed umiliazione, con energia risoluta di volontà. Una pazza vergogna ed un timore irragionevole lo trattenevano dal ritornare alla casa paterna [254]

                Intanto suo padre, antico magistrato, con ansia crudele, faceva ricerca di lui, ma non riusciva a rintracciarlo. Si recò da D. Bosco per avere conforto, e D. Bosco, benchè sorpreso da così strana novella, lo assicurò che la Madonna Santissima avrebbe protetto suo figlio e lo avrebbe ricondotto in famiglia; gli prometteva nello stesso tempo che nell'Oratorio si sarebbe pregato per lui.

                Da due anni non si erano più udite novelle di Francesco quando D. Bosco andava per alcuni giorni a Sciolse nel castello del Conte Roasenda, invitato a predicare in quella parrocchia. Il Conte volle condurlo in vettura a visitare una sua grande fattoria coltivata con molta diligenza. Esaminata minutamente ogni cosa, sedettero in un luogo delizioso dal quale si godeva un bel panorama. Mentre il Conte si era alquanto allontanato per osservare una tettoia costrutta allora, gli occhi di Don Bosco furono attirati da un giovane col volto abbronzato dal sole, di forme robuste, coi capelli rasi e un ciuffo che gli scendea sulla fronte, il quale poco distante in un prato più basso stava col tridente ammucchiando il concime trasportato dalle stalle. Più lo fissava e più gli pareva d'averlo visto altre volte, ma non riusciva a precisare le sue reminiscenze. In quell'istante il giovane alzò gli occhi, fece un atto di sorpresa, e continuò il suo lavoro, tenendo la faccia studiosamente rivolta in modo da nasconderla a D. Bosco. D. Bosco allora si mosse per scendere da quella ripa, ma il giovane allontanavasi con passo affrettato. Si fece allora la luce nella mente di D. Bosco, e pensò: - Forse è Francesco. - Intanto il fattore essendosi avvicinato a lui, egli chiese notizie di quel servitore di campagna, ed ebbe per risposta: essere laborioso, obbediente e di buona condotta; averlo a lui raccomandato alcuni suoi parenti, e chiamarsi Giuseppe: ma non aver [255] stimato necessario chiedere informazioni. D. Bosco pensò essersi quel giovane mutato il nome e disse al fattore:

                - Fatemi il piacere: interrogatelo con prudenza: cercate di conoscere il cognome della sua famiglia, il tempo che uscì dal suo paese, e poi comunicatemi l'esito delle vostre investigazioni.

                Il giovane intanto nascosto tra le viti, aveva osservato come D. Bosco parlasse col fattore; sospettò l'argomento di quel discorso, risolse di fuggire e senz'altro salì alla casa colonica, per vestire i suoi rozzi panni e prendere i pochi danari, frutto de' suoi risparmi.

                Il Conte e D. Bosco in vettura, giravano il fianco della collina che da quel lato era incolta, sassosa e ripida; quand'ecco ad uno svolto della via, venir giù a rompicollo quel giovane, che aveva sperato di antivenire D. Bosco. Il cavallo si adombra e il Conte balza a terra e lo afferra pel morso: D. Bosco scende subito, e tenta di afferrare Francesco per un braccio, mentre salta sulla via. Ma non riesce a tenerlo per l'impeto della sua corsa e il giovane gridando: - Mi lasci, mi lasci andare! - scivola giù dalla ripa, e si dilegua fra gli alberi d'un burrone.

                Era passato circa un anno da questo incontro. Don Bosco si trovava a S. Ignazio sopra Lanzo per gli esercizi spirituali. Un giorno, finito il pranzo, usciva sulla spianata davanti alla chiesa, passeggiava circondato da una folla numerosa di signori e specialmente di giovanotti, intrattenendoli in amena conversazione. Giunto al parapetto del muraglione che sosteneva il terrapieno, a caso volse gli occhi al basso e vide seduta la solita turba di povere donne, vecchi, fanciulli accalcati alla porticella della cucina, aspettando che il cuoco distribuisse loro i rilievi del pranzo. Fra questi, con suo stupore, riconobbe subito Francesco, il quale [256] scalzo, senza giubba, teneva in mano la scodella, aspettando la sua porzione di cibo. D. Bosco si ritrasse subito, perchè Francesco non lo vedesse e andato dalla parte opposta del cortile disse a coloro che erano con lui:

                - Signori, chiedo il vostro aiuto per compiere una bella impresa.

                - Dica, dica, D. Bosco, siamo pronti.

                - Dividetevi in due schiere, scendete alla spicciolata, gli uni da questa parte, e gli altri da quell'altra fino alla metà del poggio, come se andaste tranquillamente a passeggio. Quindi forniate di voi una catena in modo, che ciascheduno sia distante dai vicini non più di sei o sette passi e risalite verso il santuario. Un giovane scenderà fuggendo e voi fermatelo e conducetelo a me.

                Il suo ordine fu puntualmente eseguito e quando vide che i suoi amici incominciavano a risalire, si affacciò al parapetto e chiamò: -  -Volgersi e slanciarsi giù per la china fu cosa di un istante per il giovane, ma non potè passare la linea di quei signori, i quali afferratolo lo condussero ove D. Bosco lo aspettava, senza che facesse una gran resistenza. D. Bosco lo prese per mano: - Questa volta non mi fuggi più, gli disse. Vieni adunque con Don Bosco e sarai contento. - E lo condusse in sua camera. Quivi fattogli apprestare il pranzo, prese ad interrogarlo amorevolmente.

                Seppe da lui come fuggito da Sciolse si fosse internato nelle alpi, ed ora pastore, ora contadino, ora servitore nella casa di un parroco, ed ora girovago, avesse campato la vita in mezzo a strane avventure, ma sempre fortunato nell'incontrarsi con persone morigerate. Sul principio non erasi affacciata alla sua mente l'idea del gran male fatto, ma cessata quella febbre che aveagli offeso il cervello, ne [257] aveva riconosciuta l'enormità. Tuttavia questa, rappresentandogli il padre giustamente sdegnato, lo ributtava invincibilmente dal tornare a lui; e non poteva neppur reggere a tale pensiero. Sovente però gli stringeva il cuore il ricordo di sua madre e della sorella. Aveva anche pregato e pianto non osando però palesare ad alcuno la sua condizione e le sue pene. - Ma ora, egli diceva, passato il primo sgomento, sentirsi fortunato nel trovarsi in sì buone mani.

                D. Bosco gli promise allora di riconciliarlo col padre suo, invitandolo a riconciliarsi prima con Dio, cosa che Francesco fece volentieri. Quindi abboccatosi con D. Begliati economo del Convitto di S. Francesco e degli esercitandi a S. Ignazio, gli narrò il fatto; al giovane fu assegnata una camera. Il domani D. Begliati si faceva mandare da Torino quanto era necessario per vestirlo signorilmente. D. Bosco terminati gli esercizii ritornò all'Oratorio con Francesco e si affrettò a portare l'inaspettata notizia ai desolati genitori. Dopo un breve esordio per disporre gli animi, concluse: - Ringraziamo il Signore; Francesco è ritrovato!

                Fu un grido generale di gioia in quella casa e poi un chiedere: -Come? Quando? Dove? - D. Bosco narrò brevemente il fatto e poi vedendo il padre rimaner pensieroso, soggiunse: - Riavrete dunque vostro figlio, ma a condizione che non gli si faccia alcun rimprovero. Si dimentichi pienamente il passato e si riceva in casa come se non ne fosse mai partito. Altrimenti soggiunse sorridendo, non ve lo faccio vedere. - Il genitore assentì e D. Bosco invitò tutta la famiglia a recarsi all'Oratorio l'indomani nelle ore mattutine. Non si può dire con quale ansietà fu atteso quel momento. La madre entrò per la prima, colla sorella di [258] Francesco nella camera di D. Bosco, ma appena visto il figlio che piangeva seduto presso il servo di Dio, sentissi mancar le forze, sedette colla figlia e ruppero ambedue in lagrime. Poco dopo giungeva il padre, con un contegno sostenuto e asciugandosi le lagrime sedette esso pure senza parlare. Francesco non si era mosso. D. Bosco non interruppe quel primo sfogo, e quando li vide più calmi disse:

                - Sia benedetta la Madonna che vi restituisce il figlio... E Francesco chiede perdono a suo padre e a sua madre dei dispiaceri che loro ha cagionati... e ciò detto lo prese per mano e lo condusse presso il padre che singhiozzando lo baciò in fronte.

                - E ora, signori miei, se lo conducano a casa, concluse D. Bosco, e mi rendo garante che avranno da lui molte consolazioni. E fu così. Riprese gli studi e col grande ingegno che aveva, in pochi anni guadagnò il tempo perduto, si addottorò in legge e salì ad una delle più eminenti cariche dello Stato.

                D. Bosco stesso ci narrò questo fatto, che dimostra quanto siano pericolosi per la gioventù molti libri, i quali benchè non perversi pure esaltano la fantasia, ed eccitano la sensibilità. Ed è perciò che D. Bosco era sì grandemente severo nell'imporre ai suoi alunni che presentassero al giudizio del Superiore i libri che recavano dalle loro case, e che si procuravano lungo l'anno.

                Anche a molti giovanetti della borghesia e della nobiltà di Torino ci consta, che dava consiglio di far esaminare ogni libro che loro capitasse nelle mani, da persone probe ed intelligenti, prima di leggerli. Tanto più che nelle stesse scuole sedevano insegnanti poco prudenti ed anche talora irreligiosi, i quali esortavano gli scolari a letture sconvenienti. [259] Perciò anche dalla città gli studenti recavano o mandavano a lui i loro libri per averne il consentimento o la proibizione. Abbiamo una sua lettera su questo argomento.

 

                               Ottavio Car.mo,

 

                Eccoti i libri di cui ho fatto fare breve rivista. In senso proprio non avvi alcuna cosa proibita: i libri non sono all'indice. Sonvi però alcune cose assai pericolose per la moralità di un giovane; perciò mentre puoi leggerli devi stare attento su te medesimo, e qualora ti accorga avvenire danno al tuo cuore, sospenderne la lettura, o almeno saltare que' brani che relativamente possono essere pericolosi.

                Ho fatto aspettare il domestico perchè aveva molta udienza. Dio ti doni sanità e grazia: mille saluti a maman e a tua sorella: prega anche per me che ti sarò sempre nel Signore

                Torino, 11 agosto 1859.

Aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

Nobile giovane Bosco Ottavio di Ruffino.

 

 

CAPO XX. Un incontro di D. Bosco a Troffarello - Due Predizioni - Due Letture Cattoliche - Sussidi del Re e del Ministro degli Interni - Costruzione di scuole; lavatoio e legnaia - D. Bosco ai Becchi coi giovani - Le passeggiate: programma Prestabilito: provvidenza: marcie: la storia dei paesi: casi allegri: entrata in un borgo: ospitalità: scene buffe: le funzioni in chiesa: il teatro: la partenza: animo generoso di D. Bosco: incontri non previsti - Si va a Maretto - Arrivo a Villa San Secondo - Una spina del parroco - Visita a Corsione, Cossombrato e Rinco - Festa della Madonna delle Grazie - Il teatro e un ballo impedito - La festa della Maternità di M. V. - Partenza da Villa S. Secondo Fermata a Piea - Viaggio notturno - Arrivo ai Becchi - Un giovane smarrito - Visita alla tomba di Savio Domenico - Ritorno all’Oratorio.

 

                Si legge nell'Ecclesiastico: “La bocca dell'uomo prudente è desiderata nelle Chiese e le parole di lui ciascuno le medita in cuor suo”. (XXI, 20).

                In un giorno del mese di agosto D. Bosco partiva per Cambiano invitato a predicare, ma arrivato a Troffarello il convoglio non procedeva più oltre. Le corse non [261] erano regolari per un continuo movimento di materiale di guerra e di soldati da Alessandria a Torino, sicchè egli fu costretto a proseguire pedestre la sua via: pioveva ed era senza ombrello. Dal medesimo treno scendeva il Deputato Tommaso Villa diretto egli pure allo stesso paese. Prese una carrozza e raggiunse ben presto D. Bosco. Vedendo quel povero prete, che camminava cercando di farsi col mantello schermo dalla pioggia, come meglio poteva, mosso a compassione lo invitò a salire. D. Bosco accettò ringraziando. L'On. Villa restò colpito dalle sue maniere e dalla ritenutezza e gentilezza del suo parlare; e giunto a Cambiano gli domandò se pernottasse nel paese, oppure ritornasse indietro la sera stessa. Saputo che doveva ritornare, lo invitò a trovarsi nel tal luogo e all'ora tale per approfittare della sua vettura. D. Bosco accettò, ringraziò e fatta la predica, fu puntuale all'appuntamento. Nel ritorno l'On. Villa chiese al prete:

                - Mi favorisca dire il suo pregiato nome.

                - D. Bosco, gli rispose il prete.

                - Di Valdocco?

                - Sissignore, e Lei?

                - Io sono l'Avvocato Villa!

                È lo stesso Avvocato che narrava a D. Rua quel suo incontro e aggiungeva che da quel momento più non cessarono le sue relazioni con D. Bosco.

                Lo stesso accadeva a qualunque altro che avesse la fortuna d'incontrarsi con lui: e le famiglie cattoliche in Torino lo tenevano molto caro riconoscendo in lui un uomo del Signore: e ogni giorno si persuadevano maggiormente, che egli era favorito dal cielo di straordinarii doni.

                Fin dai primi tempi dell'Ospizio di S. Francesco di Sales, D. Bosco recavasi a quando a quando, a far visita alla famiglia [262] del Conte Cravosio, tanto distinta per pietà e generosità. La Contessa e le sue figliuole, volenterose di occuparsi in opere di beneficenza, si adoperavano specialmente nell'aggiustare le biancherie dei poverelli di Valdocco. Una di quelle nobili donzelle la cui testimonianza abbiamo riferito nel capitolo precedente sulla predizione di D. Bosco intorno alla pace di Villafranca, scrisse a D. Rua il seguente fatto.

 

                Era il 30 agosto 1859 giorno di S. Rosa mio onomastico. Mia madre sempre intenta al mio bene per rallegrarmi, fra le altre cose mi aveva regalato una bella statuetta di Maria Immacolata e poi circa le ore nove mi condusse da D. Bosco ove ci trattenemmo un poco. D. Bosco ci promise di venire alle 6 a pranzo da noi, e tenne la sua parola. Durante il pranzo m'indirizzò semplici auguri riguardanti la mia salute. Dopo il pranzo lo pregai di venir meco nella mia camera. Sopra una mia cantoniera aveva deposto la statuetta della Madonna e pregai D. Bosco a benedirla ed a supplicarla per me di una grazia speciale, senza spiegarmi di più. Era la grazia di trovare il mezzo onde soddisfare la mia vocazione religiosa.

                D. Bosco giunse le mani e diritto davanti all'immagine di Maria, in silenzio, fece sulla statua il segno della santa croce e poi pregò ancora; infine senza scomporsi dal suo pio atteggiamento e sempre guardando la statuetta disse: - O Vergine SS. Immacolata, benedite e consolate la Rosina, che io vedo vestita di bianco.

                - Ma D. Bosco, l'interruppi, io non sono vestita di bianco, anzi non mi piace vestirmi di tal colore; (io aveva allora 19 anni) sono le bambine che si vestono di bianco, ma alla mia età non conviene (e nel mio cuore sentiva certa ripugnanza di farmi Domenicana appunto per l'abito).

                Allora D. Bosco replicò:

                - Sì, la Rosina vestita di bianco - e ripeteva con accento profetico le medesime parole, quando la voce di mio padre lo chiamò in sala per prendere il caffè.

                Due anni dopo cioè il 16 agosto del 1861 il Signore mi apriva [263] la porta dell'Istituto delle Maestre suore Domenicane in Mondovì Carassone e la Vergine Immacolata esaudiva in pari tempo i desiderii del mio cuore e la preghiera di D. Bosco, realizzando chiaramente la profetica sua parola.

                Ma ciò non è tutto. Da parecchi anni mi trovava a Mondovì e le cose andavano assai bene, quando il demonio venne a mettere col disordine in sussulto anche la nostra cara comunità di Mondovì Carassone e la conseguenza di questo fu la perdita di un bel numero di allieve. In tale frangente la nostra buona Madre Manfredini mi suggerì di scrivere a D. Bosco mandandogli un piccolo obolo e pregandolo di fare una novena per ottenere alla nostra Comunità un ritorno al pristino stato fiorente. Pochi giorni appresso D. Bosco rispose, come al suo solito, con parole di ringraziamento, di consiglio, d'incoraggiamento. Più di 20 allieve vennero quanto prima ad accrescere il nostro educandato, ogni disordine fu dolcemente represso e la calma, la gioia e la virtù ripresero fra noi il loro posto.

                Ecco, reverendissimo Sig. D. Rua, le mie memorie su D. Bosco schiette schiette come le ho nella mente.

 

Suor FILOMENA CRAVOSIO.

 

                Ad un'altra nobilissima fanciulla, della quale a suo tempo diremo il nome, D. Bosco predisse l'avvenire. Ella sentivasi chiamata da Dio alla vita religiosa, e non avendo ostacoli dai suoi parenti nel conseguimento dei suoi desiderii, ne fece parola a D. Bosco. Il servo di Dio le rispondeva: - Sì, lei si farà religiosa, ma dopo un lungo tempo di aspettazione, e passando per casi ora imprevedibili.

                E così fu. Dopo alcun tempo, morta una sua sorella, lasciando un figlio in tenera età, dovette ella sposare il cognato, essendo necessario un cuor di madre per quel bambino. Rimasto ben presto orfano anche di padre, morto di colera, la buona matrigna ne curò, con nobilissimo sacrificio, l'educazione religiosa e civile, e il ricco patrimonio; e solo quando ebbe compiuta questa santa missione, e [264] lo ebbe messo nella splendida carriera che spettavagli, si ritirò in Religione.

                D. Bosco essendo alla fine di agosto, affrettava la stampa delle Letture Cattoliche pel mese di settembre 1859. Presentava agli abbonati: La Valle d'Almeria di autore anonimo. Si descrive una famiglia perseguitata e dispersa dall'odio e dalle violenze dei suoi nemici, riunita poi meravigliosamente dalla Bontà Divina.

                Pel mese di ottobre preparava: Il cielo aperto mediante la Comunione frequente, compendio di un'opera francese del celebre missionario in Savoia l'Abate Favre, scritto dal frate Carlo Filippo da Poirino Sac. Cappuccino. Espone i motivi che devono impegnare il cristiano a comunicarsi spesso; confuta i pretesti che recano molti fedeli per dispensarsi dalla Comunione frequente; tratta della prima Comunione, della pasquale e di quella per viatico. Espone le disposizioni richieste per la Comunione in generale e per la Comunione frequente; dimostra che la Comunione settimanale non si può dire Comunione frequente, stando ai principii ammessi dalla Chiesa.

                Mentre però egli distribuiva agli altri l'alimento per lo spirito, mancava del pane materiale per i suoi figli. D. Bonetti Giovanni così scriveva: “La guerra lasciava molti fanciulli orfani di padre, e ben se ne accorse anche il nostro Oratorio. Quasi ogni giorno noi vedevamo giungere nuovi compagni, e vie più avvicinarsi l'un l'altro i letti per fare posto all'ultimo arrivato. Ma tante bocche di più a divorare pagnotte fecero crescere le spese ed aumentare i debiti, onde D. Bosco venne presto a trovarsi in gravi strettezze. Confidava egli bensì nella divina Provvidenza, ma in pari tempo non tralasciava di appigliarsi a quei mezzi che la prudenza suggeriva. Quindi per mano del Conte [265] Luigi Cibrario egli fece pervenire alla Maestà di Re Vittorio Emanuele II umile domanda di un qualche sussidio pei suoi giovanetti; e il 31 di agosto, riceveva lettera dal Conte medesimo, nella quale leggevansi queste parole:

 

                GRAN MAGISTERO

                DELL'ORDINE DEI SANTI

                MAURIZIO E LAZZARO.

 

                Torino, 31 agosto 1859.

                Ho avuto l'onore di intrattenere Sua Maestà della poco felice situazione in cui trovasi al presente la Pia Opera da Lei fondata pel ritiro dei giovanetti abbandonati, e per la lontananza dei benefattori e per le spese straordinarie cagionate dal numero insolito di ragazzi ch'Ella ebbe a ricoverare nella circostanza della chiamata all'esercito di non pochi contingenti padri di famiglia; e la Maestà Sua, volendo venire ancora per questa volta in di Lei aiuto, si è graziosamente degnata, in seguito a mia proposizione, di accordarle una sovvenzione straordinaria di L. 250 sul Tesoro Mauriziano.

                Mentre mi è grato di poterle dare questo lieto annunzio e prevenirla che il relativo mandato di pagamento già si trova a di Lei disposizione presso la Tesoreria dell'Ordine, devo però anche avvertirla che questa largizione è affatto eccezionale e senza tratto di conseguenza, nè potrebbe mai essere invocata come un precedente negli anni avvenire, essendo unicamente motivata dalle straordinarie circostanze che si verificarono in quest'anno.

                Le rinnovo i sensi della mia particolare stima.

Il Primo Segretario di S. AL

Primo Presidente

CIBRARIO.

 

                Alcuni mesi dopo, il 12 gennaio 1860 un altro sussidio di 200 lire gli accordava il Ministro dell'Interno, Rattazzi, annunziandoglielo in questi termini il segretario Capriolo: [266] Nello scopo di sussidiare l'amministrazione del Ricovero dei poveri giovani abbandonati in questa città, questo Ministero si è determinato ad accordare al suo fondatore e direttore D. Giovanni Bosco la sovvenzione di L. 200, ed ha ordinato la spedizione in suo capo del relativo mandato.

                Questo mandato sarà esigibile a suo tempo dalla Tesoreria del circondario di Torino.

 

                Questi aiuti non erano certamente pari al bisogno; ma stante le gravi spese della guerra non erano neppure disprezzabili. Essi dimostravano per lo meno che il Re ed il suo Governo riconoscevano l'utilità dell'Opera e spronavano i privati cittadini a soccorrerla colle proprie elargizioni.

                D. Bosco intanto, poichè il numero dei giovani ricoverati andava sempre crescendo, aveva in quest'anno fatto costruire dall'impresario Delponte Giovenale un'edifizio di un sol piano terreno, nello stretto cortile a nord, appoggiato al muro di cinta e parrallelo al sito della prima cappella tettoia. Fu diviso in tre sale abbastanza grandi perchè servissero ad uso scuole. Sulla stessa linea a diritta dell'androne, che si apriva nel mezzo dell'Ospizio si innalzò un altro stanzone colla vasca per le lavandaie e con attigua tettoia per la legna da bruciare. Queste costruzioni stettero in piedi fino al 1873.

                Mentre nell'Oratorio si conducevano a buon termine tali lavori, si facevano i preparativi per la passeggiata ai Becchi. I giovani erano fuor di sè per la gioia, avendo D. Bosco annunziato che in quell'anno si sarebbe fatta la passeggiata in modo insolito. Il maestro della banda esercitava i suonatori piccoli e grandi con una nuova serie di marcie, sinfonie e variazioni da lui composte; e adattava per essa le note dì accompagnamento per una messa, un vespro e varii Tantum ergo, per i luoghi ove mancasse l'organo. I cantori nella loro sala ripetevano ancora una volta [267] gli spartiti di musica sacra e profana per la Chiesa e per il teatro. Alcuni, fatta una piccola raccolta di drammi, commedie, farse, e pantomime, da poter recitare due volte e più ancora in un medesimo luogo, senza ripetere le già rappresentate, addestravano con varie prove i comici.

                I macchinisti imballavano qualche scenario, alcuni attrezzi del palco scenico, e pochi vestiarii per gli attori, tutta roba che avrebbero essi stessi portata sopra le loro spalle. Tutto questo lavoro però non impediva le piccole scuole delle vacanze.

                E D. Bosco si recava con Garino, Chiapale e pochi altri ai Becchi, ove predicando la novena del Rosario Don Chiattelino ed egli confessando, si dava una vera missione per le borgate circostanti.

                Sabato 10 ottobre partiva dall'Oratorio la turba dei cantori, e dei musici con altri alunni. Ognuno teneva un piccolo fagotto con biancheria da cambiarsi lungo il viaggio e aveva ricevuto alcune pagnotte, un po' di formaggio e frutta pel suo viatico.

                Presso Buttigliera il padre dello studente Tommaso Chiuso, che poi fu Canonico della Cattedrale di Torino, essendo ortolano, loro imbandì un'insalata saporosa con molte erbe, che li riebbe dall'arsura loro cagionata dal lungo cammino; e a sera giunsero ai Becchi ove Giuseppe Bosco aveva preparato il pranzo.

                La domenica 2 ottobre festeggiavasi la solennità di Nostra Signora del Rosario.

                Il giorno dopo incominciavano le passeggiate, che ben si meritano l'appellativo di classiche ed uniche nel loro genere, perchè si prolungavano per 10, 20 e più giorni, passando di paese in paese e seguendo l'itinerario di un ben studiato programma. Noi incominceremo a darne una [268] idea generale, per poi narrare a suo tempo i particolari avvenimenti di ciascuna di esse.

                Erano stati fissati da più settimane i luoghi dove si sarebbe pernottato, ed era sempre presso un parroco amico od un esimio benefattore, i quali preparavano l'alloggio per tante persone e provvedevano a loro spese il necessario per dormire e per il vitto; e aspettavano ansiosamente il giorno dell'arrivo di D. Bosco, lietissimi di potergli offrire quanto gli abbisognava. E un centinaio di giovani si metteva in marcia, accompagnati da qualche chierico e portando l'allegria della musica, e del teatro e l'edificazione della pietà nei paesi pei quali passavano. Erano quelli che voleva Don Bosco in special modo premiare procurando loro un caro e salutare solazzo. Tali escursioni soddisfacevano eziandio alla frenesia invalsa allora generalmente nei giovani, di novità, agitazione, tamburi, armi e davano pascolo alla fantasia e quindi prima al desiderio e alla speranza e poscia al ricordi ed ai racconti.

                Questo divertimento richiedeva però un gran spirito di sacrifizio in D. Bosco, per le occupazioni dei provvedimenti a darsi e per la vigilanza continua che doveva usare. Talvolta i tratti di strada erano eccessivamente lunghi e i giovani avevano consumate le loro provvigioni; tal'altra le intemperie li sorprendevano, ma la Provvidenza soccorreva sempre per mezzo di anime generose, specie parroci o cappellani, i quali venivano loro incontro e li invitavano a fare una sosta in casa loro.

                Queste marce erano qualche cosa di sommamente romantico, qui un gruppo di giovani cantava in coro una canzone, più in là una tromba dava i segnali per le manovre o per la sveglia. Più lontano ancora si udivano altre quattro o cinque trombe marcare il passo accelerato dei bersaglieri. [269]

                Il tamburo faceva parte a solo, senza tregua, e talvolta per qualche colpo di gran cassa saltava la mucca o la pecorella che pascolavano nel prato. Dietro agli altri alcuni portavano il necessario pel teatro, scenarii e quinte, per montare il palco preparato da quei del paese.

                D. Bosco restava generalmente l'ultimo accompagnato da alunni e da chierici.

                Di ogni paese, verso il quale si muoveva il passo, egli aveva studiate le origini, le vicende politiche, i principi che li avevano signoreggiati, i personaggi che li resero illustri, i fasti, le sventure, i monumenti, le rarità d'arte o di natura, se ve n'erano, giovandosi del Casalis, delle memorie stampate di quel luogo ed anche della storia ecclesiastica. Quindi egli, o mentre camminava, o nelle fermate, istruiva e dilettava gli alunni col racconto delle cose apprese sui libri. E i giovani non si stancavano, mentre le persone istruite di quelle parti si meravigliavano che Don Bosco parlasse di cose appartenenti alle loro patrie, che essi ignoravano interamente.

                Quando D. Bosco non poteva avere i giovani attorno a sè, sottentrava Tomatis Carlo, protagonista di tutte le farse, anima della compagnia, eroe di tutte le avventure colle sue continue buffonate a tenerli allegri ovunque si fossero trovati. D. Bosco che non poteva soffrire musonerie, taciturnità, isolamenti, o parlari sommessi e quasi sospettosi ne godeva sommamente. E Tomatis dal mattino alla sera e  dalla sera al mattino secondava ad oltranza i suoi desiderii e le risa dei giovani ed i loro applausi andavano alle stelle.

                Ma a dir vero non erano i soli scherzi di Tomatis, che eccitassero l'ilarità. Succedevano tanti fatti ameni, che sembravano preordinati ad accrescere il buon umore. Troppe cose sarebbero a dirsi e basti una sola. Un buon vecchietto [270] che faceva la sua via conducendo un'asinello carico di mele s'incontrò coll'allegra brigata. Alcuni musici suonavano una marcia: - Che bella musica esclama il vecchio, dimostrando coi gesti il vivo piacere che provava: - Che bella musica!

                I suonatori gli passano dappresso; ad un tratto a due note fragorose di un trombone, l'asino alza la groppa, drizza le orecchie, salta, corre a precipizio e le mele si spargono sul terreno. Il padrone correndogli dietro, si volse ai giovani e gridò rabbioso: - Al diavolo la musica!

                Giunti in vista di un paese tutti facevano silenzio, si radunavano in corpo e preceduti dalla banda musicale, facevano il loro ingresso solenne. Il parroco e sovente il sindaco venivano incontro a D. Bosco e a lui ed alla sua comitiva facevano le più grate accoglienze.

                “Ricordo sempre, scrive il Can. Anfossi, quei viaggi avventurosi che destavano meraviglia, contento ed edificazione. Io con cento altri sono stato testimonio della gran fama di santità che godeva D. Bosco, quando per parecchi anni dal 1854 al 1860, invitato da lui stesso, lo accompagnai pei colli del Monferrato. I suoi arrivi in quei paeselli erano un trionfo. I parroci dei dintorni si trovavano al suo passaggio e generalmente anche le autorità civili. Gli abitanti si affacciavano alle finestre o uscivano sulle porte delle loro case, altri si portavano sopra i suoi passi, i contadini abbandonavano i loro lavori per vedere D. Bosco. Le madri gli si avvicinavano presentandogli i loro bambini e genuflesse anche a terra gli chiedevano la benedizione. Pareva di assistere allo spettacolo che si legge nel Vangelo dove si narra il trasporto delle turbe al passaggio del Divin Maestro.

                Siccome era sua consuetudine di recarsi direttamente alla Chiesa parrocchiale per adorarvi il Sacramentato Gesù, [271] in breve questa rimaneva piena di popolo al quale D. Bosco, salito in pulpito, rivolgeva subito un discorso invitandolo ad accostarsi ai Sacramenti. Quindi si cantava il Tantum ergo in musica e si dava la benedizione”.

                D. Bosco e i chierici erano invitati a pranzo o a cena, secondo l'ora nella quale erano giunti, o dal Parroco, o da qualche nobile castellano. Anche per i giovani si imbandivano pasti abbondanti, ma ora mangiavano poveramente ed ora lautamente secondo le facoltà pecuniarie di chi ospitavali; ma l'allegria più schietta regnava in tutti.

                Venuta l'ora del riposo, qualche rara volta erano preparati i letti in molte famiglie, talvolta si dormiva sopra materassi, o sopra sacconi, ma più spesso sulla paglia o sulle panche, disposte in camere a pian terreno o in tettoie riparate.

                In questi casi nei quali era quasi impossibile prender subito sonno, Tomatis ripigliava le sue valentie. Imitando esso a perfezione le voci di tutti gli animali, faceva sembrare che il luogo destinato al riposo fosse divenuto l'arca di Noè.

                Una volta fu messo cogli altri nel pagliaio di un castello. Un grosso cane stava di guardia al portone. Tomatis aspetta che regni dappertutto il più profondo silenzio, ed incomincia ad imitare un flebile latrato. Il cane gli risponde ed egli dopo aver ripetuto ad intervalli il giuoco, finisce colla sua voce a spingere l'animale ad un furioso abbaiamento. Il portinaio due o tre volte intima silenzio al suo cane, ma non cessando, venne fuori: - Qual diavolo mai, ha stanotte addosso il mio cane? - Tomatis tacque facendo le finte di dormire e tacque pure il cane. Il portinaio sentendo cessato quel rumore, ritornò in letto. Ma dopo un quarto d'ora siamo da capo colla stessa musica. E il portinaio dopo un'ora non potendo dormire, saltò fuori, gridando: - Non [272] ci è verso di chiudere gli occhi! To, to! zitto. - Ma essendo inutile quella voce, perchè Tomatis sottovoce incitava il cane, il portinaio prese a gettar sassi contro l'inquieto mastino. Fino a mezza notte durò la commedia e i giovani per non farsi scorgere, soffocavano a stento le risa.

                Altra volta Gastini era con un compagno a dormire in una stanza mentre Tomatis e altri giovanotti riposavano in un camerone attiguo: ma stavano in agguato fingendo di dormire per compiere una burla che avevano da vario tempo studiata. Ed ecco ad una certa ora Gastini si alza, esce dalla stanza e va nell'aia per respirare aria fresca. Tomatis scatta in piedi, corre a svegliare il compagno che dormiva e portano via i due letti e il tavolino, solo lasciando qualche sedia in mezzo alla stanza. Tutto era all'oscuro. Gastini entra, urta nelle sedie e incomincia a brontolare; si avvicina ove era il letto e non lo trova: crede di aver sbagliato stanza, gira attorno, cerca del compagno e non c’è. Accende un zolfanello e non riconosce il luogo. Intanto con un soliloquio esprimeva i suoi sentimenti di dubbio, di meraviglia. I compagni che si erano asserragliati nella loro stanza, non poterono più tenere le risa ed a quegli scoppi malfrenati accortosi Gastini della burla, prese a tempestare. E per un pezzo, passeggiò alla bella stella.

                E Tomatis al mattino ricominciava le sue lepidezze col cercare le gambe che diceva di aver smarrite nelle escursioni del giorno prima. Pensava intanto a fare improvvisate serie o burlesche al padrone di casa, le quali cagionavano prima sorpresa e poi un diletto senza fine. D. Bosco era contento anche di queste facezie, perchè distraevano i giovani da ogni pensiero inopportuno.

                Tanta allegria non distoglieva i giovani dalle pratiche di pietà. Il giorno dopo del loro arrivo era per quei paesi [273] una delle più belle solennità, sia perchè gran numero degli abitanti si confessava e si comunicava, fermandosi D. Bosco fino a tarda ora a ricevere le confessioni; sia perchè cantavasi la messa in musica, alla quale il popolo prendeva parte. Dopo il pranzo la banda andava a prestare ossequio al Sindaco e ai principali signori col suonare davanti alle loro case. Alla sera di bel nuovo D. Bosco predicava e dopo le litanie in musica davasi la benedizione col SS. Sacramento. Terminate le sacre funzioni i giovani rallegravano il popolo con canti e suoni e colla rappresentazione di qualche commedia morale, in luogo dove potessero assistervi quanti volevano.

                I drammi, le cantate, le declamazioni di poesie piemontesi erano uno spettacolo, che non avrebbe figurato male in una città, per la valentia degli attori Bongiovanni, Gastini, Tomatis ed altri. Le persone colte ne restavano più che soddisfatte, ma per far andare in visibilio le masse meno educate del popolo ci voleva Tomatis. Aveva un repertorio tutto suo particolare di farsette mimiche, di smorfie, gesti, movimenti, salti, frizzi di una lepidezza impareggiabile. Ad esempio, un giorno, declamando aveva in testa un alto cappello a cilindro. Nello scuotere la testa gli entrò tutto quanto fino al collo. Fra le risa sgangherate della moltitudine spettatrice egli tentava invano di toglierselo; e non poteva o meglio fingeva di non poter cavarsi d'imbroglio. Corse allora Gastini per aiutarlo e fu una farsa completa. Si dirà da taluno: pagliacciate! - È vero; ma tali rappresentazioni lasciarono sempre ed ovunque un gradito ricordo.

                Venuta l'ora di ripartire per altre borgate, tutti i giovani si radunavano per salutare il loro ospite. Uno di essi leggevagli un gentile componimento con alcune strofe appositamente composte da D. Bosco per ringraziarlo, a [274] nome di tutti i compagni, di quanto aveva fatto a loro favore e per amor di Dio: e D. Bosco concludeva: - Io le prometto di fare domani nella santa Messa un speciale ricordo per lei e per tutta la sua parrocchia e famiglia e che i miei cari figliuoli reciteranno il Rosario unendosi con me per augurarle ogni bene da Dio. Ella poi alla carità che ci fece quest'oggi, voglia aggiungere ancora quella di pregare per me e per i miei figli, assicurandola che noi non ci dimenticheremo mai più di lei e della bella giornata che ci fece passare.

                Non è a dire quanto l'ospite restasse commosso a queste parole, e ringraziato D. Bosco di quella visita soleva dire ai giovani: - Il Signore vi dia il buon viaggio ed una felice riuscita negli studii e nei vostri mestieri. Egli ha pensato al vostro bene nel mandarvi una guida savia come è il vostro D. Bosco; ora pensate voi a corrispondere. E vi fu chi rivolse a D. Bosco le parole del Re di Tiro a Salomone: “Perchè il Signore ha amato il suo popolo, per questo ne ha dato a te il governo.”

                D. Bosco ricordava gli avvisi dello Spirito Santo nel libro dei Proverbi al Capo XXII: “Chi usa liberalità acquista vittorie e onori, e rapisce il cuore di chi li riceve”. Quindi nel partire non lasciava mai senza una mancia generosa, sovente però rifiutata, quelle persone che erano state incaricate di servirlo. Talvolta la deponeva in una busta sopra il tavolino della camera nella quale aveva dormito. Se il suo ospite largo di cuore, era di poca fortuna, trovava altro modo di compensarlo colla più squisita cortesia e prudenza. Un giorno un suo sacerdote erasi recato, essendo in viaggio, con una ventina di giovanetti presso un buon parroco, il quale avevali tenuti a pranzo con se.

                - E tu che cosa gli hai dato in compenso? chiese Don [275] Bosco a quel prete, che gli narrava l'ospitale accoglienza avuta.

                - Io? Che cosa dovevo dargli?

                - Quel buon parroco è ristretto di mezzi. Tu dovevi chiudere in una busta un biglietto da cento lire, e darglielo sigillato, pregandolo a celebrare una Messa per te e per i tuoi giovani. Ciò ti serva di norma, perchè in certi casi non bisogna essere stretti di mano. Del resto saprò io rimediare al tuo sbaglio. - D. Bosco, così povero, era generoso come un Re.

                I giovani intanto si erano rimessi in marcia per un'altra stazione talvolta molto lontana e quindi entravano nei villaggi intermedii o deviavano alquanto dal loro cammino, avendo D. Bosco acconsentito all'offerta cordiale di un buon parroco, che aveva preparata una merenda per gli alunni. La gente correva al comparire di tanti giovani dei quali non era stato annunziato l'arrivo. Chi diceva:

                - Sono Garibaldini.

                - Ma no, rispondevano altri: con loro vi sono dei preti.

                - Saranno alunni di un collegio?

                - Neppure: non vedete che hanno gli strumenti di musica!

                - Saranno briganti! - E si rideva.

                D. Bosco adunque nel 1859, il 3 di Ottobre, lunedì, alle ore 10 del mattino lasciava i Becchi, e, passando per Capriglio e Montafia giunse a Maretto. Quivi fece la prima stazione, accolto al suono delle campane e ospitato dal parroco, suo grande amico, D. Ciattino Giovanni. Dopo la funzione di chiesa, la popolazione godette un mondo per una commedia della quale Gianduia era il protagonista.

                Il domani vi fu un gran numero di comunioni: si celebrò [276] un solenne ufficio funebre per i defunti del paese, i giovani cantarono la messa del maestro Madonno, e poi Don Bosco benedisse lo stendardo della compagnia di S. Luigi, composta di un bel numero di fanciulli. Al dopo pranzo tutta la comitiva partì alla volta di Villa S. Secondo passando per Cortandone e Montechiaro. Nel primo paese i giovani ebbero una lauta merenda preparata dal buon parroco Don Vergano Natale.

                Alla sera tardi la banda suonava entrando trionfalmente in Villa S. Secondo. Il parroco Teol. Barbero Matteo, grande amico di D. Bosco, lo accolse giubilando. Uomo distintissimo per scienza e per pietà fu poi nominato Canonico nella Cattedrale di Asti, ove fece un gran bene.

                Gli alunni erano stati alloggiati dal parroco, dalle famiglie Perucatti e Bosco. Il trattamento loro apparecchiato fu veramente munifico.

                Mercoledì 3 ottobre D. Bosco lo passò tutto in compagnia del Teol. Barbero, che desiderava intrattenersi col Servo di Dio e fargli quelle maggiori feste che poteva. Questi aveva deciso di fermarsi con lui un dieci giorni, scegliendo Villa S. Secondo, come centro o quartiere generale per recarsi successivamente ai paesi che erano all'intorno.

                Ma il fine principale pel quale aveva ricevuto invito, era la festa della Madonna delle Grazie. Questa si celebrava in una cappella nel centro del paese il giorno 8 di ottobre, per un voto che la popolazione aveva emesso essendo stata liberata dal colera. Da ogni paese vicino la gente vi accorreva.

                Ma il Teol. Barbero aveva una spina al cuore, perchè a suo dispetto si era messo su in paese un ballo pubblico in occasione di quella festa. Alcuni maldicenti spargevano dicerie odiose contro il loro parroco, perchè cercava impedirlo. [277] Tutti sanno quanto sia viva la passione dei Monferrini pel ballo. Questi pertanto appena giunto D. Bosco gli aveva manifestati i suoi dispiaceri e il Servo di Dio gli rispose: - Lasci fare a me e non parli. - Quindi a nessuno ed in nessun modo fece intendere, che volesse impedire quel ballo, ma comandò ai giovani di preparare il teatro in un gran cortile della famiglia Perucatti. Gastini, Buzzetti, Tomatis ed Enria si misero all'opera e a suo tempo il palco fu all'ordine.

                Intanto D. Bosco disponeva per l'ordine e pel luogo ove rivolgere le camminate. Il giorno 6, invitato dai parenti di un suo carissimo allievo, recossi con tutta la sua squadra a Corsione, ove con dispiacere degli archeologi si demoliva una parte dell'antico castello.

                Al dopo pranzo andò a Cossombrato per ossequiare i Conti Pelletta e visitare il loro vecchio maniero, le cui mura massiccie torreggiavano coi loro merli. Anche da D. Gribaudi Secondo Parroco di quel paesello, ebbero tutti le più cortesi accoglienze.

                Alla sera si ritornava a Villa S. Secondo.

                Il venerdì si andò a Rinco, diocesi di Casale, invitati dal Conte Pallio di Rinco e la marcia riuscì faticosa, perchè la pioggia li sorprese per via con tuoni e lampi e durò tutta la mattina. I giovani erano inzuppati, col fango fino a mezza gamba. Arrivati al castello parve bene al maggiordomo incaricato di riceverli, che non entrassero, perchè lo scalone e i pavimenti delle sale non restassero inzaccherati. Continuando la pioggia si rifugiarono in una stalla, sotto una tettoia e anche sotto i folti rami da vecchi alberi. Si preparò il loro pranzo con polenta e merluzzo: ma con quel tempo uggioso tutto sembrava cattivo. La banda al solito suonò nel tempo che il Conte pranzava con D. Bosco, che certamente soffriva vedendo disagiati i suoi figli. [278]

                Il sabato 8 di ottobre si celebrava la festa della Madonna delle Grazie. D. Bosco impiegò tutto quel mattino a confessare i suoi alunni e altre persone del paese. In parrocchia si celebrava solamente una o due Messe. Tutta la festa era alla cappella. Un larghissimo tendone stendevasi per riparare dal sole la gente, dinanzi alla porta della chiesetta, Il palco per la musica era stato costrutto in piazza. Alle 10 i giovanetti dell'Oratorio prendevano Posto su questa orchestra e fu cantata la S. Messa. Tutta la popolazione era entusiasmata. Il Municipio assisteva in corpo.

                Dopo il vespro, la processione e la benedizione, la banda dell'Oratorio incominciò a suonare sulla piazza, e la voce sparsa colla rapidità del lampo essere pronto un teatro nel cortile del Perucatti fece correre tutta la gente allo spettacolo. E la musica la seguì e prese posto.

                Sul luogo del ballo già incominciavano i suoni dei violini e di qualche tromba, ma quel campo rimase deserto.

                Fu recitata una commedia del Genoino. Entrò in scena anche Gianduia e, arguto e corretto, entusiasmò quell'innumerevole udienza. Un buon signore, bravo violinista, venuto da Torino colla compagnia per far piacere a D. Bosco, suonò una stupenda variazione.

                Intanto gli impresari del ballo popolare, dopo aver aspettato per una buona mezz'ora la gente che non veniva, si dissero a vicenda: - Che cosa facciamo qui soli? - E andarono essi pure a vedere la commedia. Però masticavano amaro e cercavano quindi di vedere D. Bosco per chiedergli ragione d'aver loro tolti i ballerini. Non s'incontrarono però in lui, perchè erasi fermato a sbrigare molti scritti nella casa del parroco.

                La Domenica, festa della Maternità di Maria SS., i giovani dell'Oratorio fecero la comunione generale e le funzioni [279] vennero accompagnate in musica. Dopo il Vespro Don Bosco predicò per circa tre quarti d'ora.

                Alla sera dello stesso giorno ei volle regalare a tutto il popolo una seconda rappresentazione teatrale. Con viva istanza era stata chiesta la replica del programma della sera antecedente; e invitati intervennero anche molti signori torinesi padroni dei castelli di quei dintorni.

                Ma i capi delle danze, che avevan sperato in una rivincita, si legarono ad un dito tale disdetta e, presentatisi a D. Bosco, gli chiesero risarcimento del danno loro cagionato. Ci avevano rimesse le spese della musica, delle bibite preparate, delle tele e via dicendo.

                D. Bosco, che gli aveva accolti in sua camera con ogni cortesia, disse loro: - Siete venuti anche voi a vedere il nostro teatro?

                - Sissignore! Sfido chiunque a non fare altrettanto! Eravamo rimasti soli!

                - E vi siete divertiti?

                - Ci siamo stati fino alla fine della recita.

                - Ebbene, conchiuse D. Bosco, che cosa volete ch'io vi risarcisca, mentre la gente era libera di andare dove voleva? Io non son venuto al vostro ballo e non vi domando niente: e voi vi siete divertiti al mio teatro e non mi pagate. Che cosa adunque volete e con quale ragione domandate ?

                - Già... ha ragione, risposero; e se ne andarono.

                Il giorno 10 la passeggiata fu ad Alfiano ove aspettavano D. Bosco due suoi grandi amici, il Parroco D. Pellato Giuseppe con suo fratello Viceparroco, zii di un chierico dell'Oratorio cognominato Capra. Qui si rinnovarono tutte le allegrezze religiose, domestiche e popolari, che si erano viste in tutti i paesi ove metteva piede D. Bosco. [280]

                Il martedì si andò a Frinco, ove D. Bosco e alcuni suoi giovani erano andati più volte anni prima. Il parroco D. Penna Secondo aveva preparato un gradito accoglimento. La sua chiesa, sotto il titolo della Natività di Maria Vergine, risuonò in quel giorno di non mai uditi canti sacri, i quali commossero quei buoni e laboriosi paesani. Fu visitato quel vetusto castello, memoria di glorie e sventure, testimone di assedio e di battaglie.

                Il 12 ottobre al mattino D. Bosco coi suoi alunni uscì da Villa S. Secondo. Il Prevosto di Corsione, D. Roggero Giambattista, avendo saputo che sarebbesi egli fermato ancora per quel giorno presso il buon Teol. Barbero, avevalo supplicato che ritornasse una seconda volta alla sua parrocchia con tutti i giovani. Voleva che passasse un intero giorno con lui. Si era provvisto di ogni cosa con grande abbondanza per festeggiare gli ospiti desiderati; e D. Bosco dovette acconsentire alle sue istanze.

                Giovedì, cantata una messa in suffragio dei defunti del paese, dopo un sontuoso pranzo, al quale intervennero i parroci dei paesi circostanti, al suono della banda, in mezzo a tutta la gente che applaudiva, accompagnati dal Parroco per un certo tratto di via, gli alunni dell'Oratorio lasciavano Villa S. Secondo e s'incamminarono per ritornare ai Becchi.

                Alle 4 della sera giunsero a Piea, antichissimo castello, con vaste sale, ristaurate nel 1600, ove il Cav. Gonella, parente del benefattore di Chieri, presentava loro nel suo palazzo una buona merenda, e quindi col parroco D. Varino Bartolomeo, che voleva intrattenersi alquanto con D. Bosco, si rimisero in marcia.

                La notte li sorprese che erano ancora molto lontani dai Becchi. Splendeva la luna piena e si camminava ora per i sentieri delle vigne, ed ora in mezzo ai boschi dopo aver [281] cantato e fatta cogli istrumenti una serenata ai merli. Tutti allegri procedevano lentamente verso casa. Costamagna Giacomo portava sulle spalle la gran cassa e D. Bosco la percoteva forte e per lungo tempo col pugno, anzichè adoperare il mazzuolo. Non era certo un divertimento e doveva provarne un vivo dolore. Ma egli voleva forse con quei colpi, dai giovani più volte sentiti, avvisarli, acciocchè per quei sentieri ora in alto ed ora in basso, ed ora intersecati lo seguissero senza smarrirsi; oppure forse anche perchè quel suono giungesse come un'avviso all'orecchio di qualcuno?

                Giunti ai Becchi a notte molto inoltrata e fatto l'appello si conobbe che un giovane mancava. Certo Lorenzo Boccallo volendo precedere gli altri, si smarrì e solo dopo molto cammino si accorse del suo errore. Cercò di orizzontarsi, ma non ci riuscì. Tutto era deserto all'intorno. Andò errando per valli e colline fino alle due dopo la mezzanotte, quando udì alcune voci. Erano gente che facevano il pane. Si avvicinò. Costoro vedendo comparire un giovane con della roba ad armacollo, lo presero per un brigante e gli furono sopra colla pala e col ferro della bragia. Il giovanetto smarrito tremava; quei contadini gli intimarono di fermarsi e lo interrogarono in dialetto: Chi sei tu? Il giovane non essendo piemontese, non intendeva che cosa dicessero e stava stralunato.

                Coloro sempre più confermandosi nei loro sospetti, gli furono sopra e osservando ciò che portava ad armacollo, credendo che avesse armi, gridarono: - Che cosa hai qui?

                - Il fagotto della mia roba.

                A questa risposta e vedendolo più da vicino in faccia, capirono che avevano preso equivoco e gli dissero:

                - Dove vai?

                - Ai Becchi! [282]

                Si interrogarono a vicenda, ma nessuno seppe dire dove fossero questi Becchi. Capirono però che si trattava di un fanciullo smarrito.

                - E in compagnia di chi eri?

                - Con D. Bosco!

                - Ah adesso capiamo! E diedero in una risata omerica; e proseguirono: - Aspetta; finito di fare il pane, uno di noi ti accompagnerà. Avrai fame, neh?

                Introdotto in casa, gli diedero da mangiare. Finito il loro lavoro, lo accompagnarono per un tratto e poscia gli diedero le indicazioni necessarie per proseguire, dicendogli:

                - Per non sbagliare, chiedi dove sta D. Bosco e non dove sono i Becchi, altrimenti nessuno ti capirà. - Egli si rimise in via, ma sbagliò la seconda volta giunse invece alle cascine di Capriglio.

                Intanto ai Becchi si era in grande ansietà per la sua scomparsa; fu cercato nei dintorni, ma inutilmente. Al mattino, assistita la S. Messa i giovani si accingevano a fare colazione, quando verso le 8, ecco comparire Boccallo stanco, cadente dal sonno. Fu accolto con un battimano da tutti i compagni ed egli corse a dormire, chè ne aveva veramente di bisogno.

                L'ultima escursione dei giovani fu alla tomba di Savio Domenico in Mondonio, poichè essi riconoscevano di aver ottenuti insigni favori da Dio per l'intercessione del loro santo compagno. Il parroco D. Grassi Domenico li condusse al cimitero. Quivi trovarono che un pio signore genovese, che aveva lette ed ammirate le virtù descritte da D. Bosco nella biografia di Savio Domenico, e che in un grave cimento avevane implorato l'aiuto e ne era stato esaudito, aveva fatto collocare su quella preziosa tomba una lastra di marmo con analoga iscrizione. [283]

                In questo giorno, 15 ottobre, venivano al Becchi per unirsi a quei dell'Oratorio i due fratelli Perucatti testimoni anch'essi della passeggiata fattasi in quest'anno a Villa San Secondo, loro paese nativo.

                Il 16 ottobre, sabato, alle 10 del mattino, D. Bosco colla sua schiera si allontanò dai Becchi, passò a Buttigliera d'Asti salutando i benefattori e il parroco Vaccarino Teol. Giuseppe; fermossi per breve tempo a Chieri; e alla sera rientrava nell'Oratorio, ove era aspettato per le confessioni.

                Il Ch. Ruffino Domenico studente di Teologia nel Seminario di Bra, poco tempo dopo prendeva stabile dimora nell'Oratorio.

 

 

CAPO XXI. D. Bosco trasmette al re Vittorio Emanuele una lettera di Pio IX - Il Clero escluso dai Consigli Provinciali e Comunali - Articolo della Gazzetta del Popolo contro la storia d'Italia di D. Bosco - Giudizio di Nicolò Tommaseo e della Civiltà Cattolica su questa istoria - Letture Cattoliche. LA PERSECUZIONE DI DECIO E IL PONTIFICATO DI S. CORNELIO I PAPA - Alcune notabili vestizioni clericali.

 

                Ritornato D. Bosco a Torino gli si presentò un nobile signore venuto da Roma. Il Sommo Pontefice conoscendo a prova la fedeltà e l'attaccamento di D. Bosco alla sua persona, a lui affidava un geloso incarico. Quel messo consegnava al Servo di Dio due lettere di Pio IX: una segretissima diretta a Vittorio Emanuele, e un'altra tutta scritta di proprio pugno nella quale pregava D. Bosco di trovar modo per far recapitare al Re quel plico sigillato; o consegnandoglielo di propria mano lo stesso D. Bosco, ovvero per mezzo di persona fidata: se quel plico fosse giunto a sua destinazione, chiedeva che senza indugio glielo facesse sapere; se per qualche contrarietà non fosse stato possibile farlo pervenire al Sovrano glielo rimandasse a Roma. Il Re si trovava allora in partite di caccia nella valle d'Aosta a Courmajor. [285] D. Bosco dopo aver pensato il modo di eseguire prudentemente la commissione del Papa, chiese con un biglietto udienza al Cav. Aghemo, segretario privato del Re, ma che in quel tempo era, a Torino. Il Cavaliere prevenne D. Bosco ed in persona si recò subito all'Oratorio. D. Bosco gli disse: - Ho qui una lettera di altissimo personaggio diretta al Re e che debbo io fargli pervenire. Le chieggo consiglio perchè mi dica se è cosa facile.

                - Facilissima.

                - Crede che si possa temere qualche deviazione, qualche impedimento?

                - Stia sicuro che il Re l'avrà.

                - Io so nulla intorno al contenuto di questa lettera, nè voglio saperlo. Domando solamente che lei mi faccia ricevuta d'avergliela io consegnata, perchè possa dare testimonianza di aver compiuto il mio incarico.

                - Sì; volentieri.

                - Allora potrebbe lasciarmi qualche ora di tempo per sbrigare prima qualche altra incombenza che mi preme?

                - Faccia pure.

                - Avrebbe la bontà di ritornare da me stasera?

                - Sì, e con piacere.

                La lettera era forse custodita altrove, e sul far della sera D. Bosco la consegnò al Cav. Aghemo. Il Re l'ebbe e la sua risposta al Papa fu portata a Torino dal Teologo Murialdo Roberto cappellano di corte e di qui trasmessa a Roma.

                Il Papa non erasi fidato di consegnare la sua lettera, che era forse quella così grave del 29 settembre, all'Abate Stellardi venuto a Roma per trattare con lui a nome di Vittorio Emanuele. L'Abate mancava di prudenza nel parlare ed era di spiriti più aulici che ecclesiastici, più caldo per gli [286] interessi di Cesare, che per i diritti di Dio. E la risposta non fu tale certamente da consolare l'afflitto Pontefice.

                In Torino intanto le Camere, appena cessate le preoccupazioni della guerra, avevano subito riprese le ostilità contro la Chiesa, restringendo i diritti che lo Statuto concedeva al Sacerdoti, come liberi cittadini. Una legge del 23 Ottobre 1859, ritoccata poi in peggio il 20 marzo 1865, chiudeva a gran parte del clero l'entrata nei Consigli comunali e provinciali, dichiarando ineleggibili gli ecclesiastici aventi giurisdizione o cura di anime, i loro Vicarii e i membri dei Capitoli e delle collegiate.

                Nello stesso tempo D. Bosco si avvide di essere egli stesso preso di mira personalmente. I nemici di Roma conoscevano quanto fosse incrollabile la sua fedeltà al Sommo Pontefice e ne avevano prove nelle Letture Cattoliche. Nelle loro segrete conventicole, decisero adunque di incominciare a muovere guerra a lui e alla sua Istituzione infamando la Storia d'Italia.

                Infatti un articolo della Gazzetta del Popolo, il 18 ottobre pubblicava un articolo, che preparava una persecuzione dolorosa a D. Bosco nell'anno seguente. Era un'intimazione alle Autorità dello Stato.

 

PADRE LORIQUET REDIVIVO.

 

                Chi non ha inteso a parlare della famosa storia del padre Loriquet, in cui persino gli avvenimenti più noti e più clamorosi vennero travestiti nel modo più gesuitico e grottesco ad majorem Boteghae gloriam?

                Pareva impossibile che quel gesuita venisse un giorno superato, ma la parola impossibile, già cancellata dal vocabolario francese, dev'esserlo pure dal vocabolario italiano.

                Avremmo potuto pubblicare una tale notizia un po' prima, ma dovemmo cedere il passo ad altre cose alquanto più urgenti. [287]

                Del resto desideravamo che il Ministro dell'istruzione pubblica si trovasse finalmente un po' più libero in mezzo alla farraggine d'affari, di cui l'ingrandimento dello Stato ha ingombrato anche il suo dicastero; imperocchè potrebb'essere il caso ch'egli avesse a provvedere.

                Il miracolo di superare il padre Loriquet è stato fatto in Torino dal sacerdote Bosco Giovanni autore d'una Storia d'Italia raccontala alla gioventù.

                D. Bosco era pienamente padrone di scrivere un pessimo libro, ma siamo assicurati che questo libro fu scritto per uso di alcune scuole; e si legge sulla coperta che si vende a benefizio degli oratorii di S. Luigi, del S. Angelo Custode e di S. Francesco di Sales. La cosa è quindi più seria, sicchè franca la spesa di esaminarne un tantino le tendenze.

                Non ci occuperemo dei tempi antichi e nemmeno della narrazione sui generis che D. Bosco fa dei movimenti del '21 e del ¢31, che a detta sua (pag. 483) miravano a fare una repubblica sola di tutta Italia.

                Veniamo di sbalzo al '47.

                “Gli autori della rivoluzione (dice D. Bosco) seppero approfittare di quell'entusiasmo (per Pio IX) a fine di spargere di nuovo in tutta l'Italia il pensiero di fare un regno solo cacciando dalla Lombardia gli Austriaci, che erano formidabili rivali ai ribelli”.

                Ecco adunque secondo D. Bosco che gli Austriaci non erano già nemici d'Italia, ma formidabili rivali ai ribelli, agli amatori di rivoluzione, i quali volevano spargere di nuovo (cioè come nel 21 e nel 31) il pensiero di far un regno solo di tutta Italia.

                Ben è vero che nella pagina precedente D. Bosco imputava ai ribelli del '21 il pensiero di fare una repubblica, e non un regno.

                Ma Loriquet non bada alle contraddizioni.

                D. Bosco si sbriga in due pagine dello stesso tenore della storia del '48. La campagna del '49 è da lui descritta nel seguente modo:

                “I due eserciti s'incontrarono nelle pianure di  Novara. Si diedero parecchi attacchi parziali che in parte furono favorevoli ai Piemontesi; ma il terzo giorno (23 marzo 1849) si venne ad una battaglia campale presso un borgo detto la Bicocca”.

                Non sapevate che la battaglia delle pianure di Novara avesse [288] durato tre giorni, ma D. Bosco fa ben altri miracoli di esattezza e di eleganza storica nel racconto degli avvenimenti di Roma e delle altre parti d'Italia, in cui si può sfogare molto più animosamente contro quei ribelli che spargono di nuovo il pensiero di fare dell'Italia un regno solo.

                Egli è peraltro in occasione della guerra di Crimea che Don Bosco supera se medesimo nell'eccesso del grottesco, e nell'ammirazione per l'Austria.

                Secondo la verità gli Anglo - Francesi sbarcati in Crimea non incontrarono l'esercito russo che sulle sponde del fiume Alma. Secondo D. Bosco invece i Russi si opposero arditamente per impedire che gli alleati prendessero terra, e la battaglia della Cernaia è uno de' parecchi scontri che i Piemontesi ebbero coi Russi in quella penisola. Ma ciò è nulla.

                Secondo la verità l'Imperatore d'Austria fece un trattato colle potenze occidentali, ma ciò impedirebbe a D. Bosco di presentarlo come il Dio delle tragedie greche; ed ecco pertanto come il nuovo Loriquet espone il fatto: “alla vista dello spargimento di tanto sangue umano l'Imperatore d'Austria si offerì mediatore tra le potenze belligeranti ..”

                Di modo che D. Bosco ha tutto il comodo di soggiungere che della conclusione della pace noi siamo quasi totalmente debitori all'AUSTRIA ed alla Francia.

                Ma prima all'Austria, si noti bene, perchè D. Bosco ha bisogno di cogliere questa occasione per dichiarare che la Provvidenza protegge l'Austria in rimunerazione del celebre Concordato ecc.

                D. Bosco, abusando del nome della Provvidenza per sciogliere un cantico in prosa a Cecco Beppo, era un assai cattivo profeta della campagna del 1859.

                Ma col sistema storico che egli ha abbracciato gli sarà facile descrivere le battaglie di Palestro e di S. Martino come solenni trionfi dell'Austria contro i Piemontesi, e ciò sempre in premio del Concordato!

                La Storia di D. Bosco finisce con quell'inno in lode dell'Austria, della quale è del resto da capo a fondo un panegirico quasi continuo in istile macaronico.

                Dicesi che questo grottesco libello serva di testo e venga distribuito in certe scuole di fanciulli in Torino. [289] Noi abbiamo posto in avvertenza il Ministro dell'istruzione, e crediamo per ora che non occorra altro.

                Si farebbe troppo oltraggio alla patria, alla verità e al senso morale, se si lasciasse menomamente circolar nelle scuole invereconde turpitudini del genere della Storia d'Italia raccontata alla gioventù dal Loriquet redivivo.

                Chi legge questo articolo rimane sorpreso dell'acrimonia e dalla malignità che si manifesta in ogni riga. Ma non è a farne le meraviglie, poichè la Gazzetta del Popolo organo ufficiale delle sette, era violenta contro chiunque non fosse del suo partito. Contro D. Bosco in moltissimi articoli posteriori ebbe sempre scherni, insulti e calunnie, non riconobbe in lui alcun merito, e neppure degnossi di annunziarne la morte. Essa adunque che dal suo principio fino ai giorni nostri non fece altro che falsare continuamente la storia antica e moderna per sfogare il suo odio contro la religione, la Chiesa cattolica e il Papa, osava allora rimproverare sfacciatamente a D. Bosco errori storici deliberati.

                Il lettore avrà scorto facilmente la malafede, gli equivoci, le false interpretazioni di questo articolo, ma sta bene, che seguendo tutti gli storici, noi per ordine di accuse ribattiamo le stesse accuse.

                Infatti: Dal 1820, al 1848 un partito voleva unita l'Italia in un solo regno, un altro in una sola repubblica e varie rivoluzioni si tentarono per questi due scopi. Nel 1848 infine i liberali costituzionali si decisero pel regno italico, mentre i mazziniani congiuravano per la repubblica. A tale riguardo la Gazzetta del Popolo volendo porre nella contraddizione D. Bosco col citare la pag. 483 e la pag. 484, non fa presente come a pag. 482, D. Bosco dica che le mire di tutti quei movimenti erano di formare un regno solo od una repubblica. [290]

                In quanto alla guerra del 1849, tre realmente furono i giorni di combattimento. Ed ecco il fatto. Gli austriaci usciti da Pavia, passato il Ticino, il giorno 21 marzo a Mezzana Corti scambiavano cannonate cogli artiglieri piemontesi. Il 22 fierissimi combattimenti al borgo di S. Erro, alla Sforzesca e a Mortara della quale alla sera rimasero padroni gli Austriaci... Il 23 la battaglia di Novara, terribile singolarmente ad Olengo ed a Bicocca.

                In Crimea, secondo verità, i Russi avevano stabiliti campi militari e artiglieria nei luoghi principali del Chersoneso e sulle riviere del Katcha e dell'Alma. Il 14 settembre le truppe delle potenze alleate incominciarono a sbarcare presso ad Eupatoria, mentre tre fregate inglesi, cinque francesi simulavano uno sbarco a Katcha distante cinque leghe. Un campo di circa 6.000 Russi era pronto per la difesa, ma le fregate dopo un prolungato cannoneggiamento ritornarono ad Eupatoria. Dalle alture di Alma intanto 50.000 Russi sorvegliavano e molestavano con squadroni di cavalleria ed artiglieria a cavallo il nemico, il quale movendo all'assalto il 20 settembre infliggeva loro una sanguinosa sconfitta, aprendosi la strada.

                Gli intrepidi soldati piemontesi, oltre alla Cernaia, dove si fecero un immortale onore, presero parte alla battaglia impegnatasi a qualche miglio da Balaclava[10] e all'assalto di Sebastopoli, dove ebbero il loro posto di battaglia e lo tennero più ore in faccia al nemico, benchè le vicende del combattimento non richiedessero le prove del loro conosciuto valore. Scrisse il Barone De Bazancourt nella sua storia L'Expedition de Crimee. “I nostri valorosi alleati, i Sardi, comandati dal generale Cialdini, gelosi di versare eziandio il [291] loro sangue in questa gloriosa giornata, fremevano d'impazienza, aspettando il segnale per slanciarsi sul bastione del Mât, ma il Generale in capo dell'esercito francese, giudicando che il possesso del bastione di Malakoff avrebbe deciso la sorte di tutti gli altri, senza spargimento a profusione di sangue prezioso, ordinò di sospendere ogni nuovo tentativo di assalto sulla sinistra”[11]

                In quanto all'Austria intermediaria di pace, vedi Cesare Cantù, Cronistoria v. III, part. I, pag. 96.

                Noi crediamo con queste osservazioni di aver esaurito quanto ci siamo proposti. Del resto si consideri come ben diverso da quello della Gazzetta, era il giudizio pronunciato da un distinto e dotto emigrato liberale.

                L'Armonia, Anno XII, 1859, n. 219, così stampava:

 

                Noi abbiamo accolto colle meritate lodi la bella e sugosa Storia d'Italia raccontata alla gioventù dal Sac. G. Bosco, e con noi, altri periodici fecero plauso a questa operetta, che è di grandissimo vantaggio alla gioventù per guarentirla dalla congiura permanente contro la verità, che è divenuta la storia da tre secoli in qua. Ma perchè forse taluni potrebbero sospettare che quel nostro giudizio favorevole sia stato, se non dettato per intiero, almeno abbellito dallo spirito di parte, ci pare opportuno il recare qui il dettone da tale, cui non si potrà fare certamente il detto appunto. È questi Nicolò Tommaseo di cui troviamo nel L'Istitutore il seguente articolo sulla Storia di D. Bosco:

                Se i libri giudicassersi dall'utilità che recano veramente, se ne avrebbe una misura più giusta di quella che sogliono i letterati adoperare, e correggerebbersi, o almeno si tempererebbero molte loro sentenze peccanti o di servile ammirazione o di disprezzo tiranno. Ecco un libro modesto che gli eruditi di mestiere e gli storici severi degnerebbero forse appena di uno sguardo, [292] ma che può nelle scuole, adempire gli uffizi della storia meglio assai di certe opere celebrate. A far libri in uso della gioventù, certamente l'esperienza dell'insegnare non basta, ma è grande aiuto, e compisce le altre doti a questo difficile ministero richieste. Difficile segnatamente là dove trattasi di compendii, i quali devono essere opere intuire nel genere loro, non smozzicare i concetti, nè offrirne lo scheletro arido.

                L'abate Bosco in un volume non grave presenta la storia tutta d'Italia ne' suoi fatti più memorandi; sa sceglierli, sa circondarli di luce assai viva. Ai piemontesi suoi non tralascia di porre innanzi quelle memorie che riguardano più in particolare il Piemonte, e insegna a fare il simile agli altri maestri, cioè le cose men note e più lontane illustrare con le più note e le più prossime.

                S'intende dunque che ciascun insegnante deve all'uso proprio e de' suoi discepoli saper rifare almeno in parte i libri scolastici, per ben fatti che siano; deve le narrazioni, per vivaci che siano nel libro, saper nella scuola animare di colori novelli e applicare e la storia e ogni altro ammaestramento a ciascheduno de' suoi allievi per quanto si può.

                In tanta moltitudine di cose da dire, l'abate Bosco serba l'ordine e la chiarezza, che, diffondendosi da una mente serena, insinuano negli animi giovanili gradita serenità. Giova a chiarezza, secondo me, anche il raccogliere in un capitolo distinto le considerazioni generali sopra la religione e le istituzioni dei popoli e le consuetudini e gli usi. Questo è stato ripreso in alcuni storici del secolo andato: e richiedevasi che tali notizie fossero a luogo a luogo infuse nella narrazione stessa e le dessero movimento e pienezza di vita.

                lo non dico che ogni osservazione generale debbasi dalla esposizione dei fatti dividere, che sarebbe un rendere e l'una e l'altra parte imperfetta: ma dico che anco gli storici antichi, maestri imitabili in ciò, o premettevano o inframettevano ai fatti la commemorazione sommaria dei costumi: e dico che, specialmente nei libri ad uso della gioventù, questa cura è sussidio alla memoria insieme e all'intelligenza. Nè a proposito di tale o tal caso è possibile indicare con la debita evidenza tutto quello che aspetta all'indole costante dei popoli, senza che ricorra tediosa necessità di ripetere ogni tratto i medesimi accenni. [293]

                Io non dirò che l'autore non potesse talvolta approfittare maggiormente delle notizie storiche che la scienza moderna ha accertate, studiando meglio le fonti; non dirò che tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiano indubitabili, nè i fatti tutti esattamente narrati; ma mi corre obbligo di soggiungere che non poche delle troppo esaltate scoperte della critica moderna rimangono tuttavia dubitabili anch'esse, e versano assai volte sopra circostanze non essenziali all'intima verità della storia; e soggiungerò che i più fra i giudizi dell'autore mi paiono conformi insieme a civiltà vera e a sicura moralità. Nel colloquio quasi famigliare, che raccontando egli tiene co' suoi giovanetti, saviamente riguarda le cose pubbliche dal lato della morale privata più accessibile a tutti e più direttamente proficua.

                Il voler fare dei fanciulli altrettanti uomini di Stato, e insegnar loro sentenziare sopra le sorti degli imperi, e le cagioni che diedero vinta a tale o a tal altro capitano una campale battaglia, è pedanteria non sempre innocente. Perchè avvezza le menti inesperte a giudicare, dietro alla parola altrui, cose che non possono intendere; perchè a questo modo dà loro una falsa coscienza; perchè non le addestra a modestamente applicare i documenti della storia alla pratica della comune vita. Noi vediamo all'incontro i grandi storici, i grandi poeti antichi compiacersi a ritrarre sotto le insegne e quasi sotto la maschera dell'uomo pubblico l'uomo privato; e giudicare nel cittadino e nel principe il padre, il figliuolo, il fratello. Quindi insieme con la sapienza e con l'utilità, la maggior bellezza delle opere storiche e poetiche degli antichi. Non pochi dei moderni in quella vece nella storia e nella poesia stessa propongono a sè un assunto da dover dimostrare e quello proseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli effetti; dando sempre a vedere se stessi e la propria fissazione, nei più diversi aspetti del loro argomento, ostinandosi a farne sempre apparire il medesimo lato, e sotto forme differenti ripetendo a sazietà la medesima cosa; non narratori, nè dipintori, ma declamatori importuni. E non si accorgono che la storia, e tutta la natura, è quasi una grande parabola agli uomini proposta da Dio; della quale voler fare una applicazione unica, isterilisce la fecondità inesausta del vero, ammiserisce il concetto divino. [294] Nicolò Tommaseo, illustre letterato, che così bene scriveva di D. Bosco, venendo a Torino non tralasciava mai di recarsi presso di lui a richiederlo anche di consigli, tanta era la stima che gli professava.

                Prima del Tommaseo la Civiltà Cattolica, anno VIII, serie III, vol. V, pag. 482 aveva pubblicato il seguente giudizio:

                Il nome dell'egregio Sac. D. Bosco è oggimai un'arra più che sufficiente della bontà de' suoi scritti, improntati tutti di zelo e diretti alla coltura della gioventù, al bene di cui da tanti anni lavora con lodevolissima fatica. Questa sua Storia d'Italia in particolare merita elogio per la rara discrezione con cui fu scritta, in maniera che nell'angusto spazio di 558 pagine in 16 vi si raccolgono con diligenza tutti i principali avvenimenti della patria nostra. Noi pertanto facciam voti, perchè, dato bando a tante storie d'Italia scritte con leggerezza, od anche con perverso fine, questa del Bosco corra per le mani dei giovani, che s'iniziano allo studio delle vicende della nostra bellissima Penisola.

                D. Bosco intanto per nulla turbato dagli insulti della Gazzella del Popolo, continuava a scrivere; e ciò dimostra il continuo succedersi delle Letture Cattoliche.

                Nel mese di novembre si pubblicava il racconto: Agostino, ossia il trionfo della religione di un autore anonimo. Tratta della conversione di un nobile e ricchissimo signore, che per espiare la sua incredulità e le sue colpe, consuma tutte le sue ricchezze in opere buone, si riduce a povertà volontaria vivendo di elemosina in Germania, ove recossi per rimanere sconosciuto: salva la vita a due condannati a morte ed infine egli stesso muore per aver difeso il SS. Sacramento dagli oltraggi di ladroni eretici. Di questo opuscolo se ne dovettero fare varie edizioni.

                Era ormai pronto eziandio il fascicolo del dicembre: [295] La persecuzione di Decio e il pontificato di S. Cornelio I, Papa per cura del sacerdote Bosco Giovanni (I). In queste pagine si accenna alla supremazia, anche sede vacante, della Chiesa Romana sulle altre Chiese cattoliche del mondo. Si narra l'eroismo di molti martiri e la storia dei sette dormienti: il rispetto di S. Cipriano Vescovo di Cartagine pel Sommo Pontefice, al quale ricorre per aver direzione nel combattere lo scisma di Novaziano e si cita la sua famosa sentenza: “Non può avere Dio per padre, chi non ha la Chiesa per madre”. Si dimostra pure con una lettera di questo Vescovo e martire, ai fedeli di Cartagine, essere i peccati che hanno, tratto sopra i cristiani la procella della persecuzione e la loro cura principale dover essere di placare l'ira di Dio con umili preghiere ed ogni sorta di penitenze: ciò facendo la pace sarà ben presto restituita alla Chiesa.

                D. Bosco infine, descritta la vita e il martirio di San Cornelio, e il culto prestato alle sue reliquie, espone la dottrina cattolica riguardo a questo culto, concludendo: “L'odio dei protestanti contro le reliquie dei santi pare che derivi dal non aver essi nelle loro sette un solo, le cui azioni od i fatti gloriosi operati dopo morte, ne abbiano rese le spoglie mortali degne di culto speciale”.

                Frattanto nel mese di ottobre e di novembre vestivano l'abito clericale i giovani dell'Oratorio Cerruti Francesco, Ghivarello Carlo, Provera Francesco, Lazzero Giuseppe.

 

 

CAPO XXII. Chierici dell'Archidiocesi nell'Oratorio - Tutte le classi ginnasiali in casa - Accettazioni notevoli di alcuni allievi - L'Ospizio pieno di giovani - Sottoscrizione di condoglianze al Papa - Presentimenti di mali pubblici - Sogno: la marmottina - Mezzi per vivere lungamente - Doti necessarie in un Direttore di collegio -  Efficacia di una parola e di uno sguardo di D. Bosco - Timore di abusi e concessioni - Fermezza di Don Bosco nel congedare uno scandaloso, nel rimproverare  un disobbediente - È sciolto e riordinato il corpo della musica istrumentale - Un giovane perdonato - Domanda di vestiarii al Ministro della guerra.

 

                Sul principio dell'anno scolastico 1859 - 60 i chierici nell'Oratorio, appartenenti all'Archidiocesi di Torino, erano una ventina; D. Bosco riusciva nel suo disegno di istituire tutte le scuole Ginnasiali in Valdocco per non essere più costretto a mandare i giovani in città presso gli esimii e caritatevoli professori D. Picco e Bonzanino. Della prima ginnasiale, la quale contava ben 96 alunni, fu professore il Ch. Celestino Durando, della seconda il Ch. Secondo Pettiva, della terza il Ch. Giovanni Turchi, della quarta e quinta il Ch. Giov. Batt. Francesia. A questi [297] nel nobilissimo arringo successero altri e poi altri ancora, che istruiti e fatti maestri, si videro attorniati da numerosissimi fanciulli, speranze della Chiesa, e germi della futura Congregazione. Così D. Bosco si vedeva rivivere ne' suoi giovani chierici, che da lui avevano appreso e fatto proprio lo spirito di pietà e di sacrifizio.

                Santa Teresa infatti stimava più l'azione che non la sola orazione e diceva quindi: “Il profitto dell'anima non consiste in pensar molto, ma sì in molto amare. E se mi si domanda come acquistare questo amore rispondo: Col determinarsi ad operare e soffrire per Dio, e facendolo poi in effetto, quando l'occasione se ne presenta, specialmente quando si ha da eseguire atti di ubbidienza”. Così furono compiuti i desiderii e le fatiche sopportate per tanti anni da D. Bosco.

                L'Oratorio si era ripopolato coi giovani ritornati dalle vacanze e con quelli novellamente accettati. È grazioso il modo col quale uno di questi si fece iscrivere fra gli studenti.

                Nell'ottobre, un certo Domenico Parigi, in età di 14 anni, partiva tutto solo dalla casa paterna, veniva nell'Oratorio attratto dalla fama di D. Bosco, e saliva alle stanze del Superiore. D. Bosco si vide innanzi un giovanetto sconosciuto, sul volto del quale brillava la purezza e l'innocenza dell'anima.

                - Chi sei tu, o mio caro?

                - Sono Parigi Domenico di Chieri.

                - E che cosa vuoi da me?

                - Che mi tenga con lei qui nell'Oratorio.

                - Ma tu non sei stato ancora accettato.

                - E che importa? Mi accetti adesso.

                - Ascolta: facciamo le cose regolarmente. Ritorna a [298] Chieri, di' ai tuoi parenti che ti accompagnino qui e così ci parleremo e stabiliremo le condizioni convenienti.

                - Oh! a casa io non ritorno più.

                - Allora scrivi una lettera.

                - Io non scrivo; scriva lei!

                D. Bosco lo guardò per un istante, sorrise di tanta franchezza: -Ebbene, scriverò io!

                E il giovanetto rimase, fece tutte le classi di latinità, studiò da prete in seminario e morì prevosto di S. Francesco al Campo nel 1899.

                Un'altra accettazione degna di nota fu quella del giovanetto ebreo Jarach, di 13 anni. D. Bosco si era già occupato della conversione di parecchi altri Israeliti e li aveva battezzati nella sua chiesa. Il padre di Jarach, dotto Rabino di Ivrea, convertito da più anni, era stato da Mons. Moreno accolto nel suo seminario, ove impiegò tutta la vita insegnando ai Chierici la lingua ebraica e dando lezioni di Sacra Scrittura. Il Vescovo aveva anche ritirato una sua figlia, che abbracciata la fede cristiana, entrava in un convento e faceva la sua professione religiosa.

                Accenneremo ancora all'arrivo nell'Oratorio, il 20 di ottobre, di Rossi Giuseppe, nativo di Gambarana Lomellina sui 24 anni, il quale era stato spinto a venire con D. Bosco, dalla lettura del Giovane Provveduto. “Quando mi trovai, egli scrisse, per la prima volta alla presenza di D. Bosco, al vedere la sua benevolenza paterna, l'affabilità con cui mi accolse, rimasi grandemente edificato, e ne ricevetti in me una profonda e cordiale impressione e un sentimento di affetto figliale verso di lui.” Da quel punto Rossi fu degno compagno di Buzzetti nell'amore a D. Bosco e nell'aiutarlo nella gestione materiale dell'Oratorio. Quando egli entrò i giovani ricoverati erano circa trecento. [299]

                Il conto nel quale dalla gente era tenuto l'Oratorio è dimostrato dalle lettere seguenti. D. Bosco così scriveva. al Barone Feliciano Ricci a Cuneo.

 

                               Car.mo Sig. Barone,

 

                La Divina Provvidenza non mancherà d'aiutarci tutti. In seguito alla sua lettera, che fa vedere l'assoluto bisogno di ricoverare il giovane Magliano, mi sono determinato di fargli fare un salto a tutti i postulanti che eccedono il numero di mille è fargli un posto pel primo lunedì dopo l'Epifania del 1860. Partecipi questa notizia al benemerito Sig. Cav. Ferraris, e gli dica che, come presidente della Società di S. Vincenzo, è obbligato di compensare con qualche Ave Maria l'accettazione del suo raccomandato.

                Io non fisso alcuna oblazione entrando; solo Le dico che gli speciali bisogni in cui versa questa casa sono gravi e perciò la raccomando alla carità di Lei, benemerito Sig. Barone, del cavalier Ferraris e della medesima Conferenza di S. Vincenzo. Se non li ha ancora ricevuti, avrà quanto prima i libri che fu compiacente richiedermi.

                A Lei in particolare, Sig. Barone, auguro la santa virtù della pazienza, e raccomandando me e li miei poveri giovani alla carità delle divote sue preghiere, mi professo sempre con pienezza di stima

                Di V. S. Car.ma

                Torino, 16 dicembre 1859.

Obbl.mo ed Aff.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Alcuni giorni dopo D. Bosco rispondeva eziandio ad altro cospicuo personaggio.

 

                               Car.mo nel Signore,

 

                Ho un bel pensare, ma non è più possibile di fare posti in questa casa, che è letteralmente piena. Di più nel corso dell'estate ne mandai parecchi in campagna da mio fratello che d'inverno [300] non sa che farne. Perciò di mano in mano che si fa qualche posto, bisognerà che raccolga quei poverelli, che poltrirebbero nell'ozio e nell'abbandono. Che farei? Pregherò il Signore Iddio che aiuti Lei e la madre, affinchè fra tutti possano salvare l'anima a questo ragazzo. Dio benedica Lei e le tante sue occupazioni, e in quel che posso mi creda sempre

                Torino, 21 dicembre 1859.

Aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Dopo il principio delle scuole primo atto solenne di D. Bosco fu il dare al sommo Pontefice una prova dell'ardente affezione, che a lui portava l'Oratorio di Valdocco e la viva parte che prendeva a' suoi dolori per la rivolta, l'irreligione, il malcostume, la persecuzione del clero, introdotte ufficialmente nelle Romagne. Egli perciò il 9 novembre a nome suo e de' suoi giovani scriveva al Papa Pio IX una rispettosa lettera, nella quale esternavagli sentimenti di condoglianza per i fatti già succeduti e che succedevano a danno della religione e della Santa Sede; e in pari tempo esponevagli quanto in Torino si praticava dai buoni per opporre un argine alla colluvie dei mali, che da ogni parte inondavano. Finiva con promettere che avrebbero i suoi alunni ricorso continuamente al trono della grazia per ottenergli in tante angustie l'aiuto divino.

                D. Bosco la fece sottoscrivere da tutti i suoi giovani, e la spedì per mani sicure.

                Ma in quei giorni, asserì D. Ruffino, D. Bosco appariva soprappensiero. Aveva egli narrato di aver visto in sogno un uomo di alta statura il quale, girando per le vie di Torino, toccava or l'uno or l'altro dei cittadini con due dita nella faccia. I toccati diventavano neri e cadevano morti. Era forse questa un'epidemia morale? [301]

                Intanto il buon padre proseguiva a tener ogni sera un discorsetto alla comunità. Un nostro vecchio amico di quei tempi così ci narrava.

                “Una delle prime sue parlate che udii (1859) fu sulla frequenza dei Sacramenti. Questa generalmente non era ancor bene avviata fra i giovani venuti dalle case loro. Egli raccontò un sogno. Gli era parso di essere vicino alla porta dell'Oratorio ed osservare i giovani di mano in mano che rientravano. Vedeva in quale stato si trovasse ciascheduno in faccia a Dio. Quand'ecco entrare nel cortile un uomo che portava una piccola cassetta. Costui andò in mezzo ai giovani. Venne l'ora fissata per le confessioni e quell'uomo aperta la cassetta, tirò fuori una marmottina e la faceva ballare. E i giovani invece di entrare in Chiesa gli facevano corona attorno, ridendo e schiamazzando per i suoi lazzi, mentre egli lentamente si ritirava nella parte del cortile più lontana dalla cappella. D. Bosco descrisse prima, senza far nomi, lo stato della coscienza di molti giovani, quindi venne a narrare gli sforzi e le insidie del demonio per distrarli e svogliarli dall'andarsi a confessare. Con quella marmottina fece ridere molto il suo uditorio, ma lo fece anche riflettere seriamente sulle cose dell'anima. Tanto più che poi in privato svelava, ai singoli che lo richiesero, ciò che essi credevano neppur l'aria dovesse conoscere. Ed era la verità. Questo sogno determinò la maggior parte dei giovani a confessarsi molto spesso e generalmente ogni settimana e la santa Comunione divenne molto frequentata.

                Ricordo eziandio che parlando D. Bosco della sanità del corpo e dell'importanza d'usare mezzi convenienti per non rovinarla, il Ch. Bongiovanni Giuseppe domandò la parola, e ottenutala chiese: - Che cosa si deve fare adunque per [302] conservare la buona sanità, e campar lunga vita? - Don Bosco gli rispose dirigendo la parola ai giovani: - Vi dirò un segreto, ossia una ricetta, che servirà per risposta al chierico Bongiovanni e che sarà di gran vantaggio a tutti voi. Per conservare la sanità e vivere lungamente è necessario: 1° Coscienza chiara, cioè coricarsi alla sera tranquilli, senza timori per l'eternità. - 2° Mensa frugale. - 3° Vita attiva. - 4° Buone compagnie ossia fuga dai viziosi. E spiegava brevemente questi quattro punti”.

                La parola di D. Bosco era quella adunque che dirigeva sapientemente la casa. Un certo Zerega Giusegge, ligure, impiegato nell'arsenale di Torino, nel 1859 veniva spesse volte nell'Oratorio, accolto come carissimo amico; e si meravigliava della facilità colla quale D. Bosco guidava tanta gioventù. Egli semplice, ma esperto meccanico, meditava di occuparsi dei giovani operai, quando fosse tornato a Genova, desiderava abbracciare lo stato ecclesiastico e infatti moriva sacerdote, parroco e pieno di meriti. Perciò un giorno domandò a D. Bosco, quali fossero le doti necessarie ad un direttore per regger bene un collegio od un ospizio; e Don Bosco gli rispose: - È necessario che un direttore abbia piena influenza sui giovani, e per averla bisogna: 1° che sia stimato santo - 2° che sia reputato dotto in ogni ramo di scienza, specialmente in quelle cose che interessano gli alunni. Se interrogato non sa rispondere dica al giovane: “Ora non ho tempo, domani ti darò risposta.” E bisogna che abbia pazienza e s'istruisca su quel punto per poter rispondere con precisione. - 3° Che i giovani sappiano di essere amati.

                La potenza mirabile di D. Bosco stava in questo: egli aveva in mano il cuore de' suoi fanciulli. Con una sua parola ei li metteva nella più grande allegria, al modo [303] stesso che con l'ombra sola di un suo rimprovero, li faceva cadere nella più profonda tristezza. Fra tanti fatti da noi conosciuti, ci limitiamo a raccoglierne alcuni.

                I giovani sentendo ancor nelle ossa la dissipazione delle vacanze, una sera dopo le orazioni non si prendevano tanta cura di far silenzio appena ricevutone il segno. D. Bosco era in cattedra e dopo aver atteso per qualche minuto, ad un tratto esclamò con tutta pacatezza: -Ma sapete che io non son contento di voi? - E li mandò a letto senza permettere che gli baciassero la mano. Era questo il castigo più forte e più temuto, perchè il più sensibile, che il buon padre potesse infliggere ai suoi figli; e non fu bisogno d'altro, poichè da quel giorno memorabile D. Bosco non aveva che a comparire, perchè si potesse anche udir volare una mosca: il campanello, che aveva avuto fino allora parecchio da fare in mezzo a tutto quel frastuono, divenne affatto inutile, giacchè si tremava al solo pensiero di veder rinnovata quella punizione.

                Avendo bisogno di una poesia per l'onomastico di una benefattrice egli incaricò un suo alunno di mettergli insieme alcuni versi. Questi però alla sera non aveva sodisfatto il suo compito. Ma non volendo andare a letto, senza aver prima baciata la mano a D. Bosco, sperò che questi si fosse dimenticato dell'incarico datogli, e sebbene un po' angustiato, presentossi con aria disinvolta ad augurare la buona notte al servo di Dio, che appena vedutolo gli domandò: - E la poesia?

                - Ma ......

                - Allora per un'altra volta saprò a chi indirizzarmi. - Il povero giovane ne restò tanto male, che ci volle l'industriosa sollecitudine di D. Bosco a dissipare quella dolorosa impressione. [304]

                Tale era il suo costume quando scorgeva che uno turbavasi per un avviso un po' serio; lo troncava, dava all'alunno una dimostrazione d'affetto, per così levar da lui ogni specie di amarezza.

                Un altro aneddoto di genere diverso ci conduce alla stessa conclusione. D. Bosco, conoscendone il bisogno grave, ordinava che al mattino nei giorni di digiuno si desse ad alcuni chierici caffè con latte. Il cuoco, uomo bizzarro, piccole miserie della vita umana, preparava tazze piccole e latte in così poca quantità che non bastava per tutti. Quei chierici chiesero al cuciniere che fornisse loro latte a sufficenza, ma egli rispose bruscamente, che non dovevano pretenderne di più. Si rivolsero allora a chi rappresentava l'economo, il quale benchè gli dicessero essere quella concessione fatta dallo stesso D. Bosco, rispose trattarsi di una novità ed egli nulla sapere di tali ordini. Allora deliberarono di appellarsi a D. Bosco. Tre di essi salirono alla sua stanza. Due si fermarono fuori, ma in modo di udire, uno entrò per esporre le lagnanze di tutti. Guastò però la frittata, perchè sbadatamente e riferendo nell'intenzione le sue parole al cuoco e non a D. Bosco, concluse la narrazione di quel gravame con dire: - Perchè poi sa, Don Bosco, in casa nostra un po' di polenta l'abbiamo ancora! - I due che erano fuori udendo questa sparata si ritirarono in fretta in fretta. D. Bosco profondamente ferito nel cuore rimase interdetto, guardò il suo interlocutore con uno sguardo velato dalle lacrime e non disse parola. Quel poveretto allora si scusò e dileguossi. Quante volte un solo sguardo soave e benigno di D. Bosco calmò impazienze e vivacità ora subitanee, talora giustificate, sapendo egli tollerare e dimenticare! Ed è perciò che gli animi esasperati per un istante non diminuivano in lui la loro affezione. [305] Pareva che per essi avesse scritto l'Ecclesiastico nel capo XXII: Chi punge l'occhio ne preme le lacrime, e chi punge il cuore ne tragge fuori gli affetti.... Quand'anche tu avessi tirata fuori la spada contro l'amico per impeto subitaneo, non disperare: perocchè puoi tornare in grazia con esso. Se avrai detto all'amico Parole d’ira, non temere: vi è luogo alla pace, purchè non vi sia stata maldicenza, nè rimprovero d'ingratitudine, ne superbia disprezzatrice, nè manifestazione di segreto, nè colpo di tradimento.

                D. Bosco non aveva tardato ad imporre al cuoco di eseguire senza ridicole economie le disposizioni date. Ciò che sempre sorreggeva e consolava i suoi chierici era il conoscere la carità di chi li aveva adottati per figli. Il suo cuore era così tenero, che non gli permetteva di dare una negativa, quando gli era chiesto qualche favore. Tuttavia temendo gli abusi e assolutamente non volendoli, schivava che a lui si ricorresse nelle cose, che spettavano a dispense in quanto alle regole di materialità della vita, e li rimandava al Prefetto. Allora era facile a concedere, ma indirettamente. Egli però sapeva prevenire una domanda quando conoscevala giusta. Molte volte vedendo nel refettorio qualcuno di quei suoi buoni figliuoli non reggere al cibo comune diceva sotto voce una parola al Prefetto, perchè glielo facesse cambiare. Così D. Bosco regolavasi in varii altri casi di simile natura, e i chierici e anche i giovani restavano compresi da quei tratti di squisita bontà.

                “D. Bosco, scrisse il Canonico Ballesio, in tutta la sua condotta verso di noi, si vedeva che l'unico suo pensiero e desiderio era la gloria di Dio, ed il nostro maggior bene morale, religioso e civile, con una gravità, dolcezza, prudenza tutta sua propria, lontana da ogni esagerazione”.

                Ne' suoi atti non scorgevasi nè violenza, nè debolezza. [306] Pareva non si potesse adirare: tosto che gli si accendeva il primo moto d'ira ei lo frenava sollecito: e violentando sè stesso con moderato sorriso si raddolciva. Nello stesso tempo però, ed eziandio questa era carità, dimostravasi di una fortezza abituale, risoluta nell'esercitare la virtù della giustizia, sostenendo i diritti della moralità e dell'ordine disciplinare. Dire altrimenti è un falsare il carattere di D. Bosco.

                Ci scriveva Mons. Cagliero: “Durante il mio chiericato, un giovanetto semplice ed innocente, e mio aiutante di sacrestia, era stato vittima di scandalo da parte di un adulto. D. Bosco non appena lo venne a sapere, ne sentì un estremo dolore, si turbò e pianse in mia presenza. Quindi fu sollecito a riparare all'innocenza tradita con paterna dolcezza; ma con pari fortezza procurò che fosse subito allontanato il colpevole dall'Oratorio”.

                D. Bosco quantunque sempre dolcissimo, non passava facilmente sopra le mancanze di disciplina. Il Ch. Marcello nel mese di maggio, benchè fosse assistente, non arrivava mai in tempo alla lettura spirituale ed alla benedizione, che si dava tutte le sere. Per questa ed altre mancanze di vigilanza D. Bosco non aveva lasciato di ammonirlo.

                Il Chierico doveva recarsi tutte le feste all'Oratorio di Vanchiglia, ma conduceva con sè qualcuno della casa, contro il volere dei superiori. E fu avvertito senza frutto.

                Una domenica al mattino, celebrandosi in Vanchiglia non so quale solennità, egli, senza intesa con D. Bosco o con D. Alasonatti, condusse a quella festa varii giovani. Don Bosco volle porre termine ad un tale disordine conosciuto da tutti, e togliere un cattivo esempio che poteva facilmente trovare seguaci.

                Alla sera adunque innanzi all'intera comunità dopo le orazioni, toccò il fatto della grave disubbidienza di chi [307] avesse condotto fuori di casa i giovani senza averne licenza. Quindi parlando, cosa insolita in quell'ora, il dialetto piemontese, e con tono marcato di amarezza, si fece a chiedere in pubblico, chiamandoli per nome, ai singoli giovani sopra accennati: - Dove sei stato questa mattina?

                - All'Oratorio di Vanchiglia.

                - E chi ti condusse?

                - Il Ch. Marcello.

                Così domandò agli altri che ripetevano la stessa risposta. In mezzo ad un profondo silenzio risuonavano, con brevi pause, lentamente, le parole: - E tu?... Marcello! Finite queste interrogazioni D. Bosco espresse il suo vivo dispiacere con poche e secche frasi, ma calme. Fra gli altri era presente D. Albera Paolo.

                Simile fortezza lo guidava nell'esigere obbedienza a' suoi comandi e a punire chi ostinato tentasse ribellarsi. Nel corpo della musica istrumentale, numeroso e ben addestrato, eravi un distinto organista, vivente nell'Oratorio come pensionante, che dava in Torino molte lezioni di pianoforte, e largamente retribuito. Pareva ed era buono, ma di testa esaltata e poco sofferente di obbedienza. Con questo compagno ed ammirato maestro di musica i giovani suonatori avevano contratto grande famigliarità e talora davano ascolto a certe sue massime contrarie alla sommissione dovuta ai superiori. In mezzo a loro perciò si manifestava qualche atto di indisciplinatezza, benchè leggero: ma parve che un avviso di D. Bosco avesse posto rimedio al male incipiente.

                Tuttavia D. Bosco vigilava. Per qualche anno, per motivi speciali, aveva loro permesso che nella festa di Santa Cecilia, allorchè occorreva in giorno feriale, andassero a fare una passeggiata ed un pranzo campestre in luogo da [308] lui designato. In quest'anno incominciò a proibire tale svago. I giovani musici non fecero rimostranze, ma sobillati da qualche loro capo, con promessa di ottenere da D. Bosco licenza, ed anche colla speranza dell'impunità, una metà di essi risolvette di uscire dall'Oratorio e imbandire un pranzo, qualche settimana prima della festa di S. Cecilia. Avevano presa questa ultima decisione, perchè D. Bosco non fosse prevenuto e non mettesse impedimenti.

                In uno degli ultimi giorni di ottobre pertanto si recarono in una vicina osteria. Il solo Buzzetti, invitato all'ultimo momento, si rifiutò di unirsi a quei disobbedienti e venne ad avvertirne D. Bosco. Con tutta calma il Servo di Dio dichiarò sciolto il corpo musicale, ordinando a Buzzetti di ritirare e chiudere tutti gli strumenti e di pensare a quali nuovi allievi consegnarli, perchè li studiassero e si esercitassero. All'indomani mattina mandò a chiamare ad uno per uno tutti quei musici riottosi e si lamentò con essi che lo costringessero ad essere severo. Diede quindi loro qualche avviso per la salvezza dell'anima, e senz'altro li rimandò chi ai loro parenti, chi ai loro benefattori, chi raccomandò a qualche padrone di fabbrica. Una lettera di D. Bosco al Barone Feliciano Ricci, a Cuneo, in data 3 novembre 1859, dà ragione del suo operato.

 

                               Ill.mo e Benemerito Signore,

 

                Ho ricevuto con vero piacere la venerata lettera di V. S. benemerita con cui nella solita sua carità raccomanda il giovane Rossi. Questo povero ragazzo, oltre ad altre cose, fu compromesso insieme con altri di questa casa, che contro mia proibizione vollero andare a fare un pranzo fuori di questa in luogo da non tollerarsi, cioè in una bettola. Li mandai a chiamare mentre pranzavano, feci ripetere la chiamata dopo il pranzo, perchè dolevami [309] troppo prendere gravi misure contro ad una ventina di giovani fuorviati. Quattro soltanto in fine si arresero e si umiliarono: gli altri si mostrarono assai più baldi. Dopo il pranzo andarono a girovagare per la città; la sera andarono a cenare nello stesso posto e vennero a casa a notte tarda mezzo ubbriachi; tra questi ultimi eravi il Rossi. Siccome li aveva più volte minacciati, se mostravansi ostinati, di cacciarli dalla casa, così dovetti farlo col massimo mio rincrescimento. Tuttavia in seguito alla sua lettera terrò qui il Rossi in casa per alcuni giorni e vedrò se mi riesce di collocarlo altrove come spero. In quanto all'altro ragazzo di cui parla, ci parleremo a bocca o Le scriverò altra volta, sistemato che sia il gran numero di giovani raccolti or ora in questa casa.

                La ringrazio poi di tutto cuore della generosa limosina, che fa a questa casa e L'assicuro che non mancherò di pregare il Signore, perchè benedica Lei e la sua famiglia, mentre con pienezza di stima mi professo

                Di V. S. benemerita

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Uno tra questi trovò perdono. Egli era abile in cucina, barbiere, imbiancatore, factotum insomma per il teatro, per le feste e per ogni lavoro manuale.

                Alla sera di quel giorno, dopo che D. Bosco ebbe parlato ai giovani, ecco il Ch. Rua dire a D. Bosco: - Signor D. Bosco, se mi permette avrei da patrocinare una causa, che mi sta a cuore.

                - E quale?

                - Il giovane Pietro E.... fu congedato dalla casa. È giusta la punizione, che fu data a quelli che non vollero ubbidire. Ma il poveretto, inesperto per la giovane età, si lasciò ingannare dai compagni, i quali lo assicurarono aver ottenuta da lei la licenza. Non trasgredì adunque per malizia il suo divieto. Perciò in nome suo le domando perdono e [310] chiedo grazia. - Il giovane colla testa bassa tutto confuso era in mezzo ai compagni.

                D. Bosco rispose: - E non avrebbe dovuto credere alle affermazioni dei compagni... Aveva inteso da me chiaramente l'ordine dato... Sapeva non esser io solito mutar d'intenzioni... La ragione esposta non vale a scusarlo. Tuttavia poichè sei tu che intercedi per lui, sospenderò di rimandarlo a suo padre.... Lo terremo ancora un po' di tempo in prova e vedremo! -

                D. Bosco intanto chiedeva al Ministro della guerra, generale La Marmora, vestiarii per i suoi giovanetti che gli furono concessi, ma non sappiamo con quale larghezza.

 

                               Ill.mo Sig. Ministro,

 

                Espongo rispettosamente a V. S. Ill.ma come, nel bisogno di provvedere ad un numero di oltre cento giovanetti ricoverati nella casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales, e anche per provvedere ad un numero di oltre mille cinquecento, che frequentano gli Oratorii maschili di Valdocco, di Portanuova e di Vanchiglia, io ricorreva al Ministero della guerra per ottenere a titolo di sussidio alcuni oggetti di vestiario che, o per la forma o perchè molto usati, non potevano più servire ad uso delle regie truppe. La dimanda fu sempre accolta con favore, e questo benemerito Ministero veniva in mio soccorso. Le strettezze della corrente annata mettendomi in posizione assai più calamitosa degli anni scorsi, mi trovo nella necessità di ricorrere a Vostra Eccellenza Illustrissima, supplicandola a voler prendere in benigna considerazione lo stato infelice di questi poveri ed abbandonati giovani, e concedere loro quegli oggetti di vestiario, che ad essi sono di prima necessità, onde ripararsi dal freddo nella prossima invernale stagione, e poter così continuare nel lavoro e guadagnarsi il pane in qualche onesto mestiere.

                Noto qui solamente che, attesa l'assoluta povertà di questi, si riceverà colla massima gratitudine qualsiasi genere di vestiario, [311] siano scarpe, tuniche, giacchette, camicie, mutande, lenzuola, coperte, calzoni, e comunque siano rimessi e logori: siano anche cenci di coperte od altro, tra di noi si aggiustano e si fanno servire ad occorrere ai nostri bisogni.

                Pieno di fiducia nella nota di Lei bontà, coi sentimenti della più viva e sincera gratitudine, anche a nome dei mentovati giovanetti, mi professo

                Di V. S. Ill.ma

 

 

Obbl.mo supplicante

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

 

CAPO XXIII. La legge Casati - Una guarigione ottenuta per intercessione di Savio Domenico - Novena dell'Immacolata - Sermoncini di D. Bosco alla sera: annunzio della novena: un buon consiglio ai compagni: La visita al Santissimo Sacramento: Confidenza nei Superiori: Sincerità in Confessione - Monito memorando di D. Bosco.

 

                Gli articoli di una legislazione scolastica, che mai furono abrogati, imponevano agli istituti educativi retti da Congregazioni religiose l'obbligo di seguire i programmi del Governo intorno agli esami, alle tasse, all'idoneità degli insegnanti e all'ispezione dei regi Provveditori agli studi. Le scuole di D. Bosco non erano comprese finora, almeno ufficialmente, in questa categoria. Il Provveditore prof. Muratori non aveva ancora esercitato alcun atto di autorità. Il pensiero però del Servo di Dio rivolgevasi ansioso ad un avvenire che non appariva di certo color di rosa. Ed ecco sorgere una lieta speranza per quelli che si dedicavano all'educazione cristiana ed all'istruzione della gioventù.

                Il 13 novembre 1859 colla promulgazione della legge Casati, che divenne poi la legge organica della pubblica Istruzione per tutto il regno d'Italia, mostrò il Governo di volersi mettere risolutamente sulla via di libertà d'insegnamento. [313] In essa accanto all'insegnamento pubblico era fatto posto onorevole al privato; e coll'art. 3, si determinava molto chiaramente, che il Ministro governa bensì l'insegnamento pubblico, ma quanto al privato, soltanto lo sopravveglia a tutela della morale e dell'igiene, delle Istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico: il che costituiva già per sè una grande franchigia di libertà, sottraendo al monopolio dello Stato una moltitudine considerevole di giovani studiosi e d'Istituti educativi. Ma la legge Casati andava assai più innanzi per quella maestra e splendida via di libertà; poichè cogli articoli 251 e 252 proscioglieva da ogni vincolo di ispezione per parte dello Stato così l'istruzione secondaria paterna data nel seno della famiglia, come l'istruzione di più padri di famiglia associati fuori di essa; e quanto all'istruzione elementare, lasciava nell'articolo 326 ai padri ed a coloro che ne faranno le veci, facoltà di procacciare ai figli dei due sessi l'istruzione, nel modo che crederanno più conveniente; della stessa istruzione elementare pubblica e gratuita poi, incaricava i comuni, in proporzione delle loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti, come è detto letteralmente dall'art. 147.

                Qual fosse il concetto generale informatore di tutto queste disposizioni appariva molto perspicuamente: era quello della libertà d'insegnamento. Ed il Ministro Casati, nella sua relazione al Re, diceva anzi in maniera esplicita, d'aver accettato la massima della libertà d'insegnamento, come la più equa, la più conforme alle condizioni moderne di civiltà, la più universalmente gradita alla pubblica opinione; e scusandosi di non poterla applicare allora intieramente, faceva voti che si progredisse sempre per quella via, allargando vieppiù le maglie ferrate del monopolio in favore della libertà. [314]

                Per ciò che riguarda la Religione all'art. 315, Tit. V capo I, definendo le materie proprie dell'istruzione elementare dei due gradi inferiore e superiore poneva in primo luogo l'insegnamento religioso. Nell'art. 317 Poi la legge stessa addossava ai comuni l'obbligo d'impartire gratuitamente tale istruzione, in proporzione della loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti. Era quindi evidente, in genere, che i comuni dovevano, in forza della legge Casati, provvedere, perchè nelle scuole elementari si desse l'insegnamento religioso. Ed era anche certissimo che questa insegnamento doveva esser dato nelle scuole stesse conformemente al Catechismo diocesano, approvato dal Vescovo giacchè nel 1° articolo dello Statuto fondamentale, religione dello Stato era proclamata la cattolica; e nell'art. 28 dello Statuto medesimo era rimesso all'esclusiva autorità e competenza dei Vescovi, il permesso e il divieto della stampa dei catechismi e degli altri libri di religione. È una deduzione strettamente logica, perfettamente legale, per se stessa irrefragabile.

                L'art. 325 stabiliva che alla fine di ogni semestre si desse un'esame pubblico, come per le altre materie, così anche per la religione; e di questa voleva fosse esaminatore il parroco.

                Cogli art. 326 e 327, specificava essere obbligo dei genitori, curatori e custodi di procacciare ai fanciulli l'istruzione impartita nelle scuole elementari di grado inferiore, comminando ai negligenti ostinati le punizioni della legge.

                Quindi per togliere ogni pretesto d'infrangere e di deludere la legge, l'art. 374 dispensava di seguir le lezioni di religione, e dall'assistere agli esercizi che vi si attengono gli allievi cui i parenti avranno dichiarato di prendere essi [315] stessi cura della loro istruzione religiosa: con che si provvedeva alla libertà delle poche famiglie non cattoliche.

                Un regolamento poi del 15 settembre 1860 sull'istruzione elementare, diretto ad applicare le disposizioni della legge Casati, nell'articolo 2° prescriveva l'insegnamento del catechismo, secondo le varie diocesi del Regno, e pur deferendosi al Consiglio Provinciale e ad altri la distribuzione delle parti del catechismo medesimo per ciascuna classe, era determinato però, che tale distribuzione si facesse in guisa “che in due o tre anni i fanciulli abbiano agio di studiare ed imparar bene le parti più importanti della dottrina cristiana”.

                Questa legge prometteva molto bene, ma non andò gran tempo che scrittori, giornalisti, uomini di Stato, animati da passioni settarie ed anti-religiose, vennero facendo ad essa una opposizione continua ed accanita; fu aspramente malmenata, biasimata e posta in dileggio qual vecchiume discordanti ormai dalle idee e dai bisogni nuovi dell'istruzione pubblica. In essa era detestata l'equa libertà lasciata all'insegnamento privato, massime cattolico. Perciò i successori di Casati non fecero che andar sempre indietro, riprendendo con decreti e con metodi ingiusti, e talora anche brutali, una dopo l'altra le libertà che la legge aveva concesse. Non bastò ai Ministri innumerabili, quasi tutti framassoni, passati quali meteore sanguigne, o grandinate sterminatrici per gli uffizii della pubblica istruzione, di muovere guerra asprissima a tutti gli Istituti secondarii, privati e paterni, massime cattolici, dipendenti o in qualunque modo guidati da religiosi e da preti, con ipocrisia continua, fingendo di serbare loro incolumi i diritti legali e intanto per sempre nuovi congegni amministrativi, o balzelli, od angherie, togliendo loro l'alimento ed il respiro. [316] Soprattutto abborrivano le disposizioni favorevoli all'insegnamento religioso. Chi riandasse gli atti del Parlamento, troverebbe da inorridire per le tanti atroci bestemmie lanciate dai signori Onorevoli in particolare contro il Catechismo e la Storia Sacra, tra i bravo e gli evviva della Sinistra.

                Attraverso però di tante bufere la legge Casati rimase nel suo essere di legge organica e costitutiva dell'Istruzione, non avendo nè il Parlamento, nè i Ministri, avuto mai il coraggio di proporne un'altra. Cento volte la condannarono a morte, ma non osarono mai eseguire la sentenza e dichiarare abolite le disposizioni riguardanti l'insegnamento del catechismo.

                Noi qui abbiamo esposto alcuni cenni sulla legge Casati e sugli stralci a lei fatti da chi avrebbe dovuto rispettarla e farla osservare, perchè si abbia un criterio per giudicare certe persecuzioni che a suo tempo verremo a narrare.

                Ma qualunque fossero le disposizioni delle leggi, Don Bosco era tranquillo per la protezione di Maria SS. e la intercessione di Savio Domenico, dell'efficacia della quale ebbe una prova in questi giorni.

                Da un anno e mezzo Donato Edoardo alunno dell'Oratorio era stato preso da forte mal d'occhi, sicchè fu costretto nel marzo del 1859 a lasciare affatto gli studii. L'aria del suo paese, le molteplici medicine, i salassi, i vescicanti dietro alle orecchie, i suggerimenti dei migliori medici specialisti non gli recarono alcun vantaggio. Ei passava i suoi giorni in una camera oscura. Sembrandogli, sul finir di ottobre, di sentire qualche miglioramento, ei volle ritornare a Valdocco, ma il male aveva ripresa la primiera malignità. Il giovane si avvicinava spesso a D. Bosco, affinchè lo consolasse con quei detti, che egli sapeva essergli di [317] vantaggio temporale e spirituale, coll'incoraggiarlo ad aver pazienza, e col dargli qualche speranza di prossima guarigione. Una sera fra le altre mentre tutti i suoi compagni radunati ciascuno nella propria classe cantavano, egli pensieroso e tristo, col volto tra le mani, stava seduto nel refettorio dei Superiori, ed appoggiato alla tavola, in capo alla quale D. Bosco cenava. Il Servo di Dio com'ebbe finito, si alzò, gli si accostò pian piano, e, toccatagli la spalla, gli disse: - Che non possiamo una volta liberarti da questo male? La voglio finita. Voglio che prendiamo Savio Domenico pel ciuffo e non lo lasciamo più andare, finchè ci abbia ottenuto da Dio la tua guarigione. - A queste parole il giovane lo guardò fisso in volto e non aprì bocca. D. Bosco seguitò a dire: - Sì, tu prega tutti i giorni di questa novena (era la sera del giorno prima che si incominciasse la novena dell'Immacolata Concezione) Savio Domenico, affinchè interceda per te e ti impetri questa grazia. Procura di trovarti in tale stato di poter fare la S. Comunione ogni mattina. La sera poi prima di coricarti dirai così: “Savio Domenico prega per me!” Ed aggiungi un'Ave Maria. - Donato promise di fare puntualmente quello che gli era stato detto, e D. Bosco replicò: - Bene! Tu fa quel che ti ho suggerito ed io in tutti i giorni mi ricorderò di te nella S. Messa. E chi sa che questa volta Savio Domenico più non ci scappi, prima che tu sia guarito.

                Il giorno stesso che Donato cominciò a fare la sua novena, sentì già qualche alleviamento nel male e continuò con maggior fervore le sue pratiche di pietà. E gli occhi suoi in pochi giorni furono perfettamente guariti e il male più non ritornò.

                Mentre accadeva questo fatto consolante D. Bosco invitava i suoi alunni a fare la novena di Maria SS. Immacolata. [318] Non vi erano funzioni in chiesa, ma ciascuno procurava di onorare la SS. Vergine con quelle opere di pietà, che suggerivagli la propria devozione. D. Bosco tutte le sere proponeva un fioretto da praticarsi e teneva il solito sermoncino. Cinque di questi ci furono conservati da D. Bonetti e qui li riportiamo colla data del giorno nel quale il Servo di Dio li pronunciò.

 

29 NOVEMBRE.

 

                Ancora domani e poi siamo al fine del mese. Già un mese è passato di questo anno scolastico! Come è passato rapidamente! Ebbene; egualmente rapidi passeranno gli altri mesi. Ma al tramontare di ogni mese procuriamo che ciascuno di noi possa dire a se stesso: - Un mese di più del quale debbo rendere conto a Dio; ma per quanto stava in me, ho fatto tutto ciò che ho potuto e la coscienza non mi rimprovera di aver perduto il tempo. - Adesso nelle scuole avete già fatto esperimento delle vostre forze. Vi siete già accorti di quello che sapete e di quello che vi resta ad imparare; chi di voi è più avanti e chi è più indietro negli stessi studii, e che cosa vi manchi per riuscire i più distinti nella classe. Mettetevi adunque di buona volontà, tanto più che incominciamo la novena di Maria SS. Immacolata. Essa è madre nostra, e ci ama infinitamente di più di quanto ci possano amare tutti insieme i cuori delle madri terrene. Essa ama svisceratamente tutti i Cristiani, ma per i giovani dell'Oratorio ha sempre dimostrato un affetto speciale. Vi sarebbero migliaia di fatti ed anche di fatti straordinarii che dimostrano ciò. Ma comunque sia è certo che essa dimostra un affetto particolare a tutti coloro che l'onorano. Ego diligentes me diligo. Dimostratevi perciò colla buona condotta degni suoi figli e mettete i vostri studi sotto la sua protezione. A questo fine procurate di passare bene questa novena. E in che modo, voi direte, noi potremo onorare Maria in questi giorni in modo, da meritarci la sua protezione? Non vi raccomanderò la frequenza dei Sacramenti. D. Bosco non ha altro desiderio più vivo di questo. Però due cose speciali vi suggerirò per onorare Maria e: Iª Che ciascheduno [319] si risolva di fare proprio con buona volontà questa novena. 2ª Di preparare un mazzolino di fiori da offrirsi poi a Maria nel giorno della sua festa. E in che modo formarlo? Raccogliendo un fiore tutti i giorni. E dove raccoglierlo mentre non ci sono più fiori in campagna ? Nel vostro cuore. E quale sarà questo fiore? Una piccola Virtù da praticarsi ogni giorno in onore di Maria SS. Immacolata. Fatelo tutti questo fioretto, sicchè il giorno della gran festa vi siano tanti mazzolini quanti siete voi, ed in ogni mazzolino non manchi neppure un fiore. State sicuri che a Maria SS. sarà molto gradito il vostro dono.

 

30 NOVEMBRE.

 

                Il fioretto per domani sia: Darò un buon consiglio ad un mio compagno. Vi sono mille occasioni per esercitare quest'opera di carità. Se un negligente, un mormoratore, uno un po' libero nelle parole, un rizzoso avesse al fianco chi gli dicesse una buona parola, quanto male sarebbe impedito, quanto bene di più si farebbe. Consigliare una visita in chiesa, di andarsi a confessare, di fare una buona lettura, quante volte è il principio dell'eterna salvezza di un giovane! Chi poi riceverà il consiglio lo riceva in buona parte. Un buon consiglio non si può avere sempre e noi dobbiamo crederci fortunati quando lo possiamo avere. Se qualcuno di voi lo darà a me, mi farà un gran piacere e gli prometto eterna gratitudine. Io intanto lo darò anche a voi. Ne darò uno in generale ed uno in particolare a ciascheduno. Il generale si è questo: Ad quid venisti? S. Bernardo quando ebbe abbandonata la sua casa paterna per ritirarsi a far vita santa in un convento, scrisse in tutti i luoghi pei quali doveva passare: Ad quid venisti? Questo pensiero era il suo continuo conforto nei momenti di scoraggiamento, di tentazione: son venuto per guadagnarmi il Paradiso; dunque avanti. Ecco il mio consiglio. Scrivete in un angolo di un qualche libro o quaderno queste parole: Ad quid venisti? E pensate: Ad quid venisti in questo mondo? Per amare e servire Iddio e guadagnarti il paradiso. Se fai altrimenti sei fuori di riga. Ad quid venisti in questo Oratorio? Son venuto per studiare, per fare profitto nella scienza e nella pietà, per conoscere quale sia la mia vocazione: se non faccio questo profitto il mio tempo è perduto. [320]

 

I DICEMBRE.

 

                Il fioretto di domani sia questo: Farò una visita a Gesù Sacramentato. Se una persona stimata come veritiera andasse in una piazza e dicesse alla gente, che sta là oziosa facendo conversazione: Andate su quella collina e troverete una miniera d'oro abbondantissimo e del più puro, e potrete raccoglierne senza fatica quanto vorrete; ditemi: ci sarebbe un solo, che, alzando le spalle, direbbe che a lui poco importa di quelle ricchezze? Correrebbero tutti a precipizio. Or bene; nel tabernacolo non vi è il tesoro più grande che possa trovarsi in cielo e in terra? Pur troppo che gli uomini ciechi non lo conoscono questo tesoro, ma è certo, certissimo, di fede che là vi sono immense ricchezze. Gli uomini sudano per aver danari: ebbene nel tabernacolo vi è il padrone di tutto il mondo. Qualunque cosa che voi gli chiediate e che vi sia necessaria, egli ve la concederà. Avete bisogno di sanità? Avete bisogno di memoria, di intendere le lezioni, di riuscir bene nei lavori? Avete bisogno di forza per sopportare le tribolazioni, di aiuto per vincere le tentazioni? La vostra famiglia è minacciata da qualche disgrazia, è afflitta dalla malattia di qualcheduno, ha bisogno di qualche grazia particolare? La piccola fortuna di casa vostra da chi dipende? Chi comanda al vento, alla pioggia, alle grandini, alle tempeste, alle stagioni? Di tutto non è padrone assoluto Nostro Signor Gesù Cristo? Dunque andate e chiedete e vi sarà concesso. Bussate e vi sarà aperto. Gesù desidera darvi le sue grazie e primieramente quelle che riguardano l'anima. Una santa vide sull'altare il bambinello Gesù il quale, fatto seno della veste, sosteneva un peso straordinario di perle preziosissime. Era mesto. - Perchè così mesto, o mio Signore? chiese la santa.

                - Nessuno viene a chiedermi le grazie che tengo preparate, nessuno le vuole. Non so a chi darle!

 

2 DICEMBRE.

 

                Il fioretto che vi propongo è di una somma importanza: Procurerò di avere grande confidenza coi superiori. Noi non vogliamo essere temuti, desideriamo di essere amati e che abbiate in noi [321] tutta la confidenza. Che cosa vi è di più bello in una casa di questo: che cioè i superiori godano la confidenza degli inferiori! È questo l'unico mezzo per fare sì che l'Oratorio divenga un paradiso terrestre, è questo l'unico mezzo perchè in casa non ci sia nessun malcontento. D. Bosco è qui tutto pel vostro bene spirituale e temporale. Se il superiore desidera qualche cosa da voi ve lo dice subito, così voi se desiderate qualche cosa da lui non chiudetela nel cuore; palesatela. Se voi farete così, tutto andrà bene e sarete contenti. Qualcheduno trova forse che qualche cibo gli fa male? Non è coperto abbastanza in camerata? Avrà bisogno di ripararsi dal freddo lungo il giorno? Me lo dica ed io procurerò di contentarlo in tutte le domande ragionevoli, secondo mi permette la povertà della nostra casa. Qualchedun altro non si sente troppo bene in sanità? Ha qualche difficoltà nella scuola? Ebbe qualche malinteso col maestro o coll'assistente? Gli sembra che da qualcuno gli sia stato fatto torto? Son qua io per rimediare a tutto e state certi, che le vostre confidenze le serberò unicamente per me e per vostro vantaggio. Ma per carità che non si senta mai tra voi, giovani che si lamentino di cosa alcuna. Invece di lagnarvi e di criticare, venite da me. Noi desideriamo di contentarvi e a questo modo si potrà ovviare ad una quantità infinita di inconvenienti. Questo sia detto non solo delle cose corporali, ma molto più delle cose spirituali. Il demonio alle volte vi mette melanconia indosso. Ora è un pensiero della famiglia, ora un sospetto di non essere in grazia dei superiori, ora il timore che sia scoperta una mancanza e che sia punita, ora l'oppressione di essere in poco buona stima presso i compagni, ora lo scoraggiamento di non potere avanzare negli studii. Ebbene; volete levarvi di dosso questa melanconia? Venite da me e troveremo il mezzo per cacciarla e per rimediare.

                Ma ciò che sovratutto vi raccomando è, che quando il demonio venisse a tentarvi, non vi lasciate scoraggiare. Volete assicurarvi la vittoria? Il miglior mezzo è di manifestare subito la tentazione al vostro Direttore spirituale. Il demonio è l'amico delle tenebre, lavora sempre all'oscuro. Se viene scoperto egli è vinto. Un giovane era fortemente tentato, faceva tutto il suo possibile per resistere, ma era ad un punto che gli sembrava di [322] non poter più andare avanti in quella lotta. Per caso s'incontra col suo superiore, il quale dalla sua faccia rannuvolata indovinò qual fosse la cagione di quel suo travaglio. Chiamatolo a parte gli disse: - Perchè sei così melanconico? Certamente hai il demonio che ti fa guerra. - Il giovane guardò stupito il superiore, aprì il suo cuore e disse: - Sì! -Detto quel sì cessò ogni molestia.

 

3 DICEMBRE.

 

                Dalla confidenza in generale coi superiori ieri sono passato a parlarvi della particolare che dovete avere col confessore: quindi il fioretto sarà: Sincerità piena assoluta in confessione. Non abbiate paura di manifestare al confessore i vostri difetti, le vostre mancanze. L'essere buono non consiste nel non commettere mancanza alcuna: oh no! Purtroppo tutti siamo soggetti a commetterne. L'essere buono consiste in ciò: nello aver volontà di emendarsi. Perciò quando il penitente manifesta qualche mancanza al confessore, sia pur grave questa mancanza, il confessore guarda alla volontà e non fa le meraviglie: anzi prova la maggiore delle consolazioni che possa provare a questo mondo, vedendo che quel tale gli ha confidenza, che desidera di vincere il demonio e mettersi in grazia di Dio, che vuole avanzarsi nella virtù. Nulla, o miei cari figliuoli, vi tolga questa confidenza. Non la vergogna: le miserie umane si sa, sono miserie umane. Non andate mica a confessarvi per raccontar miracoli! Bisognerebbe che ci vi credesse impeccabili e voi stessi ridereste di questa sua opinione. Non la paura che il confessore possa palesare un segreto così terribile per lui, poichè la minima venialità palesata basterebbe a farlo condannare all'inferno. Non il timore che si ricordi poi di ciò che avete confessato: fuori di confessione è suo dovere il non pensarvi. Il Signore ha già permesso ogni sorta di delitti. Ha permesso che Giuda lo tradisse, che Pietro lo negasse, che preti si facessero protestanti, ma non ha mai permesso che un confessore dicesse la più piccola cosa udita in confessione. Coraggio adunque, o figliuoli miei; non facciamo ridere il demonio. Confessatevi bene, dicendo tutto. Alcuno domanderà: E chi avesse taciuto qualche peccato in confessione come deve fare a rimediarvi [323]? Guardate: al mattino se mettendomi la veste e abbottonandola salto un bottone, che cosa faccio? Sbottono tutta la veste, finchè arrivo dove c’è il bottone rimasto fuori di posto. Così chi ha da rimediare ad un peccato taciuto, rifaccia tutte le confessioni fino a quella, nella quale tacque il suo peccato e così tutti i bottoni saranno a posto e la veste non farà gobba. Lo dice il Catechismo. Dall'ultima confessione ben fatta fino a quella che si vuol fare. Da bravi, figliuoli! Con una parola si tratta di schivare l'inferno e guadagnarvi il paradiso. E cosa di un momento: il confessore vi aiuterà e voi sapete che siamo amici e desidero una cosa sola; la salvezza dell'anima vostra.

 

                Mentre nell'Oratorio tutti andavano a gara nell'onorare Maria SS., D. Bosco compieva un atto nobilissimo della sua missione. Il 10 novembre 1859 erano state formalmente stabilite in Zurigo le convenzioni di Villafranca e di Verona, ma egli aveva subito intuito che le cose erano composte in pace, solo momentaneamente. Tutto gli dimostrava che non sarebbero più restituite al Papa le Legazioni e che la presidenza onoraria del medesimo sulla Confederazione degli Stati Italiani era una lustra ed un'ironia. Vedeva il Pontefice scrivere più volte lettere di preghiera, di consiglio, di protesta all'Imperatore di Francia e al Re di Piemonte e di queste non farsene conto alcuno. Anzi gli emissarii delle sette continuavano a congiurare per commuovere le città dell'Umbria e delle Marche; tentavasi di sedurre i soldati pontificii, che in quelle stavano di guarnigione, e si introducevano in gran copia armi, polveri, danari e stampe sovversive. Garibaldi era a Bologna, pronto ad agire. I giornali liberali calunniavano il Governo Pontificio e fra le altre cose scrivevano, d'aver egli fatto mettere in prigione ed insultare i volontarii romani reduci dalla guerra dell'indipendenza; mentre invece Pio IX aveva soccorso generosamente i più bisognosi di essi. [324] Era eziandio evidente che il fine ultimo dei settarii era quello di abbattere il potere spirituale del Papa e mille volte lo avevano annunciato nei loro libri e giornali, non sempre però apertamente. Ma ciò che allora si tramava anche da una tenebrosa diplomazia, era svelato qualche anno dopo al cospetto dell'intero mondo.

                Il Diritto, giornale della democrazia italiana, del quale era Direttore il deputato Civinini, carne ed unghia col grande Oriente d'Italia stampava l'11 agosto 1863 a caratteri tondi: “La nostra rivoluzione tende a distruggere l'edificio della Chiesa Cattolica, e deve distruggerlo e non può non distruggerlo senza perire. Nazionalità, unità, libertà politica sono mezzi a quel fine: mezzi utili a noi, ma, rispetto all'umanità, null'altro che mezzi, per conseguire il fine della totale distruzione del medio evo, nell'ultima sua forma, il cattolicismo”.

                E prima, l'8 marzo 1863, aveva stampato. “Il giorno in cui entreremo in Roma, non solo avremo fatta davvero l'Italia, ma avremo disfatto il Papato. E se quello riguarda noi, è utile nostro e nostro onore, questo riguarda il mondo, è utile a tutti, è progresso di tutta l'umanità”.

                Queste parole furono una chiusa esplicita di quelle, che il Barone Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dei Ministri, idolo incensato da tutto il liberalismo monarchico e conservatore, aveva proferito nelle Camere, quando il 1° luglio 1861 uscì a dire: - La rivoluzione italiana è grande rivoluzione, appunto perchè fonda un'era nuova. L'Italia ha avuto questo grande compito, di gettare le basi, non del proprio avvenire, ma dell'umanità intera”. (Atti ufficiali pag. 915)

D. Bosco adunque si rivolse al Re e non ostante la proibizione fattagli alcuni anni prima e la sua promessa, gli scrisse [325] una lettera per ritrarlo dall'abisso nel quale stava per gettarsi, o meglio verso il quale i mestatori lo spingevano. Egli obbediva ad un comando venuto ab alto. La sua era la missione di Geremia ai principi di Giuda. A D. Rua e a qualche altro dei suoi più fidi egli manifestò il tenore della comunicazione, che doveva fare al Re, per dissuaderlo da una nuova guerra, che si stava per intraprendere contro gli Stati Pontificii.

                La lettera, della quale pare non siasi conservata copia, incominciava così: - Dicit Dominus.- Regi nostro, vita brevis; ed accennava a nuove disgrazie che sarebbero venute alla dinastia Sabauda, se fosse continuata la guerra alla Chiesa, pregando Sua Maestà a stornare la tempesta addensatasi contro il Papa. Erano poche frasi concise, imperiose, e tali da lasciare una profonda impressione nell'animo.

                Il Sovrano rimase turbato alla lettura di quel foglio, il quale però non ottenne il suo effetto. Passata la prima impressione, si continuò a preparare la disgraziata impresa. Gli avvenimenti incalzavano e il Re non aveva più nè animo, nè mezzi, nè volontà di resistere alla rivoluzione.

                Il Re intanto aveva fatto vedere quella lettera ai ministri, fra i quali Urbano Rattazzi, ed essi ne raccontarono il contenuto ad alcuni degli altri impiegati dei loro decasteri. Da uno all'altro la notizia si diffuse in tutte le sfere governative e uscì fuori nella città. Dicevasi che D. Bosco avesse minacciato la morte a Vittorio Emanuele. Ma il Servo di Dio esponendo a D. Rua e ad altri, come abbiamo detto sopra, il tenore di questa sua lettera, aveva soggiunto: In tanti modi si può spiegare quella parola: Vita brevis, senza attribuirle un senso prettamente materiale.

                Il Barone Bianco di Barbania, devoto come tutti i nobili piemontesi alla Casa Reale, disse a noi che scriviamo, nel [326] 1875: - Io ebbi in mano la lettera di D. Bosco al Re. Lessi co' miei stessi occhi quelle parole Regi nostro, vita brevis e da quell'istante in poi stetti sempre attendendo gli avvenimenti ......

                Dagli avvenimenti narrati poi nella Storia e dal proseguimento delle nostre Memorie biografiche si potranno giudicare queste enigmatiche parole di D. Bosco; e nello stesso tempo si avrà una prova novella dell'affetto sincero che il Servo di Dio nutriva per il suo Re Vittorio Emanuele e per la dinastia Sabauda.

 

 

CAPO XXIV. Conferenze di D. Bosco a que’ suoi collaboratori che spera rimarranno nell'Oratorio: Essere pochi e poveri non è d'impedimento a grandi imprese: Premio dell'obbedienza: Nessuno è profeta nella sua patria - D. Bosco propone a' suoi collaboratori di costituirsi in società religiosa - Commenti, predizioni e risoluzioni - La Pia Società di S. Francesco di Sales è costituita - Verbale della proclamazione del Rettor Maggiore e dell'elezione dei membri del primo Capitolo o Consiglio.

 

                Abbiamo già detto come D. Bosco avesse scelto e formato un piccolo nucleo di preti, di chierici e di giovani, al quale aveva aperto il suo pensiero di istituire una Congregazione Religiosa. Ei li considerava come il sostegno principale dell'Oratorio, come suoi fidi collaboratori. Alcuni avevano fatto come per prova, e di un anno solo, i tre voti, altri la semplice promessa di perseveranza nell'aiutare D. Bosco, e tutti assistevano a speciali conferenze per mantenere buono il proprio spirito e quello della casa.

                Qui notiamo come tali conferenze tenute da D. Bosco, in quanto ai socii che vi prendevano parte, non fossero deliberative, ma sibbene consultive o spiegative: cioè consistevano [328] in spiegar bene il Superiore la sua volontà, finchè non fosse perfettamente intesa. Quindi improntava in tutti la stessa idea e così profondamente, che quando ai suoi preti veniva annunziato: - L'ha detto D. Bosco! D. Bosco vuole la tal cosa! - nessuno pensava a muover dubbio o a sottrarsi all'obbedienza.

                Questo è il carattere che desiderava avessero tutte le conferenze future nelle case. Non tanti a deliberare su cose che, secondo la regola, competono al Superiore. Un solo pensi e spieghi la sua idea: il Direttore. Gli altri obbediscano.

                D. Bosco più volte in queste radunanze aveva loro accennato ad opere importanti che i suoi figli riuniti in società avrebbero potuto compiere. Talora alcuno gli rispondeva: - Ma come far tante cose, mentre siamo così pochi? - Ed egli: - Ti risponderò con una massima di S. Vincenzo de' Paoli: “Nelle gravi necessità è tempo di far vedere, se veramente confidiamo in Dio. Credetemi che tre operai fanno più che dieci, quando Dio vi mette la mano; e ve la mette sempre quando ci pone in necessità di far cose eccedenti le nostre forze”.

                Altri esclamava: - Siamo così poveri! - e D. Bosco diceva: - “La povertà è la nostra fortuna, è la benedizione di Dio! Anzi preghiamo il Signore a mantenerci in povertà volontaria. Gesù Cristo non incominciò da una mangiatoia e terminò sulla croce?... Chi è ricco ama starsene in riposo, quindi l'amore alle proprie comodità e soddisfazioni, e la vita oziosa. Lo spirito di sacrifizio si spegne. Leggete la Storia Ecclesiastica e troverete infiniti esempi, dai quali risulta che l'abbondanza dei beni temporali fu sempre la causa della perdita di intere comunità, le quali, per non avere conservato fedelmente il loro primo spirito di povertà, [329] caddero nel colmo delle disgrazie. Quelle invece che si mantennero povere, fiorirono meravigliosamente. Chi è povero pensa a Dio e ricorre a lui e vi assicuro che Dio provvede sempre il necessario, il poco e il molto. Chi invece vive nell'abbondanza si dimentica facilmente del Signore. E non vi pare una gran fortuna di essere costretti a pregare? E finora ci mancò qualche cosa, che ci fosse necessaria? Non dubitate; i mezzi materiali non ci mancheranno mai in proporzione dei nostri bisogni e di quelli dei nostri giovani”.

                Nel mese di novembre stringeva i suoi argomenti accennando alla difficoltà che alcuni provano nel dover allontanarsi dalla propria casa. D. Bosco diceva: - “Abramo abitava nella città di Hur in Caldea. Dio lo aveva scelto a dar principio ai suoi misericordiosi disegni per la redenzione del mondo. Perciò gli apparve e gli disse: - Abramo! Parti dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla casa del padre tuo, lascia le tue possessioni e gli amici e vieni nella terra che io ti additerò. E ti farò capo di una nazione grande e ti benedirò e farò grande il tuo nome e sarai benedetto.

                Poteva ben dire il Signore ad Abramo che vivesse solamente un po' più separato dai tumulti del mondo e dagli affari in una regione infetta dall'idolatria. Ma no! Dio lo vuole obbediente, pronto a lasciare la patria e ad esporsi a lungo e disastroso pellegrinaggio per amor suo. È questa la condizione posta al Patriarca per il conseguimento della gloria promessa.

                Ed Abramo non esitò e partì senza sapere ove andasse: Veni in terram quam monstrabo tibi. E si mantenne obbediente fino ad esser pronto al sacrifizio del suo unico figlio. E quale gloria ne venne a lui! Per me medesimo ho giurato, disse il Signore; io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l'arena, che è [330] sul lido del mare e come la polvere della terra. Se alcuno degli uomini può contare i granelli della polvere della terra, potrà anche contare i tuoi posteri. Il tuo seme s'impadronirà delle porte de' suoi nemici; e nel seme tuo saran benedette tutte le nazioni della terra, perchè hai obbedito alla mia voce. - Avendolo trovato pronto a lasciar tutto per Lui, lo fa padrone di un intero regno e lo mette a parte dei più alti suoi disegni, manifestandogli gli arcani decreti della sua giustizia e misericordia”.

                Con questo esempio D. Bosco dimostrava la necessità e i vantaggi per ognuno di seguire una vocazione celeste a costo di qualunque sacrifizio, anche delle stesse affezioni di famiglia, avendo Gesù Cristo proclamato: “Chiunque avrà abbandonato la casa, o i fratelli o le sorelle, o il padre o la madre, o i figliuoli o i poderi per amor del mio nome, riceverà il centuplo e possederà la vita eterna. E chi ama suo padre e sua madre... più di me, non è degno di me.”

                Altra volta trattando di questo argomento aveva esposto, una ragione di convenienza per la vita ecclesiastica o religiosa lontana dal proprio paese. E aveva detto: - “Quasi tutti i profeti giunto il momento di esercitare il loro eccelso, ministero si allontanavano dai luoghi, ove avevano abitata, nella loro fanciullezza. Mandati da Dio si recavano in paesi remoti, ove erano bene accolti e predicavano ai popoli. Nelle loro patrie invece o non erano ricevuti ovvero, e sovente, perseguitati, imprigionati, battuti, e se riuscivano a sfuggire una morte crudele, si ritiravano in un deserto. Elia ed Eliseo non in patria risuscitarono morti, moltiplicarono l'olio e il vino ed operarono altri portenti.

                Lo stesso Divin Salvatore la prima volta che si presenta in pubblico nella sua patria, Nazareth, a spiegare la Bibbia nella sinagoga, è ammirata per un istante la sua [331] sapienza, ma ben presto i suoi concittadini si accendono di sdegno per qualche giusta sua rimostranza. - Non è egli costui il figlio del falegname Giuseppe? E che! Vuol fare il Dottore in mezzo a noi? - E mettendo in dubbio i suoi miracoli gli gridano: - Tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte da te in Cafarnao falle anche qui nella tua patria. - E Gesù risponde loro: - Amen dico vobis, quia nemo propheta acceptus est in patria sua. - E i suoi compatriotti non vogliono più ascoltarlo, si alzano, lo cacciano furiosi fuori della città e lo conducono sino alla vetta del monte, sul quale era fabbricata Nazareth per gettarle in un precipizio.

                E Gesù con un miracolo evidente impedisce che gli mettano le mani addosso, passa in mezzo a quella turba d'insensati e discende a Cafarnao. Mai più vi ritornò a Nazareth. Andava a pernottare e a prender cibo a casa di Pietro, di Lazzaro, di Nicodemo e di Giuseppe d'Arimatea, secondo l'opinione di alcuni, oppure a casa di qualche altra persona caritatevole, ma non mai a mangiare o a dormire nella sua abitazione materna.

                Era questa una lezione che il Divin Salvatore dava ai suoi discepoli. Infatti l'invidia, la gelosia, la malignità, l'amor proprio offeso, i dissidii tra famiglia e famiglia, qualche interesse materiale, i partiti politici, le stesse conseguenze di uno zelo amante del bene delle anime e della Chiesa, combattono quasi sempre e sovente in modo terribile un religioso, per quanto santo egli sia, se vive in patria.

                E se non fosse sempre stato santo? Allora si può asserire con assoluta certezza che, umanamente parlando, egli in patria non potrà fare un gran bene. Il motivo di ciò è chiaro. Ciascheduno nella sua patria trascorse l'età della fanciullezza e si sa che in tale età tutti, anche i virtuosi, chi più [332] chi meno avrà commesso qualche piccolo o anche grave fallo, che potrebbe venir divulgato da quelli che lo conoscono.

                Uno ad esempio avrà avuto a contendere con un altro, e troppo vivacemente; in qualche circostanza avrà bevuto vino un po' fuor di misura; talora si sarà associato con un cattivo compagno; avrà fatto discorsi poco buoni; sarà andato a gettarsi a nuoto nel fiume, avrà talora rubacchiato frutta in campagna, o qualche soldo in famiglia e via via. Ora sia pure costui un bravo predicatore, ma salga in pulpito nella sua patria, gridi contro qualche peccato vi sarà sempre chi dirà: - Ma se anche tu hai fatto così. Tu con me hai fatto questo, hai fatto quello, hai detto questa o quell'altra cosa. - E tali dicerie ripetute anche senza malizia in pubblico, guastano maggior parte del buon effetto delle prediche e talora contrabilanciano e distruggono tutto il bene, che si sarebbe potuto conseguire. Sono cose da poco spesse volte, cose da ragazzo, ma messe insieme in tale occasione riescono perniciosissime.

                Mi sono trovato in un paese in mezzo a compagnia di ragguardevoli persone. In parrocchia un predicatore degno d'ogni lode per pietà, per eloquenza e per dottrina, dettava un corso di esercizi spirituali. Ma era in sua patria, e il discorso cadde su di lui; saltò su uno di quelli che erano vicini a me e disse: - Quel predicatore da giovanetto era un prepotente ed io l'ho schiaffeggiato.

                - Sì? e come? tutti domandarono.

                - Mi aveva insultato ed io gli diedi due schiaffi. I suoi parenti vennero ed attaccarono briga coi miei; ed io aspettai quell'insolente in un luogo fuori del caseggiato e ai primi due schiaffi glie ne aggiunsi altri quattro. Oh sì! quando era piccolo faceva le sue; per verità ora è buono, ma allora,

                oh! allora - e non spiegò l'ultima sua frase. [333]

                Io fui rattristato da queste parole e finii con dire fra me stesso: ciò mi conferma sempre più che nemo propheta in patria sua”.

                Quindi D. Bosco dopo aver accennati eziandio i pericoli gravissimi che può correre nel proprio paese un chierico anche buono, ma di debole virtù, proseguiva domandando:

                “E chi vuole allontanarsi dalla patria dove andrà? Con quali mezzi si sostenterà? Ove troverà l'appoggio, la guida che lo conduca per una via sicura?”

                E dopo aver enumerato i bisogni spirituali e temporali di un prete secolare, passò a dimostrare come una congregazione religiosa fosse il porto sicuro nel quale, chi ha vocazione e volontà di conservarla, si sarebbe potuto ricoverare. Ivi troverebbe pace, sicurezza ed ogni altro bene anche materiale.

                Intanto erasi celebrata solennemente nell'Oratorio la festa dell'Immacolata Concezione di Maria SS. e D. Bosco in quella sera annunciava in pubblico come il domani, venerdì, avrebbe tenuta una conferenza speciale in sua camera dopo che i giovani si fossero ritirati a riposare. Quelli che dovevano intervenire intesero l'invito. I preti, i chierici, i laici che cooperavano alle fatiche di D. Bosco nell'Oratorio e ammessi entro alle segrete cose, presentivano che quella radunanza doveva essere importante.

                Il 9 dicembre adunque 1859 si radunarono.

                Invocato colle solite preghiere il lume dello Spirito Santo e l'assistenza di Maria SS., fatto cenno di ciò che aveva esposto nelle precedenti conferenze, D. Bosco descrisse che cosa fosse una congregazione religiosa, la bellezza di questa, l'onore immortale di chi si consacra tutto a Dio, la facilità di salvare l'anima propria, il cumulo inestimabile di meriti [334] che si può acquistare coll'obbedienza, la gloria immarcessibile e la doppia corona che attende il religioso in paradiso.

                Quindi con visibile commozione annunziò essere venuto il tempo di dare forma a quella Congregazione, che da tanto tempo egli meditava di erigere e che era stato l'oggetto principale di tutte le sue cure; che Pio IX aveva incoraggiata e lodata; che già esisteva coll'osservanza delle regole tradizionali, benchè non ancora dichiarate obbligatorie in coscienza, alla quale la massima parte di loro apparteneva almeno in ispirito e alcuni per promessa o voto temporaneo. Aggiunse che in tale Congregazione sarebbero stati ascritti solamente coloro, che, dopo matura riflessione, avessero intenzione di emettere a suo tempo i voti di castità, povertà ed obbedienza.

                Quindi concluse essere giunto per tutti quelli che frequentavano le sue conferenze, il momento per dichiarare se volevano o non volevano ascriversi alla Pia Società che avrebbe preso, anzi conservato, il nome da S. Francesco di Sales. Coloro che non avessero intenzione di appartenervi essere pregati a non venir più alle conferenze, che egli terrebbe in avvenire. Il non presentarsi sarebbe segno senz'altro di non avere essi aderito. Dava a tutti una settimana di tempo per riflettere e trattare quell'importante affare con Dio.

                Come D. Bosco ebbe finito, si recitò la preghiera di ringraziamento e l'assemblea si sciolse in profondo silenzio. Usciti da quella camera, e quando si fu nel cortile, più d'uno disse sotto voce: - D. Bosco ci vuol fare tutti frati!

                Il Ch. Cagliero Giovanni era indeciso se dovesse o no prendere parte alla nuova Congregazione. Passeggiò per lunga ora sotto i portici agitato da varii pensieri: finalmente esclamò volgendosi ad un amico: - O frate o non [335] frate, intanto è lo stesso. Son deciso, come lo fui sempre, di non staccarmi mai da Don Bosco! - Quindi scriveva un biglietto a D. Bosco col quale dicevagli rimettersi pienamente ai consigli e alla decisione del suo superiore. E D. Bosco incontrandolo guardollo sorridendo e poi: - Vieni, vieni, gli disse: questa è la tua via!

                La conferenza di adesione alla Pia Società fu tenuta il 18 dicembre 1859. Due soli non si presentarono. Dal seguente verbale esistente nei nostri archivii risulterà quanto si fece.

 

                “Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

                L'anno del Signore mille ottocento cinquantanove alli 18 di dicembre, in questo Oratorio di S. Francesco di Sales nella camera del Sacerdote Bosco Giovanni alle ore nove pomeridiane si radunavano: Esso, il Sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo Diacono, Rua Michele Suddiacono, Cagliero Giovanni, Francesia Giov. Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Giovanni, Anfossi Giovanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chiapale Luigi, tutti allo scopo ed in uno spirito di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell'opera degli Oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell'empietà ed irreligione.

                Piacque pertanto ai medesimi Congregati di erigersi in Società o Congregazione, che avendo di mira il vicendevole aiuto per la santificazione propria, si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente delle più bisognose d'istruzione e di educazione; ed approvato di comune consenso il disegno proposto, fatta breve preghiera ed invocato il lume dello Spirito Santo, procedevano alla elezione dei Membri, che dovessero costituire la direzione della Società per questa e per nuove Congregazioni, se a Dio piacerà favorirne l'incremento.

                Pregarono pertanto unanimi Lui iniziatore e promotore a gradire la carica di Superiore Maggiore, siccome del tutto a lui [336] conveniente, il quale avendola accettata colla riserva della facoltà di nominarsi il Prefetto, poichè nessuno vi si oppose, pronunziò che gli pareva non dovesse muovere dall'Uffizio di prefetto lo scrivente, il quale fin qui teneva tal carica nella casa.

                Si pensò quindi tosto al modo di elezione per gli altri soci, che concorrono alla Direzione; e si convenne di adottare la votazione a suffragi segreti, per più breve via, a costituire il Consiglio, il quale doveva essere composto di un Direttore Spirituale, dell'Economo e di tre Consiglieri in compagnia dei due predescritti uffiziali.

                Or fatto segretario a questo scopo lo scrivente, protesta d'aver fedelmente adempito l'uffizio commessogli di comune fiducia, attribuendo il suffragio a ciascuno dei socii, secondochè veniva nominato in votazione; e quindi essergli risultato nella elezione del Direttore Spirituale all'unanimità la scelta nel Chierico Suddiacono Rua Michele, che non se ne ricusava. Il che ripetutosi per l'Economo riuscì e fu riconosciuto il Diacono Angelo Savio, il quale promise altresì di assumere il relativo impegno.

                Restavano ancora da eleggere i tre consiglieri; pel primo dei quali, fattasi al solito la votazione, venne il Chierico Cagliero Giovanni. Il secondo consigliere sortì il Chierico Giovanni Bonetti. Pel terzo ed ultimo essendo riusciti eguali i suffragi a favore dei Chierici Ghivarello Carlo e Provera Francesco, fattasi altra votazione, la maggioranza risultò pel Chierico Ghivarello, e così fu definitivamente costituito il corpo di amministrazione per la nostra Società.

                Il quale fatto, come venne fin qui complessivamente esposto, fu letto in piena Congrega di tutti i prelodati socii ed uffiziali pur ora nominati, i quali, riconosciutane la veracità, fermarono che se ne conservasse l'originale, a cui per l'autenticità si sottoscrive il Superiore maggiore e il redattore come segretario.

Sac. Bosco Giov.

ALASONATTI VITTORIO Sac. Prefetto.

 

                Così era costituito il primo Capitolo, che poi fu denominato Capitolo Superiore, mentre tutti i primi soci, che intervennero ad eleggerlo ebbero il nome di membri nati della [337] Pia Società. Quelli che non aderirono a farsi iscrivere, furono lasciati in piena libertà di seguire la loro inclinazione, continuarono a godere la beneficenza dell'Oratorio, compirono felicemente i loro studi, conseguirono la dignità sacerdotale e furono sempre gli amici di D. Bosco.

                Procedendo nelle nostre memorie storiche accenneremo alle sedute del Capitolo fino all'anno 1865, perchè non è possibile andare più oltre, moltiplicandosi all'infinito tale argomento. Però nomineremo non solo quelli, i quali in questi sei anni furono accettati nella Società Salesiana e rimasero fedeli alle loro promesse: ma anche gli altri che fattisi inscrivere, non essendo legati da verun obbligo, giudicarono poi di essere chiamati in altro campo dalla Divina Provvidenza. Di questi è cosa doverosa fare onorevole menzione, perchè prima di ritirarsi, per un tempo notevole lavorarono indefessi ai fianchi di D. Bosco, per educare ed istruire i suoi giovanetti; e anche lontani col titolo di cooperatori si vantano di aver militato sotto la gloriosa bandiera di S. Francesco di Sales.

                Non mancheremo di seguire tuttavia passo passo il crescere, il moltiplicarsi e l'estendersi della Famiglia Salesiana che si può e deve dirsi Istituzione di Maria SS.; e vedremo quanto coraggio e costanza ebbe D. Bosco, fra persecuzioni, dolori e disinganni, nel compiere la missione, che la Madre celeste aveagli affidato.

 

 

CAPO XXV. Critiche mosse a D. Bosco: per le comunioni frequenti de' suoi giovani: per i suoi maestri che non vanno alle scuole del Seminario: Per gli studii teologici giudicati insufficienti - Timore che i migliori chierici rimangano con D. Bosco e brighe per staccarli da lui - Lettera di D. Bosco al Can. Vogliotti pel servizio della Cattedrale - D. Bosco accusato di voler essere indipendente dall'Autorità ecclesiastica - Non si vede bene che i chierici si preparino a conseguire patenti di maestro e lauree - I pericoli dell'Università - Accuse scritte a Mons. Fransoni contro D. Bosco e difesa del Can. Nasi - Parole dell'Arcivescovo in lode di D. Bosco - Gli amanti del bene sono amici di D. Bosco.

 

                Ottime erano le attinenze di D. Bosco colle supreme autorità della Diocesi. I Vicarii generali, Ravina e Fissore lo sostennero sempre, mentre nel canonico Zappata contava un amico. La massima parte dei sacerdoti si mostrava a lui favorevole. Egli era tranquillo e sicuro in tutto ciò che faceva, avendo la piena approvazione di D. Cafasso. Non gli mancavano però oppositori in personaggi influenti del clero, persone pie e dotte. Tale opposizione più o meno intensa era incominciata fin dal 1844 [339] e durò fino al 1883. Si avverava un antico proverbio: “Un prete se è cattivo lo castigano, se è buono lo sostengono, se è santo lo osteggiano”. La cosa è naturale; il prete santo, tale si dimostra con azioni straordinarie, e finchè non è ben conosciuto, una prudenza elementare insegna che bisogna andare cauti nell'emettere un giudizio; di più quest'uomo superiore agli altri pare talvolta che esca da quell'ordine stabilito, al quale si conformano tutti i suoi confratelli e quell'esimersi da costumanze comuni sembra ostentazione e novità riprensibile. E poi... e poi sarà per poco.. ma c'entra anche inavvertita la miseria umana.

                La prima accusa che si faceva a D. Bosco era che egli concedesse con troppa facilità la S. Comunione ai giovanetti. Infatti tale frequenza la raccomandava sempre a quelli, che raccoglieva negli Oratorii festivi e fu il primo che introdusse la comunione quotidiana in un istituto maschile. Tale costumanza era biasimata da più ecclesiastici di Torino e da Direttori di Seminarii, perchè il giansenismo aveva ancora non poche radici nel clero.

                Ma D. Bosco era della scuola di D. Cafasso e perciò di quella di S. Alfonso; il suo spirito era quello della Chiesa cattolica, come risulta evidentemente dal concilio di Trento fino alle ultime dichiarazioni di Pio X. Egli però non si perdette mai in disputazioni aride; la sua vita era più pratica che teoretica. Con poche parole rispondeva ai suoi oppositori. Uno di questi un giorno venne a fargli un'osservazione:

                - Chi avrà tali disposizioni da poter fare ogni giorno la comunione, mentre lo stesso S. Luigi non la faceva che una volta alla settimana?

                - Quando si trovi uno, risposegli D. Bosco, che sia perfetto e fervoroso come S. Luigi, allora potrà bastargli la Comunione una sola volta alla settimana; poichè egli [340] soleva impiegare tre giorni a prepararsi e tre altri li passava in continuo ringraziamento: quindi per lui bastava il comunicarsi ogni otto giorni per mantenere acceso il fervore del suo cuore.

                Ad un altro che gli opponeva il detto di S. Francesco di Sales, che cioè egli nè loda, nè vitupera la Comunione quotidiana, D. Bosco rispondeva: - E perchè dunque lei la biasima? Non la disapprovi neppur lei.

                Questi signori però non osservavano quanta cura mettesse D. Bosco perchè le comunioni si facessero bene. Era suo principio che il solo peccato mortale fosse il vero ostacolo che impediva l'accostarsi alla Mensa Eucaristica; e non concedeva la Comunione quotidiana a coloro che portassero affetto al peccato veniale. E suggeriva un limite alla frequenza delle confessioni, raccomandando ai preti, ai chierici, agli alunni, che ordinariamente andassero a confessarsi una sola volta alla settimana e di tenere un confessore stabile. Tuttavia soggiungeva, specialmente ai giovanetti: - Piuttosto che fare una Confessione e Comunione sacrilega, cambiate anche tutte le volte il confessore.

                Ma gli importuni consiglieri non si ristavano dal tentare di fargli mutar sistema. Ci scrisse il Can. Prof. Anfossi: “Una sera dell'autunno avanzato, non so più precisare l'anno, ma è verso il 1858 o 1859, entrò nell'Oratorio il sacerdote C... stimato ed influente in società. Era uomo di carattere burbero, che non conosceva molto l'arte di farsi avvicinare dalla gioventù, infelice sempre nelle sue intraprese per mancanza di buono spirito, e che sosteneva non doversi incominciare fondazioni di carità senza il beneplacito e l'appoggio del Governo. Quanto diverso da D. Bosco che cercò sempre e solamente l'approvazione della Chiesa e la benedizione del Papa! Lo vidi entrare questo signore nell'Oratorio di [341] S. Francesco; il cortile era deserto, essendo i giovani nello studio o nei laboratorii. Mi feci incontro a lui, e avendomi egli detto che voleva parlare a D. Bosco, lo condussi nel piccolo parlatorio che era al primo piano, presso l'ufficio di D. Alasonatti, quindi andai a cercare D. Bosco. Finita la conversazione di questi due uomini, io che attendeva fuori, accompagnai quel prete alla porteria e poi presto raggiunsi D. Bosco, il quale mi disse.

                - Sai che cosa mi venne a dire quel prete?

                - No, signore, risposi.

                Mi venne a rimproverare, soggiunse, perchè io eccito i miei giovani a frequentare troppo i Sacramenti; basta nelle feste principali dell'anno, mi diceva; altrimenti diventano impostori. Io risposi, continuava D. Bosco, che i risultati dell'educazione religiosa ch'io dava ai giovanetti, mi procacciavano delle consolazioni e frutti grandissimi di virtù e che quella era la dottrina dei più grandi santi. Ma D. C... persisteva nella sua idea. Allora io mi alzai invitandolo a riferire tali idee a D. Cafasso. Ma D. C... non si presentò certo a D. Cafasso. Costui era di quelli che accusavano D. Bosco di respingere i consigli delle persone prudenti”.

                Oltre a ciò  da questi uomini prudenti altra critica facevasi a D. Bosco. Non volevasi tener conto dell'essere stato l'Oratorio per anni, ed esserlo ancora, il luogo d'asilo per tanti chierici dell'Archidiocesi, essendo il Seminario di Torino sempre occupato dal Governo. Non si conosceva la natura dell'istituzione di D. Bosco, che era principalmente di aiutare le vocazioni allo stato ecclesiastico. Non si comprendeva l'importanza di un'opera destinata a provvedere sacerdoti a tutte le diocesi del Piemonte e di altri Stati anche fuori d'Italia. Quindi si vedeva con più o meno freddezza [342] che D. Bosco oltre i poveri artigianelli, si occupasse degli studenti e dei chierici. Nella loro sapienza lo giudicavano inetto all'educazione del giovane clero.

                Il malumore apparve più vivo quando D. Bosco fu costretto a non mandare alle scuole di Teologia in Seminario ed a ritenere in casa alcuni pochi chierici assolutamente necessarii in qualità di maestri nelle classi ginnasiali. Quantunque egli avesse di ciò fatta parola al Vicario Generale, riceveva un avviso che suonava, rimprovero dalla Curia Arcivescovile, come se egli in questo caso volesse sottrarsi alle disposizioni dichiarate dall'autorità ecclesiastica. Ma il Servo di Dio o doveva servirsi di mezzi proprii, cioè di quei chierici, non potendo trovare altri maestri, o rassegnarsi a non più mantenere l'opera sua, anzichè svilupparla ed allargarla come egli era fermamente deciso. La Curia udite le sue ragioni concesse la chiesta dispensa: e D. Bosco raccomandò, insistendo vivamente, al detti chierici maestri che studiassero bene i trattati imposti dal programma del Seminario; e li mandava regolarmente a subire gli esami in Curia. E non li lasciava abbandonati a se stessi, poichè il Teol. Berta faceva loro ripetizione in casa propria nelle Domeniche e nei giorni di vacanze.

                Ma tutti gli altri suoi chierici non addetti alle scuole dell'Oratorio, li tenne soggetti, senza eccezione e per lunghi anni ai regolamenti diocesani.

                Si mormorava eziandio che i chierici di D. Bosco distratti dalle varie e gravi occupazioni, non potessero conseguire la necessaria scienza teologica. “Ma io posso invece attestare, scrisse il Teol. Bongiovanni Domenico, che i chierici dell'Oratorio davano prove di studio indefesso, e poi molti di essi spiccarono per dottrina fra i seminaristi medesimi e si abilitarono a conseguire la laurea anche in teologia [343].” E i registri dei voti da questi ottenuti negli esami, aggiungono una prova alla suddetta affermazione.

                Erano anche guardati da taluno con occhio geloso e diffidente, e si diceva che D. Bosco, tenendoli per sè e per la sua piccola Congregazione, toglieva alla diocesi soggetti di migliore ingegno e speranze. E non si voleva capire come fosse al tutto naturale, che egli ritenesse quelli sui quali poteva contare di più. D'altra parte mentre egli privava una diocesi di un prete o di un chierico, per mezzo del medesimo ne tirava su centinaia di altri, o con gratuita o con modica pensione, i quali senza D. Bosco non avrebbero potuto intraprendere la carriera degli studii e sarebbero certamente mancati alla Chiesa. Ma certi zelanti non potevano di ciò persuadersi, essendo allora l'avvenire nelle sole mani di Dio, quindi a quei pochi che si fermavano nell'Oratorio, coadiutori necessarii per continuare la grande opera, e che a D. Bosco erano costati tanto denaro e fatiche, tendevano insidie da essi giudicate atti di carità. Cercavano di allettarli ad abbandonare il loro benefattore con promesse di pensioni in Seminario, di benefizii lucrosi, di carriere onorevoli. In questi imbrogli stringevano alleanza eziandio coi parenti dei chierici, e non poche volte riuscirono nel loro intento. Le amarezze che D. Bosco ebbe a provare per ciò furono grandi, e se l'Oratorio non cadde fu opera della Madonna.

                In questo stesso anno 1859 era sorta nuova difficoltà, per il servizio che prestava l'Oratorio alle funzioni della Cattedrale. Il Can. Vogliotti Rettore del Seminario e Provicario, mandava a chiamare D. Bosco e gli chiedeva che si continuasse tale prestazione ai canonici. D. Bosco prese tempo alcuni giorni per riflettere e poi così gli scriveva: [344]

 

                               Benemerito Signor Rettore,

 

                Ho pensato e ripensato sul modo di poter lasciar alcuni chierici liberi pel Servizio Religioso siccome Ella aveva parlato; ma l'ora in cui dovrebbero assentarsi coincide precisamente con quella in cui sonvi le funzioni negli Oratori, ove sono ripartiti ed impiegati tutti quanti.

                Il non aver l'aiuto nè da altri Sacerdoti, nè d'altri chierici, fa sì che i miei sono da mattino a sera occupati nel fare catechismi, scuola festiva, assistere giovani in chiesa e fuori, tanto in questa casa, quanto nelle chiese di Vanchiglia e di Porta Nova.

                Io mi sono tenuto soltanto il numero dei chierici, che mi era strettamente necessario. Se però occorrono solennità in cui siano necessari più chierici, volentieri mi aggiusterò come posso per tenerle libero quel numero che Le occorre.

                Il canonico Anglesio ha un buon numero di chierici, che non hanno la farragine di cose come abbiamo noi. Le sembra bene di indirizzarsi a lui? Ci pensi un poco.

                Il Sig. T. Gaude parlò al Ch. Molino per metterlo al clero di S. Filippo: ma qui abbiamo cerimonie, servizio ecc. e quel che è più ho bisogno di servirmene. Onde prego Lei a volermelo dispensare.

                Le mando la fede di buona condotta de' nostri chierici Del tempo delle vacanze; e mi raccomando per la revisione di S. Cornelio, mentre con pienezza di gratitudine mi professo

                Di V. S. Benemerita.

                Torino, 12 novembre 1859.

Obblig.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Per tali controversie, quantunque cortesi e deferenti, intorno ai chierici dell'Oratorio, vi furono alcuni i quali, ignorando lo stato delle cose, non mancavano di mormorare, accusando D. Bosco di voler primeggiare in diocesi e di armeggiarsi in ogni modo per non stare soggetto ai suoi [345] superiori. Talvolta infatti, benchè D. Bosco avesse sempre un retto fine in tutte le sue azioni, parve dare qualche appiglio ai critici. La sua Pia Società non era ancora approvata, e la Curia a malincuore tollerava certi atti, che pure erano, necessarii, perchè non si spegnesse la vita incipiente di quella. D'altra parte D. Bosco dopo i consigli del Papa e del suo Arcivescovo non poteva a meno, per raggiungere il suo scopo, di adoperare i mezzi che a quello conducevano. Da ciò nasceva qualche malinteso. Andando egli in Curia per avere qualche permesso talvolta gli fu negato; ed egli senza far cenno della sua missione e de' suoi progetti, usciva un giorno in queste espressioni: - Ma signori! Nulla io chiedo per me; badino! Servo la diocesi e non ho stipendio di sorta; lavoro unicamente pel bene delle anime: non domando altro, che di poter lavorare per la gloria di Dio.

                Quando udiva qualcuno interpretare sinistramente le sue intenzioni, come se operasse per spirito d'indipendenza, egli soggiungeva: - Si osservino pure tutte le opere mie e tutti i miei scritti e si conoscerà da quale spirito io sia animato. Si guardi pure alla mia vita pubblica e a ciò che vado facendo, e se c’è qualche cosa di biasimevole, io sono ben contento di correggerla. Mi si avverta soltanto, ma in modo concreto e non vago e indeterminato.

                Finalmente non mancarono di quelli che trovavano argomento di critica e facevano le meraviglie di una saggia risoluzione di D. Bosco. Per lui era cosa evidente che gli uomini politici, a dispetto della legge Casati, sarebbero stati di anno in anno sempre più ostili alla libertà d'insegnamento; e che avrebbero posto gravi incagli, affinchè gli ordini religiosi e i sacerdoti in generale non potessero più attendere nè al pubblico, nè al privato insegnamento, sia scentifico che letterario. - È finita, egli andava dicendo; i tempi [346] sono cattivi e non cambieranno così presto. Noi, fra alcuni anni, dovremo o chiudere le nostre scuole, od avere maestri e professori patentati per insegnare.

                Perciò aveva già prima messi a studiare parecchi suoi chierici, perchè potessero presentarsi agli esami di corso normale e fornirsi delle patenti per le scuole elementari. A questo scopo s'intese con un bravo insegnante che veniva in tempo di vacanza a dar loro regolarmente le sue lezioni, sicchè non pochi fecero eccellente prova.

                Allo stesso modo ne preparava alcuni fra i più distinti per il conseguimento delle lauree; e fra i Superiori di Congregazioni religiose fu il primo, e il solo allora, a prendere questo provvedimento, facendo ascrivere alla Regia Università di Torino i suoi alunni per compiere i corsi di Delle Lettere, di Filosofia e di Matematica, come ci afferma il Can. Anfossi, che fu uno di questi. Non li dispensava però mai dal presentarsi agli annuali esami di Teologia.

                Con ciò D. Bosco dimostrava la necessità che il clero si armasse colla esigenza delle leggi, affine di resistere per quanto sarebbe stato possibile all'istruzione laica, empia e scandalosa; tutelava un gran numero di vocazioni ecclesiastiche; anche in faccia alla gente dimostrava quanta importanza egli desse agli studii, e preparava l'espansione anche fuori di Torino della sua Pia Società, che altrimenti neppure nell'Oratorio avrebbe potuto sussistere come insegnante.

                D. Bosco in questa sua decisione era andato d'accordo col Vicario generale della Diocesi, e di ciò ne è testimonio D. Rua; ma non tutti gli ecclesiastici, anche di molta pietà, videro bene questa misura. Alcuni Vescovi la disapprovavano quasi condannando il buon prete perchè si fosse piegato ad ingiuste pretenzioni del Governo. Ed essi non lasciavano che [347] il loro clero si presentasse a tali esami. In seguito però scorgendo le conseguenze che il loro avviso produceva a danno delle anime, si accorsero quanto egli avesse operato prudentemente nell'interesse della Chiesa. D. Bosco gli aveva esortati ad arrendersi a quella necessità, adducendo loro per ragione che senza di ciò tutte le scuole sarebbero sfuggite di mano al clero: e ben tosto imitarono il suo esempio. Don Bosco stesso avendo consigliato ai Superiori di vari Ordini religiosi di procurare ai loro Istituti professori laureati del proprio ordine, sulle prime si mostrarono sorpresi, ma più tardi convennero non potersi fare altrimenti. A questo modo D. Bosco fu cagione che molti sacerdoti e chierici, oltre i suoi, si abilitassero all'insegnamento classico inferiore e superiore.

                Egli per tale impresa non risparmiò nè a fatiche, nè a spese, nè a dolori. Sono addirittura incredibili le difficoltà da lui sostenute, ma ad ogni ostacolo che incontrava egli si faceva più forte.

                Con tutto ciò sul principio si accusava D. Bosco eziandio d'imprevidenza, perchè l'attendere a questi studi, non era senza pericolo per la gioventù ecclesiastica. Il professore Tommaso Vallauri diceva a D. Francesia: - D. Bosco fa sempre conto di mandare i suoi chierici all'Università? Ditegli da parte mia che qui regna un'aria pestilenziale.

                Ma D. Bosco era sicuro che i principii cattolici avevano salde radici nel cuore de' suoi figli, e poi essi erano premuniti da' suoi continui avvisi. - Volete voi essere forti per combattere contro il demonio e le sue tentazioni? Amate la Chiesa, venerate il Sommo Pontefice, frequentate i Sacramenti, fate sovente la visita a Gesù ne' suoi tabernacoli, siate molto divoti di Maria SS., offritele il vostro cuore, ed allora supererete tutte le battaglie e tutte le lusinghe del [348] mondo. Quando si tratta di fare il bene, di respingere o di combattere gli errori, mettete la vostra confidenza in Gesù e Maria, e allora sarete pronti a calpestare il rispetto umano e a subire anche il martirio.

                E perciò nella sua prudenza illuminata lasciava ai suoi per massima e per testamento di continuare a provvedere le scuole, mediante l'abilitazione all'insegnamento, per mezzo dei relativi esami, dei chierici e dei preti.

                Noi abbiamo adunque esposte le principali osservazioni che per anni parecchi si udirono ripetere in discredito di D. Bosco, e nello stesso tempo le difese della sua condotta. È vero che i suoi critici non potevano allora prevedere e ponderare i retti fini e le conseguenze delle azioni di Don Bosco; tuttavia non poteva da loro ignorarsi come egli fosse sempre fermo nel bene operare a vantaggio della gioventù e in modo eroico. Nel generale andamento delle sue opere avran trovato anche qualcuno di quei difetti inevitabili nelle cose umane, e che D. Bosco stesso lamentava e studiavasi di rimediarvi per quanto era possibile; ma non ottemperavano all'avviso dello Spirito Santo scritto nel libro de' Proverbi al capo quarto: “Non tendere insidie al giusto e non cercare l'empietà nella casa di lui, e non isturbare la sua pace”.

                Questi signori invece non di rado scrivevano a Monsignor Fransoni rapporti contro D. Bosco e venuto a lui in Lione il Can. Nasi, l'Arcivescovo gli chiese: - Ma insomma, D. Bosco fa del bene o fa del male? - Il Canonico gli diede spiegazioni, quali poteva dargli un amico sincero dell'Oratorio, e l'Arcivescovo ne fu contento, e non tardò di presentarsi a lui l'opportunità per dar prova della sua soddisfazione.

                Una commissione di tre ecclesiastici recatasi a fargli visita, dopo aver parlato di molti affari riguardanti la diocesi, [349] finì con esporre varie accuse contro l'Oratorio. Fra le altre cose dicevano, che D. Bosco coi giovani studenti educati da lui, e cogli altri chierici, che abitavano nel suo Ospizio, intendeva fondare un Seminario a suo conto che provvedesse il personale al suo Istituto, il quale sarebbe riuscito a danno dei Seminarii diocesani e quindi a disdoro e vilipendio dei diritti Vescovili. Avrebbero voluto far tale pressione sull'animo del buon prelato da indurlo a scrivere una lettera colla quale fosse vietato a D. Bosco di persistere in tale disegno, anche insinuando la possibile chiusura dell'Ospizio di Valdocco. Monsignore, conoscendo l'animo di D. Bosco, dopo averli lasciati dire, esclamò: - Ho chieste informazioni precise da persona fidata: nulla mi venne riferito intorno a ciò, che voi asserite ed ho saputo che nell'Oratorio si fa un gran bene. Lasciate adunque che in Torino ci sia chi continui a fare questo bene alle anime, giacchè non posso farlo io.-

                Qui faremo punto, riportando un giudizio del Teol. Can. Ballesio. “Mi sembra di poter affermare che i nemici ed avversarii di D. Bosco, del suo nome e delle sue opere furono, come sono, i nemici del bene. Del resto ricordo sempre d'aver veduto che tutte le persone amanti del bene, se potevano dissentire da lui in qualche punto accidentale, o trovavano qualche cosa da dire sulle opere sue, tutti convenivano con lui e l'approvavano nelle cose essenziali e d'importanza delle sue imprese. È accaduto, e specialmente nei primi tempi dell'Oratorio, che personaggi rispettabili del clero ebbero in sospetto il Servo di Dio e le sue intraprese ed anche gli si mostrarono avversarii; ma per quanto è a mia cognizione queste persone si ricredettero, quando vennero a conoscere il vero stato delle cose, e quasi sempre gli diventarono amiche ed anche benefattrici”.

 

 

CAPO XXVI. Parlate di D. Bosco - Annunzio della novena del santo Natale; mezzi per santificarla - Studiare vuol dire essere buono - Non rubare - Non proferire parole villane - Obbedire al confessore - Sincerità in confessione - Suggerimenti per la solennità del Natale.

 

                Siamo al dicembre del 1859. Era per incominciare la novena del Santo Natale e D. Bosco non trascurava certamente così bella occasione per innamorare i  suoi alunni dell'ineffabile mistero. Parlò sette volte, poichè qualche sera dovette impiegarla fino ad ora tardissima nel confessionale. Uno dei chierici notò i punti principali de' suoi sermoncini, compresi quelli del fin dell'anno, ce li trasmise, e noi ne facciamo un dono ai lettori.

                In capo a questi sta scritta una frase del Cantico dei cantici. “Sicut villa coccinea labia tua: et eloquium tuum dulce. Come cordicella di color di scarlatto le labbra tue: e dolce il tuo favellare”. Con questo versicolo si volle indicare l'affetto che sgorgava dalle labbra di D. Bosco tinte ogni mattina dal Sangue di Gesù Cristo, affetto ed unzione che non si può esprimere altrimenti. [351]

 

15 dicembre.

 

                Domani incomincia la novena del santo Natale. Si racconta che un giorno un divoto del Bambino Gesù, viaggiando per una foresta in tempo d'inverno, udì come il gemito di un bambino e inoltratosi nel bosco verso il luogo donde udiva partire la voce, vide un bellissimo fanciulletto che piangeva. Mosso a compassione disse: - Povero bambino come mai ti trovi qui, così abbandonato in questa neve? - Ed il fanciullo rispose: - Ohimè! come posso non piangere, mentre mi vedi così abbandonato da tutti? Mentre nessuno ha compassione di me? - Ciò detto disparve. Allora capì quel buon viaggiatore essere quel bambino Gesù stesso, che si lamentava dell'ingratitudine e della freddezza degli uomini. Vi ho narrato questo fatto, perchè procuriamo che Gesù non abbia a lagnarsi anche di noi. Perciò prepariamoci a far bene questa novena. Al mattino al tempo di Messa vi sarà il canto delle Profezie, poche parole di predica e poi la benedizione. Due cose io vi consiglio in questi giorni, per passare santamente la novena.

                - 1. Ricordatevi sovente di Gesù Bambino, dell'amore che vi porta e delle prove che vi ha dato del suo amore fino a morire per voi. Al mattino alzandovi subito al tocco della campana, sentendo il freddo, ricordatevi di Gesù Bambino che tremava pel freddo sulla paglia. Lungo il giorno animatevi a studiar bene la lezione, a far bene il lavoro, a stare attenti nella scuola per amore di Gesù. Non dimenticate che Gesù avanzava in sapienza, in età e in grazia appresso a Dio ed appresso agli uomini. E sovra tutto per amore di Gesù guardatevi dal cadere in qualsivoglia mancanza che possa disgustarlo. - 2. Andate spesso a trovarlo. Noi invidiamo i pastori che andarono alla capanna di Betlemme, che lo videro appena nato, che gli baciarono la manina, gli offersero i loro doni. Fortunati pastori, diciamo noi! Eppure nulla abbiamo da invidiare, poichè la stessa loro fortuna è pure la nostra. Lo stesso Gesù, che fu visitato dai pastori nella sua capanna si trova qui nel tabernacolo. L'unica differenza sta in ciò, che i pastori lo videro cogli occhi del corpo, noi lo vediamo solo colla fede, e non vi è cosa, che possiamo fargli più grata, che di andare spesso a visitarlo. E in qual modo [352] andare a visitarlo? Primieramente colla frequente Comunione. Nell'Oratorio, in questa novena specialmente, ci fu sempre un grande impegno, un grande fervore per la Comunione e spero che lo stesso farete voi in quest'anno. Altro modo poi è di andare qualche volta in chiesa lungo il giorno, fosse anche per un sol minuto, recitando anche un solo Gloria Patri. Avete inteso? Due cose adunque noi faremo per santificare questa novena. Quali sono? Chi sa ripeterle? Ricordarci sovente del Bambino Gesù, avvicinarsi a lui colla S. Comunione e colla visita in chiesa.

 

16 dicembre.

 

                Sono contento nel vedere che i voti dello studio sono buoni, perchè se i voti sono buoni vuol dire che si studia, e se si studia ciò indica due cose. La prima che vi farete onore, la seconda che siete bravi figliuoli. In quest'anno adunque vi farete onore e non solo potrete essere promossi tutti all'esame filiale, ma ancora essere tutti premiati. Ma voi direte: - Come fare ad essere tutti premiati? I premii si danno solo ad alcuni, altrimenti Don Bosco dovrebbe far bancarotta a provvedere premii per tutti noi. - Ma io vi rispondo che non si daranno solamente ad alcuni, ma a tutti quelli che se lo saran meritato. Se lo meriteranno tutti, lo avranno tutti. E nel giorno finale dell'anno inviteremo i parenti, i parroci, i sindaci, gli amici e che bel trionfo sarà allora per chi avrà studiato! E poi se non tutti avessero i pieni voti, per coloro che avessero ottenuta la sola promozione, non è un bel premio poter dire: Ho fatto quel che ho potuto, Dio è contento di me, i miei parenti sono felici per la mia condotta, la mia coscienza è piena di consolazione, ho arricchita la mia mente di utili cognizioni? Ma l'aver ottenuto buoni voti ho detto indicare eziandio che voi siete buoni, perchè il mezzo principale che stimola allo studio è la pietà. Ciò vuol dire che la novena del santo Natale si fa con frutto e che il Bambino Gesù vi ha già dato molto fuoco per operare il bene. Coraggio adunque! Questo fuoco non sia di una sola settimana, ma di tutte le settimane. Quelli che ottennero l'optime continuino a meritarlo sempre; quelli che ottennero un voto di sufficenza, ma inferiore all'optime, prendano animo e dicano a se stessi: Se questo e quello [353] ha preso optime, perchè non potrò averlo anch'io? Non voglio essere inferiore agli altri. Se voi conosceste la gran fortuna che è la vostra di avere un mezzo da poter studiare, vi sforzereste con ogni impegno per non perdere neppure un bricciolo di tempo. Quanti che adesso sono avanzati negli anni, si sentono sovente sospirare e dire: Oh se potessi ritornare indietro e rifare di nuovo i miei anni di gioventù che ho perduti inutilmente, si che vorrei impiegarli tutti bene! Se lo avessi fatto quando ero in tempo, ora avrei tante cognizioni che non ho: ora avrei un impiego che non ho: ed all'ora della morte diranno più specialmente: ora avrei pel paradiso maggior numero di meriti che non ho. Quanti giovani della vostra età se potessero avere i mezzi, che avete voi per studiare, studierebbero giorno e notte! Sono migliaia quelli che domandano di essere accettati nella casa, che dimostrano aver proprio buona volontà, ma non c’è posto per tutti. E voi foste i preferiti dalla Divina Provvidenza. Se fra voi ci fosse chi non volesse studiare preferendo la poltroneria, non ostante tanti sacrifizi per parte dei parenti, per parte dei superiori, che fanno tutto quello che possono per aiutarvi, per parte dei compagni, che vi danno tanti buoni esempi, qual conto rigoroso dovrete rendere a Dio se non vi approfittaste del tempo che avete! Il Signore ci domanderà conto anche di un sol minuto che avessimo perduto. Vedete qual conto dovrà rendere colui che perde delle mezz'ore, delle ore e talvolta degli studii intieri facendo niente. Coraggio adunque! Continuate per la buona strada per la quale vi siete messi, ma non dimenticate mai che per studiare bene bisogna incominciare ab alto. Prima dello studio recitate con divozione l'Actiones come lo recitavano S. Luigi, Comollo e Savio Domenico.

 

17 dicembre.

 

                La consegna che si fa tutte le sere degli oggetti trovati ed anche dei più piccoli, non permette di supporre che alcuno si lasci andare a ritenere roba che non sia sua. Tuttavia siccome il demonio è molto astuto e potrebbe intorno a ciò ingannare qualcheduno, ricordatevi sempre che il vizio del prendere la roba d'altri è il vizio più disonorante che sia nel mondo. Uno che venga riconosciuto per ladro, non si toglie più di dosso questo [354] brutto nome. - Quel tale è un ladro! - diranno i compagni tornati alle loro case. - Quel tale è un ladro! - ripeteranno quei del paese: e sarà fuggito da tutti. Ma poi ciò che più fa paura si è quella parola dello Spirito Santo. Fures regnum Dei non possidebunt. I ladri non entreranno mai in paradiso. Sapete quanta roba ci può stare dentro un occhio? nemmeno una paglia. Ebbene così è del paradiso. Lassù non ci entra neppure una paglia di roba degli altri. Se uno morisse con un ago solo rubato questo basterebbe per non lasciarlo entrare in paradiso. È vero che un ago è materia leggiera, ma nel purgatorio lo pagherebbe caro. S. Agostino dice: non remittitur peccatum nisi restituatur ablatum. Uno ha un bel confessare il suo peccato; non sarà mai perdonato finchè abbia restituito: bene inteso che egli possa restituire e che sia materia grave la cosa rubata; e se non potesse bisogna che abbia la volontà vera efficace di restituire. E state attenti, perchè molte materie leggiere a poco a poco formano materia grave. Oggi due soldi, dopo domani una cravatta, poi un libro, poi un quaderno, dopo un po' di frutta; si fa presto a prepararsi un conto serio al tribunale di Dio. Adunque se non vogliamo esporci al pericolo di essere disonorati presso tutti, se non vogliamo aggravarci la coscienza, stiamo bene in guardia a toccar nulla che non sia nostro. La roba degli altri dobbiamo considerarla come tanto fuoco. Se una scintilla ci viene addosso la scacciamo subito. Così se vediamo presso di noi qualche cosa che non sia nostra, sia anche un oggetto piccolissimo, una pagina, un pennino, una matita, lasciamola stare dove è. Abbisognate di qualche cosa pel momento? domandatela ai compagni; sono abbastanza graziosi da darvela. Del resto ci sono i superiori; essi vi provvederanno quanto vi sarà necessario.

 

18 dicembre.

 

                Se un giovane si sentisse dire: - Sei un facchino, sei un lustra scarpe, sei un uomo da piazza degno di portare la brenta, si offenderebbe e non avrebbe torto. Eppure mentre alcuni si offenderebbero per simili titoli, non hanno rossore di farsene vedere meritevoli coi fatti e con pronunziare certe parole che si dicono solo dai carrettieri, dai facchini, e da simile gente: perchè [355] accidenti, contacc, va sulla forca ecc. sono parole che fanno cattiva impressione in chi ode. Perciò chi vuol essere riputato qualche cosa di più della gente di piazza, deve astenersi da tali espressioni. Io non intendo con ciò di disprezzare gli operai e gli altri braccianti, perchè sono uomini come noi; costoro sono da compatirsi se hanno un fare grossolano, perchè privi di istruzione ed educazione, ed occupati in cose materiali. Ma voi che avete maggior istruzione e siete occupati in cose più alte, non dovete usare parole e modi grossolani, ma dimostrare coi fatti la vostra educazione. Perciò vi raccomando che più non diciate certe parole. Voi direte: - Io non fo' peccato dicendo certe parole. Ma ditemi: - Non fa neppure peccato colui che lustra le scarpe: perchè dunque non andate anche voi a far quel mestiere? Qualcuno dei più arditelli potrà pensare: Tutto ciò che è peccato non si può e non si deve fare, ma tutto ciò che non è peccato si può fare. Ditemi: Se i genitori vi sentissero così sboccati sarebbero contenti? Quale mortificazione sarebbe la loro di avere un figlio così poco educato! Mi accadde già di udir proferire simili parolaccie da uno, mentre passava un forestiero. Quel forestiero poteva essere qualche persona d'importanza e quale idea si sarà fatto dei nostri giovani? Tenete adunque bene in mente l'avviso che vi ho dato e mettetelo in pratica. Qualcheduno osserverà ancora: - D. Bosco ha ragione; ma è un'abitudine antica... non vorrei dirle... ma quando non ci penso mi scappano... - Lo capisco, risponderò, ma incominciate a fare il proponimento di non più dirle apposta... Quindi fate attenzione nei momenti che siete più soliti a pronunziarle. Gli assistenti vi daran sulla voce e voi prendete in buona parte le loro osservazioni. Pregate i compagni stessi che vi usino la carità di avvertirvi quando ve ne scappa qualcuna un po' grossa, e vedrete che poco per volta vi correggerete di questo difetto. Fatelo in onore del Bambino Gesù.

 

19 dicembre.

 

                Uno dei consigli che spesso suole dare D. Bosco è quello di raccomandarvi l'obbedienza. Stasera però mi limito a parlarvi dell'obbedienza al confessore. Se quando un superiore vi parla, vi parla in nome del Signore, e voi dovete obbedirlo come si [356] obbedisce al Signore, ciò si deve tenere in modo particolare riguardo al confessore, che più specialmente fa le veci di Dio. Perciò dovete dare molto peso alle sue parole e considerarle proprio come parole del Signore. Per farvi vedere quanto il Signore apprezzi l'obbedienza al confessore sentite un fatto. Santa Teresa era favorita da Dio di grazie speciali, ma il confessore credendo che quelle apparizioni fossero opera del demonio, comandò alla Santa di sputar loro contro. Ed ecco Gesù le apparisce ed ella, chiesta prima scusa, fece l'obbedienza. E il Signore lodò altamente quell'atto che sembrava dispregio ed era virtù. Se voi vi confesserete bene non sarà facile che il confessore sbagli, ma ancorchè sbagliasse nel darvi qualche comando, voi non sbaglierete mai coll'obbedirlo. Quei consigli che vi dà nella confessione non contentatevi di udirli solo al confessionale, ma dopo subito pensateci sopra e risolvete: mi disse questo e questo: dunque procurerò di farlo! Tornate poi a ricordarli alla sera facendo l'esame di coscienza e questo esame fatelo specialmente su questo punto, osservando se siete stati obbedienti. Se non aveste tempo in quel momento, fatelo andando a riposo, rinnovando il proponimento se trovaste di aver mancato. Così andando in chiesa a sentir Messa o a far la visita, promettete a Gesù: -Io per amor vostro farò quello che il confessore mi ha detto. - Se voi vi atterrete a ciò che io vi dico, state sicuri che farete gran profitto nella via della virtù.

 

20 dicembre.

 

                Il solito laccio con cui suole il demonio prendere i giovani è precisamente questo. Metter loro indosso un gran rossore quando si tratta di confessare i loro peccati. Quando li spinge a commetterli allora toglie ogni vergogna, facendo vedere che sono cose da nulla. Ma poi quando si tratta di confessarli restituisce loro questo rossore, anzi lo aumenta e cerca di metter loro in capo che il confessore si stupirà di vederli così caduti e perderà loro la stima. In questo modo cerca di spingere sempre più le anime verso il baratro dell'eterna perdizione. Oh quante anime, specialmente di giovani, ruba il demonio e sovente per sempre al Signore! Ma voi figliuoli ricordatevi che il confessore non si stupisce mai del peccato che uno abbia commesso, fosse stato [357] pure un sant'uomo colui che si confessa. Sa che grande è l'umana debolezza e che un momento di inavvertenza può essere fatale per tutti. Quindi compatisce. Una madre quando un figlio è ammalato gli vuole più bene di prima. Il peccato è una malattia. Se il figlio muore, se la madre potesse risuscitarlo, qual gioia sarebbe la sua. Il peccato è morte dell'anima, qual gioia pel confessore poterla risuscitare. Ricordatevi, o miei cari figliuoli, che il confessore non si stupisce mai di un vostro peccato, anzi si rallegra della vostra conversione, è commosso della vostra confidenza e vi ama e vi stima più di prima. Dice il Signore che in cielo gli angeli fanno più festa della conversione di un peccatore, di quello che la facciano per la perseveranza di 99 giusti. Così accade al confessore. Anzi vi dirò di più: non temete di avvicinarvi a lui anche fuori di confessione, perchè dopo avervi confessato più non ci pensa e più non si ricorda. È un fatto che succede a me stesso continuamente. Del resto se si ricordasse avrebbe un motivo di aumentar maggiormente la sua gioia e il suo affetto per voi, perchè potrebbe pensare: - Questo figlio l'ho salvato io e un giorno potrò presentarlo tutto puro, tutto santo al cospetto di Dio in paradiso! È una caparra eziandio della mia eterna salvezza, e mi sarà riconoscente e pregherà per me. - E in punto di morte poi non sarebbe una gran fortuna avere al fianco un confessore, che ci conosca bene e con una sola parola possa confessarci? A proposito della stima che il confessore porta al suo penitente, vi narrerò due fatti accaduti a S. Francesco di Sales. Un giorno un suo penitente dopo aver confessati tutti i disordini della sua gioventù, disse al buon Vescovo, che gli dava gli avvisi necessarii con grande effusione di cuore: - Voi senza dubbio mi parlate così per compassione, ma nell'intimo dell'anima dovete avermi in gran disprezzo.

                - Sarei ben colpevole, rispose S. Francesco, se dopo così buona confessione vi tenessi ancora per peccatore, che anzi vi vedo più bianco della neve, simile a Naamano all'uscir dal Giordano. Vi amo come mio figlio, dappoichè il mio ministero vi ha fatto rinascere alla grazia: ho per voi stima pari all'affetto che vi porto, vedendo che di vaso d'ignominia che eravate, siete diventato vaso d'onore e di santità. Oh! quanto mi è caro il vostro cuore, ora che ama Dio daddovero. [358]

                Interrogato presso a poco nella stessa maniera da una penitente, che gli aveva fatto la confessione di molti peccati, rispose:

                - Vi riguardo ora come una santa.

                - Ma, replicò quella, la vostra coscienza vi dirà il contrario.

                - No, soggiunse egli; vi parlo secondo la mia coscienza: prima della vostra confessione sapeva di voi molte cose spiacevoli che si divolgavano ovunque, ed io me ne addolorava, tanto per l'offesa di Dio, quanto per riguardo alla vostra riputazione; ma adesso ho con che rispondere a tutto ciò che si potrà dire contro di voi. Io dirò che siete una santa e dirò bene.

                - Ma, Padre mio, il passato rimane sempre vero.

                - Niente affatto, perchè se gli uomini vi giudicheranno, come il Fariseo giudicò la Maddalena dopo la sua conversione, avrete Gesù Cristo e la vostra coscienza per difensori.

                - Ma finalmente, voi stesso, mio Padre, che pensate voi del passato?

                - Vi assicuro che non penso niente, giacchè, come volete voi che il mio pensiero si fermi sopra di ciò che non è più nulla dinanzi a Dio? Non penserò che a lodare il Signore ed a celebrare la festa della vostra conversione. Sì, voglio celebrare questa cara festa cogli angeli del cielo, che si rallegrano della mutazione del vostro cuore. - E siccome ciò dicendo aveva il volto molle di lagrime, la penitente gli disse: - Voi senza dubbio piangete sull'abbominevole mia vita.

                - Oh! no, rispose il santo Prelato, piango d'allegrezza per la vostra risurrezione alla vita della grazia.

                Avete inteso, cari figliuoli? Tuttavia se dopo tutte queste ragioni non vi sentiste di aprirvi interamente al vostro confessore, piuttosto che fare un sacrilegio, cangiatelo e andate da un altro!

 

23 dicembre.

 

                Voglio che nelle feste natalizie stiate allegri e molto allegri. Ci raccomanderemo al Sig. Prefetto che dia gli ordini opportuni in cucina. Siete contenti? Io penserò all'allegria del corpo e voi insieme con me penserete all'allegria dell'anima. Il Celeste Bambino che nacque in questi giorni e che ogni anno vuol rinascere nei vostri cuori, aspetta da voi qualche cosa di particolare. Avete [359] poi sentito nelle prediche di questi giorni quanto abbia egli fatto per noi. Notate che tutto quello che fece, non lo fece solamente per tutti in generale, ma lo fece eziandio per ciascuno in particolare. Molti S. Padri ci dicono che il Signore sarebbe nato e morto egualmente se vi fosse stato un solo uomo da salvare. Perciò quello che egli patì per tutti, l'avrebbe sofferto per ciascheduno di noi. Ognuno pertanto può dire in se stesso: dunque questo Bambino è nato, è morto espressamente per me: per me ha sofferto tanto! Qual segno di gratitudine gli renderò ? Questo caro bambino aspetta qualche cosa da noi, qualche dono speciale! Che cosa gli darete? Due cose vi suggerisco: 1. Una buona Confessione e una buona Comunione, con promessa di essergli sempre fedeli. 2. Chi non lo ha ancor fatto, scriva una bella lettera ai parenti, ma non dicendo loro: mandatemi del salame, mandatemi dei dolci, dei fichi secchi, dei pomi ecc.; i parenti conoscono questi vostri desiderii e vi contenteranno. Sibbene scrivete una lettera da figli cristiani, augurate loro le buone feste, assicurateli che pregate per loro, ringraziateli dei sacrifizii che fanno per voi, domandate loro perdono, se qualche volta avete verso di essi mancato di rispetto, promettete che sarete sempre figliuoli obbedienti, salutateli da parte mia augurando loro per me le buone feste e il buon capo d'anno. Così scrivendo darete loro una grande consolazione e ciò farà molto piacere a Gesù, perchè con questa lettera onorerete vostro padre e vostra madre. Non dimenticate eziandio i vostri benefattori e il vostro parroco, i quali così si accorgeranno che siete giovani di cuore, riconoscenti e ben costumati. Finisco coll'augurare a voi tutti le buone feste.

 

 

CAPO XXVII. Indulgenza plenaria per un santuario di Caselette - Parole di D. Bosco ai giovani sull'anno che finisce -- Ricordi all'intera comunità - L'ultima sera dell'anno - Gli alunni defunti nel 1859 - Strenne personali di D. Bosco a' suoi allievi e di questi a lui.

 

                Nella notte del Santo Natale, D. Bosco, celebrando la S. Messa, non aveva dimenticati nessuno de' suoi benefattori, fra i primi dei quali annoverava il Conte Carlo Cays. A questi egli procurava una desiderata e viva soddisfazione, ed ecco in quale modo.

                Sulla sponda sinistra della Dora Riparia a metà costa del monte detto Asinaro, sulle falde del quale sta il paese di Casellette col Castello del Conte Cays, da tempi antichissimi era stata eretta una cappella in onore del fanciullo Abaco, del suo fratello Adiface e de' suoi genitori Mario e Marta, nobilissimi persiani, tutti martiri. Riparata ed ampliata nel 1817, nel 1851 e 1855 dalle Regine e da tutto il popolo aveva ricevuto nuovo decoro e nuovo prolungamento; e nel 1856 lungo la strada che metteva al santuario furono innalzate 15 cappellette con dipinti i misteri della Via Crucis e del Santo Rosario. Questi martiri si manifestavano specialmente patroni dei febbricitanti, e invocati, operatori eziandio di maravigliosi portenti. [361] Ora il Conte, in favore del Comune di Casellette, aveva fatto istanza a D. Bosco perchè supplicasse il Papa a concedere un'indulgenza plenaria a coloro i quali, nel giorno 19 di gennaio, dai primi vespri fino al cader del sole dello stesso giorno, visitassero detta cappella. Pio IX concedeva e faceva trasmettere a D. Bosco il Rescritto colle solite condizioni in data del 20 dicembre 1859. Il 29 dicembre il Can. Celestino Fissore Vicario generale permetteva che lo si pubblicasse e si desse alle stampe[12].

                Nella sera di questo stesso giorno (29) così D. Bosco parlava ai suoi giovani.

                Quest'anno non lo rivedremo mai più; il tempo passato [362] non ritorna più. Se lo avremo occupato bene, starà là a nostra gloria eternamente; se lo avremo occupato male, starà là eternamente a nostra infamia. Ora quel che è fatto, non si può più disfare. In quest'ultimo caso guardiamo di mettergli un buon cappello, cioè passando bene questi due giorni che ancora ci restano col rinunziare a qualche difetto, col praticare qualche virtù, affinchè almeno possiamo poi dire: Nel 1859 ho lasciato un difetto, ho praticato una virtù. Tommaso da Kempis dice così: “Noi saremmo presto santi se non facessimo altro in ciascheduno anno, che correggere un difetto solo e praticare una sola virtù”.

                Questo avviso era come l'esordio di ciò, che avrebbe detto l'ultima sera del 1859. E il 31 dicembre così esprimevasi:

 

                Miei cari figliuoli, voi sapete quanto io vi amo nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle cose dell'anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me.

                Ora veniamo ai ricordi. A tutti in generale. Fatevi bene il segno della santa croce; non volgetevi mai indietro, quando servite la santa Messa; raccomando il silenzio in dormitorio, non fare contratti senza licenza, non fare letture cattive o proibite. Appena uno di voi dubitasse della bontà di un libro, manifesti il suo dubbio a qualche superiore.

                Spero che voi metterete in pratica i miei avvisi e tanto ne sono sicuro che voglio che si finisca l'anno con perfetto amore e santa allegrezza. Perciò io perdono a voi qualunque mancanza possiate aver fatta e anche voi perdonatevi a vicenda le offese, che per caso abbiate ricevute. Voglio che incominciate l'anno 1860 [363] senza malumore e senza melanconie. Se vi fosse qualcheduno destinato a stare a tavola di punizione, intendo che gli sia tolto il castigo. Io son pronto a tirare una linea sovra ogni vostra mancanza, prometto di non rinfacciarla mai a nessuno, e di dimenticarla; ma intendo che facciate lo stesso fra di voi. Non già perdonare un'offesa e poi dopo 10, o 15 giorni venuta l'occasione, gettare in faccia all'offensore quella parola, quella mancanza, quell'ammonizione ricevuta, quello sbaglio fatto. Ciò non va; perdonare vuol dire dimenticare per sempre.

                Scendendo al particolare dirò agli studenti che procurino nella scienza terrena di cercar la scienza del cielo, la virtù e metterla in pratica.

                Agli artigiani dirò che non avendo tempo a pensare molto all'anima nei giorni feriali, almeno vi pensino nei giorni festivi, coll'udire bene la Messa, coll'ascoltare attentamente le istruzioni, col ricevere divotamente la benedizione. Nelle domeniche e nelle feste principali procurino di accostarsi ai Ss. Sacramenti.

                Ai chierici ricordo che essi sono venduti al cielo e perciò non pensino più a questa terra: tutto il loro studio sia nel cercare la maggiore gloria di Dio e la salute delle anime. A questo proposito raccomando a tutti di aiutarvi scambievolmente a salvar l'anima, prima col buon esempio e poi coi buoni consigli, stimandoci felici quando possiamo impedire fra i nostri compagni anche un solo peccato veniale; imprestando buoni libri da leggere, esortando all'obbedienza, avvisando quando avvertiste qualche lupo nell'ovile, insomma ricordandoci che un gran santo dice: divinorum, divinissimum est cooperari in salutem animarum.

                Ai sacerdoti, sebbene pochi, raccomando che studino di accendersi di uno zelo ardente per le anime.

                E a me stesso che cosa dirò? Io dirò (e parlava quasi lagrimando, e con parole interrotte) che mi sento un anno di più sulle spalle, mentre il 1859 sta per dileguarsi coi secoli passati. Questo anno è un tempo di meno che ci resta a vivere e saremmo disgraziati se l'avessimo passato inutilmente. Io sento quanto grave sia la mia responsabilità, che va ogni giorno crescendo, dovendo io rendere stretto conto al Signore dell'anima di ciascheduno di voi. Io faccio quel che posso, ma voi aiutatemi, miei cari figliuoli. [364]

                Del resto promettendo tutti noi al Signore di impiegar bene il restante della nostra vita nell'amarlo e servirlo, ringraziamolo dei tanti benefizi che ci ha fatti e dell'averci conservati fino all'anno 1860. Questa grazia non l'ha concessa a tutti. Magone, Berardi, Capra, Rosato, Odetti e altri ancora dove sono che non li vedo in mezzo a noi? Son passati all'eternità, a render conto al Signore di tutto quello che hanno fatto. Perciò io raccomando a tutti voi di tenere la vostra coscienza preparata, perchè il Signore può chiamarvi in questo anno al suo tribunale. Raccomando poi a coloro i quali per paura o per vergogna non osassero confessarsi dal proprio confessore, di cangiarlo, di andare da un'altro, ma che per carità non trascurino di aggiustare i loro conti.

                È cosa certa che l'anno venturo in questo stesso giorno più non ci troveremo qui tutti. Perciò vi invito a recitare un Pater per tutti quelli che moriranno nell'anno venturo e per quelli che sono morti nell'anno che sta per finire.

 

                La memoria di questi cari defunti nel libro delle necrologie, indicava il giorno nel quale erano passati all'eternità.

                Rosato Carlo da Torino in età di 43 anni nell'Ospedale Cottolengo, il 23 maggio.

                Capra Francesco di Centallo in età di 16 anni nel mese di giugno all'Ospedale Mauriziano.

                Il 15 agosto in Torino presso i suoi parenti Zucca Giovanni di Cavour in età di 26 anni.

                Nell'Ospedale Cottolengo il 26 settembre Odetti Bartolomeo di Vigone di anni 18.

                D. Bosco adunque recitato un Pater, Ave e Requiem con tutti i suoi giovani inginocchiati innanzi a lui, scese dalla cattedra e come era sua usanza, incominciò questa sera e continuò nei giorni seguenti a dare la strenna natalizia a ciaschedun giovane in particolare. Questa consisteva in un consiglio, in brevissime ed accentuate parole, perchè  [365] fossero intese bene secondo il bisogno o vantaggio del giovane. Questo consiglio era sempre così adatto che restava impresso nella mente e nel cuore di chi lo riceveva. Ed era cosa singolarissima, perchè erano circa 300 quelli, ai quali egli dava simile strenna.

                Nello stesso tempo ciaschedun giovane dava a D. Bosco una strenna, la quale consisteva in una letterina, ove era esposto un proprio bisogno, un segreto confidenziale; si chiedeva un consiglio, si dava una spiegazione, si avvisava di un inconveniente accaduto, e anche si osava porgere un rispettoso avviso; o se non altro il giovane prometteva di essere più buono in avvenire, più studioso, più attivo e diligente nel lavoro, o assicurava che avrebbe pregato pel suo superiore.

                Il ch. Bonetti Giovanni così in quest'anno notava nelle sue memorie. “Avendo data a D. Bosco la mia strenna in una lettera, la sera del 31 dicembre 1859, egli, secondo il solito di tutti gli anni, mi disse all'orecchio le seguenti parole, che erano la sua strenna per me: Umiltà e fatica”.

 

 

CAPO XXVIII. La Prefazione al Galantuomo, almanacco pel 1860 - La guerra in Lombardia e le avventure del Galantuomo - Sue profezie - D. Bosco chiamato al Ministero dell'Interno per  dare spiegazioni sulle profezie dell'almanacco.

 

                Sul finire del 1859 si pubblicava e distribuiva il Galantuomo con una varia e singolare prefazione. Ivi erano esposte alcune predizioni che si sarebbero avverate nel 1860 ed anche svolte negli anni successivi. Le precedeva un lungo racconto delle avventure del Galantuomo, serio - comiche, ingenue e ridicole, sia per non dare a quelle un tono spiccato di profezia, come pure perchè non prendessero ombra gli uomini politici, ai quali fosse per avventura caduto in mano quel libretto. Don Bosco sperava che non lo avrebbero giudicato opera di uomo serio e di gran levatura, e al più lo avrebbero o compatito o messo in burla come una frivolezza. Intanto fra gli associati delle Letture Cattoliche e ad altri avrebbe apportato quel gran bene che si desiderava. Ma queste sue precauzioni non riuscirono, poichè l'almanacco levò subito gran rumore di sè e per molto tempo non solo nelle case dei cittadini, ma eziandio nei palazzi dei governanti. Ecco il tenore della prefazione. [367]

 

I

 

Il Galantuomo

Almanacco Piemontese - Lombardo per l'anno bisestile 1860.

Il Galantuomo a' suoi amici.

 

                Prima di cominciare a parlare con voi, miei venerati amici, stimo bene darvi ragione di alcune cose che voi scorgerete variate. Nel mio frontispizio invece di Almanacco Nazionale, vedrete Almanacco Lombardo - Piemontese. Questo l'ho fatto per significare che anch'io do il mio voto per l'accettazione di questo regno. Così la dedizione del medesimo sarà completa. Con questo fatto voglio anche far conoscere che i galantuomini non sono contrarii all'unione della Lombardia col Piemonte. In quest'anno mi vedrete privo di codino e ne saprete in appresso la terribile cagione. Ho sospeso di parlare delle fiere e dei mercati, perchè non ho ancora la necessaria cognizione del modo, del tempo, del luogo in cui fiere e mercati soglionsi fare nei nuovi nostri stati. Per non fare parzialità, ossia spropositi, sospendo di parlare di tutto. Posso però assicurarvi che le cose che sono per dirvi, le reputo d'assai maggiore importanza; cose da piangere e talvolta da ridere. Vi dirò le mie guerresche imprese; farò lo storico e vi esporrò il passato; farò il politico, e vi dirò il presente; farò il profeta e vi annuncierò l'avvenire, e dopo una serie di fatti curiosi studierà per ricrearvi un poco, cantandovi una canzone.

 

II.

 

Un saluto - La guerra - Negozio di rinfreschi - Incontro di

un generale francese a Montebello - Cose di Palestro - Un Zuavo.

 

                Vi fo' un cordiale e rispettoso saluto, venerati amici, e lo fo' tanto più di cuore, in quanto che temeva assai di non potervi più rivedere. La guerra terribile dell'anno scorso, a cui presi parte anch'io, toglievami pressochè ogni speranza di potervi rivedere.

                Sì, cari amici, ho preso parte ai fatti d'armi; e mi sono  [368] trovato a Montebello, a Palestro, a Magenta, a Marignano e specialmente a Solferino, ed ovunque ho fatto vedere che cosa valga un galantuomo. E vero che io non son buono a maneggiare nè fucile, nè spada, e, se volete che ve lo dica, ho paura de' vivi e de' morti; pure sono andato alla guerra, vale a dire, cioè, desiderando di far del bene a me ed agli altri, mi sono messo a fare il venditore di rinfreschi presso all'esercito, ben inteso dopo averne ottenuto il debito permesso, che, mediante quattrini, ottenni con facilità. Questo mestiere, che sembra da poco, tornò utile a molti; tornò utile a me, perchè ho guadagnato qualche cosa per me e per i miei ragazzi, i quali sebbene già alquanto adulti, non sono ancora in grado di guadagnarsi da mangiare; tornò anche utile agli altri, perchè più volte co' miei rinfreschi ho tolto la sete ai sani, agli ammalati ed ai moribondi. Mi ricordo precisamente che a Montebello vi era un generale francese che cadeva per la sete. Appena mi vide tosto si mise a gridare: Galantome, Galantome, donnez moi à boire. Io che so anche un po' di francese gli risposi tosto: Oui Monsieur, prendete, bevete pure; bien raisonnable; ve ne do volentieri, ma pour l'argent. Egli bevette e confortato da' miei squisiti rinfreschi venne in soccorso di quelli, che già fuggivano, fece loro coraggio, e combattendo con loro intrepidamente in breve i nostri giunsero alla vittoria. Di maniera che la vittoria di Montebello è in buona parte attribuita alla virtù de' miei rinfreschi.

                A Palestro vi era il terreno coperto di morti e di feriti; e posso asserire con verità che il numero dei morti sarebbe stato assai maggiore, se non fossi corso in aiuto, ora dando da bere ai sani, ora confortando i feriti, che morivano di sete dimandando pietà e misericordia. Più di cento feriti ristorati da' miei rinfreschi poterono riaversi e trasportarsi all'Ospedale. Un Zuavo perdeva il respiro per mancanza di bevanda; gli porsi un bicchierino che lo sollevò potentemente. Egli ne fu così contento, che mi diede dodici sigari di tabacco eccellente. Io però che non sono mai stato, nè mai sarò abituato al tabacco, anzi ne abborrisco il fumo, presi que' sigari e ne feci dono ad altri soldati, che sospiravano tabacco e non potevano averne. Sono pochi giorni che uno mi scosse colle mani le spalle, dicendomi: - Bravo, galantuomo: i tuoi rinfreschi mi hanno dato la vita; senza di essi io sarei morto di sete a Palestro. [369]

 

III.

 

Cose di Magenta - Tumulazioni - Carità e consigli - Un Cappuccino - La Provvidenza - Quindici marenghini.

 

                A Magenta poi le cose presero un aspetto più terribile. Io giunsi colà il dì appresso della battaglia e vidi tanti morti e feriti, che io tremava da capo a piè. Deciso di fare un sacrifizio per la patria, ho dato ai miseri feriti dei rinfreschi, finchè ne ho avuto; dopo mi posi ad aiutare a portare i feriti all'Ospedale, e in fine a seppellire i morti. - Come, taluno dirà, il galantuomo seppellire i morti! - Sicuro, l'ho fatto e lo farei ancora. Tobia non era un galantuomo? Eppure lasciava il suo pranzo per andare a seppellire i morti.

                In mezzo alle mie fatiche era grandemente consolato da molti moribondi, che si raccomandavano l'anima da se stessi, ed io ho dato loro più volte il mio crocifisso a baciare. Rincresceva però molto che non pochi soldati dimandavano di confessarsi e non si potevano aver preti bastanti per soddisfarli tutti. Non potendosi fare altrimenti suggeriva loro di recitare un sincero atto di contrizione; dipoi diceva che andassero tranquilli all'altro mondo che Dio li avrebbe perdonati. Molti domandavano di confessarsi da me; ma io non poteva nè ascoltarli, nè assolverli. Uno mi diceva: - Galantuomo io confesso a te i miei peccati, e tu li confesserai poi a qualche prete. - No, risposi, ne ho già fin troppo dei miei, che mi fanno andar gobbo; guai a me se aggiungeressi i tuoi. Fa l'atto di contrizione e poi va tranquillo.

                Dopo il fatto di Magenta io voleva seguir l'esercito, ma non avevo più nè rinfreschi, nè danaro per far provvigione, perciocchè in mezzo ai molti bisogni io aveva consumato quanto possedeva. Malinconico camminava verso Milano occupato del modo di far provviste pel mio negozio, quando un cappuccino avvicinandosi mi disse: - Che hai galantuomo che cammini immerso in tanto gravi pensieri? Sei forse stato ferito a Magenta?

                - Non sono stato ferito nella persona, ma nella borsa; non ho più danaro e non ho più rinfreschi da vendere.

                - Non hai qualche credito da esigere?

                - No, i miei crediti consistono in alcuni debiti che ho a Torino. [370]

                - Che facesti di quanto hai finora guadagnato col tuo negozio? - L'ho dato tutto ai poveri soldati, che o stanchi o feriti languivano per la sete.

                - Hai fatto un'opera buona. Dio non mancherà di ricompensarti; egli suole dare il centuplo di ogni opera buona anche in questa vita e riserba una ricompensa eterna dopo morte.

                - È vero; io non ho mai avuto nè vetture, nè cavalli, ad eccezione di un piccolo borricchetto, di cui servivami quando era negoziante di cipolle. Tuttavia ho sempre camminato. Sono sempre stato scarso di danaro ed ho sempre mangiato; ma ora mi trovo sprovvisto di ogni cosa .....

                - Spera e prega e poi... Mentre facevasi tale discorso, odo la voce di uno che correva dietro: dicendo: - Fermati; aspetta, aspetta. - A prima vista temeva che fosse qualcheduno che mi prendesse per un malandrino e volesse salutarmi con qualche fucilata, oppure fosse qualche amico di frontiera, che suole mettere i guanti a certi galantuomini anche di estate, per condurmi in que' luoghi ove niuno paga pensione, che si suole chiamar prigione. Tuttavia mi fermai e per armarmi di coraggio, presi con una mano il mio codino e intrepidamente mi volsi dicendo: Chi mi cerca? Chi mi vuole? Io non faccio male a nessuno.

                - Non temere: io vengo a te per farti del bene. Sei ben tu che ti chiami Galantuomo?

                - Sì, mi chiamano, e per grazia di Dio, sono Galantuomo.

                - Sei ben tu che a Magenta hai lavorato per dar da bere agli assetati feriti e moribondi?

                - Si, si, ma io non ho fatto alcun male.

                - Sei ben tu, che per fasciar la ferita ad un capitano, che perdeva tutto il sangue, ti togliesti la camicia, la facesti a bende per istagnare il sangue a quell'infelice, che correva il massimo pericolo della vita?

                - Sì l'ho fatto, e lo farei ancora qualor ne fosse bisogno.

                - Quel capitano mi manda a te per ringraziarti. Egli è a te debitore della vita e per segno di gratitudine ti prega di voler accettare questo piccolo pacco.

                Pensavami che fosse un pacco di medaglie, perciò lo accettai volentieri con animo di farne parte ai bravi soldati, quando fosse imminente la battaglia. Ma apertolo, trovo quindici luccicanti [371] marenghini. - No, gridai tosto, non li voglio: facendo quell'opera di carità ho fatto il mio dovere, e le opere di carità non si fanno per paga. - Ma l'altro era già ritornato indietro e non badò più alle mie parole. Il cappuccino mi confortò dicendo: - Prendi pure questo danaro come mandato dalla Divina Provvidenza. Giunto in Milano potrai fare la desiderata provvista. Tu hai fatto un'opera di carità e non l'hai fatta per interesse; ma Dio ispirò al tuo beneficato di venirti in aiuto nel pressante tuo bisogno. - A tali parole m'acquietai e misi in saccoccia i provvidenziali marenghini.

 

IV.

 

Milano - Le chiese - La montagna di marmo - I caffè Vista di Marignano.

 

                Cammin facendo giunsi a Milano che trovai molto bella. Ma le vie e le piazze non sono così belle come quelle di Torino. Le nostre sono diritte, quadrate, e là tutte curve e con tante giravolte da tutte parti. Le chiese però sono più belle delle nostre. Il duomo sembra un'alta montagna di fino marmo con grande maestria lavorato. Noi poi superiamo i Milanesi nella eleganza dei caffè e nel lusso di piazza Carlina, dove trovasi in abbondanza ogni qualità di buon vino. Sonvi pure cavalli di bronzo che hanno la testa più grossa dei nostri, ma non vi è il cavallo di marino. Dimorai a Milano un giorno festivo; e poichè da qualche tempo non aveva più avuto la comodità di aggiustar gli affari dell'anima mia, volli approfittare di quell'occasione per fare le mie divozioni. Al lunedì seguente feci le necessarie provvigioni per i miei rinfreschi e mi posi in via per raggiungere gli eserciti. Giunsi a Marignano quattro giorni dopo la battaglia ivi avvenuta e vidi ancora orridi avanzi di quella giornata. Cioè il terreno ancor bagnato di sangue umano, e di quando in quando alcuni brani di cadaveri, che si andavano raccogliendo per metterli in ceste e portarli a sotterrare. Mosso a compassione ho detto un De profundis per quelli che erano morti e recitai una Salve, affinchè guarissero i feriti: quindi continuai il mio cammino. [372]

 

V.

 

Rumori della battaglia di Solferino - Il giorno onomastico - Rimbombo infernale - Temporale - Vittoria - Campo di battaglia - Combattimenti - Morti e feriti.

 

                Vi assicuro, miei cari, che quando andava a scuola, ed anche quando andava in pastura co' miei compagni ho dovuto sostener grandi battaglie, ora con sassi, ora con bastoni, e talvolta con pugni e perfino coi denti; ma quelle erano un nulla a paragone della battaglia di Solferino. Io vi racconto soltanto quello che avvenne a me, lasciando a quelli che sono più capaci, di scrivere quanto è avvenuto in quella memoranda giornata.

                Il 23 di giugno si vociferava da tutte parti che era imminente una battaglia, la quale avrebbe deciso delle sorti dei tedeschi e degli alleati. O che noi assalivamo i tedeschi o che essi avrebbero assaliti i nostri; il che era lo stesso. Il giorno 24, giorno di San Giovanni, che è pur quello di mia festa, sul far del giorno sento un gran rumoreggiar di cannoni. Da prima pensava che fosse per festeggiare il mio giorno onomastico; ma tosto fui assicurato che gli austriaci si avanzavano contro dei nostri, e che i nostri erano pronti a servirli di barba e di perrucca.

                Allora presi il mio cavagno con entro alquante bottiglie di sciroppo dolce; e portando quella maggior quantità di acqua che era possibile, mi avanzai verso i combattenti. Diceva fra me: oggi fa molto caldo, e combattendo havvi molto bisogno di bere; ed io vendendo li miei bicchierini, empio la saccoccia di sonanti quattrini. Per alcuni momenti andò bene ed io aveva già venduto la maggior parte de' miei liquidi. Quando alle dieci del mattino sento gridare: - Indietro, indietro, siamo presi di fianco! Non volendo giuocar a correre coi soldati, mi posi a parte della strada e, ritiratomi sopra una vicina collinetta, lasciai che i nostri si ritirassero per prendere miglior posizione. Ma povero me! In quel momento mi trovai quasi tra il fuoco dei piemontesi e dei tedeschi. Le palle di fucile ed anche di cannone cadevanmi attorno come cadono le noci assai mature, quando sono sbattacchiate sulla pianta. Più volte vedeva gli austriaci far correre i nostri, più volte vidi i nostri cacciare gli austriaci; ma sempre fucilate, cannonate [373], baionettate, grida di chi incoraggiava, gemiti dei feriti e dei morenti. Que' rumori, quegli strilli, que' lamenti confusi insieme facevano un rimbombo infernale. Finalmente sul fare della sera si levò un gran temporale, che favorì assai i nostri e rese inutili gli sforzi de' nemici, che furono costretti a ritirarsi. Cercai allora di discendere nella valle, ma un involontario terrore mi respinse. Ovunque volgessi lo sguardo non vedeva altro che morti, feriti e moribondi che domandavano pietà. Io avrei voluto provvedere a tutti, soccorrerli tutti, ma non mi era possibile. Mi sono unito cogli altri ed abbiamo lavorato otto giorni per trasportare i feriti all'ospedale e dar sepoltura ai morti.

                Un generale piemontese che assisteva alle ambulanze dei feriti, disse che una simile battaglia non aveva esempio nelle storie. Erano circa trecento mila tra francesi e piemontesi contro a trecento mila tedeschi. Si combattè valorosamente da ambi le parti, e tra morti e feriti furono messi fuori di combattimento oltre a cinquanta mila uomini. Mi assicurano che Napoleone dicesse: - I tedeschi hanno perduto il terreno, noi abbiamo perduto gli uomini. - Volendo significare che la perdita fu maggiore da nostra parte. Noi però sapevamo che non si può far guerra senza che rimangano morti da una parte e dall'altra. Siccome non si può fare la frittata senza rompere le uova, così non si può far guerra senza uccisioni. Ma dopo che ho veduto la battaglia di Solferino, ho sempre detto che la guerra è cosa d'orrore ed io la credo veramante contraria alla carità! Comunque però sia stata quella battaglia, la vittoria fu da nostra parte e gli austriaci furono costretti a passare il Mincio, che è un fiume il quale divide la Lombardia dal Veneziano.

 

VI.

 

Il cavagno - Il cappello - Il codino - li fischio delle palle e le giaculatorie - La pace - Un regalo - Una colazione.

 

                Voi, cari amici, mi direte: in mezzo a tali combattimenti non sei tu stato ferito? Grazie a Dio fui salvo; ma fui salvo per miracolo. Mentre era sopra quella collinetta intorniato dai nemici studiava sempre di nascondermi or accanto alle piante, or dietro [374] ai sassi, ora dietro a rive o nei fossi. Tuttavia fu un momento che mi credetti morto. Una palla da cannone mi passò vicino e mi portò via cavagno, bicchieri e bottiglie. - Ai ladri, mi posi a gridare, ai ladri ma ecco una palla da fucile, senza domandarmi permesso, mi portò via di testa il cappello. - Là, dissi confuso e senza vedere persona: lasciatemi stare, io non fo male ad alcuno. -Ed ecco una scheggia di mitraglia venne a passarmi rasente le spalle e mi portò via tutto intiero il codino. - Povero codino, esclamai, come farò a far conoscere che il Galantuomo ha ancora la testa? - Volsi lo sguardo onde vederlo per l'ultima volta, ma con dolore nol vidi più. Nella perdita del mio codino ebbi ancora una consolazione; perchè mi è ancor rimasta la testa sulle spalle; e questo per me non è poca cosa.

                Allora per timore che qualche pallottola di piombo venisse per facezia a portarmi via la testa dalle spalle, mi accovacciai in un fosso, mi coprii di terra fino al collo, e accanto al capo misi due grosse pietre e colà ristetti fino a sera. Ad ogni momento sentiva che le palle fischiando mi passavano sopra il capo. Sempre io diceva: - Gesù mio misericordia; e tosto baciava la medaglia. Che sia grazia del Signore, che sia la speciale protezione della S. Vergine, fatto sta che io fui salvato e potei ancora ritornare tra voi per raccontarvi alcune mie vicende.

                Pochi giorni dopo la battaglia di Solferino, Napoleone scrisse una lettera all'Imperatore d'Austria; poi andò a fargli visita e parlandosi conobbero ambidue essere meglio la pace che la guerra, meglio essere amici e conservare la vita de' loro soldati, che essere nemici e massacrarsi a vicenda. Ora la pace fu definitivamente conchiusa e sottoscritta! e se gli uomini non verranno a turbarla non vi sarà più guerra. Napoleone poi è stato molto grazioso verso di noi. Egli ci regalò la Lombardia; noi in segno di gratitudine gli abbiamo regalato sessanta milioni, non già per compensarlo delle spese fatte, ma soltanto perchè faccia dare una colazione a' suoi soldati alla nostra salute. Intendete bene: tale colazione faranno soltanto quelli, che non morirono in battaglia, giacchè i morti non abbisognano più di nulla, se non di un Requiem aeternam. [375]

 

VII.

 

Certo ed incerto - Desiderii di pace - Timor della guerra - Una predica - Tristi presentimenti.

 

                Alcuno di voi, cari amici, mi domanderà: O Galantuomo, in quest'anno avremo la pace o la guerra? Vi rispondo distinguendo il certo dall'incerto. È certo che se gli uomini non fanno la guerra noi avremo la pace; ed è egualmente certo, che se gli uomini faranno la guerra non avremo la pace. Di maniera che la pace e la guerra sono nelle mani degli uomini. Questo dico parlando da Almanacco.

                Se poi esprimo i miei desiderii dirò di tutto cuore: da ogni guerra libera nos, Domine. O Signore, dateci la pace per omnia saecula saeculorum. Perchè è cosa orribile il vedere giovani sani e robusti, forti come Sansone, e che alle loro case formano la delizia delle loro famiglie, pure avventarsi l'uno contro l'altro, cannoneggiarsi, fucilarsi, baionettarsi, scannarsi, sbranarsi e morire là in mezzo ai campi come le bestie! Ah sono cose d'orrore! Tutti quelli che si trovarono alla guerra, o sanno che cosa è guerra, dicono tutti: da ogni guerra libera nos, Domine. Questi sono i miei vivi desiderii.

                - Ma i tuoi presentimenti, o Galantuomo, quali sono? che ne pensi? avremo in quest'anno la pace o la guerra? - Se volete sapere il mio pensiero da buon amico ve lo dirò. Vi premetto soltanto che non posso assicurarvi, che le cose succedano come io le penso. Vi dirò solamente come io la penso e come temo sia per avvenire. State adunque attenti.

                lo temo che l'anno corrente ci sia di nuovo la guerra. La mia profezia è appoggiata sopra quanto diceva mia madre. Mi ricordo che mia madre quando viveva ancora, diceva sempre: la guerra è un flagello che Dio manda agli uomini pei loro peccati. Questi peccati non cessano ancora. Io vi assicuro che trovandomi in mezzo ai soldati ne trovai molti buoni, che si raccomandavano al Signore. Ma non pochi li ho uditi discorrere male di religione, male contro il Papa, male contro ai Vescovi, male contro i preti. Ne udii altri che bestemmiavano quando combattevano, quando [376] erano feriti, e perfin quando morivano. E ne udii di quelli che bestemmiavano in francese, in italiano, in piemontese.

                Giunto a casa dalla guerra io pensava di vedere le chiese piene di gente per ringraziare Iddio, perchè aveva fatto cessare la guerra. Invece ho trovato molti malcontenti e che parevano desiderare (sciocconi) più la guerra che la pace. Ma quello che è più, si continuavano ovunque le bestemmie e le imprecazioni in modo assai più empio che non fra i soldati. Si lavora e si fa lavorare nei giorni festivi. Ci sono le prediche e molti non vanno; ci sono preti e confessionali e molti per non recare loro disturbo, molti (che pur non sono nè eretici, nè ebrei) vi si accostano di rado, e non pochi si accostano mai, e taluno giunse fino a mettere in burla il bene che fanno gli altri.

                O minchioni che siete! Vi pensate forse che il Signore sia un burattino e che abbia voluto fare i suoi precetti sul monte Sinai per passatempo? No; egli li ha dati e vuole che si osservino. Chi li osserverà sarà da lui benedetto e premiato nella vita presente e nella futura; chi poi li disprezza, sarà da lui punito nella vita presente, e di poi nell'inferno condannato coi demonii nel fuoco, dove o volere o non volere andranno tutti coloro, che non osservano la legge di Dio. Perdonatemi questo trasporto di collera. Quando parlo di religione io mi sento tutto infiammato, ed a stento posso spegnere il fuoco che brucia e che mi eccita a parlare. Ora io vi accenno ancora altri flagelli che temo siano per avvenire in quest'anno.

                Avremo un'altra guerra sanguinosa, la quale, se non farà spargere tanto sangue, manderà però maggior numero di anime all'inferno. Avremo due malattie terribili, che io non voglio nominare, e di cui vedrete i terribilissimi effetti. Due cospicui personaggi scompariranno dalla faccia del mondo politico colla loro gloria.

                Molti padri e molte madri non sapranno darsi pace della insubordinazione dei loro figliuoli, piangeranno i disgusti che loro danno, lamenteranno discordie che cagionano in famiglia. Andranno in cerca del rimedio e non troveranno che veleno, perchè l'unico rimedio è la religione che essi medesimi trascurano.

                Vedrete il vino a miglior prezzo, ma il pane più caro. Un paese sarà rovinato dal terremoto, parecchi altri desolati dal gelo, dalla grandine e dalla siccità. [377] Vorrei dirvi ancora altre cose ma non oso. Vi dico solo che i mali sono gravi, e che devono cominciare in quest'anno e che l'unico rimedio per allontanarli o almeno alleggerirli è la pratica della religione, la fuga del male.

                Questi sono i miei presentimenti. Voi mi direte: - Tu, o Galantuomo, sei già vecchio, epperciò hai sempre paura di tutto, e temi anche dove non vi è motivo di temere.

                Vi rispondo: - È vero che essendo già un po' vecchio, son divenuto come gli altri vecchi pieni di paura. Ma notate bene che la paura dei vecchi è fondata sopra l'esperienza, e l'esperienza è un maestro che non inganna.

                Desidero però di tutto cuore che le mie profezie non abbiano il loro compimento, e che l'anno venturo quando, se sarò ancora in vita, verrò a farvi visita e vi possa parlare, voi possiate dirmi che sono stato un cattivo profeta, ed io sarò contento di potermi scusare dicendovi, che sono un profeta da Almanacco.

 

                L'Almanacco dopo la prefazione esponeva alcuni graziosi racconti fra i quali Il ritorno di un coscritto ferito a Palestro, il quale descrive il coraggio dei Piemontesi infiammato dalla presenza di Vittorio Emanuele, e la commozione del Re fino alle lacrime, visitando il giorno dopo il campo di battaglia.

                Finiva con un sonetto sul codino di Gianduia.

                Questo Almanacco non sfuggì alla vigilanza dei segugi della polizia e mise il governo in apprensione.

                Si andava macchinando per l'anno venturo una nuova invasione negli Stati Pontifici e l'annessione del regno di Napoli al Piemonte. I preparativi per queste spedizioni erano avvolti nel più misterioso segreto. Le idee del Galantuomo oscure abbastanza, perchè gli ingenui non capissero, erano chiare come il sole a coloro, che si maneggiavano astutamente per riuscire nei loro progetti. Quindi temettero che nelle loro file si celassero dei traditori e vollero conoscere [378] dallo stesso D. Bosco, quale fosse il motivo che lo aveva indotto a scrivere.

                Per tanto D. Bosco si vide chiamato al palazzo del Ministro dell'Interno. Fu ricevuto da un addetto al Ministero, il quale, fattogli urbanamente osservare come la lettera da lui scritta al Re fosse a suo giudizio poco rispettosa, entrò in discorso sulle profezie del Galantuomo.

                - È ben lei che le pubblica?

                - Sì, sono io, signor cavaliere.

                - Perchè scrive certe cose che mettono in apprensione molti? Che cosa sa lei del futuro? Perchè si atteggia a profeta ?

                - Le faccio osservare che scrivo per un almanacco.

                - Ma dove ha prese le notizie che annunzia con tanta sicurezza ?

                - Ho detto forse cose contrarie alla verità ?

                -Anzi! Io le domando come abbia fatto a saperle: Lei deve avere confidenziali rivelazioni.

                - Io non saprei che cosa rispondere. Nessuno è venuto a palesarmi cose di Stato. Credo però di non aver fatto male a scrivere ciò che ho scritto.

                - Non dica questo. Lei deve avere qualche fondamento per appoggiarvi le sue predizioni. Tuttavia avrebbe fatto meglio a non impacciarsi in questi fatti e in tali questioni.

                - Oh quando è così se lo avessi saputo stia certo che non voglio recar loro nessun dispiacere. Del resto le ripeto che nessuno può essere compromesso per causa mia.

                - Ma che! Vorrà dunque che io creda che la V. S. legga nell'avvenire?

                - È padrone di credere ciò che meglio le piace.

                - Insomma l'ho fatto chiamare per dirle non essere [379] conveniente, anzi essere cosa pericolosa entrare in controversie che possono preoccupar il governo.

                - Scusi, Cavaliere, io non vedo ragione di pericoli e di preoccupazioni: O il ministero mi crede profeta e allora provveda al bene dello Stato, o non mi crede profeta e allora mi disprezzi.

                Sorrise quel Signore e, raccomandandogli di essere più prudente in avvenire, lo congedò.

 

 

CAPO XXIX. Sistema  Preventivo in pratica - Sante industrie - Accoglienza di D. Bosco ai giovani che entrano nell'Oratorio - La sua prima parola riguarda l'anima - Effetto di questa parola - Il maestro di riforma morale - La Confessione e la Comunione - Alcuni mezzi per promuovere la frequenza ai Sacramenti - Avvisi ai Superiori dell'Oratorio - Calma e moderazione nel castigare - Due classi di giovani pericolose - D. Bosco vuol essere informato di ogni fatto anche minimo dell'Oratorio - Le liste dei voti - Diligenza degli assistenti e loro affezione a D. Bosco - Importanza che danno gli alunni ai voti - Come D. Bosco esamini le cagioni del poco profitto di alcuni nello studio - Un registro rivelatore della condotta occulta di certi allievi - L'ultima parola di D. Bosco ai giovani che partono dall'Oratorio - Sua carità verso di essi - Maniere salutari e prudenti nell'incontrare un antico allievo.

 

                Entrando coi nostri racconti nell'anno 1860, giudichiamo opportuno di esporre le svariate sante industrie adoperate da D. Bosco per guidare sulla via del bene i suoi giovanetti, che di anno in anno crescevano in numero. Quanto finora abbiamo narrato di [381] lui e del suo zelo, è già molto, considerato in sè; ma non è tutto perchè la carità inventiva di D. Bosco era inesauribile.

                Molte persone interrogarono D. Bosco in varii tempi quale fosse il suo sistema di educazione per condurre i giovani così felicemente per la strada della virtù. Don Bosco soleva rispondere: - Il sistema preventivo: la carità! - Pressato a dar maggiori spiegazioni e a suggerire i mezzi che si potrebbero adoperare per far trionfare questa carità, una volta rispose: - Il santo timor di Dio infuso nei cuori. - Ma il santo timor di Dio non è che il principio della Sapienza, gli scriveva il Rettore del Seminario di Montpellier nel 1886; favorisca di spiegarmi il suo segreto, perchè io possa giovarmene pel bene de' miei Seminaristi. - D. Bosco leggendo questa lettera, diceva ai membri del Capitolo, che gli stavano intorno: Il mio sistema si vuole che io esponga! Ma se neppur io lo so! Sono sempre andato avanti senza sistemi, come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano. Tuttavia noi osserviamo che egli aveva un sistema suo proprio, il quale in poche parole così puossi pennelleggiare: carità, timor di Dio, confidenza nel superiore, frequenza dei Ss. Sacramenti della Confessione e Comunione, comodità grandissima ai giovani di potersi confessare. È vero che, come abbiamo visto e come vedremo, Iddio assistevalo continuamente; e questa assistenza speciale, che formava come la base dei suo sistema, non era cosa che da altri potesse pretendersi: ma in ciò che si può dire mezzo ordinario ed umano, egli apparisce facilmente imitabile ad un Direttore Sacerdote, compreso del suo imperioso dovere di salvare le anime.

                D. Bosco ripeteva sempre: - Ogni parola del prete deve essere sale di vita eterna e ciò in ogni luogo e con qualsivoglia persona. Chiunque avvicina un sacerdote deve riportarne sempre qualche verità, che gli rechi vantaggio al [382] l'anima. - Fedele egli stesso nel mettere in pratica questa gran massima verso tutte le persone anche estranee, con affetto ed efficacia la praticava co' suoi giovanetti ricoverati nell'Oratorio.

                Riguardavali tutti come un prezioso deposito confidatogli da Dio stesso e parlando di loro soleva dire, giubilando di santa allegrezza: - Dio ci ha mandato, Dio ci manda, Dio ci manderà molti giovani. Teniamone conto. Oh! quanti altri giovani ci manderà in avvenire il Signore, se sapremo corrispondere con sollecitudine alle sue grazie. Mettiamoci davvero con ardore e sacrifizio per educarli e salvarli.

                Al comparirgli d'innanzi nella sua stanza un giovane di fresco accettato, la prima parola che dicevagli era sempre dell'anima e dell'eterna salvezza. La sua amabilità di modi paterni, il suo viso sereno, il suo sorriso abituale predisponeva i cuori ispirando rispetto e confidenza. Per rallegrarlo e diminuirgli la pena, che generalmente si prova nella lontananza dei proprii cari, incominciava:

                - Quanto sono contento di vederti! Sei venuto volentieri, non è vero? Or su dimmi: Come ti chiami? di che paese sei?

                Il giovane rispondeva.

                - Come stai di sanità?

                - Sto benissimo.

                - E i tuoi parenti? Hai ancora padre e madre? Stanno bene?

                - Sissignore.

                - Hai dei fratelli?

                - Sissignore.

                - E il tuo parroco?

                - Mi ha detto di salutarla. [383]

                - Ti piacciono le pagnotte? Ti serve l'appetito?

                - Sissignore. 

                Così fattosi largo con queste o simili interrogazioni, passava subito al più importante e preso un aspetto un po' sostenuto tra il serio e il sorridente, tutto proprio di lui: - Là, là, diceva abbassando un po' la voce in atto di confidenza, parliamo di ciò che importa di più! Voglio che siamo amici sai! Vuoi esserlo mio amico? Io voglio aiutarti a salvare l'anima tua! Come stiamo di anima? Eri buono a casa? Ma qui ti farai più buono, non è vero? Ti sei ancora confessato? A casa ti confessavi bene? Mi aprirai il tuo cuore, non è vero? Voglio che andiamo in paradiso insieme! Mi capisci che cosa voglio da te? Mi verrai a trovare? Vedi: ci parleremo con tutta confidenza; ti dirò delle belle cose che ti faranno piacerei Sarai contento.-

                Il giovanetto sorrideva, annuiva col capo, rispondeva con qualche monosillabo, o abbassava gli occhi e arrossiva secondo si andavano succedendo le interrogazioni, che però non erano insistenti, nè aspettavano risposta. D. Bosco intanto coll'occhio scrutatore tutto lo penetrava, e ne indovinava il carattere, l'ingegno, il cuore.

                A chi vedeva fornito di perspicace intelligenza talora domandava:

                - Mi dai la chiave?

                Quale chiave, gli chiedeva il giovanetto con sorpresa; quella del baule?

                - Quella del tuo cuore! rispondeva D. Bosco, prendendo un contegno affabilmente maestoso.

                - Oh sì! Volentieri! Subito! anzi glie l'ho già data!

                Così D. Bosco tirava a sè dolcemente e fortemente l'anima del giovanetto, che sotto l'espertissima sua mano, come arpa soave, tramandava note di santi propositi. [384] Sovente i parenti stessi gli presentavano il loro figliuolo, e quando si erano ritirati, commossi pel modo cordiale col quale erano stati accolti, rimasto egli solo coi giovane, dicevagli:

                - Io voglio essere proprio tuo grande amico. Sai che cosa voglio dire?

                - Che lei mi darà il pane.

                - Non è questo!

                - Che mi darà buoni consigli.

                - Non è tutto!

                - Che mi insegnerà la scuola, l'arte.

                E il giovane fantasticava la risposta.

                - Ricordati! Io e i superiori della casa ti faremo tutto il bene che potremo, e nulla di male. Capisci?

                - Mi pare: ma non intendo bene.

                - Voglio dire che io ed i superiori faremo tutto il bene che possiamo all'anima tua. - E quindi spiegava brevemente questa sentenza.

                Talvolta incontrava nel cortile un nuovo alunno che non aveva ancor visto, e dopo le interrogazioni d'uso e qualche barzelletta continuava:

                - Voglio che tu sia un mio grande amico. Sai cosa vuol dire essere amico di D. Bosco?

                - Vuol dire che io sia obbediente.

                - È troppo generica questa risposta: Essere amico di D. Bosco vuol dire che tu mi devi aiutare.

                - In che cosa?

                - In una cosa sola: che tu mi aiuti nel salvare l'anima tua. Del resto poco m'importa. Sai tu che cosa vuol dire aiutarmi a salvare l'anima tua?

                - Vuol dire farmi buono!

                - Non è questo! Dimmi qualche cosa di più spiegato. [385]

                - Non saprei!

                - Vuol dire che tu devi fare prontamente e con diligenza tutte le cose, che io ti comanderò pel bene dell'anima tua.

                I giovani in generale restavano così colpiti da queste parole, così fuori di sè, come balordi, che non sapevano più da che parte passare per uscire dalla camera di D. Bosco o per ritirarsi da lui, se il colloquio era venuto sotto i portici; e poi andavano soli in un angolo del cortile a meditare su quello che avevano udito. Taluni avevano capito tutto, altri solo a metà, certuni poco o nulla, ma pure restavano sotto un misterioso peso, che li costringeva a pensare. In generale questa introduzione nell'Oratorio li risolveva a farsi veramente buoni.

                Sceso poi in cortile e circondato subito da una folla di allievi, che da qualche anno vivevano nell'Oratorio, i novelli discepoli si accalcavano dietro a costoro, o perchè non osavano avvicinarsi a D. Bosco, o farsi strada per essere più vicini a lui. D. Bosco allora li chiamava a sè e sottovoce, in santa confidenza diceva or all'uno or all'altro di essi: - Se ti farai buono saremo amici. - D. Bosco ti vuol bene e vuole aiutarti a salvare l'anima tua. - Il Signore ti ha qui mandato, perchè tu fossi sempre più buono e più virtuoso. - La Madonna aspetta che le regali il tuo cuore. - Il Signore vuole fare di te un S. Luigi.

                D. Bosco assicurava che i giovani presi così, sono contenti, aprono il loro cuore, incominciano a far bene, diventano amici col Superiore e sono guadagnati, perchè ripongono in lui piena confidenza. Dir loro subito e chiaro senza ambagi ciò che si vuole da essi pel bene dell'anima, dà la vittoria sui cuori. D. Bosco ne trovò ben pochi che resistessero a queste maniere. Egli asseriva che all'entrata di un giovane se il Superiore non dimostra amore per la sua eterna [386] salute, se teme di entrare a parlare prudentemente di cose di coscienza, se parlando dell'anima usa mezzi termini, ovvero parla in modo vago, ambiguo di farsi buoni, di farsi onore, ubbidire, studiare, lavorare, non produce alcun effetto giovevole, lascia le cose come sono, non si guadagna l'affezione; e sbagliato quel primo passo non è tanto facile correggerlo. Questo ammonimento è frutto di lunghissima esperienza. - Il giovane, ripeteva sovente D. Bosco, ama più che altri non creda che si entri a parlargli de' suoi interessi eterni, e capisce da ciò chi gli vuole e chi non gli vuole veramente bene. Fatevi adunque vedere interessati per la sua eterna salute.

                Con tali modi D. Bosco invitava i giovani ad andarsi a confessare, poichè l'idea di anima ha per strettissimo correlativo quella di confessione; ed essi intendevano che se avessero voluto giovarsi del suo ministero, li avrebbe ben volentieri aiutati. Ma nel fare tale invito usava singolare destrezza e moderazione memore della gran massima che la confidenza vuole essere guadagnata e non imposta. Adattava perciò gli avvisi alle varie indoli, in modo da non riuscire molesto, ma sibbene di dolce conforto.

                A taluno, che D. Bosco scopriva un po' restio a fare questo primo passo, per vincere la ripugnanza, che quegli aveva a confessarsi, soleva dirgli scherzando: - Quando ti preparerai a fare la tua confessione generale della vita futura ?

                Sorridendo il giovane rispondeva: - Della vita futura? Questa non si può fare!

                - Hai ragione, ripigliava allora D. Bosco. La faremo della vita passata: ma sta tranquillo. Quello che tu non saprai dire, lo sa D. Bosco.

                Talora metteva attorno a tali giovani un buon compagno, [387] il quale divertendosi con essi rivolgesse loro qualche consiglio acconcio e in bel modo li invitasse a fargli compagnia nell'andarsi a confessare il tal giorno, la tale ora; e con queste ed altre amorevoli industrie, li guadagnava o li conservava a Dio e rendevali altresì modelli di virtù e di perfezione cristiana.

                Soffriva poi grandemente nel vedere talvolta alcuni dei novelli star solitarii e coll'aspetto melanconico, temendo le insidie del nemico del bene. Allora li chiamava a sè, rivolgeva loro qualche amorevole interrogazione, con particolare interesse li presentava a qualcuno dei migliori allievi, facendogliene l'elogio e raccomandandogli che trovasse il modo di ricreazione più gradito ai nuovi amici; e non si acquietava finchè non li avesse affezionati a sè, alla casa, avviati alle loro occupazioni e principalmente alle pratiche religiose.

                Prima cosa adunque che D. Bosco esigeva da un giovanetto nel suo entrare in collegio era la riforma morale, il cui principio sta in una buona confessione. Egli potevasi ben dir maestro in questa riforma, e da tutto conoscevasi l'efficacia ammirabile de' suoi consigli. Oltre a ciò era un modello di cristiana e paterna amorevolezza. Il Teol. Can. Ballesio Giacinto nella sua Vita intima di D. Giovanni Bosco, così si esprime: “Amante ed espansivo, schivava nel suo governo con noi il formalismo artificiale ed il rigorismo che pone come un abisso tra chi comanda e chi obbedisce; ed esercitava l'autorità, ispirando rispetto, confidenza ed amore. E le anime nostre gli si aprivano con intimo, giocondo e totale abbandono. Tutti volevamo confessarci da lui, che a questa santa e ad un tempo dura fatica consecrava da sedici a venti ore per settimana e ciò con tutto il suo da fare e per tanti anni! Sistema questo direi più unico che raro tra superiore e dipendenti; sistema dei santi (e solo di questi) che [388] dà agio a conoscere l'indole e saviamente piegarla e sprigionarne le recondite energie”.

                La confessione era anche preparazione alla Comunione e questa molto frequente è un mezzo assolutamente necessario per conservare la moralità in una casa di educazione. Per le sue esortazioni continue un gran numero di giovani la facevano tutti i giorni, altri ancor più numerosi più volte alla settimana, quasi tutti almeno una volta ogni domenica, i più negligenti ogni quindici giorni o una volta al mese. Era cura di D. Bosco di far nascere occasioni frequenti e periodiche che eccitassero i cuori a questa sacra mensa colla debita preparazione. Accenniamo ad alcune di queste occasioni, che erano predisposte da sentiti atti di pietà.

                L'esercizio della buona morte pel primo giovedì d'ogni mese, il quale veniva quasi sempre preceduto dall'annunzio dato da D. Bosco, che qualcuno dei giovani era chiamato all'eternità. Egli precisava il tempo, talora le circostanze che avrebbero accompagnata quella morte, e alcune volte le iniziali del nome di colui che doveva morire. D. Bosco stesso leggeva poi all'altare le preghiere di questa commovente pratica di pietà.

                Tutte le novene solenni della Madonna erano celebrate devotamente. E D. Bosco vivamente istava che si facessero bene quelle dell'Immacolata e del S. Natale, dicendo: - Ricordatevi che da queste novene ben praticate dipende in massima parte il risultato di tutto l'anno.

                La visita quotidiana al SS. Sacramento era libera, senza che vi fosse obbligo di sorta o pressioni importune. E tale era in chiesa il contegno dei giovani, che il solo vederli bastava per accendere alla pietà i cuori più freddi. L'artista che scolpì la statua di S. Luigi, posta sopra un altare dell'Oratorio festivo di S. Francesco di Sales, ritrasse [389] sul viso del santo la fisionomia di uno di quei buoni fanciulli.

                Le varie Compagnie, veri focolari di carità e giardini di virtù.

                La scelta dei libri da leggersi in refettorio e in camerata. D. Bosco voleva che questi ultimi trattassero della santa vita di qualche giovanetto da potersi imitare.

                La Via Crucis fatta con tutta solennità in ogni venerdì di marzo.

                Un triduo di prediche al principio dell'anno scolastico, un altro triduo di prediche in preparazione della Pasqua e cinque giorni di santi spirituali esercizi ogni anno.

                Ma oltre i Sacramenti e le pratiche di pietà egli, per mantenere il bene ed impedire il male, aveva altri mezzi, diremmo razionali, pel buon andamento dell'Oratorio, suggeriti dallo studio continuo sulla vita comune dall'acume del suo ingegno e da una lunga esperienza. Questi esponeva nelle conferenze ai superiori della casa ai quali sovente diceva: - Perchè la vostra parola abbia prestigio e ottenga l'effetto voluto, bisogna che ciascun Superiore, in ogni circostanza, distrugga il proprio io. I giovani sono fini osservatori e se si accorgono che in un superiore c’è gelosia, invidia, superbia, smania di comparire e primeggiare egli solo, è perduta ogni influenza di lui sopra del loro animo. La mancanza di umiltà è sempre a danno dell'unità e un Collegio, per l'amor proprio di un Superiore, andrà in rovina. Ah! sì! Fioriranno sempre i tempi antichi dell'Oratorio se si guarderà solamente a procurare la gloria di Dio; ma se cercheremo la nostra gloria, ne verrà malcontento, divisione, disordine. I confratelli facciano un corpo solo col Superiore e questi un cuor solo con tutti i suoi dipendenti, senza aver mire secondarie, che non servono pel nostro [390] santo scopo. Pertanto raccomandava loro di usare una grande moderazione nelle parole, trattando con quei confratelli, o altri che fossero loro sottoposti: - Nel comandare, ripeteva, si usino sempre queste ed altri simili espressioni: Potresti farmi il piacere? Vuoi farmi cosa gradita? Saresti disposto a farmi un favore? Non avresti difficoltà a fare la tal cosa? Ma non si usi mai il tono di comando: non si dica mai Voglio e neppure si comandino cose superiori alle forze di un individuo, o dannose alla sanità, o contrarie al bene spirituale di colui, che si vuole indurre ad un'opera, o ad accettare un ufficio.

                Ai maestri inculcava: - Siate i primi a trovarvi nella scuola e gli ultimi ad uscirne. - Prendetevi particolar cura di quelli che sono più indietro nella classe. - Non fate entrare nel voto di condotta scolastica i diportamenti dei vostri allievi in ricreazione. - Non mandate mai fuori di scuola i ragazzi negligenti e tollerate molto le loro dissipazioni. - La vigilia delle feste datene un brevissimo annunzio coll'esortazione alla Comunione, sul finir della scuola del dopopranzo. Grande è l'influenza che ha la parola del maestro sugli scolari, quando è da essi amato. - I voti di condotta non si leggano mai al sabato, perchè il malumore di quelli, che ebbero nota di negligenti non diminuisca o disturbi le confessioni. Alla domenica sera nella sala dello studio, alla lettura del libro ameno solito a leggersi nell'ultimo quarto d'ora, si sostituisca quella di un Capo del Regolamento, come ricordo, a perseverare nei buoni propositi fatti al mattino.

                Agli assistenti dava anche questi avvisi: - Sorvegliate continuamente i giovani in qualunque luogo si trovino, mettendoli quasi nell'impossibilità di far male; e in modo più attento alla sera dopo la cena, e così prevenire anche il [391] menomo disordine. - Il sabato sera o la vigilia di qualche solennità, quando i giovani escono dallo studio o dai laboratorii si invigili, affinchè non vadano o non si fermino per le scale, pei corridoi e nei cortili col pretesto di andarsi a confessare; e si procuri che ognuno abbia con sè il Giovane Provveduto, per la preparazione ed il ringraziamento della confessione.

                Raccomandava a tutti quelli posti in autorità: - Non battete mai i ragazzi per nessun motivo. - Non si tolleri mai nè l'immoralità, nè la bestemmia, nè il furto. - Conosciuto un alunno come scandaloso o pericoloso, si consegni al Prefetto, il quale tosto lo allontanerà dall'Oratorio. Trattandosi di mancanze leggiere sappiasi considerare il poco giudizio dell'età infantile. Per esempio, è difficile trovare ragazzi, che non dicano bugie o avutane occasione non commettano piccoli furti di commestibili. - Quando siete adirati od agitati astenetevi sempre dal fare riprensioni o correzioni, affinchè i giovani non credano che si agisca per passione; ma aspettate anche qualche giorno, quando sia spento ogni sdegno e collera, o passata quella violenta impressione. - Così pure quando si deve fare qualche correzione, riprensione od osservazione ad un giovane, si procuri di prenderlo sempre in disparte, e non mai allorchè quello si trovi agitato e adirato: si aspetti che sia calmo e tranquillo; allora si avvisi e in fine si lasci sempre con qualche buona parola: per esempio che d'ora in poi volete essere suo amico, aiutarlo in tutto ciò che potete, ecc.

                E aggiungeva: - Quando un allievo si dimostra pentito di un fallo commesso siate facili a perdonargli, e perdonate di cuore. Dimenticate tutto in questo caso. - Nessuno mai e poi mai dica ad un ragazzo o ad altri che abbia disubbidito, detta qualche parola insolente, o mancato in [392] altra maniera di rispetto: Me la pagherai! Questo linguaggio non è da cristiano. - Non si diano gravi castighi per cose leggere, perchè un alunno che si crede castigato a torto, ne conserverà in cuore la memoria e talvolta anche il desiderio di vendetta, e non potendo vendicarsi imprecherà a quel maestro e a quell'assistente. Si hanno degli esempi di simili odii inveterati che fanno spavento. - Quando si è costretti ad infliggere qualche castigo ad un ragazzo, si procuri di prenderlo in disparte, di fargli riconoscere il suo torto, e nello stesso tempo fargli intendere il vero dispiacere che si prova nel doverlo punire. - Non s'impongano mai castighi generali ad una classe, ad una camerata, ma si procuri di scoprire gli autori del disordine e, se fa d'uopo, si allontanino dalla Casa; ma si separi la causa dei buoni da quella dei cattivi, i quali son sempre pochi; acciocchè per questi pochi non abbiano a soffrirne i molti. Ma nello stesso tempo si dica ai colpevoli, che hanno buona volontà, qualche parola d'incoraggiamento, lasciando sempre luogo alla rescipiscenza, perchè si rimettano sulla buona strada.

                Due norme di grande sapienza dava anche D. Bosco ai suoi collaboratori per scoprire e allontanare dall'Oratorio certi allievi, e diceva: - Per conoscere moralmente i giovani pericolosi fin dal principio dell'anno io li distinguo in due classi. I cattivi, corrotti di costumi e quelli che abitualmente si sottraggono all'osservanza delle regole. E primieramente in quanto ai cattivi dirò una cosa che sembra impossibile, ma pure è così come io affermo. Fra cinquecento alunni in un collegio supponiamo vi sia un solo guasto di costumi. Ecco entrare un nuovo accettato, ed egli pure infetto dal vizio. Questi due sono di paesi, di provincie, anzi di stati diversi: di classe, di camerata distinte; non si sono mai conosciuti, mai visti; eppure al secondo giorno di [393] collegio, e talvolta anche dopo poche ore, voi li scorgete insieme nel tempo della ricreazione. Sembra che un malefico istinto li spinga ad indovinare chi è tinto dalla stessa loro pece, e che una calamita del demonio li attiri a stringere amicizia. Il dimmi con chi pratichi, e ti dirò chi sei è un mezzo facilissimo per scoprire le pecore rognose prima ancora che diventino lupi.

                Un'altra classe di allievi non si deve tenere in casa. Quando avrete qualche giovanetto che pare buono, ma è spensierato, si assenta facilmente dai luoghi, ove lo vuole la regola, lo trovate spesse volte solo negli angoli del cortile, su per le scale, sui balconi, nei ripostigli, insomma nei luoghi nascosti all'occhio del Superiore, temete sempre. Non lasciatevi illudere da apparenza di timidezza, di naturale solitario, di leggerezza o di ingenuità. Costui o sa fingere bene o incontrerà immancabilmente chi lo guasterà. Ritenete che questi individui sono pericolosissimi.

                Ma D. Bosco non si contentava di dare norme agli altri; il lavoro principale per la conservazione dell'ordine in casa lo riserbava a sè. Egli faceasi consegnare dagli assistenti e dai maestri la lista dei voti settimanali e mensili di ciascun alunno sia di studio e lavoro, come di condotta. Tante erano le liste quanti i maestri, compresi quelli delle scuole serali, i capi di camerata, quelli di ogni laboratorio. Ogni lista era firmata da colui che doveva presentarla al Superiore. Le prime liste dei voti che ci sono rimaste risalgono al 1857-58. In margine a queste si legge sempre qualche osservazione.

                Oltre questi rapporti commentati, D. Bosco ne richiedeva altri speciali. Voleva anche che gli fossero presentati ogni settimana i voti ottenuti dagli alunni del Cottolengo, che frequentavamo le sue scuole come esterni; quelli dei chierici i quali erano assistiti da un proprio decurione. [394] Se era costretto ad allontanarsi da Torino per qualche settimana non tardava a chiedere notizie particolareggiate de' suoi figliuoli. Abbiamo una relazione dei voti sulla condotta degli studenti della seconda classe ginnasiale, dei giovani delle sette camerate, e degli ascritti alla Compagnia di S. Luigi. Il chierico che aveva ricevuto questo incarico in calce al foglio scriveva a D. Bosco:

 

                               Ill.mo Signore e Padre in G. C. Carissimo,

 

                Molte cose avrei a dirle. Pensi un po': non essendomi ancora presentata occasione alcuna di parlarle in particolare, poichè venni a riunirmi di bel nuovo a Lei dopo le vacanze! Qui però non giudico bene dirle ciò che bramerei. Per ora godo presentarle secondo i suoi desideri questa lista dei miei alunni e figli suoi carissimi, dalla quale vedrà che la cosa andò ancora bene assai, se ne eccettuiamo alcuni pochi. Se io Le dicessi poi che la sua lunga assenza non mi fa alcunchè di malinconia e dolore sarebbe menzogna. Ma viva Dio, che questo vien temperato dal pensiero, che Ella guadagnerà colle sue fatiche qualche anima a Cristo, che Ella lavora per la salute del nostro prossimo, dei nostri fratelli.

                Basta: venga presto a trovarci. Io La voglio, ognuno la cerca, la brama, la desidera: tarda ci è l'ora di vederla, giungere fra noi l'amorosissimo nostro padre.

                Colla ferma speranza intanto che si ricorderà sempre di me, e dei suoi figli tutti che più di se stesso ama, Le porgo per me e per tutti i miei compagni e fratelli cordiali saluti e godo dirmi.

                Di V. S. Ill.ma

Ubb.mo e Dev.mo figlio in G. C.

VASCHETTI FRANCESCO.

 

                Questa lettera fa testimonianza del cuore che avevano i maestri e gli assistenti per D. Bosco e il loro impegno nell'adempiere il proprio dovere. Essi infatti nelle liste dei voti, che trasmettevano al Servo di Dio, scrivevano in margine [395] qualche sentimento, che esprimeva devozione e interesse speciale di fargli cosa grata.

                Riferiamo alcune di queste note. La prima dice: - Il sottoscritto assistente tratto da figliale obbedienza ed affezione verso la bontà sua, le rinnova la preghiera di ammonirlo nelle sue mancanze e ne' suoi difetti.

                Un altro chierico gli scriveva: - All'esemplarissimo Rua ed all'attento Danussi incombe l'uffizio di ammonitori nelle mie mancanze: il primo poi è tenuto a farmi da assistente ed a notarmi i punti.

                Un terzo concludeva la sua lista dei voti scrivendo:

                Dopo aver letto, se vostra signoria illustrissima e carissima me lo permette, verrò a dirle due parole.

                E D. Bosco spesse volte chiamava a sè gli assistenti, i maestri, il capo dello studio, il Catechista, il Prefetto, intrattenendosi con essi a parlare di ciò, che avevano osservato nella casa. Questo continuo scambio di idee e di osservazioni incoraggiava coloro, che dovevano stare in mezzo ai giovani e teneva al corrente di ogni cosa il Superiore.

                Intanto gli alunni sapendo che i loro voti meritati passavano sotto gli occhi di D. Bosco, e vedendo che tutte le Domeniche venivano a lui consegnati quelli dello studio in comune, davano a questi voti una massima importanza. Il 10 ossia l'optime era il voto più comune; il 9 o fere optime strappava lacrime a chi se l'era meritato; il bene e molto più il medie ossia l'8 ed il 7 di condotta scolastica erano giudicati voti così scadenti, da poter essere puniti coll'allontanamento dalla Casa. Bisogna osservare che questi voti si davano con certo qual rigore, tenendosi per massima che quegli, che era mantenuto dalla carità, doveva esserne degno. D. Bosco però chiedeva allora il voto che il giovane aveva ottenuto in scuola, lo confrontava con quello dello [396] studio, e talvolta trovava che maestro e capo studio non erano dello stesso parere. Perciò di questi voti scadenti, ci assicurò Mons. Cagliero, D. Bosco non dava subito giudizio, ma ne ricercava la causa, che talvolta non dipendeva dagli alunni. Uno era incolpato di essere nello studio distratto quasi abitualmente. Un altro dopo un'oretta di occupazione trovava giuocatoli per divertirsi oppure leggeva libri ameni. Un terzo non finiva mai il suo compito. Un quarto non imparava la lezione intera. D. Bosco però, un dopo l'altro, li faceva salire in sua camera in giorni diversi e dava loro alcune pagine da studiare a memoria, oppure una piccola composizione da scrivere: quindi li interrogava. Questi era scusato dal tardo ingegno, sicchè stentava a tener dietro alle lezioni. In quello scopriva una portentosa memoria, che però si riduceva a intendere le cose senza riflettere. L'altro aveva poca memoria, ma giusto criterio; e dava a ciascuno le norme per occupare e con profitto il tempo. Quindi avvisava i chierici che vedendo di quelli distratti o che dormicchiavano, li avvicinassero amorevolmente, e sottovoce chiedessero loro se avessero inteso ciò che studiavano, se trovassero difficoltà nel compito; e che loro dicessero: - Sei contento che ti aiuti? A questo modo taluni che sul principio parevano inetti allo studio fecero bella riuscita.

                Pochi pertanto erano gli studenti meritevoli di rimprovero. Nessuno potrà mai immaginarsi la smania che in quei tempi vi era di studiare. Se i giovani andavano in refettorio tenevano aperto e accanto a sè il libro: accorciavano il tempo della ricreazione per ritirarsi in un angolo e ripassare la lezione: di notte cercavano di avere un posto vicino al lume onde vegliare allo studio quanto più tempo potevano. Ci volevano avvisi continui per impedire abusi che potevano rovinare la loro sanità. [397] D. Bosco intanto per sua parte giovavasi in vantaggio morale della casa dei registri dei voti di condotta e dei rapporti degli assistenti per scoprire in modo sorprendente coloro, che sapevano nascondere la loro malizia agli occhi dei Superiori. Oltre il registro ufficiale della condotta, teneva un registro particolare con tutti i nomi dei giovani e tutte le volte che udiva qualche rapporto disonorevole, qualche mancanza leggiera, ma di quelle che fanno stare all'erta un uomo prudente, qualche serio sospetto sulla condotta di un alunno, egli a fianco del nome poneva uno dei segni convenzionali che esso solo intendeva e che specificavano la qualità del male imputato. Talora in un mese un nome solo poteva portare dieci o quindici segni e talora segni che tutti indicavano la stessa cosa. D. Bosco di quando in quando dava una lettura attenta a questo registro. Su cento giovani, novanta non avevano nessun segno, ma dieci o dodici portavano il loro nome segnato più volte. Esso allora volgeva tutte le sue cure su questi ultimi, indagava più minutamente la loro condotta, ponevali sotto sorveglianza speciale, osservava quali compagni frequentassero, facevali interrogare, e li interrogava egli stesso, e ben difficilmente il diavolo poteva nascondere la sua coda e le sue amicizie. D. Bosco raccomandava sovente ai suoi direttori questo sistema assicurando, che avevalo trovato grandemente vantaggioso, anzi quasi infallibile ne' suoi responsi.

                Col suo registro alla mano al fin di ogni anno scolastico nel mese di giugno provvedeva alla moralità per l'anno seguente. Faceva lo spoglio del nome di coloro, che non erano più da accettarsi e consegnatolo al Prefetto, lo incaricava di farli rimanere a casa per l'anno venturo. Abbiamo ancora la lista degli espellendi colla data del 15 maggio 1859. Deve notarsi che in quest'anno vi furono le insubordinazioni [398] per causa della guerra. Ebbene: sopra 300 giovani sono in lista soli 15 e 4 nomi hanno a lato la parola dubbio. Questa carta riesce adunque a grande onore dell'Oratorio. Notava eziandio i nomi dei giovani da non tenersi più fra gli studenti e che bisognava applicare ad un'arte; di quelli artigiani che si meritavano di passare fra gli studenti; di coloro che non troppo buoni si potevano riaccettare dopo le vacanze e tenere per fare ancora una prova.

                Ma se anima, come abbiamo detto, era la prima parola di D. Bosco quando un giovane entrava nell'Oratorio, era pur l'ultima quando ne usciva. “E furono pressochè quindicimila, assicura Mons. Cagliero, che D. Bosco ha ricoverati, mantenuti, educati nel solo Ospizio di Torino; ed un numero assai maggiore egli istruì e catechizzò negli Oratorii festivi di questa città come esterni: e tutti godettero del benefizio delle sue benedizioni paterne e sacerdotali”.

                Or bene: verso tutti questi giovani si mostrò tenerissima la sua carità, e non solo verso i buoni sia studenti, sia artigiani che per varii motivi ritornavano ai loro paesi, dopo avere compiuti i loro studi, o dopo aver appreso un mestiere; non solo verso i giovani esterni, che venivano a congedarsi da lui prima di abbandonare Torino; ma eziandio verso quelli, che non avevano corrisposto a tante sue cure, e sui quali talora aveva riposte le sue speranze. Tutti questi egli o accoglieva o chiamava a sè, mentre stavano sul partire, e con singolare benevolenza dava loro i suggerimenti necessarii per la prosperità relativa allo stato, che avrebbero scelto; e benedicendoli li esortava a fare sovente ritorno all'Oratorio, a conservarsi virtuosi e degni figli di D. Bosco, a salvare insomma l'anima loro.

                Non li dimenticava mai e talvolta sapendo che alcuno di essi si trovava in qualche bisogno, con amorevolezza [399] paterna li soccorreva o procurava di cercar loro aiuto presso le persone benefiche. Ad un nostro calzolaio, soldato, la cui famiglia era povera, il quale veniva a visitarlo, D. Bosco diceva: - Ti han dato in casa qualche soldo? - E alla risposta negativa: - Prendi, soggiungeva, mettendogli in mano alcune monete; e non dire niente a nessuno. Se ti trovi in bisogno vieni pure da me. - Quanti altri fatti di simil genere si potrebbero scrivere!

                E con questi atti di beneficenza continuava ad essere il padrone dei loro cuori, per darli a Dio, ed era sempre per essi quel buon padre, che aveva rallegrati i loro anni giovanili. Perciò D. Bosco incontrandoli dopo anni ed anni francamente ripeteva loro quella parola, colla quale li aveva salutati quando partivano. Anima! Diceva loro:

                - Ebbene! Tu una volta eri buono; non è vero?

                - Non saprei...

                E adesso sei ancora buono?

                Già che adesso... sa bene... siamo in mezzo al mondo...

                Vai a confessarti? - ovvero: - Quando tornerai a trovarmi? - e quindi qualche parola sotto voce, secondo la risposta.

                D. Bosco esortava anche i suoi Direttori a tenere questo metodo coi giovani, che venuti uomini talora s'incontrano, ovvero ritornano a far visita al collegio. Dir loro sorridendo: - Hai fatta Pasqua? - Ovvero: quando ti sei confessato? - Ma far queste raccomandazioni senza preamboli; come sarebbero i seguenti: Vorrei dirti.. Se non ti offendi.. Se mi permetti ecc. - Nulla di ciò, ma lanciare una parola come freccia e poi passare subito ad altro argomento. Ciò fa buona impressione, altrimenti no. Si potrebbe però aggiungere: Neh che son curioso! - o altra frase simile; ma nulla di più.

 

 

CAPO XXX. Sante industrie - D. Bosco in mezzo ai giovani: sua carità e loro affezione - Le ricreazioni clamorose - Saggi consigli e osservazioni -- Ricordi in rima - Versi latini - Proposizioni di non facile intendimento - Dante - Le regole della grammatica - Un'operazione d'algebra - Sapienti risposte di Gianduja - Lezioni d'igiene - Indovinelli e misteriose domande - I giovani intorno a D. Bosco - La parola all'orecchio - Lo sguardo che parla - Gli schiaffetti.

 

                La carità suggeriva a D. Bosco tante sante industrie per guadagnare anime a Dio, che dire di tutte e della pazienza da lui adoperata, sarebbe cosa oltremodo difficile. Elleno furono tante, e tanto degne, da superare ogni elogio. Così solennemente affermava Mons. Bertagna; e noi a quelle molte che già abbiamo descritte, e delle quali daremo ancora qualche cenno per maggiori schiarimenti e ordine di racconto, altre ne aggiungeremo che i nostri lettori apprenderanno con piacere ed ammirazione.

                Prima industria era mettere in atto la sua divisa: Servite Domino in laetitia. Timore di Dio, lavoro e studio indefesso e sovrattutto, come corona, la santa allegria; ecco la vita [401] dell'Oratorio. E questo mirabile insieme rendeva il vivere dei giovani in Valdocco giocondo, entusiasta e per la quasi totalità ineffabilmente soave. Chi non ha visto, difficilmente si fa un'idea del chiasso, dell'ingenua spensieratezza, dei giuochi, della gioia di quelle ricreazioni. Il cortile era battuto palmo a palmo nelle corse sfrenate, e D. Bosco che era l'anima di tutti quei divertimenti, da lui voluti e promossi, ne godeva con immenso piacere. E i giovanetti che sapevano come tutte le volte che egli poteva prendesse parte alle loro ricreazioni e conversazioni, tratto tratto alzavano gli occhi alla camera del buon padre; e allorchè egli compariva sul poggiuolo, levavasi da ogni parte un grido di contentezza. Buon numero di giovani gli correva incontro ai piedi della scala per baciargli la mano.

                Pochi, noi crediamo, ci furono al mondo che attraessero a questo modo i fanciulli a sè e che sapessero giovarsi di questa affezione pel loro bene. D. Bosco in mezzo ai suoi figliuoli era l'amabilità stessa in persona. Mons. Cagliero, i chierici e li stessi giovani dicevano di lui: Apparuit benignitas Salvatoris nostri.

                - Sta allegro! - incominciava a dire D. Bosco a qualcuno che gli si fosse presentato, mesto e fosco in viso. E queste due parole pronunciate da lui producevano un magico effetto, dissipando la tristezza, sicchè il giovane sentivasi pronto e volenteroso al dovere.

                Come stai di sanità? - chiedeva ad altri, e se faceva d'uopo s'informava che non avesse a patire per qualche deficienza di cure. Nella stagione invernale sembrandogli che un giovanetto patisse il freddo, colle dita tastava le sue braccia per riconoscere se avesse indosso una maglia di lana sufficiente e poi gli diceva: - Ma tu non sei vestito abbastanza! E sul letto hai coperte che ti tengano al caldo? [402]

                E lo mandava al guardarobiere perchè lo provvedesse di tutto il necessario. Così faceva con quanti incontrava allorchè parevagli che soffrissero ed anche con alcuni ai quali avrebbero dovuto provvedere i parenti.

                Ora all'uno ed ora all'altro faceva sempre conoscere aver egli a cuore tutto ciò che poteva interessarlo. Gli chiedeva notizie dei suoi genitori e della sua famiglia, del parroco, del maestro comunale e di quei suoi conterranei che avesse conosciuti; gli diceva che scrivendo a casa salutasse a suo nome questo e quell'altro e specialmente il padre e la madre; gli narrava qualche fasto più memorabile del suo paese, perchè egli sapeva a memoria gli avvenimenti che riguardavano molte città e i villaggi degli stati Sardi; gli parlava della chiesa parrocchiale, del campanile, di tutto ciò insomma che può essere amato da un giovanetto, il quale brillava di gioia a questi ricordi, ed era riconoscente a quell'amorevolezza del Superiore.

                Erano però brevissimi questi suoi discorsi, allorchè scendeva in ricreazione, sia perchè prevedeva che non tutti si sarebbero rassegnati a star fermi per ascoltarlo, sia perchè godeva vederli in movimento. E per ciò che non amava vedere gli studenti occupati in giuochi che richiedessero troppa tensione di mente, e vietava che si mettessero nei cortili panche per sedere. Non approvava le carte, la dama, la tela, gli scacchi, dicendo: - La mente ha bisogno del suo riposo.

                Quindi da savio educatore prevenivali, invitandoli a giuochi che esercitavano le forze fisiche. Ed egli stesso associavasi ai loro divertimenti e talora li sfidava alla corsa.

                Altre volte invitava tutti al giuoco della bararotta, ed egli si faceva tirare tra le file di una squadra, quando vedeva nella schiera avversaria un giuocatore che da lungo tempo [403] teneva una condotta equivoca, e si studiava di star lontano da lui per non essere ammonito. Incominciava il giuoco e quando era bene avviato e massima la confusione di quelli che correvano, D. Bosco adocchiata l'ambita preda, usciva a tempo dalla sua trincea, e schivando ogni intoppo, la prendea mentre tutti gridavano: Prigioniero, prigioniero! E allora D. Bosco dicevagli scherzando una di quelle parole che legavano a lui i cuori.

                Se non sentivasi in forza per questo esercizio, disponeva i giovani in fila a due a due, mettevasi in testa della schiera e poi in marcia e avanti. Egli intonava lo stornello piemontese: Un, doi, polenta e coi, i giovani lo ripetevano centinaia di volte, andando con passo cadenzato, battendo le mani e i piedi con tale fracasso sotto i portici da farne tremare la terra. Ora si usciva all'aperto, ora si rientrava tra le arcate. Ora si piegava a destra ora a sinistra; ora si montava le scale da una parte, si passava per un corridoio, si discendeva per un'altra scala. E sempre battendo le mani e levando la voce, secondo l'esempio che dava loro D. Bosco. Infine, stanchi ma lieti, sentivano con rincrescimento il suono del campanello che li chiamava alle proprie occupazioni. Questa passeggiata teneva luogo di una pattuglia in perlustrazione.

                Moltissime volte, e in ispecie nel 1859-1860, Don Bosco schierava centinaia di giovani in mezzo al cortile in una sola fila, che egli precedeva, dopo aver detto: - Venitemi sempre dietro; e ciascuno metta il piede sull'orma di chi lo precede. - Egli batteva le mani a cadenza, imitato da coloro che lo seguivano; ed ora volgeva a destra, ed ora a sinistra, ora camminava diritto, ed ora seguiva una linea obliqua, e nel rivolgersi ora formava un angolo acuto, o un angolo retto ed anche un circolo. A un tratto diceva: alt! I giovani che lo avevano seguito in tutti quei giri [404] capricciosi restavano disposti, uno presso l'altro, in gruppi bizzarri dei quali un osservatore non ne avrebbe potuto capire il perchè. Ma altri giovani che, da questi movimenti capivano già l'intenzione di D. Bosco, correvano sul poggiolo, osservavano come ogni gruppo formasse una lettera cubitale e vi leggevano chiaramente distinte le parole: VIVA PIO NONO. Non essendo prudenza in quegli anni emettere quel grido, mentre il Pontefice era minacciato ed assalito ei lo scriveva coi capi de' suoi figliuoli. Altre volte formava un VIVA MARIA: oppure un VIVA S. LUIGI. Nel 1861 D. Bosco eseguì ancora questo giuoco, ma un giorno nel quale i giovani lo attendevano con ansietà per continuarlo, egli passeggiò sotto i portici, s'intrattenne cogli uni e cogli altri, e in fine si ritirò nella sua stanza. Da quel momento non se ne fece più parola. Forse gli costava troppo studio quella manovra. Così D. Albera Paolo.

                Non sempre D. Bosco giuocava e allora in mezzo ai giovani non taceva mai, volendo in ogni modo occupare la loro mente; e non si può dire quanto piacevole fosse la sua conversazione, ricca di frasi, piene di spirito e di narrazioni amene. Incominciamo a riferire alcuni dì quei motti da lui rivolti a preti, chierici o alunni che gli erano intorno in refettorio o che incontrava nel suo passaggio anche fuori dell'ora di ricreazione. I veri figli di D. Bosco non avevano segreti per lui, quindi sovente ad uno - che sapeva trovarsi in qualche difficoltà, ripeteva: - Niente ti turbi, ha detto Santa Teresa!

                A chi era angustiato, da tribolazioni o di corpo o di spirito: - Tutto passa!

                Ad un altro che mal volentieri sopportava le molestie arrecategli da certi compagni: - Vince in bonum malum. Alter alterius onera portate. [405] Provando qualcuno ostacoli negli studii o nel suo uffizio: - Per la via si aggiusta la soma all'asinello, cioè: operando si superano le difficoltà. - E tutti sapevano come egli si mettesse all'opera senza aspettare che le difficoltà, anche grandi, venissero del tutto appianate.

                Interrogato di qualche fatto doloroso, che aveagli recato disturbi, osservava: - Mia madre diceva che non vi è alcun paese dove succedano tante miserie, come in questo mondo.

                Talora si parlava di imprese guerresche, difficili ma fortunate, di nuove regioni scoperte a prezzo di viaggi pericolosi e mille stenti, di invenzioni scientifiche o meccaniche, frutto di lunghi studii e dopo aver sofferto contraddizioni, invidie ed ingiustizie. - E lei? e le sue opere iniziate? chiedeva taluno a D. Bosco. Ed egli con quel sorriso e con quell'aria faceta che sapeva così ben sostenere, diceva con certa solennità: - Il mondo è di chi se lo piglia. Gli arditi ottengono ciò che vogliono. Audaces fortuna juvat. Tradidit Deus terram disputationibus eorum.

                Se parlavasi di grandiosità, di fortune, di gloria, di fama, di ricchezze, di imprese riuscite: - Vanitas, vanitatum et omnia vanitas praeter amare Deum et illi soli servire.

                Chi era vicino a D. Bosco imparava sempre qualche cosa e riceveva sempre lezioni salutari.

                Poetava spesso in mezzo al cortile. Dopo aver ripetuta la sentenza: Tempora mutantur et nos mutantur in illis coi seguenti versi parlava della fugacità del tempo:

                Il tempo passa e non s'arresta un'ora E la morte vien dietro a gran giornate; E le cose presenti e le passate Mi danno pena e le future ancora.

                Ovvero: Fugit irreparabile tempus. Tempora labuntur tacitisque scenescimus annis. [406]

                Volendo insegnare ai suoi figli di non lasciarsi trascinare dalle belle apparenze a giudicare della felicità altrui, cadeva spesso ripetere i seguenti versi del Metastasio:

 

Se a ciascun l'interno affanno

Si vedesse in volto scritto,

Quanti mai che invidia fanno

Ci farebbero pietà!

Si vedria che i lor nemici

Hanno in seno; e si riduce

Nel parere a noi felici

Ogni lor felicità!

 

                Altre volte improvvisava rime mettendo il nome del giovane, che gli si era avvicinato per baciargli la mano:

 

                Ad Antonio perchè buono

                Sarà dato il cielo in dono.

                Ma se tu sarai cattivo

                Del bel cielo sarai privo.

 

                E poi voltosi ad un altro:

 

                Se Carlin non sarà buono

                Non avrà il cielo in dono.

 

                E ad un terzo:

 

                Se sarà buono Roberto

                Premio in cielo avrà di certo.

 

                Ad un alunno che aveva un gran buon cuore, ma la testa piena di leggerezze, con gran sorpresa di tutti, disse cantando:

 

                Oh Francesco, Francesco, Francesco!

                Su nel cielo un gran bene ci aspetta,

                Là godremo una pace perfetta,

                E quel gaudio che fine non ha.

 

                E quindi rideva e faceva ridere quelli che gli stavano intorno.

                Altre volte, per distrarsi da pensieri troppo serii, ovvero [407] per interrompere un racconto di cose esagerate, o dispiacevoli, o alquanto contrarie alla carità e alla giustizia, usciva fuori con quel verso di Virgilio: Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum. Oppure ripeteva con Tibullo: Tum ferri rigor, atque argutae lamina serrae. E talora: Me mea paubertas vitae tráducit inerti.

                Quindi faceva rilevare l'armonia imitativa di questi versi con gran piacere dei giovani delle classi superiori, i quali vedevano D. Bosco ricordarsi a meraviglia degli studii da lui fatti essendo giovanetto e che erano quelli stessi da loro percorsi in quell'anno.

                Proponeva anche loro da tradurre semplici proposizioni latine, le parole delle quali poco usitate avevano doppio senso e in conseguenza presentavano difficoltà per essere intese.

                - Or su, diceva, chi di voi mi volge in italiano la frase: Homo ne, si vis esse; oppure quest'altra: Ne mater suam.

                La maggior parte delle volte gli alunni non riuscivano in quella traduzione e attendevano da D. Bosco una spiegazione che non tardava: -Ecco: la prima proposizione dice: Donna fila, se vuoi mangiare. La seconda: Fila, o madre, io cucirò.

                Ne proponeva altre, delle quali ne ricordiamo due: Non est peccatum occidere patrem suum. - Deus non est in coelo. E mentre la folla di giovanetti pensava, interrogava spropositava, scherzava, e vociava confusamente, dicendo a D. Bosco: - Dica lei! - Egli imposto silenzio, spiegava: Non è peccato uccidere il padre dei maiali. - Dio non mangia in cielo.

                Battimani e sonore risate accoglievano quella risposta.

                A quando a quando li invitava a recitare qualche tratto dei poeti classici italiani e specialmente della Divina Commedia [408]. Ed egli stesso ne ripeteva qualche terzina e talora un canto intero, sicchè appariva lo sapesse tutto a memoria. Infatti amava molto questo ammirabile poema e ne' suoi viaggi autunnali, o nelle visite alle case, specialmente dal 1874 al 1882 non dimenticava mai di porlo nella valigia per ricreare il suo spirito.

                Le stesse regole della grammatica latina, messe in versi italiani ottonari nel nuovo metodo, per quanto contorte e di non facile comprendimento, gli servivano per intrattenere piacevolmente gli studenti, in specie quelli di terza ginnasiale. Egli ripeteva quelle strofe, le spiegava, le faceva ripetere dai giovani, i quali già dovevano in scuola mandarle a memoria. E quell'istante di ricreazione fruttava utili ammaestramenti, ed eccitava il desiderio di approfittarne, perchè D. Bosco non avrebbe tralasciato poi di interrogare qualcuno.

                Ma ciò è più singolaree; queste stesse regole in un modo o nell'altro, direttamente o indirettamente gli servivano come di conclusione a certi suoi avvisi.

                Ad un assistente che non aveva troppo slancio nell'eseguire il suo dovere: - Ricordati, esclamava:

 

                L'infinito dell'attivo

                Ti darà l'imperativo.

 

                Osservando esservi disordine in cose necessarie, se non vi è armonia tra chi comanda e chi obbedisce, o eziandio se manca l'unione fra due che debbono convergere la propria azione ad un solo scopo, affermava: Questa è una sgrammaticatura.

 

Prima ognun sia persuaso

Accordarsi l'aggettivo

Col suo nome sostantivo

                In genere numero e caso. [409]

                E voltosi verso uno degli allievi e dei chierici continuava:

 

                Prima ognuno sia persuaso

                Che Giovanni ha lungo il naso.

 

                Quindi soggiungeva: - Sapete che cosa vuol dire questo verso?

                Sovente D. Bosco diceva ad un giovane della classe di filosofia: -Conosci qualche cosa degli elementi dell'algebra?

                - Sissignore.

                - Dunque sciogli il seguente problema A+B-C. Che cosa significa?

                Il giovane pensava, diceva quell'idea che prima si affacciava alla sua mente, ma non capiva.

                - Or dunque attento: Io dirò io ciò che tu non sai. A vuol dire allegro: + B vuol dire buono: - C indica cattivo, cioè: sii allegro, più buono e mai cattivo, ovvero meno cattivo se ti piace la frase.

                Talvolta si volgeva ad un'altro:

                - Ricordati i tre S.

                - E che cosa sono i tre S.?

                - Sanità, studio o sapienza, e santità.

                Quindi ad un chierico: - Anche tu non dimenticare: Salve, salvando, salvali.

                Avendo intorno a sè, anche artigiani, interpellato come si dovesse fare per avere sempre danari in sacoccia, rispondeva: - Gianduia era solito a dire: Se vuoi sempre aver danari, quando hai otto soldi in tasca, spendine solo quattro: e non spendere otto quando ne hai soli quattro, ma spendine due, e così non sarai mai senza danari.

                Parlando egli di questo prototipo del contadino piemontese narrava episodii faceti popolari. [410]

                Una volta Gianduia, sul teatrino in piazza era mesto, non voleva parlare, e stava tutto pensieroso.

                - Che cosa hai Gianduia che non parli stasera?

                Ed egli: - Sono mesto e afflitto perchè l'annata andò male.

                - Come sarebbe a dire?

                - E non vedi che l'Altissimo di lassù ci manda la tempesta pei nostri peccati, mentre l'Altissimo di quaggiù ci toglie quel che resta (colle imposte)? E intanto noi fra due altissimi restiamo poverissimi?

                Povero Gianduia! Dopo queste parole fu preso e condotto in domo Petri.

                Intendete che cosa vuol dire parlar male del Governo ?

                Un'altra volta Gianduia essendo sul palco fu interrogato: -Gianduia, dimmi un po': quale è il vino che ti piace di più, ossia il vino più buono?

                Ed egli silenzio.

                - Ti piace più la Barbera d'Asti?

                Gianduia con una smorfia rispose di no. - Il Barolo?

                - No!

                - Il Moscato di Strevi ? - No!

                - Di Siracusa? - No!

                - La Malvasia? il Bordeaux? il Nebbiolo? - No, no!

                - Il vino del Reno? Lo Champagne? L'Alicante?

                - No, no, no!

                - Il Tokai? il vino santo? il Caluso?

                - No! - Ed ognuno di questi no accompagnava con un gesto ridicolo da far morire dalle risa la gente. [411]

                - Quale è dunque il vino che ti piace di più?

                - Il vino che mi piace di più è quello che ho nel bicchiere; è quello che io posso bere! Che cosa importa a me che tu mi nomini tante qualità di vino tutto eccellente se io non posso averlo e non ne posso bere, minchione che sei?

                Queste amenità D. Bosco alternava coi salutari avvisi.

                Quando qualcuno si lamentava di leggieri incomodi, diceva: - Pitagora prescriveva sempre questi tre rimedii per ogni sorta d'ìncomodi: dieta, acqua fresca e moto.

                Altre volte ripeteva questa altra ricetta: Quies, mens ilaris, dieta.

                Ad uno che aveva paura di venir ammalato, raccontava: - Un convalescente per timore che qualche cibo gli facesse male voleva a pranzo essere assistito sempre dal medico. Ora avvenne che una volta gli portarono un pollo. Il medico incominciò ad osservarlo a fine di togliere quelle parti che credeva dannose all'infermo. Nel tagliare le ali disse: - Ala, mala e se le pose nel proprio tondo. Coxa noxa e fece lo stesso. Testa, infesta e idem. Così fece del corpo e finalmente esclamò: Colum sine pelle bonum e gli tolse la pelle e lo passò al suo cliente. Egli intanto si pappò quella pelle e tutto il resto. Hai capito? Metti adunque a banda le paure e le precauzioni non necessarie. Fidati un po' meglio della Provvidenza Divina. Ricorri alla protezione di Maria Santissima, e avanti con tranquillità!

                Variava continuamente i suoi scherzi proponendo indovinelli agli allievi e invitandoli a decifrarli. Ne aveva alcuni di sua particolare invenzione.

                - Oh come sei tutto verde! diceva ad uno, mi pare che tu sia ammalato.

                - Io? sto benissimo. [412]

                - Eppure ti dico che sei verde.

                - Non capisco.

                - Pensaci e capirai!

                Il giovane si ritirava, fantasticava, parlava coi compagni e poi ritornava: - Oh! D. Bosco, ho inteso che cosa vuol dire essere verde: vuol dire che sono una pianta che non porto frutto, è vero?

                - Finalmente: l'hai intesa, rispondevagli D. Bosco sorridendo.

                - Ma, mi metterò, sa: voglio proprio da qui innanzi farmi buono!

                Passato qualche giorno il giovanetto si presentava a D. Bosco: -Dica, mi guardi, sono ancora verde?

                - Hai un bel colore; si vede che stai meglio, ma c’è ancora qualche sforzo da fare.

                - È, vero, ma vedrà, vedrà...

                - Bravo; ma io l'ho sempre detto che sei un tomo.

                Talora accennava ad uno di quelli che aveva speranza di ammettere nella sua Congregazione e diceva di lui, dopo averlo guardato fisso: Est caput plectendum; oppure: Caput amputandum. - E il giovane il quale già aveva penetrato il senso di questo latino, rispondeva col suo sorriso.

                Ad altri diceva: - Ti voglio far cuocere, sai? - Oppure: - Non sei abbastanza cotto. - E con ciò indicava desiderare in lui un tenor di vita più perfetto, un fuoco di amor di Dio più sincero.

                Ad uno che aveva visto dissipato in Chiesa in tempo di predica: -Dimmi, interrogava, tu hai male ai denti, poveretto?

                - Io no!

                - Almeno mi sembrava che avessi male ai denti.

                E con ciò, come poi gli spiegava, intendeva dire che [413] masticava male la parola di Dio, che non la gustava, e che quindi non ne ricavava frutto. Dicendo: - Poveretto! Hai male al capo! - indicava i capricci e le disobbedienze.

                Un motto che aveva molto famigliare era questo: Quando è che ti metti a far miracoli? - Queste frasi talora le dirigeva all'improvviso a taluno che stava pensoso o pareva badasse distratto ad altro, ovvero quando uno parlava sommesso al compagno nel crocchio che lo circondava.

                Ad un giovane che da alcuni mesi non si accostava ai Sacramenti, un giorno disse: - Ehi l'amico! Non saresti disposto domani a pranzare con me? - E alla risposta affermativa, soggiunse: - Bada bene che io pranzo domani mattina alle 7 e mezzo - alludendo alla mensa Eucaristica durante la Santa Messa.

                Era un caro spettacolo contemplare D. Bosco in mezzo ad un bel numero di allievi che egli, mentre stava ragionando, passava in rivista ad uno ad uno collo sguardo; e per tutti aveva poi un motto. A questo: - Come stai? A quello: - Sei buono? - A chi sopraggiungeva: - Sei proprio un angioletto? - E chiusa la mano sollevava l'indice e il mignolo, facendo le cornette. E i giovani ridendo imitavano lo stesso gesto sopra la testa del compagno che avevano innanzi. Ad un piccolino che appoggiava in silenzio la testa al suo braccio, D. Bosco diceva: - Sta zitto! Ad un altro: - Ah! Cattivello! - e lo minacciava scherzevolmente col dito. Ad altri giovani: - Voglio che siamo amici: ma davvero e non per burla. - Dimmi, lo sei mio amico sincero? - E a qualcuno: - E quando ci vedremo? - E il giovane intendeva che trattavasi di parlare di cose dell'anima e della vocazione.

                Talora indirizzava un avviso ad un giovanetto e poi volgendosi improvvisamente ad un altro: - Hai capito? [414]

                Accadeva che qualcuno si avvicinasse a baciargli la mano ed esso stringendo quella del giovane e rattenendolo, dicevagli: - Va a fare una buona ricreazione. - E continuava a parlare coi circostanti; quindi si rivolgeva verso il piccolo prigioniero - Va dunque; gli ripeteva; che cosa fai qui;"

                - Ma se non mi lascia andare!

                D. Bosco sorrideva, continuava a tenerlo e a parlare; e poi: - Ma va, va: sei ancora qui?

                E il giovane sorrideva esso pure, e allora D. Bosco lasciavalo in libertà che corresse e saltasse. Egli usava questi tratti specialmente con quelli che sembrava avessero l'animo alquanto alienato da lui.

                A quelli che sospettava ruminassero qualche idea di mormorazione, vedendoli silenziosi e pensierosi, a un tratto domandava: - Che cosa dici?

                - Io? Nulla!

                - Credevo che avessi parlato.

                E così sorprendeva e faceva svanire qualche loro fantasia.

                E tutte queste sue frasi e modi finivano generalmente in una confidenziale parola che gli alunni appellavano: LA PAROLA NELL'ORECCHIO. Ma che cosa era questa parola della quale abbiamo fatto cenno più volte nelle nostre Memorie biografiche?

                Era come l'eco della parola di Dio: “viva, efficace e più affilata di qualunque spada a due tagli; e che s'interna sino alla divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture eziandio e delle midolle, e che discerne ancora i pensieri e le intenzioni del cuore”.[13] D. Bosco pertanto con gran zelo e prudenza, reggendo tutto col suo consiglio, informandosi di tutto, conoscendo ogni giovanetto interno ed esterno, [415] distinguendoli per nome e per carattere, sapeva porgere con irresistibile amorevolezza un avviso sempre addattato ai bisogni di ciascuno. Ma ciò che dava massima efficacia a tale parola, si è, che tante volte questa indicava ad un giovane cose segrete solo a lui note, e sovente avvenimenti futuri che lo riguardavano e poi pienamente avverati. Gli alunni perciò davano un'importanza immensa a questa sua santa industria e costumanza, e quindi si può arguire, ma non conoscere mai in tutta l'estensione, i suoi mirabili effetti di aumento di virtù e di salute delle anime.

                Spesse volte D. Bosco diceva ad un giovane: - Vuoi che ti dica una parola? - Ovvero i giovani stessi gli chiedevano: - Mi dica una parola! -E D. Bosco passava una mano sul capo del giovane e curvandosi al suo orecchio gli parlava in segreto, coll'altra mano facendo riparo alla sua bocca, perchè nessuno potesse udire. Era cosa degna d'essere vista il vario aspetto che prendevano le fisionomie dei giovani in quell'atto: ora sorridenti, ora serii; taluno veniva rosso fino alla radice dei cappelli, tal'altro si metteva a piangere; questo accennava un sì, l'altro un no. Questi si ritirava pensieroso a passeggiare solo: quegli gridava un grazie e correva a giuocare; un terzo si avviava subito alla chiesa per visitare Gesù in Sacramento. Chi dopo aver ascoltato non sapeva più staccarsi da D. Bosco, restando come assorbito da un'idea grandiosa e chi a sua volta facendo riparo colla mano alla propria bocca rispondeva nell'orecchio di D. Bosco o faceva un'interrogazione. La parola che D. Bosco diceva a ciascuno non durava più di pochi secondi. Era però come un dardo di fuoco che penetrava nel cuore e vi restava fisso in modo da non poterlo più svellere. Ora era un consiglio, ora un'osservazione, un eccitamento al bene, ed eziandio un rimprovero. D. Bosco infatti non soleva rimproverare [416] aspramente e molto meno in pubblico. Mai faceva conoscere aver poca stima per un giovane, ed anche coloro che sentivano non essere meritevoli di riguardi, sapevano che D. Bosco non li avrebbe in nessun modo svergognati. Egli in tutta la sua vita non umiliò mai nessuno, eccettuato il caso nel quale si dovesse riparare ad uno scandalo da tutti conosciuto. Quindi la fiducia e l'abbandono nel superiore della quasi totalità di costoro. Così l'avviso amichevole, non disonorava, produceva il bene e perseverava nel suo effetto. “La riprensione fatta al saggio ed all'orecchio docile, dicono i proverbi al Capo XXV, è un orecchino d'oro con una perla rilucente”.

                Queste parole più comunemente suonavano così: -Potresti farmi un fioretto alla Madonna? Studiare un po' meglio la lezione? - Gesù ti aspetta in chiesa per un po' di visita. - Togliti quell'abitudine di mettere le mani addosso agli altri. - Ti sei confessato bene? - Perchè non vai più sovente alla comunione? - Ah! quei compagni! - Coraggio! invoca Maria e ti aiuterà. - Se tu potessi vedere lo stato dell'anima tua! - Continua così; la Madonna è contenta di te! - Ricordati bene: Dio ti vede. - La morte, ma non peccati. - Fatti buono che ci troveremo insieme in paradiso.- Procura di fare una buona confessione e proverai una gran contentezza. - Qui faciunt peccata hostes sunt animae suae. - Recita cinque Pater alle piaghe di Gesù pel fine di ottenere che niuno di quelli che muoiono in questo giorno vada all'inferno. - Aiutami a salvare l'anima tua. - Allegri! un giorno staremo insieme  col Signore. - Sii obbediente e sarai santo. - Chiedi alla Madonna la grazia di non cader mai in peccato in vita tua. - Puoi dormire tranquillo questa notte? -E cento altre frasi di simil genere che variavano secondo il bisogno. E un occhio esperto ne vedeva talvolta [417] l'effetto immediato, negli uni coll'accostarsi ai santi Sacramenti, negli altri col maggior raccoglimento nelle preghiere, colla diligenza più esatta nel loro doveri collo smettere certe gelosie, certi modi violenti, inurbani o tediosi verso i condiscepoli. E ve ne furono parecchi di questi, dei quali potremmo fare il nome, che vennero portati a tale fervore di pietà da fare penitenze straordinarie, per cui D. Bosco dovette frenarli.

                Ma i primi ad accorgersi dell'efficacia di questa parola erano quelli stessi cui era indirizzata. “Asserisco, ci narrava un venerando sacerdote, un fatto particolare avvenuto a me replicatamente, quando ero giovanetto. Vedendomi Don Bosco preoccupato nelle ore della ricreazione, mi sapeva suggerire parole così opportune che io mi sentiva distolto dai pensieri molesti, e posso dire anche dalle tentazioni da cui forse sarei stato tratto al male. E così senza avvedermene rientrava la pace nel mio cuore e mi trovava bene. Ciò egli faceva non solo con me, ma con tutti, ed eziandio alla sera, quando gli si avvicinavano per dargli la buona notte, poichè nessuno andava a riposo senza avergli baciata prima la mano”.

                Qui noteremo come le sue insinuanti e amabili maniere producessero fino oltre al 1860 un grazioso e singolare fenomeno. I giovani, in qualsivoglia luogo D. Bosco si trovasse, anche in mezzo al cortile, gli palesavano il proprio cuore con piena confidenza, e se qualche cosa turbava la loro coscienza non andavano a letto se prima non l'avessero confessata a D. Bosco stesso. Piuttosto vegliavano alla sua porta, bussavano leggermente, fintantochè loro non venisse aperto. Ma col peccato indosso non potevano riposare tranquillamente.

                Non tutti però gli alunni si avvicinavano con tanta [418] figliale affezione a D. Bosco. Vi erano talora delle eccezioni anche notevoli, ma pur in queste la parola di D. Bosco produceva i suoi effetti, giungendo spesse volte inaspettata all'orecchio de' suoi figli.

                Talvolta egli scorgendo in mezzo ad un crocchio di compagni un dissipatello, tutto caldo nel sostenere una sua opinione, lo interrompeva, lo chiamava a sè e gli diceva: - Voglio che facciamo una bella cosa. - E interrogandolo il fanciullo che cosa mai fosse il da farsi, ci soggiungeva all'orecchio: - Voglio che facciamo un buon bucato, perchè tu possa divenire amico di Dio, ed essere protetto da Maria Santissima.

                Mentre un altro disperatamente correva in ricreazione tutto assorto nel giuoco, sicchè non sapeva più se fosse in cielo o in terra, ecco D. Bosco fermarlo.

                - Come stai ?

                - Benissimo!

                - Anche di anima?

                A questa interrogazione imprevista il giovane guardava D. Bosco un po' confuso, poi abbassava gli occhi, crollava il capo, si grattava le orecchie e: - Già... ma..;

                - Se morissi domani, stanotte, oggi, saresti contento?

                - Non troppo.

                - Dunque quando verrai a confessarti?

                - Domani mattina!

                E in generale mantenevano la parola.

                Qualche giovane malizioso cercava studiosamente di sfuggire alla presenza di D. Bosco, non avendo il coraggio di sopportare il suo sguardo. D. Bosco ne seguiva tutti i passi e quando l'altro credendosi sicuro, in un crocchio di compagni, stava animatamente discorrendo, ecco due mani all'improvviso porsi sovra i suoi occhi e tener ferma la sua [419] testa, perchè non potesse rivolgersi. Il giovane era lontano mille miglia dal supporre chi fosse colui che facevagli simile scherzo e, credendolo un compagno, prima si metteva a nominare qualcuno cercando di indovinare, poi impazientiva, quindi gridava: lasciatemi stare; e talora finiva con improperii, con nomi ingiuriosi, ed anche col dare qualche calcio. Allora le due mani si toglievano dai suoi occhi, egli volgevasi rapidamente e un: Oh D. Bosco! usciva quasi tremante dalla sua bocca. La confusione, l'imbroglio, nel quale si trovava il povero giovane non si può descrivere. Restava lì, rosso in viso, colla testa bassa, immobile. D. Bosco allora mentre l'altro prendea la mano per baciargliela, dicevagli:

                - Perchè mi fuggi?

                - Io no!

                - Dunque saremo amici? Senti una parola: e mentre gli parlava nell'orecchio il giovane col capo prometteva di sì.

                Allorchè D. Bosco tornava da qualche suo viaggio, i giovani con vivo entusiasmo gli correvano incontro e si stringevano intorno a lui. Ma qualcuno restava indietro appartato dagli altri, e questo era segno infallibile che tenevano qualche cosa nascosta nel cuore. Per molti anni costoro non furono mai più di due o tre per volta, prova consolante che all'Oratorio le cose procedevano bene. S'intende che su costoro D. Bosco rivolgeva tutta la sua attenzione, perchè lo star lontano da lui era segno evidente di coscienza disordinata.

                Egli in questa circostanza vedendo coloro che eransi messi in qualche imbroglio, stare osservandolo dietro alla folla de' compagni, ma da questa staccati di quattro o cinque passi, usciva a dire: - Io ho portato un bel regalo per qualcheduno di voi!- I giovani pieni di curiosità aspettavano di vedere quel regalo. [420]

                - E sapete a chi voglio darlo?

                I giovani incominciavano a metter fuori il nome dei più buoni.

                - Voglio darlo a quelli là!

                Tutti si volgevano indietro meravigliati che si trattasse di coloro, che essi sapevano bene non essere buoni. Que' tali che stavano appartati erano rimasti di sasso, ma D. Bosco li nominava ad uno per uno, li invitava ad avvicinarsi, mentre i compagni aprivano loro la via. 1 merlotti erano nella rete, una dolce parola mormorava lene lene nel loro orecchio e non passava la sera, oppure il mattino seguente senza che fossero andati a confessarsi.

                Conchiudiamo questo argomento coll'attestazione di Mons. Cagliero. “Sovente questa parola all'orecchio usciva come un'affocata giaculatoria con ardenti sospiri, e noi che gli eravamo vicini ci sentivamo scaldati di amore per Dio e per lui che pur tanto ci amava nel Signore: - Tutto per il Signore e perla sua gloria! - Era questo il suo ritornello quotidiano, che risuonò al mio orecchio migliaia di volte e che egli ripeteva ad alta voce dal pulpito, nel confessionale e nelle private conferenze. E questa fu l'unica ardente brama della sua vita”.

                Ma Iddio aveva concesso a D. Bosco il dono della parola con tanta pienezza che tutto in lui, sguardo, accento, movimento, aveva ragione di linguaggio. Coll'occhio in modo speciale, esercitava simultaneamente le potenze della mente e del cuore. Col suo sguardo misurato, calmo, sereno, s'impossessava del pensiero altrui con attrazione irresistibile; e colla stessa forza, quando il voleva, era egli stesso compreso. Spesso con un motto, un sorriso, accompagnato dallo sguardo fisso, valeva una domanda, una risposta, un invito, un discorso intero. [421] D. Belmonte Domenico ci assicurava che simile meraviglia, non solo udilla raccontare da molti testimonii, ma che egli stesso la constatò per propria esperienza essendo alunno e poi quando fu chierico e prete. “Tante volte, ei disse, D. Bosco guardava un giovane in modo così particolare, che i suoi occhi dicevano ciò che il suo labbro in quel momento non esprimeva, e gli faceva comprendere ciò che desiderava da lui. E il buon giovane rispondendogli col labbro stupiva di aver perfettamente compreso il ragionamento intellettuale di D. Bosco. Talvolta si trattava di cose che non avevano alcuna relazione con ciò che prima era detto, oppure si aveva in quell'istante visto od operato; era un'interrogazione che personalmente non riguardava l'interrogato: un comando, un avviso, un consiglio, per la scuola, per la ricreazione o per altro. E si intendeva benissimo”.

                Sovente seguiva collo sguardo un giovane in qualunque parte egli andasse del cortile e dei portici, mentre egli tranquillamente conversava con altri. Ma ad un tratto lo sguardo di quel ragazzo s'incontrava con quello di D. Bosco e leggendo in quell'occhio così limpido un desiderio di parlargli, veniva a chiedergli che cosa volesse da lui. E Don Bosco glie lo diceva all'orecchio.

                Non di rado, mentre aveva innanzi molti allievi, ne fissava uno o due, facendo colla mano quasi visiera ai suoi occhi, come chi è contro luce e vuole veder meglio; e pareva penetrasse nell'intimo del loro cuore. Eglino restavano confusi, moriva sul labbro loro la parola e sentivano in sè che egli conosceva qualche loro segreto. E infatti leggeva nel loro sembiante qualche oscurità di colpa o di rimorso. Un suo leggero muover di capo allora bastava: non vi era più bisogno di altro invito; restava solo da stabilire il momento della confessione. [422]

                D. Bosco guardava ancora nel modo sopraddetto, allorchè qualcuno gli faceva una promessa che sapeva non sarebbe stata mantenuta; ovvero gli diceva cosa contraria alla verità. Ma quell'atto esprimeva questa volta, e chiaramente un dubbio od un rimprovero, o una negazione, ed era come l'esordio di un buon avviso.

                Accadeva eziandio che mentre D. Bosco confessava in sacrestia passasse un giovane che aveva tutt'altra intenzione che quella di confessarsi, benchè ne avesse bisogno. Eppure se D. Bosco lo avesse fissato in volto benignamente, accadeva quel che si narra dell'usignuolo che resta affascinato dal serpe. Il giovane non poteva più allontanarsi. Si arrestava indeciso, poi faceva ancora un passo verso la porta, ritornava indietro, si appressava a D. Bosco, cadeva in ginocchio ed aspettava il suo turno per confessarsi. Si era sentito attirare a lui da un'amabile forza, era svanita ogni ripugnanza, e si era accesa subito nel suo cuore la confidenza figliale. Ciò abbiamo saputo da nostri intimi amici che avevano esperimentato quella benefica influenza.

                In ricreazione chi aveva conosciuto come troppo curioso nel voler sapere ciò che altri facesse o dicesse, o nell'ascoltare qualche facezia o discorso non conveniente, egli coll'indice gli comprimeva leggermente il lobo dell'orecchio sul padiglione in atto di sigillarlo. Se vedeva qualcuno un po' libero negli sguardi, quasi per scherzo gli toccava le palpebre abbassandole come per chiudergli gli occhi. Ad un altro prendendo le due labbra col suo pollice e l'indice gli chiudeva la bocca, volendo così significare che non l'aprisse per mormorare. Ciò faceva con una delicatezza impareggiabile senza pronunciar parola, ma il suo sguardo spiegava tutto. Erano avvisi eloquentissimi ed indelebili.

                Oh la potenza dello sguardo di D. Bosco! Un alunno a [423] notte avanzata non poteva prendere sonno. Irrequieto ora si volgeva sopra un fianco, ora sull'altro. Ad ogni istante sospirava, sbuffava e a quando a quando mordeva le lenzuola. Un compagno, che dormiva a lui vicino, svegliatosi: - Ehi amico! Che cosa hai? - gli disse. Ma non ebbe risposta e l'altro continuava a gemere. - Ma che cosa hai?

                - Che cosa ho? Ieri sera D. Bosco mi ha guardato!

                - Oh bella! È forse questa una novità?

                - Mi ha guardato in un certo modo... Oh! io li conosco gli sguardi di D. Bosco.

                - Ti sarai sbagliato. Abbi pazienza, e non disturbare la camerata, concluse quel giovane; e al mattino chiese a D. Bosco se egli alla sera antecedente avesse guardato quel compagno con qualche intenzione speciale. E D. Bosco gli rispose: - Domanda un po' a lui che cosa gliene dice la coscienza! - E la coscienza rispose in modo, che il poveretto andò a confessarsi e rimase tranquillo.

                Agli sguardi univa D. Bosco modi faceti perchè si ritenessero i suoi avvisi. Per eccitare qualcuno alla perseveranza nella virtù, con una certa sostenutezza, mescolata ad un mezzo sorriso indefinibile, soleva usare una industriosa cerimonia di sua invenzione colla seguente formola: - Fede, speranza, carità, buone opere, amicizia. Pronunciando la parola fede lo toccava leggermente coll'estremità delle dita di una mano sulla guancia destra; alla parola speranza toccava sulla guancia sinistra; dicendo carità era un piccolo colpo sul mento; sul naso proferendo buone opere; e ripercotendo un po' più forte la guancia destra diceva amicizia. Ciascuno poi rimaneva più contento di sostenere questo scherzo di quello che se avesse ricevuto qualunque premio dei più ambiti, e sentivasi grandemente animato ad essere buono, come tutti ad una voce attestavano. [424]

                Un altro motto misterioso aveva sempre sulle labbra. Talora un chierico o uno studente gli chiedeva come facesse a conoscere l'avvenire e ad indovinare tante cose segrete dì ogni fatta.

                - Ascoltami: il mezzo è questo e si spiega con Otis, Botis, Pia, Tutis. Sai cosa significano queste parole?

                - Io, no.

                - Sta attento: sono parole greche.

                - E compitando ripeteva: - O, tis... Bo, tis... Pi, a... Tu, tis. Capisci?

                - È un affare serio intendere.

                - Lo so ancor io. Io stesso non ho mai voluto manifestare ad alcuno che cosa significasse questo motto. E nessuno lo sa, nè mai si saprà, perchè non mi conviene dirlo. Questo è il mio gran segreto col quale opero tutte le cose straordinarie; con questo leggo nelle coscienze, per mezzo di questo mi si aprono tutti i misteri. Ma se tu sei furbo guarda se puoi capirne qualche cosa.

                E ripeteva quelle quattro parole puntando successivamente al pronunciar di ciascuna di esse, il dito indice sulla fronte, sulla bocca, sul mento, sul petto del giovane e finiva col dargli all'improvviso uno schiaffetto.

                Il giovane rideva, gli baciava la mano, ma istava: Almeno mi traduca in lingua volgare le quattro parole.

                - Posso tradurle, ma non capirai la traduzione. - E scherzevolmente gli diceva in dialetto piemontese:

                Quando ti danno delle botte, pigliale tutte.

                Tutti i presenti scoppiavano dalle risa a tale conclusione.

                Questi piccoli schiaffi producevano un altro effetto salutare. Imbattendosi D. Bosco con un giovane di aspetto melanconico, lo chiamava a sè, voleva sapere la causa di [425] quella tristezza: l'ammoniva che S. Filippo Neri insegnava essere la malinconia l'ottavo peccato capitale; e consolandolo con buone parole e promesse, finiva con dargli un di que' schiaffi e dicendogli - Sta allegro! - E con ciò, cosa mirabile, lo restituiva alla primiera allegrezza. Questa virtù consolatrice era talmente conosciuta e provata dagli alunni, che se loro sopravveniva qualche cosa da renderli meno lieti, ricorrevano subito a D. Bosco, per ottenere un suo rassicurante sorriso.

                Talvolta qualche giovane in mezzo ai compagni non badava a ciò che si diceva o si faceva dagli altri, sicchè pareva che il suo spirito passeggiasse nei regni della luna: ed ecco all'improvviso D. Bosco dargli un buffetto sulla faccia.

                Il giovane come smemorato, rivolto a lui: - Che cosa fa? - diceva a D. Bosco.

                - S. Filippo Neri faceva così coi suoi giovani dicendo: Io non batto te, ma il demonio che ti tenta. - E noi eravamo persuasi, ci disse Mons. Cagliero, che D. Bosco conoscesse aver quel tale una qualche tentazione per capo.

                Oltre a ciò negli alunni era fissa la persuasione che gli schiaffi di D. Bosco avessero la virtù di renderli forti contro il demonio. Quindi D. Bosco dava sovente qualche schiaffo a qualcuno, a loro richiesta, e scherzando diceva: - Per quest'oggi il demonio non verrà più a toccarti. - Alcuni se ne facevano dare vani e Don Bosco scherzando assicuravali, che per sei mesi il malo spirito gli avrebbe lasciati tranquilli. Un giovanetto un giorno chiese che gliene desse un maggior numero e lo guarentisse per sempre. D. Bosco rispose sorridendo: - Fino a sei mesi vado, ma non di più. - Poi prese un aspetto più serio: - Un giovane, continuò, che per vincersi, non aveagli giovato l'orazione, la penitenza e la sua buona volontà, riuscì ad ottenere il [426] suo scopo col ricevere tutti i giorni uno schiaffo da D. Bosco. -Vedevasi altresì un giovanetto afflitto da qualche perturbazione interna avvicinarsi a D. Bosco in mezzo ai compagni e senza dir parola porgere la guancia a D. Bosco, in atto di aspettare uno schiaffetto. Ricevutolo, correre via tutto allegro come chi ha riportato un gran favore. Ciò era cosa di tutti i giorni.

                Nel 1861 prima delle vacanze di Pasqua un alunno in sul partire domandò a D. Bosco un ricordo. Egli senza dirgli niente gli diede uno schiaffo leggermente, e poi gli disse: - Va pure a casa che il demonio non ti toccherà più. - Il giovane ritornato che fu dalle vacanze attestò di aver riportato un gran bene da quello schiaffo e che ogni qualvolta avesse dovuto ritornare a casa avrebbe domandato un simile ricordo.

                Abbiamo una letterina che ricorda questi scherzi di D. Bosco, se pure scherzi vogliono chiamarsi.

 

                               Amato mio padre,

 

                Oh! fossi sempre figlio di D. Bosco non solo di nome, ma di fatti. Sotto una sì bella bandiera si batte e si vince. Quel suo schiaffo che ultimamente mi regalò, mi è sempre improntato in faccia e quando il penso, ecco la faccia arrossirmi e mi par proprio di aver l'impronta delle sue amabili dita. Me ne mandi pure dei bei schiaffetti che io li attendo.

                Io amo più D. Bosco che non il mondo intero. Lo crede? La è pur così. E se nel decorso della giornata mi si affaccia qualche tristezza o qualche malo pensiero, eccomi subito libero al solo ricordare il caro mio D. Giovanni. O caro D. Bosco, eccomi a lei prostrato: tutto le offro quanto può esigere da me; di tutto a lei ne fo dono. Lei mi accetti qual suo infimo servo e non cancelli dal gran libro dei suoi figli il suo in G. C.

Ch. PITTALUGA GIUSEPPE.

 

 

CAPO XXXI. Sante industrie - Fede e carità - Effetto di una conversazione con D. Bosco - I giovani seduti intorno a lui - Favole e racconti ameni - Il canto - Nuova chiromanzia - La misura delle mani - Lo scoppio delle palme percosse - Esercizi di destrezza - Vigilanza prudente e giocosa - I giovani più buoni invitali a pranzo - Udienze private concesse da Don Bosco agli alunni in sua camera: modo di presentarsi ed accoglienze: invito allo stato religioso: rimproveri indiretti: conforti agli afflitti - Le tre passeggiate - Avvisi per iscritto e lettere sorprendenti di D. Bosco ai giovani - I biglietti coi proponimenti - Confidenza chiesta agli alunni e sacrifizi per conservarla -  Il biglietto richiamo sulla buona via - Alcuni proponimenti consegnati a D. Bosco e da lui custoditi - Risultato delle sante industrie.

 

                L’apostolo Giacomo nella sua lettera cattolica scrisse di Abramo che Fides coopcrabatur operibus illillis. Lo stesso diremo di D. Bosco, perchè era la fede che informava qualsivoglia sua azione o parola, diretta al bene della gioventù. Egli non guardava a sacrifizii e Iddio gli accresceva doni straordinarii. Qualcuno giudicherà a modo suo certi mezzi adoperati da D. Bosco, [428] ma potremo sempre rispondere che infirma mundi elegit Deus ut confunda fortia e questi forti sono gli spiriti delle tenebre.

                Continuiamo adunque a parlare delle sante industrie usate da D. Bosco, semplici come era semplice il suo cuore, ma efficaci, per allontanare per quanto è possibile, ogni nemico spirituale dai suoi figliuoli. L'amore vince tutto e tanto più l'amore ispirato unicamente dalla fede; e questo vince i cuori.

                Tutti vedevano D. Bosco, affaticato, infermiccio, debole di stomaco, coll'arsura alla gola, sovente collo sputo sanguigno, non cessar di parlare dal mattino alla sera, per tenerli vicini a sè; e anche da ciò argomentavano quanto li amasse. Per esporre il gran disagio che doveva sostenere per loro, non solo fisico, ma anche intellettuale, noi fummo nel capitolo precedente costretti ad essere alquanto prolissi; ma ciò richiedeva la verità e lo scopo di queste Memorie.

                Ripigliamo il nostro assunto.

                Sovente si vedeva D. Bosco passeggiare sotto i portici in mezzo ad un centinaio fra giovani e chierici. Parte lo seguivano, parte, il maggior numero, lo precedevano, camminando all'indietro colla faccia a lui rivolta per ascoltare ciò che diceva; e D. Bosco, colla sua allegra conversazione, trattenevali ora con esempi, ora con qualche sua avventura, ora con antiche vicende dell'Oratorio, che producevano in tutti impressioni salutari.

                “Io stesso, affermava D. Rua, ebbi più volte a dire, come dicevano molti altri de' miei compagni, che una conversazione fatta con D. Bosco, valeva quanto, ed anche più, un corso di esercizi spirituali. Finiti i suoi discorsi o racconti, si compiaceva di regalarci varii libri ed opuscoli da lui stampati, e in particolari circostanze, specialmente [429] quelli contro i protestanti, perchè fossimo preservati dai loro lacci e dai loro errori”.

                Nelle sere d'estate, essendo più lunghe le ricreazioni nei giorni festivi, quando per la stanchezza languivano i divertimenti, D. Bosco andava a sedersi per terra nel cortile presso un muro della fabbrica. Gli alunni correvano tosto e sedendosi egualmente, formavano intorno a lui sette od otto larghi giri di volti allegri e tutti in lui intenti. Un esimio avvocato così espresse il sentimento provato a questo spettacolo, che infinite volte si riprodusse dal 1850 fino oltre al 1866.

                “Erano essi la figura viva e parlante dell'innocenza più schietta, modesta ed allegra; i loro occhi spalancati come finestre, non avevano nulla da nascondere, poichè nessun pensiero cattivo albergava nella loro anima buona; e li fissavano ingenuamente in volto a chiunque si fosse presentato, comunicando a tutti quella pace serena che non mai veniva meno nel loro bel cuore. E per i giovani stessi era uno spettacolo osservare D. Bosco.” Il Sac. Sacco Emilio parroco di S. Stefano a Pallanza suo allievo, scriveva a D. Rua nel 1888: “D. Bosco! Quanto era caro! Quanto era virtuoso e santo! Mi sembra ancora di vederlo a sorridermi, di udite le dolci sue parole, di ammirare quel suo amabile volto sul quale era chiaramente stampata la bellezza dell'anima sua!”

                Per queste sedute all'aria aperta D. Bosco riserbava i suoi discorsi più ameni. Ora narrava a modo suo il dialogo scritto dal conte Gaspare Gozzi tra il calamaio e la lucerna. Ora ne inventava un altro tra la sua penna e il suo calamaio: tra un ciabattino ad uno stivale rotto, che non voleva esser rattoppato in domenica sibbene in lunedì; ovvero una questione che erasi accesa tra lui e la sua lucerna che non [430] voleva far lume, e parteggiava per i protestanti. Talora recitava un sonetto bernesco, e fra questi uno da lui scritto, essendo ancora chierico, sulla lama del suo temperino e che ritenne sempre a memoria, come ci narra D. Garino, avendolo da lui udito a Valsalice.

                Ora raccontava favole meravigliose chè occupassero la fantasia degli ascoltatori. Descriveva il gigante Gargantua con tutte le sue strabiglianti avventure avvenute nel campo dell'impossibile e poi la sua morte e la sua sepoltura, alla quale essendo concorse migliaia di persone, queste non riuscirono a coprirlo interamente di terra, benchè avessero fatto un fosso profondissimo e lungo un chilometro. - E ne rimase allo scoperto il naso, che si vede ancora oggigiorno, esclamava.

                - Si vede ancora? - gridavano tutti.

                - Osservatelo: è il Monte Bianco!

                La vivacità delle descrizioni e i frequenti dialoghi animavano le varie scene di tali favole, rese più amene dalle interrogazioni curiose dei giovani che vi prendevano parte.

                D. Piano e con lui varii antichi allievi ne raccontano ancora oggigiorno, udite cinquant'anni fa da D. Bosco e rallegrando fuor di modo gli amici.

                Ma non sempre in quell'ora le sue narrazioni erano favolose. Tutt'altro! Egli era solito, per entusiasmare i giovani all'apostolato evangelico, parlare delle missioni cattoliche nei paesi degli infedeli, in Asia, Africa e America. Le aveva sempre dinnanzi alla mente e gli stavano a cuore: descriveva più volte le fatiche dei missionarii le gloriose loro imprese, i popoli convertiti, ed i martirii sofferti per amore di Gesù Cristo. Nelle ricreazioni però preferiva esporre ciò che aveva letto di curioso o divertente nelle lettere edificanti della Propagazione della fede, o anche in relazioni private. [431]

                Spesso il racconto era interrotto dalla campana che suonava il fine della ricreazione, lasciando nell'impaziente uditorio viva curiosità di ascoltarne il seguito nella sera vegnente. Questa però non poteva venir sempre soddisfatta, o perchè D. Bosco era trattenuto in camera per qualche affare o perchè era spossato pel continuo parlare lungo il giorno. Ma nel secondo caso egli non tralasciava di andare ove era aspettato con ansia, e nella sua mente feconda d'invenzioni trovava mezzi semplicissimi per occupare non senza frutto quel tempo.

                Ed ora intonava una canzone sacra e centinaia di voci lo accompagnavano; ed ora improvvisava qualche giuoco che non richiedesse di far moto.

                I giovanetti tante volte lo invitavano a predire a ciascuno di loro gli anni che doveva vivere, e in questi casi D. Bosco li contentava, dando ad intendere che si trattava di una facezia. E qui noi dobbiamo permettere come l'istruzione e l'educazione impartita nell'Oratorio escludesse ogni sorta di anche minima superstizione e che in quarantatre anni avendo noi conosciuti migliaia di giovanetti, abbiamo ammirata una fede semplice e schietta abborrente da ogni ciurmeria. D. Bosco adunque faceva aprir loro le palme della mano e incominciava a guardare le linee in essa tracciate, quelle specialmente che stanno mezzo e pare formino un M. Questa lettera gli porgeva occasione di far notare come ogni uomo portasse con sè come un memoriale continuo della morte, alla quale andava incontro. Quindi interrogava: - Quanti anni tu conti di vita già trascorsi? Chi rispondeva: Ne conto dodici; chi: ne ho diciassette; e altri ne ho quattordici, ne ho ventuno. Allora egli rifletteva e poi soggiungeva con aria alquanto misteriosa, all'uno e all'altro: - Eh prima che tu abbia trent'anni... Allorchè [432] tu sarai giunto ai trentacinque... Oh se tu giungerai ai quaranta... chi sa... Vedremo!... Qualche cosa accadrà. - E si poneva a considerare quelle linee con serietà affettata e con modi enigmatici e scherzosi, con qualche barzelletta condita sempre con un buon pensiero, e soggiungeva: ad uno: - Ascoltami e sta attento. Hai quindici anni non è vero? Dunque fa il computo. Quindici più dieci, meno sette, più tre, più dodici, meno diciannove, eguale a somma totale? indovinala. - E così continuava ad ingarbugliare, variando numeri e dando a tutti i presenti il suo oroscopo. Ma l'uno non aveva potuto seguire tale complicata operazione aritmetica, l'altro aveva dimenticato un numero e insisteva perchè D. Bosco lo ripetesse, un terzo chiedeva una matita e un foglio di carta per notare il suo responso. Qualcuno di mente più perspicace riusciva a decifrare quell'imbroglio, e voleva che D. Bosco confermasse il risultato della somma da lui ricavata, ma egli aggiungeva un ma, un se, un vedremo, un purchè ti mantenga buono, che guastava il calcolo. Ed egli rideva, ridevano i più de' giovani; alcuni però sembravano stizziti, altri pensierosi. Non tutti volevano credere che D. Bosco facesse ciò per passatempo, ma si ostinavano nella persuasione, che con quell'artifizio volesse loro nascondere la grazia accordatagli dal Signore di conoscere l'avvenire. Quindi prendevano nota di ogni sua parola detta a loro riguardo. Tanto più che in apparenza, o in realtà, come noi stessi possiamo attestare, il pronostico non una sola volta si era avverato compiutamente. Comunque però andasse la cosa, siccome tutti indistintamente lo stimavano un santo, si videro quelli che volevano sembrare indifferenti, non solo, ma anche scettici, tenere così impresse nella mente le parole di D. Bosco, che dopo quaranta o cinquant'anni, all'epoca che loro pareva esser stato preannunziato il termine [433] della loro vita, si prepararono seriamente alla morte. E per alcuni anche sacerdoti fu un gran bene.

                Con diverse altre maniere li tratteneva, come ci narrò Brosio Giuseppe. Allorquando D. Bosco aveva qualche regalo da distribuire agli alunni, e non poteva o non voleva estrarlo a sorte o metterlo come premio ai vincitori di qualche partita di giuoco, pensava ad un'astuzia che faceva ridere, e destasse la curiosità. Più volte venne in cortile, portando con sè frutta o paste dolci o zuccherini, e in quel momento non sapendo a quale giuoco appigliarsi, fece la proposta di dare quella roba a chi avesse le spanne più lunghe delle sue. Tutti accettarono la scommessa; fu presa a tutti la misura dall'estremità del dito mignolo a quella del pollice e siccome D. Bosco aveva le mani molto piccole, non pochi vinsero la posta e ottennero il premio, con grandi risate degli astanti. Infatti la misura di centinaia di mani, alcune poche delle quali respinte, ma dopo egualmente riempite di qualche ghiottoneria, destava attenzione, provocava satire, scherzi, e le continue facezie di D. Bosco. Altra volta il regalo veniva offerto a chi avesse le spanne più piccole delle sue.

                Nè qui si fermavano i suoi caritatevoli artifizii. Soleva in altre circostanze prendere la mano di un giovanetto, stenderla sopra la sua palma sinistra, con la parte concava volta all'insù; e la percuoteva colla sua destra aperta. Se il colpo produceva uno scoppio sonoro: - Bene, bene, dicevagli; andiamo d'accordo.

                Se quel rumore era tale che dimostrava l'aria non essere stata compressa nel modo che aspettavasi, esclamava: Ehm! Fra me e te va così, così.

                Se poi il colpo riusciva sordo, allora D. Bosco crollava il capo sorridendo e dicendo: - Cosa vuoi? Non andiamo d'accordo! [434]

                Molte volte queste ultime parole erano uno scherzo per far ridere, ma altre volte moltissime erano da lui pronunciate per dare un avviso a chi ne aveva di bisogno senza che ei volesse spiegarsi di più, per es. ad un superbo, a chi era negligente nello studio e nel lavoro, o trascurava la frequenza dei Sacramenti, o faceva sospettare di una condotta morale non buona.

                S'intende che tale scoppio riusciva a volontà di Don Bosco che regolava il colpo. Tuttavia quella parola: - Non andiamo d'accordo - accompagnata dal suo sguardo pieno di tenerezza produceva l'effetto desiderato. In questi istanti quante smorfie, quanti rossori, quanti abbassamenti di sguardi, scorgevansi sopra i volti di certi alunni. Invece quando D. Bosco diceva: - Bene; andiamo d'accordo; - la gioia dei giovani era grande.

                Faremo ancora cenno di una sua abilità. Abbiamo già detto, nei volumi precedenti, come D. Bosco in occasione di certe feste, innanzi a tutti i giovani, desse più volte all'anno spettacoli meravigliosi di prestigio e che l'ultima volta fu nel 1864. I giuochi però che richiedevano la sola destrezza di mano non li smise così presto, e nelle ricreazioni ordinarie talora si alternavano colle altre industrie.

                Ci ricordiamo che un giorno venne un signore a visitare D. Bosco nel refettorio dopo pranzo. Dopo aver ragionato un qualche tempo, il Servo di Dio uscì fuori sotto i portici e i giovani accorsero, secondo il solito, a stringersi intorno a lui. D. Bosco fattili ritirare alquanto, li invitò a formare un largo cerchio ed a sedersi. Egli pure si sedette sul pavimento di pietra e pregò quel signore, che meravigliato stava osservandolo, a cedergli per un istante il suo bastone; e fatto recare uno sgabello lo invitò esso pure a sedere. Quindi con quel bastone incominciò giuochi  [435] difficilissimi, facendolo saltare dalla punta di un dito su quella di un altro; sulle braccia, sul gomiti, sulle spalle, sul naso senza toccarlo e senza lasciarlo cadere. I giovani erano fuori di sè dalla meraviglia e fuor di quello non potevano avere altro pensiero pel capo.

                Intanto questi giuochi e queste industrie non lo distraevano dalla vigilanza su tutto il suo ovile, ed era espertissimo nel conoscere le sue pecorelle. Perciò quando scorgeva in tempo di ricreazione certi crocchi e poteva dubitare s'intrattenessero in cose non convenienti o di mormorazione, ne chiamava uno e dicevagli: - Ho bisogno di un piacere da te: Prendi la chiave di mia camera, cerca nello scaffale il tale libro e portamelo.

                Il giovane correva, ma talora il libro non si trovava, veniva il fine della ricreazione, e D. Bosco ringraziandolo lo mandava a scuola.

                Tale altra mandava uno in porteria a vedere se era giunto un tal forestiero, un altro a cercare un compagno col quale diceva aver da parlare, un terzo a riconoscere se il prefetto era in ufficio, un quarto a prendere una berretta, a recare una lettera, ovvero a chiedere ad un professore le pagine della scuola. Era ingegnosissimo in questi ritrovati. E i giovani essendo eziandio costretti a recargli novella della commissione eseguita, erano tutti in moto, contenti di fare servizio a D. Bosco e senza che si accorgessero del fine pel quale così operava.

                D. Bosco era di una prudenza ammirabile. Un superiore sospettoso, è sempre causa di mormorazioni, irrita i poco buoni, rende diffidenti coloro che si regolano bene e perde l'affezione.

                Certe sere invece di ritenere presso di sè i giovani che andavano affollandosi, li disponeva in lunga fila e si metteva [436] innanzi ad essa, ordinando che tutti imitassero quei gesti che egli avrebbe eseguiti pel primo. Ora batteva una mano contro dell'altra, ora saltellava sopra di un solo piede, ora camminava un po' curvo, ora colle braccia alzate, ora facendo mille movimenti colle dita, ora piegando le ginocchia in modo che i giovanetti volendo fare lo stesso sforzo andavano rovescioni per terra. Gli altri compagni sparsi qua e là erano accorsi a vedere, abbandonandosi a risa e a battimani prolungati. Quindi tutti si mettevano in marcia preceduti da D. Bosco il quale faceva cento strani giri intorno a tutti i pilastri, negli angoli nascosti, nei luoghi ove non giungeva la luce dei fanali, ovvero ordinariamente più deserti del cortile; e così cantando, ridendo, gesticolando assicuravasi cogli stessi suoi occhi che nulla accadesse di male.

                Anche fuori dell'Oratorio estendevasi la sua vigilanza ed egli accompagnava non di rado gli alunni alla passeggiata, studiando se in questa vi fosse nulla da osservare. Non voleva che si sbandassero, o entrassero in botteghe a far compere o andassero a far visita a qualche parente.

                Nel 1856 tornando egli con tutta la Comunità dalla Crocetta, sobborgo allora lontano da Torino, gli alunni percorrevano que' campi incolti, parte in gruppi distinti, parte ascoltando D. Bosco. Ed ecco alcuni e non dei migliori, allontanarsi dai compagni, prendendo altri sentieri. Farli chiamare perchè si riunissero al grosso della schiera poteva far supporre che D. Bosco nutrisse qualche sospetto. Perciò egli attese alquanto, ma appena messo piede in piazza d'arme, deserta in quell'ora, a gran voce invitò tutti a seguirlo; e correndo con essi attraversò quel vasto spazio, fino alle prime case della città. Quivi i giovani, secondo la consuetudine, si ordinarono in fila, mettendosi ciascuno al fianco del compagno assegnato, e ritornarono nell'Oratorio. [437]

                D. Bosco intanto di tutti gl'inconvenienti che scopriva, di tutte le industrie da lui usate, ragguagliava i suoi chierici dando avvisi e norme secondo i casi; mentre queste industrie ci sempre moltiplicava cercando di attrarre a sè i singoli giovani, sui cuori dei quali anelava di avere una incontrastata influenza per il loro progresso nella virtù ed anche nella perfezione cristiana.

                Perciò ogni domenica, per torno invitava a pranzo alla sua mensa i giovani che avevano ottenuto i voti migliori di condotta; prima di ciascuna classe di studenti sucessivamente e poi gli artigiani di ogni singolo laboratorio uno dopo l'altro. A questo modo quasi tre volte all'anno ogni classe ed ogni laboratorio era rappresentato nel refettorio dei Superiori. Finito il pranzo i giovani si intrattenevano con D. Bosco che dava loro una pasta dolce. Talora eziandio come premio e per segno di confidenza invitava qualcuno di questi ad uscire in sua compagnia per Torino, onde potergli parlare liberamente sull'argomento della vocazione.

                Nel Giovedì Santo a tredici, scelti fra gli ottimi, lavava i piedi alla funzione della sera e poi li conduceva a cenare con sè,cortesia che gradivano moltissimo.

                Per dare poi una prova della stima che aveva per quegli alunni che servivano all'altare, senza distinzione fra i meno diligenti o i più esatti nei loro doveri, tutte le domeniche faceva venire a pranzo coi chierici i due giovani stati destinati a servire la messa della comunità nella settimana antecedente. Questi due alunni però non erano presentati a D. Bosco al levar delle mense. Tuttavia ciò era gran stimolo per essi a meritarsi altri segni di speciale affezione; mentre l'essere stati testimoni del contegno mortificato di D. Bosco, non poteva a meno di far constatare ad essi una delle sue eminenti virtù. [438]

                Ma D. Bosco sovratutto, non ostante le sue molte e gravi occupazioni, era sempre pronto ad accogliere in sua camera, con un cuore di padre, quei giovani che gli chiedevano un'udienza particolare. Anzi voleva che lo trattassero con grande famigliarità e non si lagnava mai dell'indiscrezione colla quale era da essi talvolta importunato.

                Siccome in lui mai si vedevano nè atti di sorpresa, nè precipitazioni di giudizio, nè moti violenti, ma sibbene calma inalterabile e portamento sempre uniforme, tutti gli si presentavano volentieri, col cuore alla mano, e non fa meraviglia se tanta potenza esercitasse sullo spirito anche dei più riluttanti. Lasciava a ciascuno piena libertà di far domande, esporre gravami, difese, scuse, e un giorno avendogli chiesto un suo prete il motivo di tanta pazienza, egli coprendo la virtù e scherzando gli rispose: - Sai tu che cosa significhi essere furbo? Saper fare il bonomo! Così faccio io: lascio dire tutto quel che si vuol dire, ascolto l'uno, ascolto l'altro, attendendo bene alle parole; ma infine nel decidere tengo conto di tutto, e vengo a conoscere perfettamente ogni cosa.

                Gli alunni nel presentarsi all'udienza non omettevano mai una precauzione richiesta dal galateo e dai riguardi dovuti al Superiore. D. Bosco essendo inappuntabile nella pulizia della sua persona, questa nettezza l'esigeva negli altri. I giovani sapevano che quando uno di essi a lui presentavasi, egli prima esaminava il cappotto e il colletto, dava un'occhiata alle scarpe e se non li trovava in ordine li avrebbe mandati a ripulirsi. Quindi si presentavano in maniera che D. Bosco nulla avesse da osservare.

                Entrati poi in sua camera, D. Bosco li riceveva collo stesso rispetto col quale trattava i grandi signori. Li invitava a sedere sul sofà, stando egli seduto al tavolino, e li ascoltava [439] colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti. Talora si alzava, o passeggiava con essi nella stanza. Finito il colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva egli stesso la porta, e li congedava dicendo: - Siamo sempre amici, neh!

                E i giovani discendevano pieni di gioia dalla sua scala, perchè non si può dire quale discrezione e saviezza tutta particolare avesse D. Bosco nel dare consigli opportuni, i quali messi in pratica producevano un proficuo e benefico effetto. Quante vocazioni nacquero in quella cameretta, quanti di buoni si fecero migliori in quelle visite!

                Egli un giorno disse ad un buon giovane:

                - Voglio che facciamo insieme un contratto.

                - E quale contratto?

                - Te lo dirò un'altra volta.

                Il giovane passò una settimana agitato da viva curiosità e andato a confessarsi dallo stesso D. Bosco si affrettò ad interrogarlo.

                - Mi dica! Qual contratto vuol fare con me?

                - E tu dimmi! rispose D. Bosco: Ti fermeresti volentieri nell'Oratorio per stare sempre con D. Bosco?

                - Magari! esclamò il giovane, senza però intendere la portata di questa proposta.

                - Ebbene, va da D. Rua e digli che io voglio fare un contratto con te.

                Il giovane andò a fare la commissione. D. Rua stette alquanto sopra pensiero non avendo a tutta prima inteso, ma poi lo condusse ad una conferenza che D. Bosco teneva ai Salesiani. Il giovane assistette a questa e a più altre, si ascrisse alla pia Società ed è zelante sacerdote Salesiano.

                Non tralasciava di fare amorevoli rimproveri a chi meritavali; ma quando temeva che fossero ricevuti in mala [440] parte, procurava che insieme con quel permaloso si trovasse un compagno di giudizio, talora preavvisato e talora no. A questi rivolgeva la correzione, e così l'altro amico riceveva il fatto suo, intendeva quale era il suo obbligo senza addarsi, almeno in quell'istante, di tale artifizio. Ma il buon effetto non potea mancare, e riflettendo si accorgeva come D. Bosco avesse ragione e ritornava più tardi presso di lui per chiedere scusa e promettere condotta più esemplare.

                Talora succedeva una piccola scena ridicola. Colui, che pur conosceva l'arte di D. Bosco, se in quell'istante, mentre ascoltava il rimprovero, non fosse stato presente a se stesso, rimaneva confuso, ma taceva per rispetto al Superiore. Rimasto però solo con lui avrebbe voluto far sue ragioni; ma D. Bosco interrompevalo con queste sole parole: - Non mi hai capito! - Ciò bastava per dissipar quella nube, ma anche faceva intendere come avesse egli desiderato un po' di umiltà.

                Egli aveva anche un tatto squisito nel recar conforto agli afflitti per una sventura in famiglia, ai malaticci, agli accesi dall'ira per qualche litigio, agli agitati da scrupoli, a coloro che volevano andar via dall'Oratorio per dispiaceri, che dicevano sofferti o per altro motivo. Egli appena erano entrati nella stanza cominciava a calmarli con un sorriso e dando loro uno di quegli sguardi che andavano fino al cuore; poi con qualche lepidezza, che solamente lui sapeva dire in modo appropriato, acquietava in loro ogni passione e li faceva ridere; quindi li invitava a sedere e ad esporgli quanto desideravano che egli sapesse. Come avevano finito il suo avviso e consiglio la maggior delle volte riuscivano di consolazione a quei poveretti.

                Se si trattava di cose dipendenti da altri, gli diceva: - Va dal tale a nome mio e gli dirai: D. Bosco ha detto [441] questo e quello. - Oppure: - Dì al tale che me ne parli e sta sicuro che non mi dimenticherò di te. Del resto sii solamente amico di D. Bosco e non temere; si aggiusterà tutto.

                Ad altri concludeva il discorso con fare il regalo di un'immagine, o medaglia, o libretto, o croce, od anche di un frutto; e talvolta con un atto di confidenza l'incaricava di una commissione da parte sua a qualche Superiore o compagno.

                In questo modo ritornava la pace ne' cuori e la tranquillità nella casa. E per la pace in casa egli faceva recitare tutti i giorni un'Ave Maria mattino e sera, nelle preghiere pubbliche.

                D. Costantino Giulio successore del Teol. Murialdo nella direzione dell'Opera Pia degli Artigianelli in Torino, diceva or son molti anni ad alcuni nostri confratelli salesiani: - Voi avete una gran fortuna in casa vostra che nessun altro ha in Torino, e neppure hanno le altre comunità religiose. Avete una camera nella quale chiunque entra pieno di afflizione, ne esce raggiante di gioia, e questa è la camera di D. Bosco! - E mille di noi han fatto prova di questa verità.

                Talvolta però la carità di D. Bosco in tali colloqui non otteneva pienamente i suoi intenti, ed allora egli ricorreva ad una medicina o ripiego da lui chiamata delle tre passeggiate. Quando eravi qualche ruggine o dissenso abbastanza accentuato fra due giovani adulti e vedeva cosa difficile rimetterli in buona armonia, allora invitava il primo a far una passeggiata con lui. Quest'atto di amicizia calmava quel cuore alterato, mentre D. Bosco lasciavalo raccontare tutta la storia dei torti che credeva gli fossero stati fatti. Un altro giorno invitava il secondo ad una bella passeggiata e lasciava che dicesse a carico del compagno tutto quello che [442] credeva. S'intende che colle sue ragioni affabili cercava di dissipare i pregiudizi dell'uno e dell'altro, ma senza però urtare coi loro sentimenti. Finalmente invitavali tutti due insieme a venir con lui per un po' di svago. Sul principio facevano qualche smorfia, ma a D. Bosco non osavano dir di no. Silenziosi ed incerti lo seguivano. D. Bosco non tardava a prendere la parola, li faceva venire ad una spiegazione, li rallegrava, li muoveva al riso e quando si ritornava all'Oratorio erano ridivenuti amici.

                Altre industrie dobbiamo aggiungere alle già descritte.

                Non contento delle massime che suggeriva confidenzialmente a voce, queste le scriveva in piccoli fogli, che faceva pervenire ai giovani in moltissime occasioni e sempre opportuni. Per es. - Quanto fai, parli e pensi procura che tutto sia in vantaggio dell'anima tua. - Soffri volentieri qualche cosa per quel Dio, che tanto sofferse per te. - Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticar mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo. - Voglio che ci aiutiamo a vicenda a salvar l'anima. - Chi non è obbediente sarà privo di ogni virtù. - Chi cammina coi buoni, coi buoni andrà in paradiso. - Nell'ora della morte ti rincrescerà d'aver perduto tanto tempo, senza alcun vantaggio dell'anima tua. - Non merita misericordia chi abusa della misericordia del Signore per offenderlo. - Se perdi l'anima tutto è perduto. - Che cosa ti ha fatto il Signore che lo tratti così male? - Sta preparato. Chi oggi non è preparato a morir bene corre grave pericolo di morir male. - Custodisci i tuoi occhi riserbandoli a contemplare un giorno in paradiso il volto di Maria Vergine.

                E scriveva altri consigli a centinaia a centinaia che a noi non furono consegnati, perchè di natura troppo confidenziale. Anzi più volte scrisse un biglietto particolare a [443] ciascuno di que' della casa quando il loro numero saliva quasi al migliaio.

                Non si contentava però sempre di semplici biglietti ma in parecchie circostanze dell'anno soleva scrivere ai suoi giovani bellissime lettere, e ai chierici generalmente in latino, intessute di detti tratti dai vangeli, dai santi Padri e dal libro dell'Imitazione di Cristo. Solendo tutti gli anni recarsi al Santuario di S. Ignazio sopra Lanzo per fare gli esercizii spirituali, sebbene colà fosse occupatissimo nell'ascoltare le confessioni, tuttavia trovava tempo per scrivere moltissime lettere anche a quelli dell'Oratorio. “Io ne conservo parecchie, confermò un pio e dotto sacerdote antico alunno, e posso attestare che i pensieri ivi contenuti, ed espressi da D. Bosco in luogo lontano, giungevano a me molto opportuni per i bisogni della mia anima, come di persona che mi fosse stata presente”. Questo faceva pure le varie volte che recavasi per qualche settimana in altre città. Da una di queste scrisse ad un suo prete indovinando i suoi pensieri e consolandolo di varie sue afflizioni. Quel prete restò meravigliato come D. Bosco avesse scelto così opportunamente l'istante per iscrivergli, e quando il Servo di Dio fu di ritorno, stupì nel sentirsi dire da lui: - Ti ho veduto che eri qui in camera, tutto afflitto e melanconico, e perciò ti ho scritto quella lettera per confortarti. -

                Di varii fatti consimili fece testimonianza per iscritto D. Bongiovanni Domenico con questa frase: “Realmente D. Bosco scrisse lettere all'Oratorio, per cose ivi accadute che non poteva conoscere se non in modo sovrannaturale; e da queste si hanno molte prove che egli essendo lontano veniva invisibilmente a visitare i suoi figli”.

                Rispondeva poi sempre con grande premura alle lettere, che da questi gli erano spedite in qualunque luogo ei si [444] trovasse; eziandio se queste sembrassero non avere importanza. Anzi li eccitava sempre a scrivergli e nel tempo delle vacanze autunnali ricevendo da varii giovani informazioni sul loro tenor di vita, a questo raccomandava un po' più di studio, a quello una ricreazione ed un riposo più prolungato, ad un altro la fedeltà a quelle norme da lui ricevute in sul partire. Ad alunni o chierici di famiglia molto povera, chiedeva se avessero bisogno di qualche cosa, soggiungendo che arrivati a casa gli scrivessero liberamente subito.

                Ma le lettere dei giovani suggerirono a D. Bosco un nuovo mezzo per rendere sempre più sicura la loro perseveranza nella virtù. Così ebbero origine i biglietti che in certe occasioni speciali ei richiedeva da essi, come padre che per sua norma e per loro vantaggio, desiderava la loro confidenza. In questi, chi aderiva, scriveva il suo proponimento di praticare una speciale virtù, secondo giudicava essere il suo meglio; ovvero di fuggire un difetto, un vizio nel quale fosse solito ad inciampare. Non vi era però nessun obbligo di scrivere tali biglietti, e mentre se ne dava consiglio, in nessun modo si importunava chi la pensasse diversamente: piena, assoluta libertà. D. Bosco però prometteva il segreto, e i giovani in buon numero scrivevano con sincerità i loro proponimenti. Ciò richiedendo un atto di volontà risoluta, una riflessione attenta su quello che promettevano, un riandare, anche con un solo sguardo, il loro passato e il loro stato presente, servivano di eccitamento ad una riforma spirituale. Quei fogli chiusi erano consegnati in mano allo stesso D. Bosco, il quale leggevali e a tempo e luogo ricordava privatamente agli individui i loro proponimenti, li esortava a mantenerli, li ammoniva se vi mancavano.

                Quanto ei ci teneva a possedere i cuori per donarli a [445] Dio! Sul finire del 1861 aveva manifestato ai giovani il desiderio di ricevere da essi un biglietto. E tutti lo scrissero e lo consegnarono. D. Bosco dopo qualche giorno salito una sera in cattedra, così parlò: - Ho letto tutti i vostri biglietti; vi ho trovate belle espressioni, promesse di preghiere e di buona condotta, ma in nessuno ho letto ciò che vivamente desiderava. Eppure in casa abbiamo un giovane, il cognome del quale avrebbe dovuto ricordarvi il mio desiderio. Non vi è il giovane Do nipote del Can. Marengo? Or bene; io aspettava da tutti questa parola: D. Bosco! le do la chiave del mio cuore!

                D. Bosco era fermamente persuaso che la confidenza nel Superiore fosse un efficace rimedio delle passioni e una preservazione da tanti mali morali; e che ogni atto di questa valesse una gran vittoria sopra il demonio.

                Un ottimo giovane, ci narrò D. Albera Paolo, era stato preso da una affezione molto viva per un compagno, e per quanto onestissima ne era disturbato. Tuttavia per qualche mese nulla ne disse a D. Bosco. Finalmente crescendo in lui quell'affetto, fu preso da scrupolo e confidò a lui il segreto del suo cuore. D. Bosco gli rispose: - Me n'ero accorto, sai, e viveva in qualche angustia per te; ma ora che ti sei aperto, io non temo più. -

                E D. Bosco per guadagnarsi tale confidenza dalla maggior parte de' suoi alunni, oltre non palesare in nessun modo ciò che veniagli confidato, sopportava sempre per amor di Dio, con pazienza eroica ed ilarità gli schiamazzi, le importunità, la vivacità di carattere, la varietà delle indoli e gli altri difetti dei giovani, fisici o intellettuali, o cagionati da una educazione rozza ed anche villana.

                E qui noteremo ancora, parlando dei biglietti, come Don Bosco ne conservasse con gran gelosia i più importanti, quale [446] voce di richiamo per l'avvenire. Quante volte un giovane non ricordando più le promesse fatte al Signore, e piegando verso il male, vedeasi presentato quel biglietto che dolcemente rimproveravagli la sua infedeltà! Quante altre, certi uni che da tempo eransi restituiti alle case loro, quando meno se lo aspettavano, quando neppure più pensavano all'Oratorio, in mezzo agli affari, alla dissipazione ed eziandio ad una vita libertina, si videro giungere per posta quel biglietto così eloquente, ricordo degli anni della grazia e stimolo a ritornare sulla buona strada! Di questi biglietti, alla morte di D. Bosco, se ne trovarono alcuni pochi nel suo cassetto, scritti in certe occasioni solenni, da giovani che nella società civile e nel sacerdozio riuscirono modelli di virtù. Tutti gli altri erano stati distrutti dal buon padre. Di quelli conservati ne trascriveremo alcuni per edificazione di chi legge queste Memorie.

                Un biglietto allude alle cure speciali che D. Bosco prendevasi di quei fortunati fanciulli che facevano la prima Comunione.

                Ricordi dati dal mio caro D. Bosco in occasione della mia prima Comunione.

 

GRAZIE DA CHIEDERE.

 

                1. Di morire in grazia di Dio.

                2. Di poter ricevere i Sacramenti prima di morire.

                3. Modestia ed abborrimento al vizio contrario.

 

PROMESSE.

 

                Da farsi a Gesù Sacramentato che venne nel mio cuore.

                1. Di andarmi a confessare una volta al mese ed anche più sovente secondo il consiglio del mio confessore.

                2. Santificazione rigorosa delle feste. [447]

 

RICORDI.

 

                1. Non praticar mai cattivi compagni.

                2. Non star mai in ozio.

                3. Ricordo fondamentale: Obbedienza ai genitori.

 

ROGGERO Giov.

 

                Di un altro buon figliuolo che apparteneva alle classi superiori del ginnasio, non ometteremo lo scritto spirante una cara ingenuità.

 

                Regole che propongo di eseguire coll'aiuto di Maria e col consiglio del confessore; 18 settembre 1857.

                O penitenza quaggiù, o non più luogo a penitenza.

                Qui brevità di penitenza, poi eternità di penitenza.

                Dopo averci pensato bene sopra, stabilisco quanto segue in penitenza de' miei peccati.

                1. Per quanto mi sarà concesso non dormirò più di sei ore, ed anche meno e disagiatamente quanto potrò.

                2. Digiunerò tutti i sabbati in onore di Maria SS., tutte le vigilie comandate e la quaresima tutti i giorni; e quando mi verrà data qualche cosa dilettevole al gusto, l'offrirò alla Madonna col privarmi di tutta o almeno di una parte: e quando mangerò qualche cosa di buono farò il confronto tra quel cibo e il fiele che bevette il nostro Signor Gesù Cristo.

                3. Farò ogni giorno una visita al SS. Sacramento, reciterò ogni giorno il Recordare piissima virgo, bacerò tutte le sere e le mattine il crocifisso e farò le altre preghiere che son solito fare. Farò ogni mese l'esercizio di buona morte. Mi accosterò ai Santissimi Sacramenti una volta alla settimana od ogni giorno secondo il consiglio del confessore.

                4. Mi guarderò bene dal recare offese ai compagni e procurerò di riparare agli scandali dati.

                5. Perderò mai niente di tempo nello studio, occupando quanto potrò anche la ricreazione. [448]

                6. Mi prenderò in tutti i mesi un santo per protettore particolare. Così per gennaio S. Francesco di Sales, per febbraio S. Gregorio Papa, per marzo S. Giuseppe, per aprile S. Marco.

 

                Un terzo biglietto è così concepito:

 

                Io R... Giacomo, coll'aiuto di Dio e di Maria SS. prometto di osservare questi proponimenti, incominciando dalla festa di tutti i Santi in cui spero di poter vestire l'abito clericale, 17 anniversario della mia nascita.

                1. Domanderò ogni giorno a Dio che mi faccia morire, ma non mi lasci mai più commettere un peccato mortale.

                2. Mi consacro intieramente a Lui, mettendomi nelle mani dei miei superiori e considerando come suo ogni più piccolo comando di essi.

                3. Adempirò colla massima precisione tutti i miei doveri si spirituali che temporali.

                4. Procurerò di vincere ogni rispetto umano e mi sforzerà a dare buoni esempi.

                5. Mi accosterò ogni settimana alla Confessione e più spesso alla Comunione.

                6. Farò ogni giorno una visita al SS. Sacramento ed a Maria Santissima.

                7. Farò ogni sabbato qualche mortificazione in onore di Maria.

                8. Celebrerò con particolare divozione le sue feste, facendovi precedere qualche digiuno.

                9. Ogni giorno pregherò pei miei parenti, benefattori e superiori.

                10. Se avrò la sorte di essere fatto sacerdote mi adopererò con tutto lo zelo per la salute delle anime e annunzierò ai popoli le glorie di Maria, da cui conosco specialmente il mio cangiamento di vita.

                11. Pregherò sempre il Signore che mi conceda la perseveranza finale. Omnia Dominum in eo qui me confortat.

                Alla morte e al giudizio vedrò se gli ho conservati.

 

                Finalmente nella carta di un giovane chierico, oltre le promesse specificate di osservare esattamente le regole della [449] Pia Società e gli obblighi dello stato clericale si leggono questi due articoli:

 

                1. Mi eleggerò un monitore segreto e lo pregherà a volermi osservare ben bene e a riprendermi ogni qual volta mi troverà mancare in qualche cosa.

                2. Prima di cominciare qualunque studio leggerò un capo della biografia di Luigi Comollo, o di Savio Domenico, o di San Luigi Gonzaga o di altri pii giovanetti per imitarne le virtù. Terminata la lettura di que' libretti ritornerò da capo a rileggerli.

 

                Chi non resterà commosso al pensare quel momento nel quale i buoni alunni, colla penna in mano, con quel foglio dinnanzi vergavano quelle linee colle quali fissavano le loro sorti per l'eternità felice, come dobbiamo sperare! Ci pare di vedere composte a serietà quelle sembianze giovanili, quegli occhi sollevati in aria per cercare la frase; e poi quel candore che manifestavano nei loro atti porgendo a Don Bosco la carta dei loro segreti! Ah! il Signore vi benedica, o cari giovani, e un giorno vi presenti a titolo di gloria i vostri biglietti.

                E quale era, noi ci domandiamo, il risultato di tante sante industrie? Risponde il Can. Giacinto Ballesio nella sua orazione: La vita intima di D. Bosco.

                “D. Bosco governava il suo, anzi il nostro caro Oratorio, col santo timor di Dio, coll'amore, coll'edificazione del buon esempio. Qualcuno chiamerà questo governo teocratico. Noi lo chiamiamo governo della persuasione e dell'amore, il più degno dell'uomo. E non è a dire quanto fossero mirabili gli effetti di questo regime! Le centinaia di giovani studenti ed operai compivano con ardore ed esattezza i loro doveri. Ed un bel numero di loro non solo erano buoni, ma ottimi, ma veri modelli di pietà, di studio, di dolcezza, di [450] mortificazione, guida amorevolissima, esempio fulgidissimo ed efficace. Giovani che non avrebbero fatto un peccato veniale volontario per tutto il mondo. Giovani di una divozione così soda e tenera, che aveva veramente dello straordinario. Com'era bello vederli in chiesa rapiti in un'estasi beata, celeste! E quante volte il patrizio della città conduceva i suoi figli all'Oratorio a specchiarsi nei figli del popolo, divenuti inconsapevolmente nobili e grandi per la loro pietà! Erano questi i carissimi di D. Bosco, e pieni del suo spirito lo aiutavano potentemente e molto grande e salutare influenza esercitarono sui loro compagni. Si videro nell'Oratorio le dolci e belle virtù; l'innocenza, la semplicità, la felicità cristiana, onde sono tanto cari i primordii di S. Domenico, di S. Francesco d'Assisi coi loro discepoli. E quello che l'uomo profano chiamerebbe leggenda, è verissima istoria”.

 

 

CAPO XXXII. Le sante industrie - Movente e scopo: l'eternità e la salvezza delle anime - Cooperazione di Dio - Il ragionamento non vale contro i fatti - D. Bosco legge nelle coscienze - Testimonianze universali de' giovani - Cose ammirabili al tribunale di penitenza - Segrete ansietà spirituali calmate - Increduli vinti dall'evidenza di fatti Personali - Gli ipocriti scoperti - Altre prove che D. Bosco legge in fronte i segreti dei cuori - Gli immodesti - Chi non ha la coscienza in ordine cerca star lontano da D. Bosco - Premure di D. Bosco nel richiamarlo a Dio - Avvisi misteriosi per iscritto - Una testimonianza di D. Rua - D. Bosco sorprende nelle menti altre specie di pensieri - Vede meglio quando non guarda.

 

                Tutte le industrie sovradescritte, benedette dal Signore, avevano per unico scopo la salvezza delle anime. D. Bosco teneva fisso nella mente la spaventevole ed incomprensibile eternità dei dannati; la giustizia di Dio che mai non muterà e non addolcirà mai la sentenza già data; il fuoco onde ardono che mai non si estingue, il verme che li rode e che mai non muore; la morte che i miseri invocano e che non verrà mai a porre un termine ai loro tormenti. Nello stesso tempo rimirava [452] il divin Redentore sulla croce, tutto bagnato di sangue che muore per la salvezza dei peccatori: e frutto della sua passione il Sacramento della penitenza, industria ritrovata dalla sua misericordia infinita per facilitare la conversione di quelli che altrimenti andrebbero perduti. Osservava eziandio che i peccatori più grandi son quelli su cui Iddio maggiormente diffonde le sue grazie, qualora non resistano volontariamente, come avvenne a S. Agostino e a tanti altri.

                Egli tutto compenetrato da questi pensieri tremava per la sorte disgraziata che avrebbero forse incontrata tanti giovanetti; prevedeva le loro battaglie spirituali causa non di raro di luttuose sconfitte; sentiva in sè la potenza ineffabile di rimettere i peccati; era certo che solo per suo mezzo non pochi sarebbero giunti al porto dell'eterna salvezza. E poi amava appassionatamente le anime per guadagnarle a Gesù Cristo. Sono queste le ragioni per le quali D. Bosco, senza far caso talora di certi riguardi umani, opportunamente od importunatamente invitava molti al lavacro salutare della confessione.

                I nostri lettori abbiano sempre innanzi agli occhi il movente di D. Bosco in questi inviti e troveranno la spiegazione di moltissimi fatti che dovremo esporre nei nostri volumi. Nello stesso tempo si persuaderanno che non solo Iddio approvava il procedere di D. Bosco alla salvezza delle anime, ma cooperava all'ardente suo zelo in modo meraviglioso. Affermasi nei Proverbi al Capo XXVII: “Come nelle acque risplendono le faccie di quelli che vi si mirano, così i cuori degli uomini sono manifesti ai sapienti”. Ma la pazienza di D. Bosco andava più in là, poichè avendo dinanzi agli occhi il passato e l'avvenire di tanti giovani, ei se ne serviva per dirigerli o per ammonirli dei pericoli ai quali sarebbero andati incontro. [453]

                Passiamo a nuove testimonianze e prima quella lasciata per iscritto nel 1861 dal professore in belle Lettere Don Giovanni Turchi, uomo guardingo nel credere, critico severo.

                “Ciò che son per dire, egli così incomincia, può sembrar roba da superstizioso e da fanatico, e chi per avventura leggesse questo mio foglio, darebbemi per lo meno la taccia di leggero e troppo credulo. Perdono a tale sentenza, giacchè io pure non so rendermi ragione, nè qual giudizio fare di certe cose che veggo in D. Bosco. Tuttavia che vale il ragionamento contro i fatti? Il fatto perde nulla del suo valore, ancorchè ad alcuno piaccia ragionarvi contro. Quando si tratta di fatti, non si deve fare altro che esaminarne, per mezzo di sicure e indubitate testimonianze, la verità, la quale se intrinsecamente non si può penetrare hassene ad incolpare l'insufficenza nostra, tenendo che non è mai assurdo quello che è avvenuto. Ciò premesso, narro:

                “Da dieci anni che io sono all'Oratorio sentii le mille volte a dire da D. Bosco: - Datemi un giovane che io non l'abbia mai conosciuto in modo veruno ed io guardatolo in fronte gli rivelo i suoi peccati incominciando ad enumerare quelli della sua prima età.

                “Talora soggiungeva: - Molte volte confessando vedo le coscienze dei giovani aperte dinanzi a me come un libro nel quale posso leggere. Ciò accade specialmente nelle occasioni solenni di feste e di esercizi spirituali. Fortunati coloro che si approfittano allora de' miei avvisi, in ispecie nel Sacramento della Penitenza. Altre volte però vedo nulla. Questo fenomeno succede ad intervalli più o meno lungamente. - Cioè tutte le volte che lo richiedeva la salute delle anime.

                “Ma in generale D. Bosco attenuava l'impressione che [454] potevano fare le sue parole, sviando l'idea di un dono soprannaturale e diceva sorridendo: - Quando confesso, bramo se è di notte che il lume sia posto in modo che io possa vedere i giovani in fronte; e se è di giorno preferisco che mi vengano dinanzi perchè così li confesso più speditamente.

                “Egli vedeva adunque la coscienza dei suoi giovanetti appieno svelata come in uno specchio e che questo sia vero ne sono più che certo ed ho visto cento e cento volte ripetersi questo fatto.

                “Ecco ciò che gli alunni appellarono: Il leggere in fronte.

                “Io non voglio pronunziare giudizio di sorta. Mi basta narrare le cose come le so io e con me tutti i giovani dell'Oratorio”.

                In loro era tanto radicata la credenza che D. Bosco leggesse nelle coscienze non solo i peccati esterni, ma anche i pensieri più reconditi, che la massima parte di essi confessavasi più volentieri da lui che non da altri sacerdoti, dicendo: - Andando da lui siamo più sicuri di fare delle buone confessioni e comunioni; e se per caso noi ci dimenticassimo qualche peccato, egli certamente ce lo ricorderà. Ed era una moltitudine quella che circondava il suo confessionale.

                Una persona religiosa molto zelante e prudente un giorno vista quell'affluenza, disse a D. Bosco come egli avrebbe dovuto astenersi dal confessare i suoi giovani, poichè era facile che per timore o vergogna tacessero i peccati. - Sta a vedere, le rispose ingenuamente D. Bosco, se io li lascio tacere! - Ed era questa la convinzione comune a tutti gli alunni che cento volte si udirono esclamare: - È inutile tacere o nascondere peccati a D. Bosco; perchè li conosce ugualmente. [455]

                Infatti senza numero sono coloro che anche oggigiorno affermano esser loro accaduto più volte di sentirsi scoprire da lui in confessione ed enumerare le colpe in modo così chiaro e ad una ad una, come se le avesse sotto i suoi occhi scritte in un quaderno. Scopriva ai penitenti i peccati che avevano dimenticato o che non osavano confessare. Soleva dire: - E di questo peccato non ti accusi? Di quest'altro non ti ricordi più? - Ma il più mirabile si è che D. Bosco nel palesare ad un giovane il suo peccato, aggiungeva talora, quasi per confermarlo nella persuasione che tutto egli già sapesse: - Tu nel tale anno di tua età, nella tale occasione, in quel tal luogo, dopo le tali circostanze, hai fatto questo e questo; - e precisando con esattezza il numero delle colpe. E non sbagliava, come a noi stessi attestarono varii dei nostri amici e come eziandio confidarono a Mons. Cagliero molti dei suoi compagni, stupiti nel veder svelati i più reconditi segreti della loro anima.

                Ma qui non si fermano le meraviglie. D. Turchi continua ad asserire: - Ho conosciuto tanti giovani che mi dissero: - Andai a confessarmi da D. Bosco il quale mi interrogò: - Vuoi dir tu o vuoi che dica io? E lasciando che dicesse lui, ci mi recitò nè più nè meno, i peccati da me commessi. Io non aveva che a rispondere sì, sì: anzi certe cose sfuggite alla mia mente, egli me le ricordò senza mai sbagliare. - Questo metodo di confessare non è a dirsi quanto consolasse quei piccoli penitenti, che volevano fare la confessione generale ed erano imbrogliati a trovare il bandolo della loro matassa arruffata. Andavano da Don Bosco e incominciavano con questa parola: - Dica lei! E D. Bosco svelava brevemente, con ordine e tutto a puntino, la loro storia segreta; non avevano che da rispondere affermativamente per far l'accusa. [456] Quindi combattuti da qualche tentazione, od agitati da qualsivoglia pena di spirito, non essendo contenti di sè, dopo le orazioni, andavano senza parlare innanzi a Don Bosco e lo guardavano in volto in modo di attirarne l'attenzione, sicchè potesse fissarle. Se nulla diceva, sicuri che avesse letto nei loro cuori non essersi annidato il male, andavano tranquilli al riposo.

                Sovente, anche lungo il giorno, D. Bosco se li vedeva comparire innanzi, ed egli con un cenno della mano, con uno sguardo con una parola, senza che quelli avessero aperto bocca, li rassicurava. E i giovani sentivano dileguarsi la pena interna e se prima erano melanconici, si vedevano andar via tranquilli e ridenti in volto, come quando il sole con la sua luce fuga le ombre.

                Un chierico era tormentato dagli scrupoli, sempre indeciso se andare sì o no alla Comunione; da una parte gli sembrava di poter accostarsi alla sacra mensa, dall'altra temeva di fare un sacrilegio. Attendeva una sera la sua volta per confessarsi da D.Bosco nel coro della chiesa di S. Francesco di Sales. Questa rischiarata solo dalla lampada, era avvolta in una semioscurità, che certo non poteva far distinguere a D.Bosco anche a breve distanza alcuno fra i tanti giovanetti, che gli stavano inginocchiati d'attorno. Il chierico angosciato dalle sue pene interne non poteva più reggere pensando la sua confessione quando tutto ad un tratto gli balena un'idea: - Se D. Bosco mi leggesse nel cuore, se avanti ch'io mi confessi mi chiamasse, mi dicesse di stare tranquillo e mi comandasse di andare domattina alla santa comunione senza confessarmi, come mi farebbe piacere! Sarebbe segno non dubbio che le cose dell'anima mia vanno bene! Ed io non darei più alcun caso alle mie inquietudini e sarei guarito. [457]

                Egli stava inginocchiato innanzi al confessionale e non veniva per anco il suo turno; ma appena ebbe finito questo interno soliloquio, sentì una mano che lo toccava leggermente sulla spalla, e alzatosi, la voce soave di D. Bosco gli disse all'orecchio, quasi rispondendo al suo pensiero: - Va pure domani mattina alla S. Comunione senza confessarti e sta tranquillo.

                Il chierico obbedì e da quel giorno non andò mai più soggetto a scrupoli.

                Ma non solo nel 1861 accaddero maraviglie simili a questo Ne fu intrecciata tutta la vita di D. Bosco e D. Berto Gioachino scrisse la seguente pagina.

                “Più volte vidi giovani che stavano attendendo da più ore per confessarsi dal Servo di Dio, ai quali pareva avere imbrogliatissima la coscienza: ma egli tratto tratto con un cenno chiamava a sè or l'uno or l'altro, dicendo a ciascuno in particolare all'orecchio: Va pure a fare la Santa Comunione. - Siccome noi sapevamo già per esperienza chè egli aveva dei lumi soprannaturali, così ad un cenno suo e ad una sola parola obbedivano ciecamente. In questo modo egli riusciva pure a liberare molti giovanetti dagli scrupoli. Lungo il giorno poi incontrando alcuno del suddetti, per maggiormente tranquilizzarli diceva loro in un orecchio: - Questa mattina ti ho mandato alla Comunione senza confessarti, perchè ho veduto che la tua coscienza era pulita. - Oppure: Quelle cose che tu volevi confessare non erano peccati.

                “Di questi fatti ne sono io stesso testimonio personale, perchè li ho provati più volte e li udii a raccontare da varii miei compagni, di cui per convenienza taccio il nome”.

                Giunti a questo punto più d'uno potrebbe chiederci se nell'Oratorio fossero tutti persuasi di tale virtù di D. Bosco, e se non sorsero mai dubbi intorno alla veracità della cosa. [458]

                Osserveremo: i sospettosi, i propensi a tirare al peggio ogni detto o fatto altrui certamente non mancarono in una casa tanto numerosa, ove ogni anno una parte degli alunni era nuova, molti toccavano i sedici e altri i vent'anni, e che sul principio conoscevano D. Bosco solo di nome. Ma il Professore D. Turchi nel citato manoscritto, risponde: “Son molti che hanno riso del leggere in fronte, ma so ancora che costoro si diedero per vinti all'eloquenza dei fatti. Accennerò per brevità solo ad alcuni casi. Nei primi anni dell'Oratorio un giovane Biellese di nome Ro.... giunto in Torino andò a confessarsi nella chiesa della Consolata e quindi scese all'Ospizio di S. Francesco ove era accettato come studente. Il Prefetto lo accolse con bontà e dopo il pranzo presentollo a D. Bosco, il quale non lo conosceva affatto, poichè era la prima volta che incontravalo. D. Bosco parlava coi giovani che lo circondavano della scrutazione dei cuori, e quelli rammentavano qualche sorprendente rivelazione da lui fatta di certi segreti. Il nuovo alunno ascoltava quei ragionamenti, e ad un tratto saltò su a dire arditamente: - D. Bosco! Io la sfido a leggere i miei peccati; anzi la invito a dirli ad alta voce che tutti ascoltino!

                “D. Bosco gli rispose: - Vieni qua - e come l'ebbe vicino lo guardò in fronte e poi gli disse qualche parola nell'orecchio. Il giovane divenne rosso in faccia come bragia. D. Bosco tornò a guardarlo in fronte e di nuovo gli disse in segreto qualche altra parola che forse precisava in modo particolareggiato la sua vita passata. Infatti il giovane incominciò a piangere e gridò: - È dunque lei che stamane mi confessò nella Chiesa della Consolata! Non è questo il modo di fare!

                “- Ma che! Ma che! lo interruppero i compagni: Don Bosco stamane non è ancora uscito di casa, e non poteva [459] neppur sapere che ti fossi confessato. Sei ben lontano dal vero perchè non conosci ancora chi sia D. Bosco. È la cosa di tutti i giorni!

                “A queste ragioni evidenti il buon giovane si tranquillò e da quell'istante in poi ripose in D. Bosco tutta la sua confidenza. Io era presente a questo fatto; e anche D. Rua ne fa testimonianza.

                “Una simile sorpresa accadde ad un giovanetto delle parti di Buttigliera. Un giorno dell'anno scolastico già incominciato, io mi trovava con altri alunni, fra i quali Cerruti Francesco, D. Rua e il ch. Cagliero intorno a D. Bosco. Gli domandavamo qualche avviso che ci servisse di regola per il progresso nella virtù, e sovrattutto che ci ammonisce più direttamente riguardo ai bisogni dell'anima di ciascuno di noi in particolare. Intanto un giovane sui tredici anni, nella casa del quale D. Bosco erasi più di una volta intrattenuto, di nome Cesare B...., avendo sentito ripetersi dai compagni che D. Bosco conosceva i peccati nascosti nelle coscienze, si presentò a lui, e con certa franchezza gli disse: - Lei non conoscerà mai il mio interno! -Allora Don Bosco che era seduto, in presenza di tutti lo trasse a se, e gli parlò per qualche tempo all'orecchio. Quando ebbe finito il giovane rialzò il capo e rivoltosi a tutti noi presenti, profondamente commosso, ci disse con mirabile ingenuità: - Don Bosco ha indovinato. È una cosa che non ho mai detto a nessuno e neppure in confessione! - Quindi si allontanò da lui promettendo di andare presto a confessarsi.

                “Un altro giorno mentre D. Bosco era nel refettorio dopo la colazione, e parecchi di noi come al solito standogli intorno, egli ci guardava sorridendo amorevolmente, dicendo di conoscere l'interno del nostro cuore. Uno studente, del quale credo dover tacere il nome, e che abitando in città [460] veniva spesso nell'Oratorio, quasi sprezzando ciò che egli giudicava impossibile, lo interruppe dicendogli: - Ebbene; mi dica i miei pensieri! - D. Bosco fattoselo accostare gli parlò sotto voce. Ciò che gli disse non lo abbiamo saputo, ma fatto sta che quegli rimase imbrogliato e confuso, e non osò più replicar verbo. Io era presente.

                “Un mio compagno studente di teologia andò or sono due anni in villeggiatura per alcuni giorni con un signore onesto e religioso in paese, distante non so ben se dieci o più miglia da Torino. Come fu di ritorno andò a confessarsi da D. Bosco e quindi mi confidò: - Devo dirtene una bella. Prima di venire a Torino avevo sulla coscienza un peccato e vergognandomi di accusarlo poi a D. Bosco, mi confessai dal parroco del paese dove io era. Ora, pochi giorni sono trascorsi, andai a confessarmi da D. Bosco, ed egli dopo la confessione, dissemi: - Guarda, io lo so bene che tu hai fatto così e così (e mi disse il peccato qual era). - Io, seguitò questo mio compagno, sono fuor di me dallo stupore, ed ho imparato a mie spese che quando uno fa qualche grossa scappata non val la spesa confessarsi da altri, chè Don Bosco il sa lo stesso”.

                Fin qui D. Turchi che non fu solo a rendere tale testimonianze a D. Bosco.

                D. Giovanni Prof. Garino ci consegnò la seguente relazione.

                “Era l'anno 1858, o 1859 ed un mattino d'inverno ci trovavamo in buon numero intorno a D. Bosco che stava prendendo un po' di caffè. Eravamo tutti stretti intorno a lui, chi dinanzi seduto sopra la lunga tavola in capo alla quale ei sedeva, chi ai fianchi, chi dietro alle spalle.

                Tutti ridevano, faceziando con molta confidenza, ma con rispetto, come è costume di buoni figliuoli affezionati [461] al padre. Fra le altre cose alcuno incominciò a dire come D. Bosco vedesse il futuro, sapesse quando alcuno deve morire, e via via. In quello stesso mattino e nello stesso luogo mi ricordo come D. Bosco dicesse nell'orecchio a questo e a quello certi loro segreti, di che tutti fortemente stupivano. Sopra una piccola panca il giovane C.... Evaristo sedeva vicino a lui, alla destra. Piuttosto svegliato, e non dei più esemplari, egli rideva delle parole e degli atti di D. Bosco e dei compagni e con una certa aria, quasi di sprezzo, indicava abbastanza quel che pensasse di simili cose. Ad un tratto disse: - D. Bosco io non credo che lei vegga le cose nascoste. Mi dica un po'- e provocava D. Bosco a dirgli non so qual suo segreto.

                D. Bosco lo prese in parola, e abbassato il capo al suo orecchio gli sussurrò alcune parole che non furono da noi intese. Ma il fatto si è che quel giovane divenne rosso, tacque, si compose a serietà e più non osò dire che Don Bosco non vedesse o non conoscesse le cose segrete”.

                Enria Pietro narrava: - Mi confidò un mio compagno che una volta essendo caduto in una grave colpa non voleva più lasciarsi vedere da D. Bosco. Ma incontratosi a caso con lui sentissi dire con paterna affabilità: - Tu non osi più lasciarti vedere perchè hai commesso un peccato! E glielo specificò. Nessuno al mondo avrebbe potuto venire in cognizione della sua mancanza, ed egli sbalordito e pentito pregò D. Bosco ad ascoltarlo in confessione e cambiò vita. Altre volte di sera mentre facevamo ricreazione D. Bosco si avvicinava a qualcuno, gli diceva qualche parolina all'orecchio, e questi appena terminate le orazioni prima di andare a letto, si recava in sacrestia o saliva alla camera di D. Bosco e là si confessava.

                Questo dono fatto dal Signore a D. Bosco di conoscere [462] lo stato spirituale di certi giovanetti, non gli venne a mancare in tutto il tempo della sua vita; sicchè non esitava a quando a quando di ricordarlo agli stessi alunni. Nel 1869 parlando una sera dopo le orazioni a tutta la comunità che numerava 900 persone fra le quali oltre a cento uomini istruiti e di senno diceva: - Io ho ricevuto dal Signore il dono di conoscere gli ipocriti. Quando alcuno di costoro mi si avvicina, sento un non so che di nauseante, che non posso tollerare. Si accorgono essi di questa mia sofferenza, sentono che io li conosco per quelli che sono; e questo è il motivo per cui mi fuggono.

                E i fatti continuavano a fargli testimonianza.

                Un mattino del 1870 D. Bosco usciva di Chiesa e i giovani appena lo videro gli corsero numerosi intorno. Benchè varii sacerdoti lo avessero coadiuvato nell'ascoltare le confessioni, egli era molto stanco per la moltitudine dei suoi penitenti. Tuttavia parlava grazioso con tutti. A un tratto si volge a un giovanetto e facendogli passare sulla fronte il dito indice della sua mano destra gli dice sorridendo:

                - Stamane non ti sei lavata la faccia.

                - Ma sì, D. Bosco.

                E D. Bosco sempre sorridendo gli replicò:

                - Ma nooo, ma nooo, strisciando carezzevolmente sul o. E quindi prese a parlargli all'orecchio e il giovane abbassare il capo, pensieroso. D. Bosco gli diceva che non era andato a confessarsi e che ne aveva di bisogno. Era presente Don Parigi Agostino che ci narrò poi l'accaduto.

                Di un altro caso simile noi stessi che scriviamo fummo testimoni.

                Negli esercizi spirituali del 1870 un giovane adulto baldanzoso e poco buono, prima di andarsi a confessare [463] vantavasi in mezzo ai compagni che D. Bosco non avrebbe mai saputo i suoi peccati.

                Fa la prova, gli dissero gli amici.

                - Sì che la faccio, ma son tutte storie ciò che si narra di D. Bosco.

                E spensierato, ridendo, entrò in chiesa e s'inginocchìò ai piedi dì D. Bosco. La sua confessione fu abbastanza lunga. I compagni lo attendevano in cortile. Uscì fuori coi capelli scomposti, gli occhi rossi, quasi fuori di sè. I compagni lo circondarono:

                - Ebbene, ebbene!

                - Lasciatemi stare!

                - Che cosa ti ha detto D. Bosco?

                - Vi dico che mi lasciate stare.

                - Erano storie quelle che ti narravano di D. Bosco?

                - Storie? mi ha detto tutto, tutto: anche ciò che mi era dimenticato! Ma lasciatemi solo! - E si mise a passeggiare sotto i portici ripetendo sotto voce: - mi ha detto tutto, tutto.

                Costui più tardi quando alcuno metteva in burletta questo dono di D. Bosco, prendendo a spada tratta le difese ripeteva: - Venite dirlo a me che non è vero!

                Di questi casi noi potremmo qui riportarne ancora un gran numero, ma essendo collegati con avvenimenti di somma importanza, li esporremo ove lo esige l'ordine dei nostri racconti. Chiuderemo tuttavia, per soprabbondare, i fatti su esposti, ripetendo ciò che una sera del 1871 abbiamo udìto da D. Bosco nel refettorio.

                I giovani si erano ritirati e rimasero attorno a lui Don Rua ed altri Superiori, che volsero il discorso su certi mali morali, causa precipua della rovina di tanti giovani. Don Bosco dopo aver ascoltato così esprimevasi: - Certi mali [464] il difficile è conoscerli per poterli curare. Tuttavia il Signore usa una grande misericordia verso i nostri giovani. Io quando mi trovo in mezzo a loro, vi fosse anche un solo immodesto, me ne accorgo per un fetore insopportabile che tramanda; e se si avvicina e mi vien dato di vedere il suo volto, son sicuro di non sbagliare nel mio giudizio.

                Gli è per questo che certi giovani, per tema che egli leggesse loro in fronte, si tenevano lontani. E se per qualche ragione, o perchè chiamati dovevano andare al suo cospetto, scoprendosi per riverenza il capo, solevano tenere il berretto innanzi alla fronte o su di essa far scendere i capelli, come se ciò bastasse a nascondere la propria coscienza.

                Ciò accadeva specialmente in principio dell'anno scolastico quando gli alunni ritornati dalle vacanze non avevano ancora aggiustati i conti con Dio; sicchè giungendo Don Bosco in cortile, si sentiva come un volo d'uccelli, un fuggi fuggi, e rimanevano con lui solo i buoni che per fortuna erano molti. Fuggivano tutti quelli che avevano la coscienza sporca; - perchè, dicevano, D. Bosco ci fissa gli occhi in fronte e legge tutto. - E quando qualcheduno per es. alla sera sotto i portici dopo le orazioni, era visto dai compagni ritirarsi dietro agli altri, interrogato, perchè non si fermasse al suo posto, rispondeva impacciato: - Perchè D. Bosco mi legge negli occhi i peccati.

                Ma D. Bosco tendeva loro le sante sue reti per tirarli a sè e quando riusciva a dir loro una parola la vittoria poteva dirsi sicura. Con frasi prudenti un po' velate faceva la correzione per mancanze occulte; p. e.: -Tu hai conti da aggiustare con Dio. - Altre volte vedendo alcuno melanconico, gli diceva: - Caro mio, bisogna togliere dal cuore il demonio per stare tranquilli. - So di un giovane, diceva [465] D. Bonetti, che avendo commesso un tale peccato, mentre credeva che nessuno lo sapesse, essendo passato una sera presso D. Bosco questi lo chiamò a sè e gli disse sottovoce: - E se muori stanotte che sarà di te?

                I1 giovane quella notte non potè prendere riposo, e al mattino corse a fare una buona confessione.

                Spesse volte in ricreazione chiamava un giovane vicino a sè, suggerendogli di andarsi a confessare della tale e tale colpa ed il suo suggerimento era di una sorprendente opportunità. E lo ammoniva, lo avvertiva a far senno e lo scongiurava a dar consolazione al cuore misericordioso di Dio.

                Quando però non riusciva ad avvicinare certi giovani, allora ricorreva ad altri mezzi per scuotere le coscienze dal letargo. Uno fra questi era mettere una letterina od un biglietto sotto il capezzale di chi ne aveva bisogno. Il colpo che faceva questa carta è indescrivibile.

                Da un po' di tempo D. Bosco usava le maggiori e più cordiali sollecitudini ad un giovanetto, che a dispetto di tanta tenerezza manteneva il suo cuore ostinatamente chiuso.

                Ora una sera questo fanciullo andando a dormire trovò un biglietto sul letto. Lo prese: era firmato da D. Bosco. Ne conobbe il carattere; lesse: Se stanotte ti accadesse la disgrazia di morire, dove vai?

                Il giovanetto restò impietrito; sulle prime stette in piedi vicino al letto agitato e convulso; poi corse alla camera di D. Bosco e bussò. Erano le 10 di sera. D. Bosco venne ad aprire; il giovanetto entrò esclamando: - Ah D. Bosco vuol farmi la carità di ascoltare la mia confessione ? - D. Bosco lo accolse commosso. Il giovanetto cadde in ginocchio e si confessò. - Ciò fatto corse tutto allegro a dormire. Egli stesso al mattino seguente appena alzato ne parlava al giovane [466] Piano Giovanni Battista manifestandogli come realmente si fosse trovato in gran bisogno di confessarsi, e come D. Bosco avesse conosciuto con minuta precisione lo stato di sua coscienza. Ed aggiungeva di aver passate poche notti così tranquille come quella.

                Un altro giovane mentre ripiegava l'orlo del lenzuolo prima di coricarsi, si sentì fra le dita una carta! - Oh! esclama ad alta voce! Che siano i numeri del lotto? Preso da curiosità va in mezzo della camerata, sotto il lume, per leggerlo. Quel biglietto era scritto da D. Bosco e non eravi altro che il nome del giovane ripetuto due volte con un punto di esclamazione. Legge e rilegge ed esclama: - Countacc! -

                Quindi ritorna presso il letto, infila la giubba che si era già tolta e senz'altro corre a confessarsi.

                Da ciò si deduce che D. Bosco conoscendo aver alcuno commesso un grave peccato non poteva assolutamente soffrire che si addormentasse in disgrazia di Dio con pericolo di non più svegliarsi. D. Rua sa di qualche altro che trovò sotto il capezzale un bigliettino con le seguenti semplici parole: - E se tu morissi stanotte? - Oppure: - E se muori questa notte che sarà dell'anima tua? sei sicuro di andare in Paradiso? - Ed anche: - Se dovessi morire saresti tranquillo? - E con altre o simili sentenze li traeva a mettersi all'istante in grazia del Signore.

                Qualcuno potrebbe dire, affermò giustamente Mons. Cagliero, prevenendo un'obbiezione, che D. Bosco sarà stato avvertito dagli assistenti delle mancanze di que' giovani; ma io osservo che nei primi tempi dell'Oratorio, cioè per dieci e più anni, non vi erano ancora assistenti fissi; perciò non le poteva sapere da questi. Io posso di più assicurare che quelli stessi che ricevevano tali avvisi, erano persuasi che [467] D. Bosco non conoscesse i loro difetti se non per virtù divina. Lo spirito adunque il quale illuminava D. Bosco nei primi dieci anni, è lo stesso che lo guidò in tutti gli anni seguenti.

                Aggiungeremo ancora che non solo i peccati, i dubbi gli scrupoli D. Bosco leggeva in fronte alle persone, ma altresì molti pensieri di vario genere. Sovente dava avvisi ad un alunno secondo il suo bisogno interno, causato da turbamento o dall'esito incerto degli studi, o da affari disgustosi di famiglia. Altre volte dissipava un malumore nascosto proveniente da troppa timidezza, da gelosia, da rancore e da diffidenza. Talora dava all'improvviso un consiglio non chiesto, ma che desideravasi domandare e con una precisione corrispondente in tutto al desiderio.

                Di questa sua intuizione servivasi ancora D. Bosco per risolvere o dissuadere i giovani che erano titubanti circa il seguire o non una vocazione che pareva chiamarli allo stato ecclesiastico. A molti che sono salesiani, e fortunati d'esserlo, egli disse francamente: - Se tu vuoi salvarti non hai che a percorrere questa via. Iddio ti chiama per questa.

                Anche le persone estranee alla casa parteciparono di tale benedizione. “Molte di queste, ci attestò D. Rua, mi referirono come D. Bosco indovinasse la causa di certe loro pene, arrecando un soave conforto prima ancora che aprissero bocca”.

                Noi qui dovremmo fare punto, perchè inesauribile è l'argomento colle testimonianze di Mons. Cagliero, del Teologo Piano, del Canonico Ballesio, Buzzetti Giuseppe, Villa Giovanni e altri e poi altri. Ma per finire rechiamo ancora un fatto. D. Bosco innanzi ad un certo numero di preti e chierici trattava sul modo di dare pubblicità a certe sue opere.

                Era presente un coadiutore di 40 e più anni che aveva per lui [468] la massima venerazione, eppure in quel momento, senza che nulla esternamente palesasse il suo pensiero, disse in cuor suo: - Ciarlatanate! - Come D. Bosco ebbe finito di parlare tutti si ritirarono e rimase quel coadiutore, al quale il buon padre si rivolse sorridendo:

                - Dunque tutte ciarlatanate...?

                - Ma io!...

                - Hai ragione però. D. Bosco è un ciarlatano - e con tutta amorevolezza passò ad altri discorsi molto importanti e di confidenza.

                Molteplici furono simili rivelazioni ed una volta vi fu chi notò in sua presenza come niente gli sfuggisse di quanto accadeva dintorno a lui, sebbene tenesse quasi continuamente gli occhi bassi. Ed egli rispose: - Gli è che vedo meglio senza guardare! - Vedeva infatti cogli occhi dello spirito illuminati dalla preghiera.

 

 

CAPO XXXIII. 1860 - Letture Cattoliche - Avvisi di D. Bosco agli associali per allontanare i mali presenti e premunirsi dai futuri - Lettera di Pio IX a D. Bosco - Il danaro di S. Pietro - Conversione di due giovanetti anglicani e di un ebreo - Il Vescovo di Ivrea nell'Oratorio - Cortesie di D. Bosco ad un ministro protestante - Un neofito raccomandato all'Oratorio dall'Arciprete della Cattedrale di Vercelli - La festa di S. Francesco di Sales.

 

                Era sorto l'anno 1860 apportatore a D. Bosco di sempre nuovi lavori, di gioie e di tribulazioni. Il primo fascicolo delle Letture Cattoliche del Gennaio, scritto da un anonimo, descriveva: Il momento della grazia o le ultime ore di un condannato a morte. Lo stampatore era sempre Paravia.

                Come appendice di questo fascicolo, D. Bosco aggiungeva alcuni avvisi che parve accennassero alle previsioni descritte nel Galantuomo sul finire del 1859.

 

MEZZO FACILE EFFICACISSIMO PER ALLONTANARE I MALI PRESENTI, E PRESERVARCI DAI FUTURI.

 

Invito al popolo cristiano.

 

                Gemiamo da gran tempo sotto i colpi de' flagelli, che ci percuotono, e v'è bene da temerne de' maggiori. Tutti ne sospirano, [470] molti se ne sdegnano, e, più ancora, prorompono in amare querele. Ma quei che ne conoscono la vera cagione, e vi procurano il necessario rimedio, purtroppo son rari.

                Intendiamolo, o cristiani.

                La vera cagione di tutti i mali è il peccato. Il peccato rende infelici i popoli. L'uomo ardisce di offendere ed oltraggiare Iddio, e Iddio offeso ed oltraggiato dall'uomo lo punisce, lo castiga. Così insegna la ragione, così insegna la fede. Solo uno stolto potrebbe dubitarne.

                Vogliamo dunque allontanare i mali, che ci affliggono e preservarci da quei, che ci sovrastano? Allontaniamone la cagione, il peccato: riconciliamoci con Dio, plachiamo la sua ira, soddisfaciamo la sua giustizia.

                Iddio ricco in misericordia, per l'eccessiva carità con cui ci ama, ci dà in Gesù Cristo suo figliuolo un mezzo facile e sicuro per la nostra riconciliazione. Questo mezzo costò a Gesù Cristo tutto il suo sangue, a noi costa soltanto la buona volontà di profittarne. Si trova questo nella confessione sacramentale. È la fede, che ce ne assicura, e da questa fede animati, in tutti i secoli della Chiesa ne hanno profittato sempre i fedeli di tutto il mondo, e ne han sempre riportato ogni maggior vantaggio. Ma, oh Dio, quanti miseri peccatori lasciano di profittarne, e invece di riconciliarsi con Dio, l'offendono maggiormente, e provocano sempre più la divina giustizia a castighi sempre maggiori, che saranno poi seguiti da altri tanto più spaventosi per una eternità nell'inferno!

                Oh! cristiani, cristiani, e come potremo vedere con indifferenza la rovina di tanti nostri fratelli, e lasciare che sempre più si provochi l'ira di Dio, e si accrescano sempre più i castighi anche temporali su di essi, e su di noi tutti?

                Vogliamo piuttosto implorare le divine misericordie, vogliamo placare l'ira divina ed anzi soddisfare pienamente la sua giustizia? Avviviamo la nostra fede....

                E qui D. Bosco continua eccitando sempre più l'amore verso Gesù Cristo e promovendo la frequenza nell'assistere alla Santa Messa. [471] Lo ricompensava largamente del suo zelo e gli cagionava grande gioia una lettera di Pio IX in risposta a quella scrittagli a nome suo e a nome di tutti i suoi giovani sul principio di novembre. Il glorioso Pontefice aveva gradito sommamente questo attestato di figliale ossequio e di fedeltà inalterabile e per un atto di insigne bontà, in data del 7 di gennaio del 1860, rispondeva a D. Bosco con un Breve, che rimarrà monumento imperituro della benevolenza di Pio IX verso del nostro Oratorio. D. Bosco ricevuto il prezioso documento il volse tosto dal latino in italiano, e poscia raccolti i suoi giovani lo lesse, mettendoli a parte della propria consolazione. Ecco il tenore di questo Breve pubblicato nell'Armonia[14]. [472]

Al diletto figlio sacerdote Giovanni Bosco Torino.

PIO P. P. IX.

 

DILETTO FIGLIO, SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZIONE.

 

                Nella lettera, che Ci scrivesti il nove dell'ultimo novembre, scorgemmo novella prova della tua singolare fede, pietà e riverenza verso di Noi e verso la suprema dignità Nostra. Di leggieri comprendiamo, Diletto Figlio, quale sia il dolore dell'animo [473] tuo e degli altri ecclesiastici in questo grande scompiglio d'Italia e stravolgimento delle pubbliche cose, e nella ribellione di alcune provincie del nostro temporale dominio. Questa ribellione, come a tutti è noto, venne provocata da esterne istigazioni e macchinazioni, e con ogni sorta di mezzi fomentata e sostenuta. Ora si aggiunse uno scritto, pienissimo d'ipocrisia che diffuso nel popolo tende ad ingannare i semplici ed a scemare il comune consenso dell'orbe cristiano nel difendere il civile Principato della Sede Apostolica. La fede stessa dell'italiana penisola è messa in pericolo: una colluvie di libri e di giornali perversi si divulgò non solo per le città, ma eziandio pei villaggi, nè solamente in cotesti paesi del Piemonte, ma anche nella Toscana, e nelle Provincie confinanti; i protestanti vomitano il veleno delle loro malvagità, avendo a tal fine istituite scuole, vuoi clandestine, vuoi pubbliche, alle quali anche con premii si sforzano di allettare la povera ed incauta gioventù. Se non che in questa fierissima procella, suscitata da Satana, Noi nell'umiltà del cuore sommamente ringraziamo Iddio, che colla sua grazia avvalora e conforta i Vescovi dell'Italia a custodire intrepidamente ciascuno nel proprio gregge il deposito della fede. Sono di sollievo al cuor Nostro la somma concordia degli animi, colla quale anche il Clero in questo tristissimo tempo attende alla salute delle anime, e la fermezza e costanza d'animo, con cui per la causa di Dio e della Chiesa esso sopporta e sostiene ogni avversità. Non possiamo poi esprimere con parole la consolazione che ci apportò quella parte della tua lettera, da cui conoscemmo che le presenti calamità di questo tempo resero maggiore l'alacrità tua, o Diletto Figlio, e quella delle altre persone ecclesiastiche. Quindi e colla predicazione della parola di Dio, e colla diffusione di buoni libri e di buoni scritti, uniti di animo e di zelo vi sforzate a tutto potere di opporvi alle macchinazioni de' nemici della Chiesa. Non v'ha cosa più eccellente di questo operare, e non v'ha cosa più utile a promuovere ed infiammare la pietà del popolo. Nè fu priva di frutto quella tua esimia sollecitudine, per la quale moltissimi giovani recandosi ai sacri Oratorii nei giorni festivi, e quotidianamente alle scuole ad ore opportune divennero ognora più ferventi sia per mezzo degli ammaestramenti cristiani, sia colla frequenza de' Sacramenti. La cura che hai dei giovani poveri [474] da te ricoverati ottiene di giorno in giorno più felice successo, ed accresce il numero di coloro, che potranno poi diventare una volta utili ministri della Chiesa. Continua, Diletto Figlio, la carriera che hai intrapreso a gloria di Dio e ad utilità della Chiesa. Sopporta, se ti avverrà qualche grave tribolazione, e sostieni con grandezza d'animo le tribolazioni di questo tempo. La nostra speranza è riposta in Dio, il quale, per la protezione della Regina del Cielo e Signora del mondo, la Madre di Dio Maria Vergine Immacolata, ci libererà da questi si grandi mali e consolerà la sua afflitta Chiesa facendola trionfare de' suoi nemici. Non dubitiamo punto che a questo fine, e per impetrare alla Nostra debolezza prontissimo l'aiuto e il soccorso di Dio, continuerai, o Diletto Figlio, insieme cogli alunni e discepoli del tuo Ospizio a te e a noi carissimi a supplicare lo stesso Iddio con sempre maggior fervore in ogni sorta di preghiere. Noi caldissimamente preghiamo il medesimo Dio che custodisca te e quelli nella sua pace, vi copra colla sua destra e vi difenda col suo santo braccio. Pegno di questo celeste aiuto desideriamo che sia l'Apostolica Benedizione, che con effusione ed affetto di cuore paterno e con amore impartiamo a te, Diletto Figlio, ed anche agli alunni e discepoli, non che a tutti coloro che con te si occupano a favore di queste pie opere, ovvero le frequentano.

                Dato in Roma presso S. Pietro il 7 gennaio 1860.

                Del nostro Pontificato l'anno decimo quarto.

PIO P. P. IX.

 

                Mentre il Sommo Pontefice scriveva questa affettuosa lettera a D. Bosco, l'Armonia col numero 19 del 1860 apriva nuove sottoscrizioni di offerte al Papa col nome di Danaro di S. Pietro e in poco più di un anno raccoglieva trecento mila lire. Le aveva dato l'ispirazione e l'impulso la Duchessa di Montmorency e D. Bosco fra i primi presentava la sua offerta, seguita poi da molte altre. Era un invito ai fedeli: Qui Domini sunt jungantur vobis. Ne ebbero dispetto i liberali e facendone frequentissimo tema delle loro invettive, proposero una legge che vietasse la sottoscrizione [475] per collette aventi scopo religioso; tale proposta però non ebbe accoglienza in Parlamento.

                Ma nei buoni e in D. Bosco l'attaccamento al Pastore supremo, era anche amore intenso alle pecorelle che erravano fuori dell'ovile per condurvele.

                Il 24 gennaio così stampava l'Armonia:

 

BATTESIMO DI UN GIOVANETTO ISRAELITA.

 

                Sono or quattro mesi, che due fanciulli fratelli anglicani furono battezzati nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Qui due giovanetti nati a Londra, dopo una serie di strane vicende vennero dalla divina Provvidenza condotti nel ricovero annesso a questa chiesa, dove coll'alimento materiale trovarono il pane della vita eterna.

                Domenica 15 corrente, in questo medesimo Oratorio fu amministrato il Sacramento del Battesimo ad un giovinetto israelita d'Ivrea. Egli è figlio del rabbino Iarach, persona assai erudita, che da dodici anni rinunziò all'ebreismo ed ora vive da fervoroso cristiano. Il figlio Iarach ha sempre avuto le più belle disposizioni per farsi cristiano; ma la madre se gli è sempre opposta. Egli toccava già il suo quattordicesimo anno di età; e più cresceva negli anni, più vive erano le sue istanze di essere fatto cristiano. Finalmente il padre per appagare i vivi desideri del figlio il condusse nell'Oratorio maschile di Valdocco, dove tra le cognizioni che già aveva del Cristianesimo, e l'istruzione ivi prodigatagli, fu in breve trovato abbastanza istruito per ricevere il sacramento del Battesimo e della Cresima. Mons. Moreno, Vescovo d'Ivrea, insigne benefattore della famiglia Iarach, con bontà paterna veniva a raccogliere il frutto delle sue sollecitudini. Alle ore dieci il Venerando Prelato cominciava la messa, in cui una assai numerosa schiera di giovanetti si accostarono alla mensa eucaristica. Seguiva la interessante funzione del battesimo del giovanetto Iarach. Il suo contegno, la franchezza delle sue risposte, la gioia ed il raccoglimento dimostravano che egli era giunto ad appagare un vivo desiderio da lungo tempo nutrito. Egli prendeva [476] il nome di Tommaso, Luigi, Maria; il duca Tommaso Scotti erane padrino; la marchesa Maria Fassati era madrina.

                Dopo il Battesimo fu amministrata la sacra Confermazione al novello cristiano e ad altri giovani in numero di circa trecento. Tra essi notavansi con occhi di meraviglia venticinque spazzacamini, che per cura della Società di S. Vincenzo De-Paoli furono istruiti nell'Oratorio dell'Angelo Custode di Vanchiglia. Questi poveri giovanetti, la cui condizione fa che non osano presentarsi alle pubbliche chiese, avrebbero forse passato chi sa quanto tempo, se la carità cristiana non fosse andata in cerca di loro per radunarli, istruirli e farli cosi perfetti cristiani. Il Conte Cays, deputato, era il padrino dei giovani della Cresima.

                Dopo la Confermazione Mons. Vescovo con animate e commoventi espressioni incoraggiava il neofito a tenere in pregio il gran dono della fede, che aveva testè ricevuto. Animava poi tutti i cresimati a mostrarsi veri seguaci di Gesù Cristo, compiendo con fermezza e coraggio i loro cristiani doveri senza punto badare ad umano rispetto.

                Le varie parti della sacra funzione erano allegrate dal canto di voci argentine, che ora a coro, ora a solo eccitavano nel cuore degli astanti celesti pensieri. La funzione compievasi colla benedizione del Venerabile circa ad un'ora e mezzo pomeridiana.

 

                “Monsignore, lasciava scritto Reano Giuseppe, manifestava a D. Bosco nel dopo pranzo la gioia grandissima da lui provata in quel giorno, assicurandolo che quando occorresse altra simile occasione non era d'uopo invitarlo; sarebbe bastato soltanto un avviso ed egli sarebbe subito intervenuto volentieri. Era stato commosso fino alle lagrime nel vedere tanta divozione in que' giovanetti”.

                Queste fortunate occasioni non dovevano mancare perchè l'Oratorio di S. Francesco di Sales era il porto nel quale si ricoveravano molti di coloro che dalle sette ritornavano in grembo alla Chiesa. L'amorevolezza di D. Bosco e la ammirabile pazienza nel sopportare le questioni villane e [477] talvolta gli insulti, vinsero più volte la durezza di certi cuori: - Passar sopra ad ogni offesa per la gloria di Dio, per guadagnare a Lui anime - ecco il suo programma.

                Era questa l'attrattiva che egli esercitava sui poveri traviati. Fra gli altri un ministro protestante ex-prete, si presentava sovente all'Oratorio per disputare con D. Bosco. La prima volta che venne, asseriva essere necessario di porre la Bibbia come base dei punti da disputarsi.

                - Ma quale Bibbia? - rispondevagli D. Bosco; - la vostra o la nostra? Chi l'ha conservata a noi per tanti secoli? Voi siete nati ieri! E chi prima di voi ha custodito gelosamente questo tesoro? La sola Chiesa Cattolica, colla sua tradizione vi può recar le prove dell'autenticità dei sacri libri. - Quel poveretto non sapeva che cosa rispondere, e D. Bosco lo intratteneva a pranzo come un amico e continuò ad invitarlo ogni qualvolta veniva a ripetergli le sue obbiezioni. Testimonio di tali relazioni fu Reano, il quale eziandio raccontava come un giorno venisse un valdese a questionare con D. Bosco. Essendovi rimasto lungo tempo egli, Reano, temendo qualche sopruso aperse alquanto la porta per spiare; e vide quell'apostata inginocchiato che si confessava.

                Intanto D. Bosco accoglieva in casa un giovanetto convertito dall'eresia.

 

                               Car.mo e Ven. amico,

 

                Il latore della presente è un neofito, il quale venne catechizzato dall'ottimo mio collega il Sig. Can. Barberis che vostra signoria carissima conosce: fece mercoledì la sua abiura e ricevette sotto condizione il battesimo. Quel giovane dà assai buone speranze e V. S. che sa conoscere sì bene il cuore dei giovani, se ne persuaderà facilmente sol che possa intrattenersi alquanto col medesimo.

                Io lo raccomando alla carità di V. S. Procuri di ricapitarlo [478] da qualche pio artista. - Io credo farebbe ottima opera il ricoverarlo nel suo ritiro; son persuaso sarebbe consolato pel buon esito che confido farà questo mio raccomandato.

                Ricevetti ieri la carissima sua. Le scriverò alcuna altra volta di ciò che forma il soggetto della sua lettera.

                Si ricordi di me e mi abbia quale amo scrivermi

                Vercelli, 23 gennaio 1860.

aff.mo servo ed amico

Arcip. DEGAUDENZI.

 

                Quattro fanciulli adunque, un Ebreo e tre protestanti, rigenerati colle acque del battesimo, la Domenica 29 gennaio celebravano per la prima volta la festa di S. Francesco di Sales nell'Oratorio, essendo priore il Cav. Bosco di Ruffino. Egli provvide la colazione a tutti i giovani interni ed esterni. Alla sera si diedero pure i premii agli alunni di migliore condotta.

                Aveva preso parte attiva a questa festa il giovane musico Domenico Belmonte di anni diciasette nativo di Genola diocesi di Fossano. Era entrato in questo mese nell'Oratorio unicamente per riuscire un valente organista, ma nei primi giorni colto da nostalgia, eragli balenato il pensiero di fuggirsene a casa. D. Bosco però divinando che egli sarebbe divenuto uno de' più fidi e virtuosi suoi figli, avutolo a sè, facilmente dissipò ogni ombra di tristezza e lo consigliò ad accingersi anche allo studio della lingua latina. E Belmonte intraprese quello studio con fermo proposito e buon volere.

 

 

CAPO XXXIV. Seduta del Capitolo: Accettazione del primo confratello nella Pia Società - Parola di D. Bosco - Letture Cattoliche - Il Papa: questioni del giorno - Raccomandazione agli associati delle Letture - D. Bosco difensore dei diritti della S. Sede - Il Ministro Farini chiede l'accettazione di un giovanetto nell'Oratorio - La diplomazia di D. Bosco - La lingua, italiana imposta per regola dell'Oratorio nei discorsi famigliari - Giovinastri condotti da D. Bosco nell'Ospizio - Una memorabile conversione - Pastorale del Vicario Capitolare di Asti che raccomanda le Letture Cattoliche - Una società per la diffusione de' buoni libri.

 

                Erasi costituita, come abbiamo già detto, la Pia Società di S. Francesco di Sales, coll'elezione dei membri del Capitolo; ed ora questi si radunavano per esaminare la domanda del primo giovane desideroso di far parte della Congregazione. Così leggesi nel verbale redatto da D. Alasonatti.

 

                L'anno del Signore mille ottocento sessanta il 2 febbraio alle 9 ½

pomeridiane in questo Oratorio di S. Francesco di Sales il Capitolo della Società dello stesso titolo, composto del Sacerdote Bosco Giovanni Rettore, del sacerdote Alasonatti Prefetto, del Suddiacono Rua Michele Direttore spirituale, del diacono [480] Savio Angelo Economo, del chierico Cagliero Giovanni primo consigliere, del chierico Bonetti Giovanni secondo consigliere, del chierico Ghivarello Carlo terzo consigliere, si radunava nella camera del Rettore per l'accettazione del giovane Rossi Giuseppe di Matteo da Mezzanabigli.

                Quivi pertanto dopo breve preghiera, coll'invocazione allo Spirito Santo, il Rettore diè principio alla votazione. Terminata questa e fattone lo spoglio risultò che il detto giovane fu accolto a pieni voti. Perciò venne ammesso alla pratica delle regole di detta Società.

 

                D. Bosco in quella sera parlò e citando il testo di Isaia XXVI, Urbs fortitudinis nostrae Sion Salvalor; ponetur in ea murus et antemurale, disse il muro essere la legge di Dio, l'antemurale le regole della Società. In quanto alle regole aggiunse con S. Tomaso d'Aquino che: Difficile est quod homo praecepta servet quibus intratur in regnum, nisi sequens consilia, divitias relinquat. Concluse con Sant'Agostino e dimostrò che le regole della Società sono le ali con cui si vola, son le ruote con cui si conduce il carro.

                Rossi Giuseppe fu poi nominato Provveditore generale della Pia Società per le cose materiali.

                Intanto rimettevasi agli associati il fascicolo pel mese di febbraio delle Letture Cattoliche: Industrie spirituali secondo il bisogno dei tempi per Giuseppe Frasinetti priore a S. Sabina in Genova.

                “Questo libro, scrive il Frasinetti, insegna molti espedienti e varie arti e finezze, o lettore, colle quali ti riuscirà più facile evitare il male, operare il bene, giovare al prossimo; ed anche all'uopo dare la burla al mondo ed al demonio, per fare, a loro dispetto, ciò che non vorrebbero. Altre di queste industrie sono cose molto volgari e comuni, non per ciò meritevoli di poca stima, che anzi hanno valore [481] singolare non abbastanza conosciuto perchè poco ponderato. Altre sono cose più speciali proprie delle persone di spirito, tuttavia semplici e naturali da potersi praticare da chiunque ha buona volontà”.

                A questo fascicolo atto a produrre un bene immenso per la santificazione delle anime, D. Bosco univa un'operetta di Mons. Segur, da lui ritoccata in qualche punto: Il Papa: questioni del giorno: Chi è il Papa - Perchè il Papa è re temporale - Dio così vuole ed è necessario che lo sia pel vantaggio dei popoli, e perchè questo suo potere è un diritto incontestabile - Pio IX ha detto: Non si attacca il mio potere temporale, se non perchè io sono il Papa - Il Papa come principe ha diritto e dovere di respingere colla forza armata la ribellione - Gli stati temporali della S. Sede sono beni sacri - Il Concilio di Trento ha fulminata la scomunica contro chiunque, posto in qualsiasivoglia dignità, anche reale ed imperiale, osi porre la mano sui beni della Chiesa - Qual pena terribile sia la scomunica -Tutti gli increduli, gli empi, i socialisti, gli eretici sono quelli che attaccano il potere temporale - I Cattolici nel diffondere questo non si mischiano in politica, ma difendono un interesse religioso - Non si può essere buoni Cattolici se non si presta anche in questo obbedienza pratica al Papa - Chiunque se la piglia col Papa è perduto.

                D. Bosco aveva premessa una nota al libretto: “Questo scritto tratta di religione e non di politica e mi sta’ a cuore che ognuno ne sia persuaso. Esso fa appello al pubblico buon senso e alla buona fede, ed ecco il perchè spero che sarà ben accolto da te, carissimo lettore. Se ti parlo del potere temporale del Papa non lo fo che sotto il punto di vista della religione e della coscienza, che invano si vorrebbe restringere alle cose invisibili. Leggi queste [482] poche pagine con animo spregiudicato, e vedrai che la verità parlerà più forte di tutti i sofismi”.

                Altra nota egli apponeva alla conclusione di questa operetta: “Al lettore - Tienti, o mio caro lettore, inviolabilmente unito al Papa e alla Chiesa. Non ti lasciare intimorire dal furore e dalle minacce del nemico, nè ingannare dalle sue belle frasi. Diffida sopratutto dei termini moderati che gli empi sogliono usare per insinuarsi nelle anime oneste. Abbi coraggio della tua fede e delle tue convinzioni. Non temere: Dio è colla Chiesa in tutti i giorni fino alla fine de' secoli: tocca ai cattivi di tremare dinanzi ai buoni e non ai buoni di tremare dinanzi ai cattivi”.

                In questo fascicolo leggevasi eziandio una raccomandazione agli associati.

 

                Compiesi l'anno VII delle nostre Letture Cattoliche, e noi con vera consolazione annunziamo ai nostri lettori la continuazione delle medesime. Se però negli anni scorsi palesavasi il bisogno di diffondere buoni libri, quest'anno si fa sentire una massima urgenza.

                Perciò noi ci raccomandiamo a tutti quelli, che amano il bene di nostra santa cattolica religione, a volerci dare la mano per far conoscere questi libretti presso a quelle persone ed in quei luoghi, ove nella loro prudenza e nel loro zelo giudicheranno tornare a maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.

 

                E per incoraggiare ogni cristiano a prendervi parte, rapportava, dalle lettere di S. S. Pio IX, del Card. Vicario e di Mons. Gianotti, già a suo luogo da noi esposte, alcune parole proferite in favore di queste Letture.

                Gli opuscoli di tali Letture testificano l'affetto generoso di D. Bosco verso la S. Sede. Egli per difenderla fu sempre, come suol dirsi, sulla breccia. Con un fascicolo nel 1855 aveva minacciati i castighi di Dio a coloro che usurpavano i beni della Chiesa, e col sopradetto sostiene [483] il dominio civile dei Papi. Nei tempi che correvano era un atto che richiedeva un coraggio non comune, potendo nascere pericoli gravissimi per lui, come infatti avvenne. La Divina provvidenza però predispose certi avvenimenti, dei quali D. Bosco seppe giovarsi. Egli aveva per guida e conforto Maria SS. e sapeva, cosa molto difficile, accoppiare in mirabil guisa semplicità e prudenza: Hoc est enim philoso phiae culmen, simplicem esse cum prudentia. Così afferma S. Giovanni Crisostomo.

                Il primo filo che gli cadde in mano, il quale doveva condurlo nel difficile sentiero, fu una lettera di S. E. il dottor Luigi Carlo Farini. Era Ministro degli Interni da pochi giorni per le dimissioni di Rattazzi.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                DIVISIONE 5, n. 84

Torino, addì 4 febbraio 1860.

                Il Signor Sindaco del Comune di Lagnasco ha fatto preghiera a questo Ministero perchè interponga i suoi uffici onde procurare il ricovero nell'Oratorio maschile di Valdocco in questa Capitale al giovane Domenico Gorla del fu Michelangelo di anni 14, originario del predetto comune, il quale essendo destituito di mezzi di sussistenza ed orfano d'entrambi i genitori ha richiamato l'appoggio della pubblica carità. - Il sottoscritto non può a meno di secondare la fattagli domanda, trattandosi di procurare collocamento ad un giovane il quale essendo di onesti costumi e di sana complessione può essere avviato a qualche arte o mestiere con sensibile suo vantaggio morale e materiale.

                Rivolgendo quindi chi scrive tale domanda al Sig. sacerdote D. Giovanni Bosco, Direttore del predetto Oratorio, confida che Egli non vorrà rimanersi estraneo a questo atto di beneficenza che gli si propone, ed in ogni caso attende dalla sua compiacenza un sollecito riscontro in proposito.

D'ordine del Ministro

SALINO. [484]

 

                Farini era uomo tale che avrebbe mosso aspra guerra all'Oratorio, eppure appena salito al potere un de' suoi primi atti è di raccomandare l'accettazione di un giovanetto. Sembrerà cosa strana eppure viene spiegata con tutta facilità. Era frutto dell'accortezza di D. Bosco. Egli facendo in tempo opportuno, rivolgere ad un ministro le suppliche dei postulanti, che desideravano essere raccomandati all'Oratorio, prevedeva che sua Eccellenza, indifferente per un affare che non recavagli nè disturbo nè spesa, avrebbe aderito a tale domanda così facile ad esaudirsi. Tanto più che la pratica intiera ricadeva sul segretario, al quale non di rado, pare, che fossero a scanso di noie, rimesse tutte le carte senza neppure che altri ne prendesse visione, e in queste segreterie D. Bosco aveva degli amici di gran conto. Il Ministro stesso per più di una volta per varii motivi, era interessato nel fare raccomandazioni, colle quali in certo modo si obbligava all'Oratorio.

                In tutti i suddetti casi D. Bosco accoglieva con premura quelle istanze; e rispondeva direttamente al Ministro, dal quale sapeva a suo tempo chiedere protezione, o sussidi.

                Egli adunque, che aveva insinuato probabilmente al Sindaco di Lagnasco di rivolgere la supplica al Ministero degli Interni, rispose a Farini con frasi deferenti ed ossequiose, conservò la lettera del Ministro, e il giovane fu accettato come artigiano nell'Oratorio, ove trovò che per amore dell'Italia gli alunni parlavano italiano. Infatti il 13 febbraio una deputazione di artisti della casa, indotti da chi conosceva le intenzioni di D. Bosco, presentavasi a lui che in tempo di ricreazione, dopo pranzo, stava intrattenendosi con chierici e studenti e gli domandò che volesse introdurre nell'Oratorio l'uso della lingua italiana nel parlar famigliare. D. Bosco aderì alla proposta prevedendo [485] che presto si sarebbero introdotti in Valdocco i dialetti di ogni regione d'Italia; anzi per gli studenti ne fece un obbligo e all'indomani più non s'udì parlato fra i giovani il dialetto piemontese. La deputazione era composta di Fassino, Roda, Giani, Biletta, Cora e Variolato. Gli artigiani però smisero ben presto, perchè la maggior parte di essi, avevan timore di farsi burlare per i frequenti spropositi, e poi loro sembrava darsi l'aria di signori.

                Il loro numero erasi aumentato in questo stesso giorno 13 febbraio. Bisogna riflettere che D. Bosco, era solito per compassione, ad invitare a far vita con lui quei fanciulli rozzi, senza religione, che, specialmente nei dintorni di Portanuova, solevano vendere zolfanelli, lucidare le scarpe, anche portar le valigie ai viaggiatori. Ma gli sfaccendati, che non volevano saperne di anima, e di disciplina rifiutavano di seguirlo con vivo dispiacere del Servo di Dio.

                Ora in questo giorno D. Bosco dalla città stava per ritornare all'Oratorio, quando vide in mezzo ad una piazza poco distante sette giovinastri in sui diciotto anni oziosi, vagabondi, capaci di qualunque cattiva azione, che fra essi ed altri, dei quali erano capi, formavano una lega per commettere prepotenze e ribalderie. Appena videro Don Bosco presero a schernirlo. Egli tuttavia si avvicinò e con maniere benevoli domandò loro della patria, condizione, mestiere. Gli risposero che non avevano lavoro e che non si industriavano a cercarne. D. Bosco allora li invitò ad andare in una casa dove avrebbero trovato ricovero, lavoro e vitto. I giovani domandarono: - Vuol condurci forse al suo Oratorio?

                - Eh sì, rispose D. Bosco; se volete venire con me.

                Allora uno di quei giovinastri ripetè la proposta: Andiamo? Uno dopo l'altro acconsentirono e D. Bosco [486] li condusse nell'Oratorio. Radunati gli alunni intorno a sè nel cortile a parte, disse loro dopo qualche avviso: - Con questi nuovi venuti bisognerà usare molta pazienza! Mi raccomando.

                Infatti ogni parola che loro usciva di bocca era una bestemmia o una sconcezza. Alla sera entrati in camerata, ridevano sgangheratamente, vociavano, interrompevano la lettura, fischiavano il chierico assistente che li ammoniva di far silenzio. Alcuno, quando fu vestito e calzato bene, scomparve, giorni dopo dall'Oratorio; quelli che rimasero furono avviati ad un mestiere. È facile intendere quale fatica ci volle per disporli al bene. Eppure D. Bosco, non andò lungo tempo, che facendosi amare, li mise sul buon sentiero. “Io, ci riferì Rossi Giuseppe, li aveva continuamente sotto gli occhi e fui testimonio della loro riconoscenza pel beneficio ricevuto, e li vedeva andare a gara nel raccomandarsi vicendevolmente di star buoni, di lavorare, ed eseguire tutti gli avvisi ed ordini di D. Bosco”. Un buon chierico però aveva affrettato il momento della loro conversione. Commosso dalla vita disgraziata di questi giovani, e delle irriverenze che commettevano in chiesa, pregava con tutta l'anima Maria SS., affinchè nel suo mese di maggio volesse loro toccare il cuore. Passarono alcuni giorni, quando uno di questi, una sera dopo la benedizione, andò a cercare il detto chierico e tutto commosso lo pregava di volergli insegnare il modo di mutar vita; soggiungendo che essendo in chiesa mentre si cantava Sia benedetta la santa Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, gli era parso di vedere che la Madonna dal suo altare gli tendesse amorosamente le braccia. Il chierico gli suggerì di fare una confessione generale; e la fece. Da quel punto il fortunato giovine incominciò e perseverò [487] negli anni seguenti ad essere l'esemplare degli altri, specialmente nella compostezza in chiesa.

                Pel mese di marzo era pronto il fascicolo delle Letture Cattoliche; Elisabetta o la carità del povero ricompensata per M. D'Esoville. Portava unita la pastorale del Vicario Capitolare generale della Diocesi d'Asti sulle funeste conseguenze dei cattivi libri. Era il primo fascicolo dell'anno Ottavo.

                L'interessante racconto espone gli avvenimenti di un giovanetto abbandonato da sua madre, vagabondo, nella più squallida miseria, ricoverato ed educato da una povera donna, che a due altri fanciulli orfani usa la medesima carità.

                La pastorale suddetta poi, di Mons. Antonio Vitaliano Sossi, raccomandava la diffusione delle Letture Cattoliche con queste parole:

 

                Coll'opportunità del proscrivere le stampe cattive, io raccomando a tutti coloro che vogliono occupare i loro momenti d'ozio in letture che giovino ad ornare la mente di utili cognizioni, a correggere e migliorare i cuori, a far progredire le anime nella cognizione della verità, nella pratica del bene e nel servizio di Dio, io raccomando, dico, le Letture Cattoliche che si pubblicano a Torino sotto la direzione del pio e zelante educatore della gioventù, il sacerdote Giovanni Bosco. Fortunati quei pastori delle anime, che estirpando dalle loro parrocchie la peste dei libri e dei giornali irreligiosi, riusciranno a sostituirvi le edificanti e salutari Letture Cattoliche.

                Asti, 10 febbraio 1860.

A. V. Sossi.

 

                Con questa circolare D. Bosco si faceva avanti per annunziare un suo progetto.

                Nell'anno 1859 egli aveva pensato di formare una [488] società che lo coadiuvasse nel contrapporre alla diffusione di libri cattivi quel maggior numero di libri buoni che si fosse potuto. Scriveva perciò il seguente programma

 

                SOCIETÀ PER LA DIFFUSIONE DELLE LETTURE CATTOLICHE, ED ALTRI LIBRI CATTOLICI.

 

                1. Questa società ha per iscopo la propagazione delle Letture Cattoliche in quei luoghi e presso quelle persone ove non fossero ancora conosciute.

                2. Qualora ci fossero mezzi pecuniarii la società farà anche stampare libri cattolici a suo conto e li diffonderà gratuitamente o ne promoverà la vendita al minor prezzo possibile.

                3. Ciascun dei soci si adopererà di impedire la lettura di libri cattivi presso ai suoi dipendenti e presso a tutti quelli verso di cui si giudicherà riportarne qualche vantaggio.

                4. Tutti possono far parte di questa società. Ognuno però è invitato di fare annualmente quell'oblazione che nella sua carità stimerà più a proposito, purchè non sia minore di franchi due.

                5. Ogni socio avrà cura di fissarsi qualche luogo o qualche ceto di persone presso cui diffondere buone letture ed impedire lo spaccio de' libri cattivi.

                6. Non si stamperanno libri senza la revisione Ecclesiastica, nè questo piano di regolamento sarà posto in esecuzione, finchè non sia stato approvato dal Superiore Ecclesiastico.

                7. La società è rappresentata da una direzione composta di un presidente, vice - presidente, segretario, quattro consiglieri, la quale, società, surrogherà quei membri che venissero a mancare.

 

                Costituita la società, cercò nell'anno 1860 persone che colle loro obblazioni sopperissero alle spese di stampa. Quindi preparava molti libretti di carta in bianco nei quali si raccogliessero dai soci le sottoscrizioni dei benefattori. Ogni foglio aveva il bollo dell'Oratorio. Ne abbiamo ancora alcuni colla sottoscrizione e la cifra dell'offerta di Don Giuseppe Cafasso, Cav. Carlo Giriodi, Conte Aleramo Bosco, [489] Candida Bosco, T. Bertagna G. B., T. Golzio Felice, Contessa Bosco nata Riccardo, Contessa Casazza, Teresa Racca, Sac. Vallauri P., Conte Francesetti Vittorio, Avvocato Viglietti Professore, Prev. Vicario Foraneo di Frebola Soprana, il Barone Cantono di Ceva ed altri ancora.

                Questi libretti avevano nel secondo foglio manoscritta la seguente prefazione o circolare che dir si voglia.

 

                               Oblazioni per la diffusione dei buoni libri.

 

                L'anno scorso alcune pie persone si associarono a fare oblazioni a fine di poter distribuire buoni libri negli ospedali, specialmente tra i militari. La cosa riuscì assai bene; molti libri cattivi furono raccolti, consegnati alle fiamme; mentre a quelli vennero sostituiti libri buoni.

                Ora continua lo sforzo di propagare stampati perversi, e molti sacerdoti e religiosi che predicano nella quaresima, nei sacri tridui e negli esercizi spirituali, come pure parecchi parroci ed altri sacerdoti, volendosi opporre al male crescente, fanno domanda di libri religiosi o di altri oggetti di divozione, che nei catechismi e in molte altre occasioni distribuirebbero utilmente; ma loro mancano i mezzi per farne acquisto.

                A tale oggetto si fa ricorso ai caritatevoli cattolici invitandoli a prendervi parte e sottoscriversi per quella oblazione che sembrerà opportuna nei bisogni di questi tempi. Il sottoscritto d'accordo con altri Sacerdoti si adopererà di appagare le varie domande che si fanno in proposito.

                Il Signore Iddio non mancherà di dare largo compenso all'opera che si fa in favore di nostra santa cattolica Religione. Torino, il 6 Marzo 1860.

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

 

CAPO XXXV. Una nuova campana in Vanchiglia. - Il maestro Mosca Giovanni catechista - Elogi del conte Cays alle conferenze annesse degli Oratori festivi - D. Bosco e i bisogni di S. Madre Chiesa - VITA E MARTIRIO DE’ SOMMI PONTEFICI SAN LUCIO I E SANTO STEFANO I - Le cronache importanti di D. Ruffino e D. Bonelli per la biografia di D. Bosco - L'Emilia e la Toscana annesse al Piemonte - Il biglietto gratuito sulla ferrovia e il Cav. Bona - Lettera di un giovane artigiano a D. Bosco.

 

                La quaresima incominciava il 22 febbraio e i tre Oratorii festivi si disponevano per i catechismi. In quel di Vanchiglia non s'udiva più la campana chiamare i giovani; perchè ignoti ladri, data la scalata al tetto, l'avevano tolta. La carità però di un eccelso benefattore rimediò a quello sfregio.

                Il 19 febbraio così leggevasi nell'Armonia.

 

BENEFICENZA DI MONS. FRANSONI.

 

                Sebbene l'amato nostro Arcivescovo sia costretto a vivere lontano dal suo gregge, e quantunque sia privato dei beni della mensa vescovile, non tralascia di venire in aiuto de' suoi diocesani [491]. Appena udito che era stata rubata la piccola campana nell'Oratorio del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, egli tosto, conscio delle strettezze in cui attualmente versa l'Opera degli Oratorii di D. Bosco, inviava la graziosa somma di fr. 200, perchè ne fosse comperata un'altra, e così i giovanetti potessero essere invitati con regolarità all'adempimento de' loro religiosi doveri.

 

                L'Oratorio di S. Luigi Gonzaga a Portanuova acquistava un nuovo catechista nell'impareggiabile maestro municipale Giovanni Mosca, nativo di Alba. Egli con grande studio si occupava d'indirizzare alla pietà i giovanetti che gli erano affidati, e, non bastandogli la scuola a campo del suo zelo, era dei più assidui agli Oratorii festivi e segnatamente a quello dì S. Luigi, ove interveniva pure l'Abate Scolari di Maggiate con altri signori. Ogni anno lo si trovava con D. Bosco agli esercizi spirituali di S. Ignazio. Per far conoscere tutto il valore di questo uomo aggiungeremo che nel 1876 afflitto da una malattia agli organi vocali, dopo venti anni d'insegnamento, chiedeva di essere collocato a riposo, e vestiva l'abito clericale all'età di circa 50 anni. Moriva in Torino di 80 anni, nel 1904, essendo Rettore della SS. Trinità. Con zelo ardente era stato assiduo al tribunale di penitenza, direi quasi a somiglianza del parroco d'Ars, poichè affliggevalo fuor di modo lo stato delle anime in peccato mortale.

                All'Oratorio di S. Francesco di Sales vi era D. Bosco.

                Coll'istruzione catechistica continuavano in questi Oratorii le Conferenze annesse alla Società di S. Vincenzo de' Paoli.

                Nella relazione ufficiale dell'11 marzo 1894 intitolata; Noces dor de la Societé de SI. Vincent de Paul a Nice 1844-1894 si legge a pag. 36 “All'assemblea generale del 19 febbraio (1860) è presente il Conte Cays, Presidente [492] del Consiglio Superiore delle conferenze del Piemonte, che dà sulle conferenze di Torino le seguenti notizie:

                “La città di Torino conta 10 conferenze delle quali le opere vanno ogni giorno più sviluppandosi. A queste Conferenze sono aggregate tre conferenze, composte di giovani appartenenti a famiglie, pochissimo favorite da beni di fortuna, essendo la maggior parte visitate dai membri della nostra società.

                “Queste tre piccole conferenze seguono il regolamento ordinario, sotto la direzione del pio e caritatevole Abate Bosco. Presentava difficoltà l'articolo del regolamento che impone la questua in ciascuna seduta. Che cosa domandare per i poveri, a giovani poveri essi stessi? E bene! Non solamente la questua si fa, ma ognuno di questi poveri ragazzi dà tutto ciò che può economizzare, anche sulle cose necessarie; e ciò che non può dare in natura, lo dona in affetto e in spirito di sacrifizio.

                “Nulla è più commovente che il vedere questi giovani circondare delle più tenere cure, di cure pressochè materne, garzoni più giovani, più deboli, più poveri, che loro sono affidati; essi esercitano sopra di quelli, in tutti i momenti, e in tutte le circostanze un vigilante e benevolo patronato. Sorvegliano la loro educazione, assai più che ai loro bisogni materiali. Insegnano loro a scrivere bene e si fanno loro veri istitutori.

                “Il signor Conte Cays termina la sua interessante relazione, facendo riflettere giustamente che nelle Conferenze le risorse materiali sono meno importanti dello zelo e dello spirito di sacrifizio, dai quali è prodotto il bene”.

                Mentre i giovani degli Oratorii erano così vivamente animati dallo spirito di D. Bosco, questi non cessava un istante di prender parte alle angustie dolorose del Romano [493] Pontefice. Pio IX vedeva attendati sui ristretti confini delle sue province minacciosi battaglioni; lo amareggiava la doppiezza esecrabile, sleale di Napoleone III; lo nauseavano a morte le arti ora subdole, ora insolenti di una diplomazia, che rinnovava con lui l'apologo del lupo e dell'agnello. Un gran numero di giornali italiani e stranieri empi e spudorati, fucine di menzogna, lo insultavano, lo calunniavano minacciandolo atrocemente. Nella stessa Roma le Congreghe settarie erano pagate lautamente da Torino, perchè eziandio coi mezzi più scellerati tentassero di ribellare il popolo. Qualcuno dei primi impiegati del Governo Pontificio trasmettevano fellonescamente le carte più gelose al nemico. Cavour meditava e poi ebbe l'audacia di proporre ai Cardinali Santini ed Antonelli un disegno di conciliazione, del quale il primo articolo portava che il Papa rinunziasse al dominio temporale su tutti i suoi Stati. Se la cosa fosse riuscita, prometteva larghi benefizii per essi e per le loro case.

                D. Bosco adunque che era solito a dire: - Non dobbiamo lasciarci mai sfuggire un'occasione che il Signore ci presenta per fare del bene - non poteva certamente lasciare il Vicario di Gesù Cristo senza quel conforto che poteagli dare. In quegli anni, non era facile al Papa corrispondere coi Vescovi, poichè quanto partiva da Roma, o là era indirizzato metteva in sospetto gli avversari della Sede Apostolica. D. Bosco pertanto mentre faceva recitare tutti i giorni da' suoi allievi un Pater, Ave e Gloria per i bisogni di Santa madre Chiesa, con prudenza singolare a quando a quando scriveva su argomenti delicatissimi, o per casi di coscienza, o per norme di condotta, o di principii teologici o di diritto canonico, ora a Mons. Fransoni, ora alle Sacre Congregazioni: e raccomandava la lettera [494] ad una terza persona sicura, o spediva espressamente un messo a portarla. Ricevendo risposte, consigli o avvisi da tali sacri personaggi, generalmente non li riteneva presso dì sè, ma le depositava in tali mani che potevano celarle senza provocare nessun sospetto, premendogli sopratutto che l'Autorità ecclesiastica rimanesse salva.

                Riguardo alla persona veneranda del Sommo Pontefice cercava di portargli sollievo e consolarlo in ogni modo a lui possibile. Gli scriveva lettere piene di amor figliale e gli faceva conoscere le trame che dalle sette si andavano macchinando contro di lui. “Io stesso, ci narrò Don Savio Angelo, una volta in quegli anni fui mandato da D. Bosco a Mons. Tortone abitante in Torino, ed incaricato di affari presso la Santa Sede, a comunicargli a voce notizie su tale argomento, non avendo egli creduto cosa prudente il partecipargliele per iscritto”. Di simile commissione fu anche poi incaricato D. Paolo Albera.

                D. Bosco considerava come suoi gli interessi del Papa e diceva: “La sua parola deve essere la nostra regola in tutto e per tutto”. Ordinava quindi che le encicliche e altri documenti pontifici fossero letti alla mensa comune, e le faceva anche da taluni tradurre in Italiano, perchè li ritenessero a memoria.

                Non dissimulava i suoi principii, ma li sosteneva vigorosamente e più volte anche dinanzi agli oppositori che gli entravano in argomento; ed ancora in questi giorni glorificava il Papato colla sua penna.

                Paravia preparava pel mese d'aprile il fascicolo: Vita e martirio dei Sommi Pontefici San Lucio I e Santo Stefano I per cura del Sacerdote Bosco Giovanni (J).

                Riportato per intero il Breve di sua Santità, in data del 7 gennaio, con queste due vite vien dimostrato come [495] i Papi avendo giurisdizione universale sulla Chiesa, riconosciuta formalmente da S. Cipriano, in Roma consecrassero nuovi Vescovi e li mandassero a fondare Diocesi in ogni parte del mondo; e come Santo Stefano deponesse dalle loro sedi alcuni Vescovi indegni della Gallia e della Spagna. Si fa risaltare come S. Lucio esigesse che i giovani aspiranti allo Stato Ecclesiastico fossero di provata castità e come fulminasse la scomunica contro que' cristiani che s'imposessassero dei beni della Chiesa. Si parla dei miracoli operati dalle reliquie di questi due Pontefici e martiri e si confrontano con quelli del Divin Salvatore e degli Apostoli. Infine si descrivono le gloriose morti di confessori della fede loro contemporanei.

                Ma gli avvenimenti pubblici s'incalzavano sempre più a danno della Chiesa.

                E qui prima di continuare i nostri racconti dobbiamo dar ragione ai lettori di quanto siamo per iscrivere. Ruffino Domenico ordinato prete nel 1863, fornito di scienza teologica, di virtù, di pietà e d'ingegno e criterio non comune, nel 1859 incominciò a notare diligentemente i detti e i fatti di D. Bosco, dei quali era testimonio; le sue predizioni degli avvenimenti pubblici e privati, e delle morti dei giovani della casa, notando con esattezza l'anno, il mese e il giorno, vuoi delle profezie, vuoi dell'avveramento. Per dare più chiara idea di questo carissimo confratello, aggiungeremo che nell'anno scolastico 1861-62 fu destinato a far scuola di religione in tutte le classi del ginnasio; nel 1862-63 insegnò ai chierici la Storia Ecclesiastica, che conosceva molto bene, preparando volta per volta le sue lezioni, non salendo mai in cattedra per umiltà, ma stando sempre in piedi vicino a questa; nel 1863-64 ebbe l'ufficio di consigliere [496] scolastico, cioè la direzione degli studii nelle scuole dell'Oratorio. Nell'ottobre del 1864 D. Bosco lo mandava ad aprire e a dirigere il collegio di Lanzo, e quindi doveva cessare dallo scrivere le sue preziose memorie che abbracciano lo spazio di cinque  anni.

                Anche l'autore de' Cinque Lustri di Storia dell'Oratorio Salesiano, D. Giovanni Bonetti ordinato sacerdote nel 1864, dandosi l'intesa con D. Ruffino, scrisse una, cronaca sugli avvenimenti dell'Oratorio accaduti sotto i suoi occhi dal 1858 all'autunno del 1863, quando egli pure cessò di scrivere, perchè mandato a fare scuola di ginnasio nel Collegio di Mirabello. Nessuno dei confratelli ignora quanto vaste fossero le cognizioni di D. Bonetti, specialmente in teologia; gli alti ufficii che gli conferirono la confidenza di D. Bosco e la stima de' Capitoli generali; e i meriti grandi che si acquistò coadiuvando D. Bosco nella direzione della Pia Società di S. Francesco di Sales, e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

                D. Ruffino adunque e D. Bonetti sono testimoni degni d'ogni fede, e noi abbiamo già ricorso alla loro autorità nei capitoli precedenti. Noi perciò uniremo in una sola le due cronache sicchè una completi l'altra. Citeremo i nomi dei due relatori, se i fatti riportati saranno diversi, e quando ambedue dicono la stessa cosa ci limiteremo a citare semplicemente la Cronaca. Alle loro testimonianze aggiungeremo quelle autorevolissime di D. Rua Michele, di Mons. Cagliero, e di altri veterani Sacerdoti e laici della nostra Congregazione. Non ommetteremo per nostra parte le prove storiche di quanto saremo per asserire.

                Intanto ripigliamo il nostro racconto sotto la guida dei due citati manoscritti.

                D. Ruffino scrive: “Nei primi giorni di gennaio 1860 [497] D. Bosco ragionando delle prove dolorose che sovrastavano alla Santa Sede e dello stato politico dell'Italia aveva detto: - Aspettiamo il mese di marzo!” - I giovani che non lasciavano cadere una sola parola di D. Bosco vedevano incominciare il marzo con viva aspettazione. E i fatti diedero ragione a D. Bosco.

                L'11 e il 12 marzo essendo state invitate le popolazioni della Toscana e dell'Emilia (ossia Parma, Modena e Legazioni) a manifestare i loro desiderii intorno al Governo preferito, per mezzo di una votazione, si ebbe il risultato voluto, e che era da prevedersi. Una immensa maggioranza fu per l'annessione al Piemonte.

                Il 18 marzo i voti dell'Emilia per mezzo del Dittatore Cav. Farini, e il 22 quelli della Toscana per il Dittatore Barone Ricasoli, erano presentati al Re in Torino, il quale li accoglieva festosamente alla presenza dei grandi ufficiali del Governo e sanciva la desiderata unione con due decreti, i quali dichiaravano far quelle provincie parte integrante del Regno Sabaudo.

                Così il Papa fu spogliato definitivamente delle sue Legazioni.

                La sera di quei giorni furono in Torino illuminati i pubblici edifizii, ma non ostante l'invito del Sindaco pochissimi privati posero i lumi alle finestre. Il Ministero aveva pur fatto sentire alla Curia il desiderio che la Domenica 25 marzo si cantasse un Te Deum nella Cattedrale; ma il Vicario Generale Can. Fissore stette fermo nella negativa. In Torino tuttavia lo cantò un parroco Cavaliere, ed in Chieri il Capitolo del Duomo col Rettore del Seminario che venne subito dalla Curia rimosso da quell'ufficio. In tutto il Regno volle il Governo si festeggiassero quelle annessioni. In Milano si suonarono le campane, ma [498] al primo colpo cadde il battocchio ad una campana e ad un'altra si spezzò la corda. In Genova il campanone della Torre che in tempo della repubblica suonava per le assemblee popolari, e al tempo presente nelle feste dello Statuto e della Chiesa, in questo giorno al primo colpo si ruppe.

                Il giorno 24 marzo mediante un trattato, si era fatta dal Re la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, approvata di poi il 29 maggio dalle Camere e confermata da un plebiscito, il quale riuscì come volle. Napoleone, ma non senza promesse e minacce. Era il premio per aver aiutate le imprese del Piemonte.

                Finalmente il 4 di aprile ebbe luogo la prima tornata del Parlamento sotto la presidenza del Generale Zanone Quaglia decano di età; ma in quel giorno medesimo avvenne un caso che gettò il terrore nell'interno della Camera e fuori. Sulle ore tre e mezzo pomeridiane, dopo che il Presidente ebbe proclamato i deputati di Bologna e di Ravenna, fu colto da un colpo apopletico: svenne e cadde; la tornata si dovette chiudere all'istante. Il Presidente venne recato semivivo dai questori e dai segretarii nelle stanze vicine, ove gli si praticarono dei salassi. Ma il poveretto moriva due giorni dopo.

                Intanto D. Bosco per estendere maggiormente l'azione della sua attività a vantaggio dei giovani poveri ed abbandonati, e fors'anco per tastar terreno e conoscere quali fossero gli umori riguardo a lui nel Ministero dell'Interno, aveva fatta domanda a Farini per ottenere un biglietto personale gratuito sulle Ferrovie. Il Ministro trasmetteva la domanda al Ministero dei lavori pubblici, dal quale D. Bosco riceveva la risposta: [499]

 

                MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI. - Direzione delle strade ferrate.

Torino, 22 marzo 1860.

 

                In vista del lodevole scopo cui tende la domanda sporta dalla S. V. al Ministero dell'Interno, si è lo scrivente disposto ad accordarle un permesso gratuito di circolazione, sulle ferrovie esercitate dallo Stato, valevole per l'anno corrente.

                Pregiasi quindi lo scrivente di trasmetterle il relativo biglietto, che venne rilasciato, in data d'oggi, a di lei favore.

Il Direttore Generale

BONA.

 

                Il Cav. Bona Bartolomeo senatore del Regno era stato Direttore generale nel Ministero dei lavori pubblici nel 1855 - 56 - 57; Ministro e Segretario di Stato nello stesso Ministero gli anni 1858 - 59; ed ora occupava l'importante carica di Direttore Generale delle strade ferrate. Egli adunque largheggiò nel favorir D. Bosco. Per più anni concesse per lui e per chi lo accompagnava il biglietto gratuito di ferrovia di seconda classe, su qualunque linea del Piemonte; e a tutti i giovani dell'Oratorio il 75% di ribasso. Talora mise a disposizione di D. Bosco uno o due vagoni, e senza spesa, perchè conducesse i giovani nelle passeggiate autunnali; ed è perciò che più di una volta una schiera di questi lasciata la via di Chieri, per andare ai Becchi, scendeva a Villanuova d'Asti, quantunque rimanesse ancora a percorrere una strada non breve a piedi. D. Bosco però contraccambiava tanta benevolenza, con una grande carità che già prima d'allora aveva prodotti i suoi effetti. Alla morte disgraziata e prematura di certi impiegati delle vie ferrate, i loro orfani rimanendo sprovvisti di tutto, e talora in mezzo ad una strada, D. Bosco ne ricoverava molti nel suo Ospizio. Capi di divisione, [500] conoscendolo personalmente, volentieri prestavansi a raccomandarli, e D. Bosco con ogni premura soddisfaceva ai loro desiderii. Quest'opera di beneficenza mettevalo in buona vista anche presso tutto il personale subalterno.

                In quanto poi al Cav. Bona, che aveva una grande influenza in tutti i dicasteri del Governo, gli portava vero affetto, si dichiarava suo amicissimo, molte volte si compiaceva di conversare a lungo con lui e talvolta gli diede generosa elemosina. Poco tempo prima della sua morte, venuto un giorno a visitarlo nell'Oratorio, intrattenevalo passeggiando per più ore nella biblioteca. Oh certamente il Servo di Dio non tralasciò di ripetergli una parola di vita eterna!

                A noi adunque sembra che con tali benemerenze, con tale concessione dal Ministero dei lavori pubblici, e colla benevolenza del Cav. Bona, D. Bosco potesse anche sperare di avere quando che sia aiuto e difesa.

                La sua fiducia però non si appoggiava sulle speranze umane, sibbene nella protezione di Maria SS. e sulle preghiere dei suoi alunni. Uno di questi, artigiano modello di pietà e di illibati costumi, nel mese d'aprile, gli scriveva una lettera confidenziale, che D. Bosco conservò per la grande stima ed amore che gli portava.

 

                               Superiore Rev.mo,

 

                Una notte vidi presentarsi ai miei occhi un uomo poveramente, ma decentemente vestito, il quale con volto benigno, ma spirante maestà e saviezza, si avanzava con un bastone in mano e coi sandali ai piedi.

                Questo personaggio, dopo avermi fatto vedere varie cose future, stendendo il braccio sinistro verso terra, mi disse: - Segui le mie pedate. Io lo seguii, ed entrammo in un lungo a me sconosciuto. Qui mi fece in modo chiaro intendere e scolpire [501] nella mia mente che nell'Oratorio il numero dei giovani aumenterà, diventerà florido, trionferà a vantaggio ognora della Chiesa, se con assiduità si andrà vegliando nell'orazione, se tutti pregheranno divotamente. Ma quando si comincerà a provar noia degli esercizi di pietà cristiana, quando si trascurerà la frequenza dei Sacramenti, quando si reciteranno sbadatamente le preghiere, masticando le parole, quando insomma si tralascerà di amare Iddio, per andare dietro alle vane felicità del mondo (come pur troppo si fa già da taluni), allora diminuirà il numero dei giovani e del clero e piangeranno amaramente e saranno desolati coloro che vedranno gli oltraggi con cui si ferisce Dio stesso. Il Superiore perderà la stima dei soggetti, verrà dispregiato e persino perseguitato, come se volesse disperdere le antiche usanze della religione nell'Oratorio; e tale cosa incuterà minaccioso spavento in chi ne conoscerà la cagione.

                Per ora sia persuaso che non v'è questo pericolo, imperocchè ha giovani che colla loro ottima condotta ed innocenza lo possono aiutare molto”.

 

 

CAPO XXXVI. Letture Cattoliche - Lettera dell'Arcivescovo di Firenze in lode delle suddette Letture - La Pasqua: ed un muratore che D. Bosco sostiene perchè non cada Protesta di fedeltà al Papa dei giovani dell' Oratorio e il danaro di una colazione per l'Obolo di S. Pietro Lettera di D. Bosco al Papa - Tre previsioni di avvenimenti futuri - Punizione di chi scherniva il segno della Santa Croce - Lettera del Card. Marini e dispensa di età a D. Rua per le sacre ordinazioni - La morte di un giovane predetta ed avverata - Come fa D. Bosco a prevedere queste morti - Predizione a Gastini Carlo - La rovina delle Sicilie e l'andata del Ch. Castellano in paradiso - Risposta del Card. Antonelli a D. Bosco in nome del Papa - Due verbali del Capitolo: accettazione di soci - Esercizi spirituali, ricordi e mese di Maria - Garibaldi parte per la spedizione di Sicilia - Il Card. Antonelli e i volontari pontifici piemontesi.

 

                Per Lettura Cattolica di maggio era preparato il fascicolo anonimo: Angelina o la buona fanciulla istruita nella vera devozione a Maria SS. - LA MIA GIORNATA CON MARIA - era il tema svolto in capitoli nei quali, in ogni azione comune e spirituale del giorno [503] si propone per modello e per aiuto la Madre SS. del Salvatore. Non manca un capo che tratta della Chiesa di Gesù Cristo.

                La diffusione di questi libretti stava a cuore all'Arcivescovo di Firenze, il quale rispondeva ad una lettera di D. Bosco.

 

                               Pregiatissimo Signore,

 

                Appena ricevuta la pregiata sua del 31 marzo ho mandato a chiamare il Sac. Gerolamo Carloni, che è uno dei canonici della Basilica di S. Lorenzo di questa città e gli ho dato incarico di procurarle le notizie che Ella desidera intorno a questo bellissimo tempio. In questi giorni egli si trova assai occupato, ma appena trascorsa la Pasqua, egli si occuperà della cosa e gliene scriverà direttamente.

                Io sono ben lieto di potere servirla ed esserle utile nelle sue pie intraprese in servizio della nostra S. Religione. In questi giorni sono state ristampate qui a Firenze le Conversazioni tra un avvocato ed un curato da Lei composte sovra il Sacramento della Confessione, che sono un ottimo libro e che hanno già cominciato a produrre buon effetto, ravviando qualche testa traviata. Mi è grato il dirle ciò a gloria di Dio e per di Lei incoraggiamento.

                Mi darò anche cura che si diffondano qua le eccellenti Letture Cattoliche, che si pubblicano a Torino e delle quali mi ha inviato il manifesto per l'anno ottavo. Continui a comandarmi con libertà. Mi tenga ricordato nelle sue orazioni e mi creda, quale mi segno pieno di rispetto e di stima

 

                Di Lei pregiatissimo Signore

                Firenze, il 2 aprile 1860.

 

Dev.mo e obb.mo servo

GIOACHINO Arcivescovo di Firenze.

 

                Era questo il principio di una affettuosa corrispondenza, per la quale poco dopo D. Bosco e l'esimio Prelato concertarono fra di loro il modo di arrestare la propaganda dei [504] Protestanti, che si erano installati in un borgo di Firenze. Così narra Mons. Cagliero.

                Ma D. Bosco mentre in tanti modi lavorava alla salvezza delle moltitudini, cercava di attrarre a Dio gli individui dei quali le moltitudini stesse sono composte, tutti quelli cioè nei quali s'imbatteva, e che egli stesso andava cercando. Opera questa di maggior umiltà e sacrifizio della prima. Quanti di costoro da lui invitati e confessati si videro il giorno di Pasqua, 8 aprile, fare la S. Comunione nell'Oratorio insieme coi giovanetti.

                Ci raccontò il Teol. Reviglio: “Dove la via S. Domenico sbocca in via Milano, D. Bosco s'imbattè in un vecchio muratore, il quale in quell'istante sdrucciolò in modo, che si sarebbe fatto male cadendo. Il Servo di Dio lo sostenne e il vecchio esclamò, ringraziandolo: - Oh, se non era di lei, che mi sostenne, sarei caduto per terra. - D. Bosco gli rispose: - Potessi pure sostenervi ed impedirvi di cadere nell'inferno. - Tali parole fecero così impressione in quell'operaio, che in un lampo riconobbe il miserando stato dell'anima sua, il quale lo avrebbe fatto sicuramente precipitare negli abissi dell'inferno, se non si convertiva. Tocco dalla grazia di Dio volle tosto andarsi a confessare da D. Bosco, il quale ebbe così la consolazione di difenderlo dalla caduta del corpo e da quella dell'anima. Quel muratore fu tanto contento, che salutava D. Bosco ogni volta che incontravalo”.

                Intanto D. Bosco, scrisse e fece scrivere dai giovani degli Oratorii una protesta di fedeltà al Papa, con 710 Sottoscrizioni e fu inviata l'11 aprile, unendovi lire 163 e 40 centesimi per l'Obolo di S. Pietro.

                L'offerta ebbe occasione da questo fatto. Una caritatevole persona aveva regalata tale somma all'Oratorio e D. Bosco comunicando ai giovani la buona notizia, [505] aggiunse che l'Oblatrice desiderava, che quel denaro servir dovesse per dar loro una gustosa colazione. Allora si levò unanime una voce: - Si mandi, al Santo Padre! - Don Bosco loro fece osservare che quel regalo era dato per i giovani e non pel Papa: - Noi ci rinunziamo volentieri, replicarono, e se occorre faremo digiuno in quel giorno, ma quel danaro lo vogliamo mandare al Santo Padre. Egli ha già fatto a noi tanti regali. - La persona caritatevole informata della generosa risoluzione di que' poveri giovani mandò un'altra somma eguale alla prima, affinchè quasi come premio della loro venerazione al Romano Pontefice, avessero parimenti un meritato e copioso companatico.

                Alla protesta dei giovani D. Bosco aveva unita una lettera al Papa scrivendogli: “che stava per cadere sulla Chiesa una grave sciagura, la quale avrebbe messa a pericolo la fede di molti, e che dovrà essere difesa dal sangue dei più fedeli. Si confortasse però perchè Maria SS. preparava per la Chiesa un grande trionfo e il tempo di questo, non dover essere lontano”.

                Con queste parole, tratte dalla cronaca di D. Ruffino, pare che D. Bosco alluda ai volontari Pontificii, e al trionfo, della canonizzazione dei martiri Giapponesi, poichè egli (come vedremo) tenne sempre per fermo essere ben lontana ogni speranza di ristorazione politica.

                Il giorno dopo 12 aprile, D. Bosco alla sera, parlando in pubblico, fece qualche commento a quanto si era operato a sollievo del Vicario di Gesù Cristo e soggiungeva: Nel mese di gennaio io diceva: aspettiamo il mese di marzo: e ora dico: aspettiamo il mese di agosto!

                Quindi dopo aver esortato i giovani ad essere sempre franchi e generosi cristiani, disse loro: [506]

                - Vi narrerà un terribile esempio, che ha un intiero paese per testimonio. Prima delle vacanze di Pasqua un giovane dell'Oratorio si portava a casa. Fra gli altri avvertimenti ebbe quello di farsi sempre il segno della Santa Croce prima e dopo di prendere cibo. Questo giovane, benchè ottimo, si accomodò facilmente ad eseguire tutti gli altri avvisi, ma quest'ultimo gli parve difficile troppo a mettersi in pratica in casa sua, dove non eravi simile usanza, e prevedendo che sarebbe stato fatto segno a molte derisioni. D. Bosco allora disse: - Che hai da temere? Se i tuoi parenti faranno qualche osservazione tu dì loro così: - siamo in tempo di Costituzione e perciò vi è libertà per tutti.

                - Bene; farò quanto ella mi dice, - rispose il giovane sorridendo, e partì pel suo paese. Quivi giunto e accolto con feste, innumerevoli furono le interrogazioni che gli vennero fatte, specialmente intorno a ciò che aveva imparato a Torino. Intanto venne l'ora aspettata della cena. Tutti si mettono a tavola come i bruti animali, senza alzare la mente a Dio, divorando coll'occhio ingordo, prima ancora che colla bocca, ciò che era stato apparecchiato. Ma il nostro giovane, non senza rossore ma con intrepidezza fece il segno di croce seguito da breve preghiera: poi si assise. A quell'atto religioso un suo fratello assai maggiore di età gli disse: - Che cosa fai? - e incominciò a motteggiarlo; gettando spropositi in fatto di pratiche di pietà.

                - È tutto questo che hai imparato a Torino? Come! Tu che sei andato a scuola e che pretendi saperne tanto, ti lasci ancora dominare da questi pregiudizi? Se hai imparato solamente a fare il bigotto, potevi startene a casa.

                - Caro Domenico (così chiamavasi il fratello maggiore), non sono pregiudizi, ma sono pratiche religiose che ci furono insegnate dai nostri buoni vecchi, dai nostri maestri, dal nostro parroco.

                - Queste sono favole e le favole non sono più pei nostri tempi: mettiti a mangiare e lascia a parte queste anticaglie.

                - Io non so dove tu abbia imparato queste brutte maniere di parlare. Io trovo che sono ragionevolissimi certi atti di pietà. Il Catechismo ci dice che dobbiamo fare il segno della Santa Croce prima e dopo il cibo, ed ha ragione, perchè gli animali soltanto mangiano e bevono senza mai badare al loro creatore. Ma noi non siamo bestie, siamo creature ragionevoli, noi [507] dobbiamo riconoscere la santa mano del Creatore in ogni opera, in ogni momento del giorno e specialmente quando andiamo a, ricevere gli alimenti che Dio ci dà per conservare questa vita, che egli eziandio ci ha donata e che ad ogni momento ci può togliere.

                - Inezie, inezie, - disse Domenico, al quale gli altri fratelli avevano fatto coro; e dette queste parole si venne a parlare d'altro e per quella sera la cosa passò così.

                Ma il domani doveva essere battaglia campale. Per festeggiare l'arrivo dello studente furono, dalla madre vedova, assai trascurata nelle cose di religione, invitati a pranzo parenti ed amici. Il momento di sedersi a mensa che avvicinavasi, metteva in un po' di timore e di confusione il nostro caro giovane, ma quando tutti ebbero preso posto intorno alla mensa senza preghiera, egli non mancò alle sue promesse. Appena ebbe incominciato il segno di croce, da tutte parti le risa, i motteggi, le villanie, tennero luogo delle congratulazioni e dei complimenti che si usano in tali circostanze. Fatto un po' di silenzio suo fratello Domenico, capoccia di quel baccano, gli rivolse la parola schernendolo:

                - Oh! Dimmi un po', vuoi tu che facciamo un patto tra me e te?

                - Quale sarebbe?

                - Questo che ti dico: tu farai dei segni di croce, dirai dei Pater noster ed io mangerò la tua parte di pietanze. Al fine del pranzo poi vedremo chi sarà più benedetto e avrà meglio pranzato.

                - Come vuoi! e, se così ti piace, io sono contentissimo di lasciarti la mia parte di pietanza. A me basterà la minestra con pane e formaggio, purchè tu mi lasci in libertà di compiere le mie pratiche religiose. In quanto poi al dir dei Pater mi basta adempiere semplicemente al mio dovere.

                Così si fece: Domenico scherzando mangiava la sua parte e poi mettevasi innanzi quella che il fratello cedevagli. I commensali, gente male educata, sghignazzavano.

                La sera all'ora di cena Domenico disse di nuovo al fratello: - Siamo intesi: tu farai il Segno della Croce e pregherai a piacimento, e la mia preghiera consisterà nel mangiare la tua pietanza.

                - Non m'importa cederti la mia pietanza, prendila pure, ma mi rincresce che tu abbia così perduta la religione. Credimi, o fratello, io sono profondamente -addolorato; che se tu non vuoi [508] praticarla, almeno non burlartene, poichè D. Bosco mi ha detto e più volte ripetuto che col Signore non si burla, e che la religione è una spada a due tagli, che ferisce chiunque tenta d'impugnarla. Credimi; col Signore non si burla.

                Mentre cenavano entrò nella stanza un buon numero di giovanastri che si unirono a Domenico per burlare suo fratello. Io non voglio qui ripetere le scempiaggini degli uni e le salde risposte date dall'altro. Dico solo le cose essere giunte al punto che tutti insieme schiamazzavano, mentre il poveretto non poteva più dire altro se non che: Col Signore non si burla.

                Finita la cena quel cattivo disse a suo fratello: - Ebbene, hai mangiato con appetito?

                - Sì: io sto benissimo; è vero che non ho il mio stomaco così pieno come il tuo, ma spero che la digestione la farò più facilmente.

                - Oh, oh! i Pater noster li digerisci con molta facilità! - ripigliò quell'incauto, il quale non aveva ancor finito di parlare che incomincia ad impallidire e a storcersi; poi si tocca il ventre e infine dice: - Mi sento un po' male alla pancia... il dolore cresce... mi vien caldo... aiutatemi.

                Erano le dieci di sera e i compagni che stavano già per partirsene gli andarono d'attorno e vedendo che non si riaveva, lo portarono di peso in letto. Violenti convulsioni lo assalgono e acutissimi dolori d'intestini lo costringono a mandare grida spaventevoli. I compagni erano là sbalorditi e la madre mandò tosto pel medico, non sapendo quali cure prestargli. Allora il buon fratello si avvicina all'infermo e gli domanda se è contento che vada a chiamare il parroco. Domenico con un atto di furia gli minaccia uno schiaffo, per un momento lo respinge; ma tosto lo richiama e fa segno che vada presto dove aveva detto.

                Giunsero poco dopo quasi contemporaneamente il Parroco e il medico e l'infermo moriva la notte seguente soffocato dalle convulsioni e di una rottura al petto. Egli però aveva riconosciuto e detestato il suo fallo e le ultime sue parole furono queste:

                - Compagni, non disprezzate mai la religione: col Signore non si burla; io muoio percosso dalla mano di Dio in castigo della mia intemperanza e delle bestemmie proferite contro di Lui.

                Speriamo che questo giovane sia spirato nella misericordia del [509] Signore. Fu per altro una terribile lezione a que' compagni, che giudicarono di non fare opera migliore, se non coll'andare il più presto possibile ad un convento di cappuccini per confessarsi e ricevere la loro Pasqua.

                Il fratello piange la morte di questo poveretto, e prega ogni giorno del riposo dell'anima sua.

 

                Mentre D. Bosco così spargeva la buona semente, ornai era certo che nuovi e valenti operai lo avrebbero aiutato a raccoglierne il frutto. D. Rua ormai terminava il corso regolare di Teologia. Si era chiesto a Roma la dispensa della sua età per le Sacre Ordinazioni ed affettuosa fu la risposta ricevuta da D. Bosco.

 

                               Rev. Signore,

 

                Mi è grato di aver potuto corrispondere a' suoi desiderii. Qui

                unita le mando la dispensa a favore dell'ottimo suo protetto e cooperatore nelle Opere di Carità e di Religione D. Michele Rua. Il Santo Padre per darle una prova ulteriore di sua benevolenza, ha concessa la grazia implorata per semplice rescritto, che è quello che qui accluso le ho mandato, onde esonerarlo da qualunque spesa.

                Desidero sempre di prestarmi ove posso; La prego a non dimenticarmi nelle sue orazioni, mentre salutandola distintamente mi confermo con tutta la stima

                Di Lei

 

                Roma, 20 aprile 1860

Servitore vero verissimo addittissimo

P. Cardinale MARINI.

 

                Tale dispensa però arrivava tardi, essendo allora necessario per l'esecuzione del Rescritto il placet Regio; sicchè D. Rua dovette attendere ancora per due mesi il compimento de' suoi vivi desiderii.

                Il Signore intanto co' suoi doni dava a D. Bosco [510] prova di gradire quanto operava per la sua gloria. Nota D. Ruffino in data del 7 aprile: “Più volte D. Bosco nei giorni precedenti annunziò: - Qualcheduno della casa dovrà morire in questo mese.

                “Il 24 aprile moriva il torinese Trona Alessandro di anni 14, entrato nella casa con suo fratello il giorno 8. Era stato messo all'Oratorio da un certo signor Gianoglio per sottrarlo alla vita cattiva, che toccavagli fare in casa di suo padre. La prima Domenica che si trovò qui, ossia la Domenica in Albis, 15 aprile, fece la sua Pasqua. Dai sette anni non si, era più confessato. Il giorno dopo si coricò infermo di rosalia, il 22 Domenica, ricevette il Santo Viatico, lunedì l'Estrema Unzione, ed il martedì morì di tifo circa alle ore nove e mezza antimeridiane”.

                Si parlò molto in casa di queste ripetute previsioni e D. Bosco talvolta disse, presente D. Francesia: - Se sapeste quanto mi costa prevedere l'avvenire degli altri! - Dà ciò si arguisce che vi fosse qualche condizione misteriosa o sacrifizio straordinario e che fosse ciò effetto delle sue preghiere.

                - Come fa, un giorno fu interrogato a sapere i giovani che dovranno morire?

                - Vedo talora, rispose, molti sentieri ciascuno dei quali è percorso da un giovane e il sentiero è interrotto da un fosso a metà, a un terzo ovvero a un quarto della - sua lunghezza; altra volta sopra questi sentieri a un certo punto leggo la cifra dell'anno, del mese, del giorno.

                Carlo Gastini andò a chiedere a D. Bosco fino a quale età sarebbe vissuto. D. Bosco gli rispose: - Fino a settanta anni! - Questa predizione il buon Gastini la ricordò mille volte in prosa ed in poesia ed era conosciuta da tutto l'Oratorio ed anche da molta gente di fuori. Ed egli moriva [511] nel 1901, il giorno dopo che era entrato nel settantesimo anno, assistito da D. Rua.

                Succedevansi le previsioni. D. Ruffino nota nella sua cronaca. “Il 25 aprile D. Bosco disse privatamente: Sono decise due cose: - La rovina delle Sicilie e l'andata del Chierico Castellano in paradiso”. Questo chierico malaticcio erasi ritirato a casa sua in Torino per sottoporsi ad una cura diligente.

                Intanto mentre in Piemonte si preparavano segretamente gli uomini e le armi per conquistare l'Italia meridionale, Pio IX faceva rispondere alla lettera di D. Bosco.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Rassegnai volentieri al Santo Padre il plico che V. S. Ill.ma mi rimetteva col suo foglio del 25 aprile e del quale mi manifestava il contenuto. La Santità Sua accolse lo scritto con vero gradimento, conoscendo appieno il figliale zelo, ond'era dettato. Implora frattanto su Lei e sopra i giovanetti alla sua direzione affidati la copia delle celesti benedizioni. Ed esortandola al non cessare dalla preghiera di cui molto si abbisogna,, ho il piacere di conformarmi con sensi di distinta stima

                Di V. S. Ill.ma

                Roma, 17 maggio 1860.

 

Servitore

G. CARD. ANTONELLI

 

                Sig. D. Giovanni Bosco - Torino.

 

                Colla benedizione del Papa D. Bosco aggregava nuovi confratelli alla sua Pia Società, come si legge nei seguenti due verbali delle sedute del Capitolo.

 

                L'anno del Signore 1860, 1 maggio, il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales si è radunato per fare l'accettazione dei giovani, Capra Pietro figlio di Francesco di Alfiano, Albera Paolo [512] figlio di Gio. Battista da None, Garino Giovanni figlio di Antonio da Busca, Momo Gabriele figlio di Giuseppe da Saluggia, tutti proposti dal Rettore D. Bosco in altra seduta anteriore. Pertanto dopo la solita preghiera ed invocazione dello Spirito Santo fecesi la votazione. Capra Pietro ottenne i pieni voti, gli altri su sette voti ebbero ciascuno un sol voto negativo. Perciò tutti furono ammessi alla pratica delle regole della Società.

 

Due giorni dopo il Capitolo tenne un'altra seduta.

 

                L'anno del Signore 1860 li 3 maggio alle 10 pomeridiane il Capitolo della società di S. Francesco di Sales radunossi per l'accettazione dei giovani, Ruffino Domenico, Chierico, figlio di Michele, da Giaveno, Vaschetti Francesco, Chierico, figlio di Pietro, di Avigliana, Donato Edoardo fu Carlo da Saluggia. Fatta secondo il solito la votazione, il Chierico Ruffino su sette voti ne ottenne sei, il Chierico Vaschetti ne ottenne cinque, il giovane Donato ebbe i pieni voti. Pertanto furono tutti ammessi alla pratica delle regole di detta Società.

 

                Tutti i sunnominati per ingegno, studio, pietà, e condotta erano fra i primi dell'Oratorio: D. Bosco aveali formati a sua immagine e somiglianza pel candore, l'attività e risolutezza di propositi. Gli irresoluti, i snervati di volontà non facevano per lui, specialmente se gli fossero stati raccomandati per lo studio. In questi giorni scriveva alla signora Damigella Adele Daviso di Chieri.

 

                               Pregiatissima Signora,

 

                La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi.

                Affinchè il giovanetto Rossi possa essere accolto in questa casa, bisogna che pensi a qual cosa voglia appigliarsi in fine de' suoi studi; ma egli sa nemmeno se ami più un mestiere o lo studio. In tale dubbiezza Ella potrebbe indirizzarlo al sig. Can. Caselle che saprà studiarlo e consigliarlo nella sua vocazione ed io sono [513] sempre pronto di fare per questo suo raccomandato quanto sembrerà di maggior gloria di Dio e bene dell'anima di lui.

                Raccomando me e i miei giovanetti alla carità delle divote di Lei preghiere, mentre colla dovuta stima mi professo nel Signore

                Di V. S. Preg.ma

 

                Torino, 24 aprile 1860.

Devot.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI

 

                “Si era in tempo di esercizi spirituali, si legge nella Cronaca di. Don Bonetti, i quali incominciati il 30 aprile, finivano il 4 maggio. Oltre ai ricordi dettati ai giovani dai predicatori, D. Bosco volle dar loro egli pure alla sera i suoi. Ci diede due “F” ed un “S”. Il primo “F” spiegò che voleva dire frequenza dei SS. Sacramenti della Confessione e della Comunione. Il secondo “F” fuga dei cattivi compagni e frequenza dei buoni compagni, che possono insegnarci la strada della virtù e lo spirito di pietà. L'“S” schiettezza e sincerità nella confessione. - Oh I miei cari figliuoli, proseguì, se voi mettete in pratica queste raccomandazioni io vi assicuro che il demonio farà banca rotta”.

                Con gli esercizi spirituali era incominciato il mese consecrato a Maria, nel quale, testifica il Can. Ballesio, D. Bosco dava un fioretto generale per tutto il mese ed un particolare ogni sera per ciascun giorno, i quali fioretti erano molto osservati con profitto dei giovani e della disciplina interna.

                Mentre così D. Bosco informava a virtù lo spirito dei suoi alunni, Garibaldi radunati i suoi volontarii, con 1000 di questi, tolti con simulata violenza due piroscafi alla società Rubattino, s'imbarcava a Quarto presso Genova il 5 maggio. Cavour segretamente lo forniva d'armi e di danari. Protetto da navi da guerra inglesi, l'11 maggio approdava a [514] Marsala. La Sicilia eccitata da molti emissarii sollevavasi; i soldati del Re di Napoli o impauriti o traditi, si lasciarono vincere a Calatafimi, a Palermo e a Milazzo. Garibaldi il 28 luglio poteva entrare in Messina. Le navi da guerra Napoletane erano dai loro comandanti consegnate all'ammiraglio Piemontese Persano. Francesco II era troppo debole ed inesperto di fronte a coloro, che numerosi congiuravano, contro il suo trono.

                Intanto conoscendosi a indizii abbastanza chiari che la guerra doveva finire per cadere sul Papa, affluivano a Roma i giovani generosi di varie nazioni, e molti della prima nobiltà Francese e Belga, per arruolarsi in sua difesa nell'esercito pontificio. Eziandio alcuni Piemontesi si portarono a Roma per militare sotto quelle bandiere, ma non furono accettati. Il Cardinale Antonelli disse loro che si facessero dare una commendatizia da D. Bosco.

 

 

CAPO XXXVII. D.Bosco va a Bergamo - Sue osservazioni sopra la lettura di un giornale cattivo - Confessa in treno un viaggiatore - Fatti ameni all'arrivo e in casa del Vescovo di Bergamo - Premure paterne di Mons. Speranza - La S. Messa in Duomo - Si stabilisce una conferenza di S. Vincenzo de' Paoli - D. Bosco conduce a Terno il parroco Bagini uscito di carcere - Festose accoglienze - D. Bosco visita il Seminario di Bottanuco - Promette al Vescovo di predicare l'anno venturo gli esercizi ai chierici: lo esorta a presentare i preti e i chierici agli esami per i diplomi e per le lauree.

 

                Il giorno 6 di maggio D. Bosco partiva alla volta di Bergamo. Deplorabile oltre ogni dire era la condizione del clero in quella discesi. Essendo i sacerdoti del Bergamasco tra i più dotti ed esemplari della Lombardia, venivano fatti segno alle ire rivoluzionarie. L'anno antecedente era stato invaso da una turba ladra e frenetica il palazzo Vescovile e malmenata sacrilegamente la stessa persona del Vescovo. Ogni giorno scrivevasi sulle mura delle case: Morte ai preti! Ma ciò che è peggio gli stessi ufficiali del governo non si vergognavano d'infierire contro sacerdoti innocenti. Parecchi erano stati tradotti [516] pubblicamente alle carceri dei malfattori con grande scandalo e dolore di quella buona popolazione. Si accusavano di cospirazioni commesse per mezzo di associazioni pubbliche, di preghiere, di danaro di S. Pietro e cose simili.

                D. Bosco pertanto si mise in viaggio per confortare Mons. Pietro Luigi Speranza, Vescovo di Bergamo; e, dopo qualche giorno, ritornato in Torino narrava ai suoi alunni quanto gli era occorso. Era questa la sua costumanza quando, stava qualche tempo fuori dell'Oratorio, perchè i giovani vivevano della sua vita. Così aveva occasione di impartir loro qualche ammaestramento e col suo stile ricco e festivo dar sempre nuovo pascolo alla loro fantasia. Ecco dunque la sua descrizione, colla quale intrattenne per qualche sera la Comunità: potrà sembrare troppo prolissa e particolareggiata, ma tale era il suo stile in simili circostanze. Noi la riportiamo esattamente come ce la riferisce la Cronaca di Don Bonetti.

 

                Il 6 maggio montato a Torino sul vagone, mi trovai insieme con due altri viaggiatori. Uno di questi si lagnava che essendo venuto a Torino per parlare con D. Bosco di un suo ragazzo che voleva mettere nell'Oratorio, non lo aveva potuto trovare. Gli domandai se conoscesse D. Bosco ed ebbi per risposta che lo conosceva benissimo. Passai quindi ad interrogarlo del ragazzo e su questo oggetto si discorse quasi fino a Saluggia. Allora lasciando l'incognito mi palesai a quell'uomo dicendogli il mio nome e con ciò gli cagionai sorpresa e consolazione, con grandi risa di ambedue le parti. Giunti a Saluggia siam tutti discesi e approfittandoci del tempo che vi era di fermata, il mio compagno volle visitare qualche cosa del paese. Intanto venne il tempo della partenza e colui che era per terzo, avendo lasciato nel nostro vagone il parapioggia ed il sacco da viaggio, non dandosene pensiero, salì in un altro scompartimento. Restammo perciò in due soli in quel vagone. Il mio compagno era un uomo di buon fondo, ma imbevuto di pregiudizii, causa l'ignoranza e la lettura dei [517] giornali cattivi pieni di veleno contro i preti e specialmente contro il Papa. In quel frattempo aveva comprato il giornale l'Opinione; lo aperse, ne scorse qualche riga e poi per compiacermi me lo porse, perchè io leggessi. - Grazie, mio caro, ma io non leggo simili giornali e mi fa meraviglia che la S. V. l'abbia comprato.

                - E perchè?

                - Non vede che è un giornale cattivo che parla male della religione e de' suoi ministri?

                - Oh! si sa che trattandosi di giornali non si va troppo pel sottile.

                - Il bene è bene, il male è male.

                - Ma non sa che tutto il mondo legge questo giornale?

                - Adagio, caro mio; tutto il mondo! Di novecentomila, per es., cristiani, non ne troverà un duemila che leggano tale sconcezza.

                - Ma dica quel che vuole; molti lo leggono, dunque non è male.

                - Non dica cosi! Molti lo leggono e molti fanno male; e sappia che se noi potessimo in questo momento aprire le porte dell'inferno, sentiremmo le grida di molti che si sono dannati solo per aver letti libri o fogli cattivi.

                - Non sa che mi fa paura! E se è così vada al diavolo l'Opinione, chè io non ci voglio andare.

                E preso quel giornale lo fece in minutissimi pezzi e lo gettò dallo sportello. Dopo questo bell'atto io cercai di entrare con lui in confidenza ed in breve mi aprì tutto il suo cuore. In fine mi disse: - Io avrei piacere di confessarmi. - Allora io contento come un principe, non esitai, lo presi in parola e gli dissi che si preparasse. Accondiscese: da Magenta a Milano egli fece la sua confessione, lasciandomi le più belle speranze di sua conversione. Vedete quanto può operare la grazia del Signore. Quel giorno io era per quel fatto così contento, che non poteva più stare nella pelle; principalmente perchè aveva veduto quivi un tratto speciale della Divina Provvidenza, nel far si che quell'altro uomo non cercasse più di venir a montare in quel nostro vagone, dove aveva le sue robe, quantunque si fossero fatte molte fermate. Se fosse di nuovo venuto con noi, non sarebbe certo stato possibile provvedere a quell'anima, perchè non avremmo potuto entrare in [518] confidenza. Questo terzo venne poi a salutarmi e a prendere il fatto suo, giunti che fummo a Milano.

                Alcuni di voi domanderanno: - Ma D. Bosco aveva licenza di confessare fuori diocesi? State tranquilli che io avevo il permesso e questo l'ottenni da S. S. Pio IX quando sono andato a Roma. Il Papa mi diede facoltà senza limite di confessare ovunque.

                Giunsi a Bergamo alle 8 di sera. Pioveva. Domandai ad un ragazzo se avesse voluto condurmi a casa del Vescovo, ma si mise a gridare così forte, che quelli che rimanevano con me rimasero spaventati. Non' so se si fosse preso paura di me o che cosa avesse visto o pensato, il fatto si sta che non mi volle guidare. Perciò presi un brun o cittadina e fui condotto ancora assai bene, non avendo il vetturino proferito bestemmie. Gli domandai quanto volesse per quel tragitto e mi rispose: - Un fiorino.

                - Lasci i fiorini e dica quanti franchi.

                - Due franchi e mezzo. -

                Tastai la mia borsa e cavai fuori uno scudo, dicendogli che mi desse indietro un fiorino; ma risposemi di non aver moneta. Cavai fuori delle pezze da otto soldi e voleva pagarlo con queste, ma egli dando ai nostri soldi il valore dei soldi austriaci, non potevamo andare d'accordo, perchè secondo lui colle mie brave monete toccavami pagare un franco di più. - Abbia pazienza, gli dissi, quando saremo col Vescovo ci aggiusteremo.

                - Si, si; mi rispose.

                Giungemmo al palazzo Vescovile, pregai il Vescovo di intendersi egli col vetturino e subito la cosa fu aggiustata, poichè il Vescovo ne incaricò il domestico che gli diede un fiorino, moneta che il nostro carrozziere conosceva. Quella sera l'abbiamo passata in continuo riso col Vescovo e con quelli di sua casa; ed il Vescovo godeva nel farmi raccontare tutta la scena di quel vetturino. Venne intanto l'ora della cena; ma io non mi sentiva voglia di mangiare sebbene stessi benone. Il Vescovo però prima di andare a letto è solito dire tutte le sere il rosario. Andai io pure con lui. Per giungere più speditamente alla cappella si doveva passare per un corridoio, ma io giunto ad un certo punto, diedi tale un colpo colla mia zucca che credetti aver la testa rotta.

                - Si prenda guardia, mi disse il venerando prelato; il passaggio qui è un poco basso. [519]

                - Me ne sono pur troppo accorto che è un poco basso! - risposi; ed intanto andava presso al Vescovo che aveva in mano il lume! Giungemmo ad un posto dove eranvi due scalini da calare. Il Vescovo aveva a fare per sè e non poteva attendere a me; fatto sta che io saltai due scalini ad una volta e caddi addosso al Vescovo. - Ma che fa? mi disse il Vescovo: Non ha paura d'incorrere la scomunica, volando addosso ad un Vescovo in questo modo?

                - La scomunica l'incorriamo tutti e due, gli risposi, perchè ci siamo a vicenda urtati l'uno contro l'altro.

                - È bene che per questa volta ce la perdoniamo a vicenda. Abbiamo di nuovo riso un poco, ma io sentiva il capo che mi doleva ed un ginocchio che mi faceva molto male, perchè aveva eziandio dato un colpo in uno scalino. Si disse il rosario; quindi il Vescovo stesso ripreso il lume volle accompagnarmi nella stanza che mi era destinata. Entrai in una gran sala riccamente addobbata, passai in un'altra ancor più splendida, e in una terza ove la manificenza non poteva essere maggiore. Un letto, ove una dozzina di persone avrebbero potuto dormire comodamente, mi fu additato dal Vescovo. Io rimasi stupefatto vedendo per me preparato un letto che risplendeva d'oro e d'argento; chè non pareva un letto, ma un trono regale. Dissi pertanto al Vescovo: - Monsignore, non ha altro letto da darmi per dormire?

                - No, sig. D. Bosco, se ne avessi uno migliore glielo esibirei di buon grado.

                - Ma no, Monsignore; non è questo che dico io. Non avrebbe una stanza dove mette la roba sporca? Io non posso, dormire in questo letto e non oso.

                - Non faccia cerimonie; sì adatti.

                - No; piuttosto dormirò su questo sofà; ma non andrò a pestare quel letto lì.

                - Lasciamo le facezie a parte, proseguì il Vescovo; adesso ella è sotto la mia giurisdizione; si corichi glielo comando, ed ella lo faccia in virtù di santa obbedienza.

                - Se è così allora mi corico.

                Il buon Vescovo dopo alcune altre parole, augurandomi la buona notte, si ritirò. Io era appena coricato ed aveva allora spento il lume, quando sento uno venir verso la mia camera e bussare. - Avanti! dissi. - Era il Vescovo. [520]

                - Scusi tanto, sig. D. Bosco; non mi son ricordato di accertarmi se fosse ben coperto.

                - Oh, Monsignore, mi confonde, sa; ma perchè prendersi tanta pena? Sono servito come un imperatore! - Infatti in quel letto aveva già dormito l'Imperatore d'Austria.

                Il Vescovo visitò di nuovo le finestre per vedere se fossero ben chiuse, osservò se avevo tutto e lume e zolfanelli, tantochè una madre non poteva far di più per un suo amatissimo figlio. Malgrado io avessi un letto tanto bello e soffice, potei dormir poco, perchè il mio capo ancora mi doleva ed il ginocchio parimente. Perciò al mattino saltai su molto presto ed ebbi così tempo a far molto lavoro al tavolino. Intanto Monsignore mandommi un domestico, il quale mi condusse nella sacrestia del Duomo. Il servitore si avvicinò al capo sagrestano e dissegli che io voleva dir messa e che era stato mandato da Monsignore. All'udire che ero mandato dal Vescovo tutta la turba dei sagrestani fu in moto. Tolsero il calice che era pronto e ne misero al posto un altro più prezioso, cangiarono le paramenta e trassero fuori una stupenda pianeta. Come fui vestito, mi domandarono: - Eminenza, dove vuol andare a dir messa ?

                - Ovunque, risposi, purchè vi sia un altare, ed ove si trovi il Signore e la Madonna.

                - Vuole andare al sacro Cuore di Maria? - Sì!

                - Vi sarà da comunicare! - È quello che io desidero. - E così feci. Comunicai un gran numero di persone. Finita la mia messa ritornai alla sagrestia. Svestitomi e messomi a fare il ringraziamento, udiva che dicevasi di qua e di là: - Chissà chi sia costui? Chissà donde venga? Un cardinale non può essere! - E facevano mille supposizioni. Non osando domandarmi chi io fossi, finito che io ebbi di pregare mi dissero: - Eccellenza! (non più Eminenza) C'è il costume che quei sacerdoti che vengono qui a dir messa, scrivano in questo quaderno il loro nome e l'altare al quale la celebrarono.

                - Ebbene; anch'io lo farò. - E scrissi. Missam celebravi ad altare B. V. Sacerdos.

                - Ma di grazia metta anche il nome.

                - Ma è proprio necessario? [521]

                - Così si fa da tutti. -

                Quanto più io mostrava di non voler mettere il mio nome, tanto più cresceva in essi il desiderio di saperlo. - Eh! sentano, conclusi; non avrei proprio nessuna voglia di scrivere il mio nome: è quello del primo eremita del mondo. - E lo scrissi. Subito uno ripetè all'altro: - D. Bosco, D. Bosco, D. Bosco! - tanto che corse un bisbiglio non indifferente, sebbene nessuno sapesse chi fosse quel D. Bosco.

                Me ne ritornai alla casa del Vescovo e quivi eravi già un parroco, stato mandato a chiamar dal Vescovo perchè io vedessi, d'accordo con lui, il modo di stabilire la Società di S. Vincenzo de' Paoli. Questa non esisteva ancora a Bergamo e il Vescovo desiderava, molto di stabilirla. Io sciolsi tutte le difficoltà che mi vennero fatte, dicendo: - Non si potranno avere due bravi giovani in tutta questa città?

                - Per questo non c'è difficoltà, mi fu risposto; non solo due, ma molti mi sento di prepararne; ed esemplari.

                - Ebbene, questo basta. Li raduni in sua casa ed io questa sera mi vi porterò e daremo principio.

                Così feci; alla sera 18 giovani già stavano radunati nella casa del parroco; loro feci coraggio, dimostrando quanto grande fosse il bene che potevano operare per vantaggio dei poveri, e per quello delle anime loro; che mettessero sotto i piedi il rispetto umano col pensiero che non il mondo sarà quello che ci dovrà premiare, ma quel Dio che tiene preparato in questa vita il centuplo ed in cielo la vita eterna per una buona azione. Tutti furono entusiasmati e mi promisero di tornare la sera dopo, per stabilire il nostro Consilio. Vennero e si tenne quella sera la prima seduta.

                Ma ritorniamo alla casa del Vescovo ed andiamo a pranzo. Mentre pranzavamo, nel giorno 8, ecco sentiamo i domestici esclamare: - È qui, è giunto, è uscito di prigione il prevosto di Terno! - E dopo pochi istanti entrava nella nostra sala un venerando sacerdote D. Bagini Ferdinando, che subito si slanciò a baciare la mano al Vescovo, tutto consolato per l'inaspettata comparsa. Quel parroco venne quindi pure da me e per un qualche pregiudizio che io fossi quegli, che, venuto apposta per lui da Torino, gli avesse ottenuto la liberazione, come dicevasi fra il popolo, mi ringraziava e tornava a ringraziarmi. [522]

                Ebbi un bel dire che io non ci era entrato per niente in quella liberazione, ma egli prendendo le mie parole come un atto di umiltà, mi colmava di tante finezze e ringraziamenti che n'era tutto confuso.

                Quel zelantissimo prevosto era stato due mesi e mezzo in carcere. Causa di ciò fu aver egli fatto stampare un'orazione, con cui s'implorava l'aiuto di Dio pel Papa e aver raccomandato il denaro di S. Pietro. Il Governo ed il partito liberale stavano contro di lui. Alcuni maligni interpretando sinistramente il suo operato, lo avevano accusato per odio; e quindi la prigionia dal 22 febbraio fino all' 8 maggio. In questo giorno però il tribunale lo aveva sottoposto ad un breve dibattimento, in cui manifestatosi l'insussistenza dell'accusa, rimandavalo in libertà, e sciolto da ogni spesa, con dichiarazione che non faceasi luogo a procedimento.

                Dopo le prime accoglienze, continuammo il pranzo ed io vedendo come il Vescovo fosse divenuto pensieroso, non potei fare a meno che domandargli qual pena lo affliggesse. Il Vescovo mi rispose come quel Prevosto dovesse ritornare il domani alla propria parrocchia e che il partito liberale essendo mal predisposto contra di lui, temevansi tumulti. Essere conveniente che esso Vescovo lo accompagnasse, ma per questo motivo e perchè il Governo spiava ogni suo passo e parola per colpirlo, tornargli pesantissimo quel viaggio, del quale ben volentieri avrebbe fatto a meno.

                - Oh! se è per questo, io risposi, per levar d'impiccio Monsignore, andrò io ad accompagnare questo Reverendo alla sua parrocchia.

                - Grazie! esclamò Monsignore respirando; è un favore grande che mi farà assumendosi le mie parti, perchè l'assicuro che ero troppo angustiato, pel timore di dover compromettere la mia persona e la mia autorità!

                Questa determinazione non mi portava nessun incomodo. Era tutta strada che io già voleva fare. Il domani io doveva andare a Bottanuco parrocchia della stessa Diocesi, distante circa 10 miglia da Bergamo, a predicare e visitare un Seminario. Per recarmi in quel paese era necessario passare in Terno, che si trovava circa ai due terzi di strada.

                Intanto questo giorno passò, lietamente. Il Vescovo mi aveva proposto di servirmi della sua carrozza per fare quel viaggio. Io [523] ben volentieri accettai massimamente che non mi sarei sentito di farlo a piedi.

                La mattina del giorno 9 montammo in carrozza, io, due altri preti, uno segretario del Vescovo, l'altro professore nel seminario ed il prevosto Bagini. Appena fummo usciti di città, subito si presentò un uomo che cavalcava un cavallino che pareva un somarello, il quale veniva già da Terno; e ci domandò: - C'è il nostro Prevosto, qui con voi?

                - C’è -, gli si rispose.

                - Ne ho abbastanza! Esclama; e volta indietro il suo ronzino, quindi galoppando a rompicollo, colle braccia aperte, sicchè io non sapeva come potesse tenersi in sella, volò a portare la notizia dell'arrivo del Prevosto a tutti quelli che incontrava.

                Avevamo percorso un mezzo chilometro ed incontrammo una folla di ragazzi scalzi e colle gambe nude, i quali avevano fatto quel lungo cammino per essere i primi a salutare il loro pastore: - C'è il nostro parroco? gridarono ad una voce.

                - C'è, c'è!

                - Evviva il nostro Prevosto! Evviva!

                Intanto i cavalli galoppavano ed i fanciulli ad ogni costo vollero tener dietro alla carrozza. Abbiamo avuto un bel dire: - Non stancatevi! Venite appresso pian piano; arriverete a tempo. - Non ci fu verso di arrestarli e correvano a precipizio.

                A mano a mano che ci avvicinavamo al territorio di Terno, s'incontravano gruppi di gente la maggior parte di vecchi coi capelli bianchi, di vecchie che non potevano più camminare senza un appoggio, di bambini e di bambine. Abbandonati i lavori domestici e rurali, venivano sulla strada incontro al glorioso prigioniero e tutti lacrimando di consolazione, esclamavano - Evviva il nostro parroco! il Signore ce lo conservi; nessuno venga mai più a disturbarlo, a strapparlo dal nostro seno. - Alle lagrime, agli atti, alle voci di quella brava gente, io era agitato da profonda commozione e con me il segretario ed il professore. Il Prevosto piangeva dirottamente. Ei pensava alla scena dolorosa, lugubre della sua partenza quando fu imprigionato e la confrontava col giubilo del presente ritorno alla sua cara parrocchia.

                Ma in mezzo allo spettacolo serio vi fu eziandio la parte comica.

                Siccome eravamo nella carrozza del Vescovo, quella buona [524] gente alla vista della livrea del cocchiere credeva vi fosse anche il Prelato: quindi s'inginocchiava per esser benedetta. Io diceva al Parroco che benedicesse, ma egli pretendeva che dovessi dar io la benedizione. Io mi rifiutava; finalmente il Prevosto preso il mio braccio mi sforzava di quando in quando a far dei segni di croce in aria e la gente, che vedeva la mano, curvava la fronte e si segnava.

                Ed ecco finalmente il campanile e le case di Terno. Da tutte le borgate circostanti si vedeva non solo i fedeli, ma tutti parroci e molti preti della Vicaria e di altre parrocchie, parte a cavallo e parte a piedi, incamminarsi per onorare D. Ferdinando Bagini. Si udivano le campane suonare a festa e continui li spari de' mortaletti.

                All'entrata del paese aspettava una folla enorme di popolo di ogni età e di ogni condizione. La facciata della parrocchia, le case, gli archi trionfali, tutto era coperto di arazzi a varii colori. Sulla piazza della chiesa attendeva il sindaco col municipio; e la parte migliore dei parrocchiani. Qui erano pronte le ovazioni.

                Al comparire della carrozza si udì un brontolio indistinto, ma non voci ostili, che partiva da qualche crocchio di liberali; ma tosto cessò quando costoro e tutti gli altri videro ai fianchi del parroco un altro personaggio che aveva il cappello differente da quello dei preti lombardi. S'interrogavano a vicenda chi fosse quel prete e facevano le meraviglie del mio cappello alla piemontese, il quale a tre punte colle falde strettamente accartocciate, faceva singolare contrasto con quello degli altri ecclesiastici le cui falde sollevavansi maestosamente come tre vele. Credettero essi pure che io fossi il liberatore del parroco.

                In questo primo istante non si udirono applausi, ma appena entrati noi tra le case, ecco la guardia nazionale schierata in gran tenuta, presentare rispettosamente le armi, e sparare tutti i fucili in aria, e a questa salva rispondere le sinfonie della banda municipale. Gli applausi e le grida di gioia andavano alle stelle e soffocavano il suono della banda. - Viva il nostro parroco! - erompeva da migliaia di petti! Io pensava tra me: - Oh santa religione cattolica, quale forza, quale potenza hai sul cuore dell'uomo! Quanti vi saranno qui i quali avranno forse l'anima indurita nel male; eppure spinti da un interno irresistibile impulso, [525] non possono fare a meno di prestare omaggio e di venerare i servi del Signore!

                Ma la carrozza non potendo procedere, tanto fitta era la moltitudine, fece una larga volta lasciando la via principale e andammo a fermarci sotto il muro che circondava il giardino parrocchiale. Il popolo aspettava dalla parte opposta dei fabbricati sulla piazza della chiesa. Noi fatta venire una scaletta salimmo lassù, ma quando fummo sul muro ci trovammo ben impacciati. Come fare a scendere? Nell'interno non ci erano scale. Bisognava adunque che uno di noi si spenzolasse e calasse il primo. - Scende Lei o scendo io? Si dicemmo a vicenda: e sceso il primo prendendo un leggero stramazzone, aiutò a scendere gli altri. Ma quando fummo a terra, ecco il popolo, accortosi di quella manovra, irrompere nel giardino, e riempirlo così da non poterci più muovere. Non si sapeva più come fare per poter giungere alla chiesa, ma in buon punto il campanaro venne in nostro soccorso, e dopo sforzi inauditi potemmo entrare in sagrestia, passando per una porticina. Quivi erano convenuti tutti i parroci dei dintorni.

                La chiesa era stivata di gente ansiosa di udire la voce del suo pastore; ma egli profondamente commosso, non poteva articolar parola. Io feci allora osservare a tutti quei sacerdoti, che sarebbe stata cosa convenientissima indirizzare qualche parola alla popolazione. Quindi invitai in particolare qualcuno di quei reverendi a salire in pulpito, ma tutti si rifiutarono - Io non son pronto, dissero; non si pensava che ci dovesse esser predica; è troppo facile compromettersi; è una circostanza spinosa; monti lei in pulpito!

                - Ebbene conclusi, vedendo gli occhi di tutti volti a me: monterò io! E comparvi innanzi all'udienza col cappello nella mano sinistra e il mantello sul braccio destro. Incominciai a ringraziare i fedeli dell'accoglienza fatta al Prevosto; li invitai a ringraziare la Divina Provvidenza che spesso permette tribulazioni, le quali eziandio nella vita presente non di rado sono compensate da Dio con grandi consolazioni; loro raccomandai di perseverare nella venerazione verso un sì degno sacerdote, riconoscendo sempre nelle parole di lui la voce di quel Dio di cui egli è ministro; accennai ai doveri del popolo verso il loro pastore; conclusi col parlare della carità, vincolo soave tra il parroco e i suoi parrocchiani. [526] Mentre io parlava si udivano nella chiesa continui singhiozzi ed io stesso a stento poteva trattenere le lagrime.

                Quindi fu intonato un solenne Te Deum e si fini colla benedizione del Venerabile. Appena questo fu riposto, la gente si affrettò ad uscire di chiesa, perchè nessuno voleva ritornare a casa senza prima dare un figliale saluto al padre delle anime loro. La casa parrocchiale fu in un istante assediata dalla moltitudine che voleva vedere il parroco.

                Invano i militi della guardia nazionale tentavano rattenere quell'agglomerazione tumultuosa che non era senza pericoli. Allora si combinò che il parroco si sarebbe messo in un luogo nel quale tutti potessero venire a baciargli la mano. D. Bosco salì sopra un muricciuolo e fatto fare silenzio a quella immensa turba prese a dire: - Ecco! Adesso il vostro parroco si porrà qui in un luogo onde voi possiate non solo vederlo, ma ancora baciargli la mano! - Una voce unanime partì allora dalla folla: - Bravo, bravo! L'ha pensata bene; - Ma però, io replicai, vi raccomando  di non spingervi a lui tutti in una volta, perchè come avete visto è così stanco, che non può più stare in piedi e se lo opprimete ancora lo farete morire. Andate dunque adagio uno per volta a baciargli la mano. - Ciò detto scesi giù. Il parroco si mise contro un muro perchè non lo gettassero a terra e prima in piedi e poi seduto porgeva la mano ai suoi parrocchiani sempre lagrimando per la divozione che gli professava il suo popolo. La sfilata durò due ore.

                La predica, per grazia di Dio, aveva ottenuto il suo effetto. Gli animi ostili al parroco si volsero a benevolenza, perchè io non aveva fatto nè allusione nè recriminazioni; la gran maggioranza del popolo che lo amava grandemente era fuor di sè dalla contentezza! e quello fu giorno di gioia e di festa per tutti.

                Appena ebbi pranzato partii subito per Bottanuco, col professore e col segretario. Quivi il Vescovo aveva collocati nel suo piccolo Seminario i Chierici di Filosofia e di Teologia, avendo i Francesi occupato il grande Seminario di Bergamo nel tempo della guerra, ed essendovi rimasti anche dopo lungamente. Io era contento. Appena giunto, m'intrattenni famigliarmente coi chierici, e fummo subito amici, quindi si andò a cena; dopo tenni loro un breve discorso, e infine andai a dormire, come stassera farete anche voi. Buona notte. - Fin qui D. Bosco. [527] Noi aggiungeremo ciò che non disse ai giovani. Egli era stato anche a Chiuduno ove il parroco Calvi Giuseppe pel suo zelo si meritava le ire dei cattivi. Ritornato presso Mons. Speranza gli espose l'esito della missione confidatagli e le opposizioni che avrebbe ancor potuto incontrare Don Bagini. La sua prigionia era dovuta specialmente alle replicate accuse di un prete perverso; e il Vescovo scoperte le trame, comandò a quel prete, pena la sospensione, di uscire in poche ore dal territorio parrocchiale di Terno.

                D. Bosco parlò anche al Vescovo della visita sua ai chierici, e fece la proposta di ritornare egli stesso l'anno venturo a predicare gli esercizii nel seminario di Bergamo. La sua offerta venne accolta con entusiasmo, e i chierici ne fecero festa. D. Bosco a Bottanuco aveva dette loro parole così dolci e così consolanti che tutti ne erano stupiti e si avvidero di quale santità e di quale sapienza il Signore avesse arricchito il suo servo.

                D. Bosco espose eziandio a Monsignore il progetto di provvedere maestri e professori per la sua diocesi, mandando preti e chierici a subire gli esami per ottenere lauree e patenti in quel maggior numero che fosse possibile. Monsignore essendo contrario a questa idea, e di più intransigente in ogni cosa che riguardasse la sua giurisdizione, rispose dicendo non permettergli la coscienza di piegarsi in nessun modo verso i persecutori della Chiesa. Tuttavia non era uomo da misconoscere i vantaggi di questo progetto. Rimase quindi soprapensiero e come furono a pranzo, interrogò di bel nuovo D. Bosco, esponendo come non credesse lecito sottomettere, come professori e maestri, i suoi preti all'ispezione secolare. Toccare ai Vescovi dirigere l'istruzione del popolo e non poter essi rinunciare al proprio diritto. [528] D. Bosco rispose: - Dirò poche parole per non far questioni. O i pastori della Chiesa si gettano avanti e riprendono con questo mezzo l'istruzione della gioventù prevenendo i laici, e allora le cose andranno bene: ovvero si ritirano e stanno inerti ed allora da qui a 10 anni l'empietà avrà il suo trionfo nelle scuole.

                Il Vescovo credeva, come tanti altri, che quella rivoluzione fosse cosa di un momento e che l'ordine avrebbe ripreso il suo antico posto. Don Bosco insistette assicurando che la rivoluzione sostenuta da tutti i mezzi potenti, de' quali può disporre un governo regolare, aveva preso stabile dimora nei nostri paesi e Dio solo poter sapere quando, dopo molti anni, sarebbe accaduta, col suo aiuto, una ristorazione dell'autorità Ecclesiastica. Le speranze umane essersi ormai tutte dileguate, e non veder nessun barlume neppur lontano che indicasse cessare quello stato di cose. I Governi esteri essere tutti contrarii alla Chiesa.

                Monsignore non volle togliersi dalle sue illusioni e rimase incredulo ai pronostici di D. Bosco; ma dopo qualche anno gli scriveva: - Avevate ragione, ma ora forse è troppo tardi.

                In Bergamo D. Bosco, sempre più riconoscente alla famiglia De Maistre, aveva visitata la figlia del Conte Rodolfo, vedova a 19 anni del Conte Medolago, e si affrettava a dar notizie di lei, che sapeva essere vivamente desiderate, al Conte padre molto avanti negli anni che era in Francia a Beaumesnil.

 

 

CAPO XXXVIII. Ritorno di D. Bosco in Torino - Un giovane morente all'ospedale rinviene all'avvicinarsi di D. Bosco e si confessa - L'orazione attiva - D. Bosco desidera aver preti per i carcerati - Una falce al Chierico Ruffino - Siamo solo al principio dei mali: vessazioni al clero negli Stati annessi - Il Cardinale Corsi prigioniero in Torino e suo colloquio con D. Bosco - Un alunno ha bisogno di prepararsi alla morte - Lettera di Pio IX a D. Bosco - Letture Cattoliche.

 

                Don Bosco era atteso in Torino da molta gente come appare dalle lettere conservate, e tra questa dall'illustre letterato Padre M. Conobbio dei Barnabiti di Moncalieri, il quale scrivendogli si firmava: Affezionatissimo figlio. Desiderava un favore che molto importavagli e che non gli fu negato.

                Mentre era a Bergamo una grave disgrazia accadde a due giovani che, già stati allievi dell'Oratorio, da qualche tempo ne erano usciti per apprendere l'arte del muratore. Un giorno si sfasciò la volta terminata di fresco di una casa in costruzione e i due giovani predetti rimasero sepolti in mezzo a quei rottami. Uno fu estratto fuori [530] cadavere; l'altro colla testa rotta, privo di sensi e di parola fu trasportato all'ospedale Cottolengo. Quivi continuò in quella dolorosa mutezza e nulla dimostrava intendere di quanto lo si interrogava.

                Il giorno 14 maggio andò D. Bosco in detto ospedale: era già una settimana che il giovinetto giaceva in una di quelle corsie e in quello stato; ma appena D. Bosco entrò nella sala, l'infermo rinvenuto in quell'istante, lo vide che era ancora lontano e facendo uno sforzo, gridò ad alta voce, chiamandolo: - D. Bosco? D. Bosco? - Tutti i circostanti rimasero stupiti. Un Cappuccino che era in quella infermeria, raccontò che il giovane dal momento della caduta fino a quel punto non aveva ancor proferita parola.

                D. Bosco gli si avvicinò e il giovane volle subito confessarsi. Lo ascoltò, l'assolse, gli disse parole che fecero ritornar sereno il suo volto e quindi percorse l'infermeria visitando altri ammalati. Intanto il giovane aveva perduto di bel nuovo la parola e mentre D. Bosco, finito il suo giro, era giunto di nuovo presso di lui, il poveretto spirava. Come un altro S. Filippo, Dio aveva condotto Don Bosco ed era giunto nel giorno e nell'istante unico, opportuno per salvare l'anima di un suo caro figliuolo. Questo fatto ce lo riferì Reano Giuseppe.

                D. Bosco nei suoi passi era guidato dal Signore, perchè uomo di preghiera continua, quantunque non avesse nessuna di quelle esteriorità e pratiche che generalmente si vedono negli altri Santi. Era la sua quell'orazione attiva, la quale consiste nello stare continuamente alla presenza di Dio, col fine, non solo di servirlo, ma godendo e rallegrandosi tra le proprie occupazioni, nel vedere attuarsi in ciò che si sta facendo la volontà del Signore. [531]

                Ha scritto S. Francesco di Sales: “Vi è una certa maniera di pregare, molto facile, molto utile, che si fa coll'assuefare l'anima nostra alla presenza di Dio, ma in maniera che questa produca in noi una unione intima, nuda, semplice e perfetta. Oh che preziosa orazione è questa!”

                D. Bosco adunque, in casa e fuori di casa, colle parole e coi fatti promoveva la gloria del Signore con tale spirito e con grande semplicità.

                Non dei soli ospedali ma ancora delle carceri egli continuava a prendersi cura. Il 18 maggio dopo cena molti chierici si fermarono attorno a lui in refettorio. Si parlò di più cose tra le quali del bisogno di buoni e coraggiosi sacerdoti pei poveri carcerati. Riflettendo D. Bosco a questi infelici, bisognosi della parola di Dio per essere svincolati dalla obbrobriosa schiavitù del vizio, rimase alquanto pensoso. Ad un tratto egli prese tra le sue la mano del Chierico Ruffino, guardandolo in viso come per riconoscerlo: poi, appuntellati i gomiti sulla tavola, posò la fronte sulla mano del chierico e così stette per alcuni minuti. Quindi alzando il capo gli disse: - Fa coraggio: hai bisogno di preparare un braccio forte, per maneggiare con destrezza una falce. - Indicava la mietitura nel campo evangelico.

                Il giorno dopo disse ai Chierici parlando degli avvenimenti pubblici: - Io credo che noi siamo solamente al principio dei mali. - Eppure questi già apparivano gravissimi. Si era data ai protestanti la più ampia libertà di aprir templi, scuole e di bestemmiare a loro talento. Si permetteva la diffusione di libelli infami e sudicie rappresentazioni teatrali contro la Religione ed al Sommo Pontefice. In tutte le provincie annesse doveva eseguirsi [532] la legge del 1855 contro gli ordini religiosi, ai quali intanto si vietava di accogliere novizi. Guai al clero se in qualunque maniera avesse manifestate opinioni contrarie al nuovo ordine di cose, o sostenuti i diritti della Chiesa, pubblicate bolle o altre provvisioni Pontificie. Furono comminate pene gravissime e molti sacerdoti, posti sotto processo, vennero condannati chi al carcere chi alla deportazione. I Vescovi si opponevano all'invadente immoralità ed irreligione, e per le loro giuste lamentanze, alcuni erano stati posti in prigione, altri relegati violentemente in certe loro ville.

                Il Cardinal Corsi Arcivescovo di Pisa aveva protestato contro le vessazioni che il Governo faceva soffrire al clero; e per ordine di Cavour un capitano dei carabinieri lo condusse a Torino, ove giunse il 21 maggio alle 10 di sera. Alla stazione fu consegnato all'Abate Vacchetta, il quale in carrozza lo portò alla casa dei Lazzaristi, dai quali fu accolto con grande venerazione e ospitato con ogni maniera di cordiali riguardi.

                Il 22 l'Abate Vacchetta lo accompagnava nell'ufficio del Ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni B. Cassinis il quale attendevalo per fargli una viva riprensione. Il Cardinale in tutto il tempo della sua prigionia, che durò circa due mesi, non si lasciò sfuggire una sola parola da cui potesse dirsi offesa qualsivoglia persona; negli interrogatorii rispose come il Divin Salvatore a' suoi giudici, cioè quasi sempre tacendo. Aveva detto all'Abate carabiniere: - Io non mi difenderò, non accuserò alcuno, ma nemmeno chiederò grazia. Di ciò che ho fatto devo rendere conto solo a Dio, al quale renderanno pure conto i vostri ministri. Essi potranno fare quel che vogliono del mio corpo, ma il mio spirito non lo turberanno. [533] Allo stesso Abate Vacchetta che gli dava licenza di andare in Torino e nei dintorni, ove gli fosse stato di gradimento, rispose: - Sono prigioniero e mi regolerà come tale! - E sempre tranquillo ed allegro non si portò mai in nessun luogo, se non cedendo alle intimazioni della forza. Egli riceveva coloro che andavano a visitarlo coll'affabilità di un padre amoroso. D. Bosco si recò presso di lui la sera dopo il suo arrivo ed ebbe con Sua Eminenza un colloquio di due ore. Il Cardinale gli narrò tutta la storia della sua cattura, e come giunto vicino a Torino recitasse col Segretario il Te Deum, per ringraziar Dio di averlo fatto degno di patir qualche cosa pel suo nome e per la sua fede.

                D. Bosco fu incantato di quella fortezza d'animo e si congedò dopo aver ottenuta da lui promessa che sarebbe venuto all'Oratorio per dare la benedizione.

                Il 24 maggio, si legge nella cronaca, D. Bosco disse in pubblico alla sera: - Un giovane della casa ha bisogno di prepararsi alla morte! - Questi annunzi, dati anche in modo così generico, producevano effetti salutari e inducevano gli alunni a fare pronostici per indovinare a chi D. Bosco alludesse.

                E infatti il chierico Ruffino scrisse in data del 25 maggio:

                Abbiamo Gilardi colla febbre, Perona all'ospedale del Cottolengo, Bocca a quello dei Cavalieri con Bolei: Enria, Ravizza hanno un po' di dolore al capo: Botto la fronte gonfia. Che sia uno di costoro? -

                In questi stessi giorni il Santo Padre Pio IX spediva un suo autografo a D. Bosco in ringraziamento della lettera, dell'indirizzo e della colletta spedita a Roma dai giovani degli Oratorii. [534]

 

                               Diletto figlio, salute ed apostolica Benedizione,[15].

 

                Tornaron a Noi gradite e la tua lettera in data 13 del prossimo mese di aprile e l'altra che Ci inviasti scritta da cotesti tuoi giovani allievi. Imperocchè da quelle lettere abbiamo potuto conoscere quale e quanto grande sia in te e nei medesimi giovani la fedeltà, l'amore e l'ossequio figliale verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro e quanto acerbo il dolore ed il lutto per gli iniquissimi e sacrileghi attentati contro il civile principato Nostro e di quest'Apostolica Sede, commessi da quegli uomini che, fierissima guerra portando alla Chiesa Cattolica ed alla medesima Sede, non esitano a conculcare ogni diritto divino ed umano.

                In verità questi nobili sentimenti tuoi e dei medesimi giovani, degni certamente di ogni lode, furono a Noi causa di non leggero conforto tra le grandissime amarezze, da cui siamo oppressi. Ed ardentemente desideriamo che tu continui coi medesimi giovani ad innalzare senza intermissione fervidissime preghiere a Dio ricco in misericordia, affinchè allontani tante e così gravi calamità dalla sua Santa Chiesa e l'adorni ed esalti con nuovi e più splendidi trionfi in ogni parte del mondo e Noi aiuti e consoli in ogni nostra tribolazione. E mentre a te ed ai medesimi giovani rendiamo le debite grazie per il dono a Noi inviato, di tutto cuore e colla più grande benevolenza impartiamo a Te ed ai detti giovani l'apostolica Benedizione auspice di ogni celeste favore e particolare testimonio del Nostro Paterno affetto.

                Dato a Roma presso S. Pietro addì 2 1 maggio 1860.

                Del nostro Pontificato anno decimoquarto.

PIO PAPA IX.

Al diletto figlio Sacerdote Giovanni Bosco - a Torino. [535]

 

                Nell'Oratorio si pregava e si lavorava per la Chiesa.

                La Lettura Cattolica preparata pel giugno, aveva per titolo: Alessio o il giovane artista, coll'aggiunta di alcuni fatti edificanti. È la storia di un pittore, eccellente cattolico, amantissimo de' suoi genitori nella quale si verifica la promessa del IV comandamento: “Onora il padre e la madre e vivrai lungamente sopra la terra”.

                I fatti edificanti sono: 1. Due grazie segnalate di Maria Santissima, delle quali la prima una conversione dal Protestantesimo.

                2. “La propria fede non si vende” cioè la rinunzia fatta da una povera famiglia di una pingue eredità, piuttosto chè farsi Protestante.

                3. Un contadino Cinese per quaranta anni fa ogni sorta di privazioni ed economizza 2000 scudi per edificare una chiesa nel suo villaggio.

                4. Un episodio del 1795 cioè l'eroismo di alcune suore [536] che vanno alla morte piuttosto che prestare il giuramento scismatico.

                Pel mese di luglio si stava componendo l'Opuscolo; Della fedele osservanza dei comandamenti della Chiesa, con esempi adatti a ciascun precetto. Sul frontispizio si legge: Si Ecclesiam non auderit sit tibi sicut ethnicus et publicanus. (MATTH. XVIII, 17). In queste pagine si nota lo spirito dì insubordinazione che regna nei popoli, si dimostra come la Chiesa abbia da Dio autorità di fare leggi, s'inculca l'amore e l'obbedienza che a Lei è dovuta dai Cristiani.

                Di questi opuscoli così stampava L'Armonia il 20 giugno nel N. 143.

 

                I nostri lettori conoscono quanto siano benemerite dell'istruzione e dell'educazione del popolo le Letture Cattoliche dell'ottimo sacerdote D. Bosco. Non possiamo rendere conto di tutti i libretti che ogni mese si vanno pubblicando in questa eccellente collezione. Diremo solo in generale che tanto per la varietà delle materie, quanto per lo stile piano, perfetto, ameno, in cui sono generalmente dettate queste opericciuole, esse sono il pascolo più appropriato ai presenti bisogni del popolo. Meglio che le nostre parole varrà la seguente raccomandazione fatta dal venerabile Vescovo di Biella in una recente sua pastorale “Non possiamo, dice, mai abbastanza raccomandare, come di nuovo raccomandiamo ai signori parroci, clero, e persone benestanti, l'associazione delle Letture Cattoliche. Queste per la tenuità del prezzo, per l'amenità degli scritti, per lo scopo che si tengono prefisso, non possono a meno che incontrare l'aggradimento dei più e apportare un ottimo successo al buon ordine ed alla pubblica moralità”.

 

 

CAPO XXXIX. La virtù della fortezza - D. Bosco ossequente alle autorità civili - Sua prudenza nelle questioni politiche - Sospetti del Governo e delazioni calunniose - Il Ministro Farina - D. Bosco sorvegliato dalla polizia - l'ufficio di verificazione alla posta - D. Bosco avvertito del pericolo che sovrasta all'Oratorio - Articoli violenti dei giornali, che domandano la chiusura dell'Oratorio - Il decreto di perquisizione permesso da Cavour - Sequestro di una lettera di Mons. Fransoni - Un sogno provvidenziale - Distruzione di preziosi documenti - D. Bosco scrive e conserva le memorie delle perquisizioni - Prefazione al manoscritto.

 

                RENDITI umile, forte e robusto! - aveva comandato a D. Bosco nel sogno la Vergine SS.; ed egli tale si rese eziandio coll'esercizio delle più ardue virtù, e tale si mantenne nelle tante imprese a lui imposte dalla missione Divina.

 

                Il Can. Ballesio ci scriveva: “La fortezza cristiana parve mirabile in D. Bosco, così da comparire a noi, che pure gli stavamo quasi sempre attorno, come immune dalle miserie umane. Forte contro tutte le tentazioni dello spirito e della carne, forte contro lo scoramento nelle difficoltà di ogni sorta, che circondavano l'opera sua, forte [538] contro la superbia e la vanità, contro le minacce e le lusinghe degli eretici”.

 

                Ci ripeteva Mons. Cagliero: “Vissuto al suo fianco per tanti anni, scorsi sempre una rara imperturbabilità e grandezza d'animo nell'incominciare e sostenere tra mille opposizioni le molte sue intraprese per la gloria di Dio e la salute delle anime. Ei non perdette mai la sua calma, nè la dolcezza e serenità di mente e di cuore per quanto fossero gravi le calunnie, sprezzanti le ingratitudini, opprimenti gli affari, ripetuti gli assalti contro la sua persona è la sua Congregazione dicendoci sempre: Est Deus in Israel! Niente ci turbi!”

 

                Noteremo ancora con D. Cerruti Francesco: “La sua eroica fortezza appariva in modo anche più splendido nelle pene morali e fisiche che lo accompagnarono più o meno per tutta la sua vita. Era cosa mirabile e per noi di più grande conforto nel vederlo tranquillo e sorridente in mezzo ai più grandi dispiaceri, alle più amare umiliazioni alle più gravi fatiche; sempre fermo e costante anche in quei momenti nei quali Dio lo sottometteva a prove inaspettate, o sembrava che la pubblica carità gli venisse meno. Pareva un miracolo che egli non soccombesse, ed è cosa che io non so spiegare senza riconoscere l'intervento della divina Provvidenza”.

 

                Di tale fortezza, che è il complesso di tutte le virtù, poichè non si giunge a tal grado d'eroismo se non a forza di mortificazioni e di una costante uniformità ai voleri di Dio, egli ne dava anche in quest'anno una splendida prova. Il suo amore immenso pel Sommo Pontefice, che per lui era una seconda vita, doveva esser causa di gran pericolo all'opera sua.

 

                Ma prima di entrare in argomento noteremo come in [539] D. Bosco alla virtù della fortezza andassero congiunte in sommo grado la giustizia e la prudenza. In tempi così difficili egli seppe diportarsi in modo di compiere dappertutto e sempre il suo dovere di prete e di cattolico, senza mancare de' necessari riguardi all'autorità costituita: sapeva distinguere questa dagli uomini che la esercitano. Gli uomini possono abusarne, ma da questo abuso non ne viene, per legittima conseguenza, che sia da aversi, in dispregio l'autorità medesima e sia lecito ai sudditi la rivolta.

 

                S. Pietro primo Papa, scriveva nella sua lettera indirizzata agli Ebrei dell'Asia minore convertiti alla fede di Gesù Cristo: “Siate per riguardo a Dio soggetti tanto al Re, come uomo posto sopra di tutti, quanto ai presidi come spediti da lui... Rispettate tutti, amate i fratelli, temete Dio, rendete onore al Re[16]„ E il re in quegli anni era Nerone.

 

                Tali erano i princípi che D. Bosco praticava, e non ostante i molti contrasti che ebbe colle autorità civili, fu sempre ossequente in tutto ciò che non era contrario alla legge di Dio e della Chiesa. Presentandosi l'occasione raccomandava l'obbedienza e il rispetto ai governanti. Non lasciavasi mai sfuggire parola di disprezzo contro di loro, e imponeva a' suoi coadiutori lo stesso riguardo. Soleva invitare i Prefetti della città e i Sindaci a venire a visitare l'Oratorio e sempre li accoglieva con segni di grande rispetto.

 

                Era sempre pronto a concorrere, per quanto le sue forze lo permettevano, al sollievo delle pubbliche sventure. Si prestava volentieri, quando vi era bisogno dell'opera [540] sua in certi momenti, in servizio di personaggi costituiti in dignità, in quanto non si comprometteva la sua coscienza ed il suo carattere sacerdotale. Di ció ne fu più volte conscio D. Rua.

 

                Faceva pregare pro regibus et omnibus qui in sublimitate sunt, ut quietam et tranquillam vitam agamus[17].

 

                “Mi lascino, ei diceva, in pace, perchè io possa lavorare e fare un po' di bene alla gioventù”. E pregava pel suo augusto e leggittimo Sovrano, per la Reale Famiglia e per tutti quelli che erano al Governo, affinchè Iddio concedesse loro que' lumi e quella forza che si richieggono in chi presiede al pubblico bene.

 

                Ma non entrava mai in questioni di confederazioni italiche, di interventi stranieri, di forma di governo. Esortava i chierici a non occuparsi di politica e non comparire mai in pubblico con giornali che ne trattassero: e osservava e faceva osservare altre simili giudiziose precauzioni. Usava grande cautela nelle stampe che uscivano sotto il suo nome, togliendo qualunque espressione che avesse potuto porgere motivo di malignare. E dava ragione di queste circospezioni. - Siamo in tempi molto difficili! Gli avversari hanno la spada alla mano e con un colpo possono toglierci la possibilità di fare del bene.

                Tuttavia nè la sua leale sudditanza alle giuste leggi della sua patria, nè le misure necessarie prese da una saggia prudenza lo sottrassero ai colpi del partito settario. Era cosa notoria il suo grande ed illimitato attaccamento alla Santa Sede e quanto si adoperasse nel promuoverlo tra i fedeli. Perciò fu ritenuto come uno dei capi del partito cattolico e si temette che potesse imbarazzare i nuovi [541] assalti che meditavansi contro il Papa. Di qui la guerra che gli fu dichiarata nel 1860, e D. Bosco potè giustamente ripetere al Signore le parole del salmo decimosesto: Propter verba labiorum tuorum ego custodivi vias duras.

 

                Nell'animo di alcuni uomini del Governo, malgrado le sue belle opere che destavano ammirazione e gli avevano guadagnato il favore di molti così detti liberali, si erano ingenerati sospetti che nell'Oratorio esistesse un focolare di cospirazione ed un centro di attiva propaganda contro lo Stato. Certi nemici occulti e vili delatori, per entrare nelle grazie dei Ministri, sussurravano loro alle orecchie che D. Bosco teneva segreti e compromettenti relazioni coi Gesuiti, coll'Arcivescovo Mons. Fransoni, col Cardinale Antonelli, con Pio IX e persino coll'Austria allo scopo di seminare il malcontento tra il popolo e preparare una reazione contro il presente ordine della pubblica cosa. Credevano che D. Bosco tenesse continuamente informato il Papa degli avvenimenti, che dopo il 1848 sempre più si erano avvicendati per l'indipendenza d'Italia e che gli segnalasse, per così dire, le tappe che la rivoluzione faceva. Il Breve a lui diretto da Pio IX in data del 7 gennaio faceva supporre corrispondenze che osteggiassero il Governo.

 

                Si giunse persino a dare ad intendere che nell'Oratorio vi era una camera piena di fucili, onde in data circostanza armare i giovani; ma evidentemente i delatori avevano presa la stanza delle pagnotte per quella delle armi.

 

                Il Dottor Carlo Luigi Farini Ministro dell'Interno, promotore primario delle rivoluzioni italiane, nella sua ricca villa di Saluggia ove aveva sovente raccolti i suoi amici per cospirare, venne ripetutamente assicurato che nell'Oratorio di Valdocco esistevano prove della complicità di D. Bosco coi nemici dell'Italia. [542] Anche l'avversione al Papa faceva velo a suoi occhi, poichè stava scrivendo la quarta parte della sua storia sullo Stato Romano, calunniando il Papato e Pio IX, malignando sopra i fatti e sopra le intenzioni.

 

                Diede quindi i suoi ordini alla polizia di sorvegliare D. Bosco. In altre circostanze l'Oratorio aveva già dovuto subire varie noie, come abbiamo veduto nei primi volumi delle nostre Memorie, ma allora provenivano da persone private, o municipali e le autorità del Regno sorgevano in aiuto di D. Bosco, come fece lo stesso Re Carlo Alberto. Tempo dopo era stato più volte chiamato ad audiendum verbum, ma la cosa erasi limitata a cortesi rimproveri ed a consigli. Ora tutto mutava d'aspetto, poichè entrava in campo contro l'Oratorio un nemico che rappresentava il Governo ed aveva in mano la forza.

 

                D. Bosco era venuto in qualche sospetto, perchè varie lettere di eccelsi personaggi non gli erano state recapitate. Il sequestrare le lettere alla posta era in quel tempo molto in voga, come lo ebbero a provare parecchi fatti; anzi in ogni dipartimento postale era persino stabilito un ufficio apposito detto di verificazione, fra le attribuzioni del quale, la più importante era quel  la appunto di verificare, se partivano o arrivavano lettere dirette a persone tenute, come si diceva, per nemiche del nuovo ordine di cose. E tutto ciò si faceva in barba dello Statuto e ad onore e gloria della libertà.

 

                Intanto sul principio dell'anno D. Bosco era stato avvertito da persone intrigate nelle faccende politiche, come nelle loggie Massoniche fosse stata decisa la guerra contro di lui anche per impedirgli di proseguire in una missione così contraria alle bieche loro mire. Un alto impiegato addetto al Ministro degli Interni suo amico gli fece sapere [543] come fosse decisa la chiusura dell'Oratorio; quindi si preparasse e cercasse di sventare il pericolo.

 

                Un mese dopo dacchè gli erano pervenuti quegli avvisi, i giornali liberali cominciarono a scrivergli contro con grande accanimento. Con violenti invettive, calunnie e frasi triviali, sfolgoravano l'opera di D. Bosco come contraria alla libertà, all'indipendenza d'Italia e lui come nemico della patria e delle istituzioni che la reggevano. Descrivevano l'Oratorio come un covo di cospiratori assoldati dal Papa e chiedevano altamente che venisse chiuso.

 

                Un giornalaccio scriveva come esistessero nella casa di D. Bosco colpevoli documenti; si cercassero a dovere si trovebbero. - Il Governo mandi colà uomini accorti spregiudicati, e verrà a scoprire le file della trama ordita, scriveva un altro portavoce della setta. - E la Gazzetta del Popolo per farla finita stampava: “L'Oratorio di S. Francesco di Sales è il centro della reazione; il Ministero non riuscirà mai ad allontanare il pericolo che gli sovrasta, finchè lascia sussistere il coviglio di Valdocco”.

 

                Così formavasi l'opinione pubblica e preparavasi al Governo la strada, perchè senza troppa odiosità potesse fare il colpo che meditava. Con una improvvisa perquisizione nella casa dell'Oratorio si sperava di sorprendere qualche documento che potesse dare appiglio a sospetti e sul quale fabbricare un processo. La minima frase equivoca di una lettera doveva bastare. Si era sicuri di raggiungere lo scopo, poichè si voleva trovarlo colpevole a qualunque costo e o chiuderlo in prigione, o mandarlo a domicilio coatto.

 

                L'opera dell'Oratorio che nel corso di 19 anni aveva costato tante sollecitudini, tante fatiche e sudori a D. Bosco e a suoi collaboratori correva adunque pericolo di essere [544] distrutta come da un turbine. Rumoreggiava la minaccia di imprigionare quegli che provvedeva il pane ai ricoverati e loro procacciava un avvenire onorato; si temeva che venisse chiuso l'istituto, sbanditi tutti i giovanetti o gettandoli sopra una pubblica via o consegnandoli alle loro povere famiglie, troncando così a mezzo le loro speranze. E crescevano i timori per la chiusura in que' medesimi giorni di varie case di educazione, e per la prigionia di onesti personaggi dell'uno e dell'altro clero.

 

                D. Bosco però senza turbarsi, come consta anche dalle narrazioni dei precedenti capitoli, attendeva l'intervento della Madonna.

 

                Finalmente Farini dopo aver temporeggiato, comandò al Questore di procedere ad una visita fiscale nell'Oratorio.

 

                Ma non fu egli solo responsabile delle vessazioni che soffrì l'Istituto; ebbe pure una parte di responsabilità il conte Camillo di Cavour. Era suo carattere: buone promesse, cortesie con tutti, e poi brutti fatti dietro alle spalle. Il decreto di perquisizione non venne firmato da lui, ma egli n'era consapevole, e come presidente del Ministero avrebbe potuto e dovuto impedirlo. Diciamo dovuto, perchè era persuaso che l'Oratorio non fosse quello che i calunniatori e i giornali dipingevano, perchè conosceva da molti anni D. Bosco, perchè aveva prove dell'indole pacifica e benefica di questa istituzione. Anzi, come già abbiamo narrato, nei primordii dell'Oratorio egli veniva nei giorni festivi ad intrattenersi coi giovani, discorreva con essi, si deliziava nell'osservarli in ricreazione. Che più? Prendeva parte alle loro sacre funzioni e solennità, e più di una volta intervenne alla processione in onore di S. Luigi Gonzaga, portando da una mano il cereo e dall'altra il libro, e cantando con noi l'inno: Infensus hostis gloriae in onore del [545] Santo. Quante volte aveva obbligato D. Bosco ad andare a pranzo da lui accogliendolo con ogni più squisita  affabilità, passando la sera con lui in lunghe conversazioni e interrogandolo sull'Oratorio, sui giovani e sul sistema educativo! Malgrado di tutto ciò, egli ligio alle sette, permise le perquisizioni, e, come venne riferito in quei giorni a D. Bosco, si limitò a dire a' suoi colleghi: - In quanto a me, giudico inutile perquisire D. Bosco, perchè egli è più furbo di noi: o non si è compromesso, oppure a quest'ora ha già prese le sue precauzioni; tuttavia fate come credete.

 

                A questa tirannica decisione aveva dato motivo una lettera di Mons. Luigi Fransoni da Lione indirizzata a D. Bosco, colla quale l'illustre esigliato lo avvertiva di aver fatto conto su di lui per un affare geloso, che gli stava sommamente a cuore, e col quale avrebbe reso un gran servizio all'Archidiocesi. Pregavalo perciò ad incaricarsi di far recapitare ai parroci una sua confidenziale lettera pastorale, nella quale dava loro certe norme necessarie sul modo di regolarsi in mezzo a tante lotte, che dovevano sostenere per la giustizia. Nello stesso tempo lo pregava ad indicargli il modo col quale potesse fargli con sicurezza pervenire quelle circolari, senza che vi fosse timore che cadessero in mano al Governo. Se avesse avute difficoltà o timore di compromettersi glielo facesse sapere. A tutti i modi lo favorisse di sollecita risposta.

 

                La lettera non era giunta a destinazione. Dopo qualche tempo però fu consegnato a D. Bosco un biglietto dello stesso Arcivescovo, recatogli a mano da un amico, nel quale il Prelato lamentavasi non avergli D. Bosco risposto; e dicevasi non occorrere più nulla riguardo a quel servizio del quale era stato pregato, e che erasi rivolto ad altre persone, per far giungere al loro destino quelle istruzioni. [546] Solo qualche anno dopo D. Bosco potè conoscere questo nuovo segno di fiducia che gli aveva dato il suo Arcivescovo.

 

                Ma come erasi sviata quella prima lettera? L'avevano riconosciuta e aperta alla posta e sequestrata per ordine del Ministero.

 

                D. Bosco nulla sapendo di una tal cosa compromettente, stavasene tranquillo, quando tre giorni prima della perquisizione, la notte dal mercoledì al giovedì, fece un sogno il quale, comunque si voglia spiegare, gli tornò di gran vantaggio. Ecco come narra D. Bosco stesso:

 

                “Mi sembrò di vedere una schiera di malandrini entrare in mia camera, impadronirsi della mia persona, rovistare nelle carte, in ogni forziere, mettere sossopra ogni scritto.

 

                In quel momento un di loro con aspetto benevole assai ebbe a dirmi: - Perchè non avete allontanato il tale e tale scritto? Sareste contento che si trovassero quelle lettere dell'Arcivescovo, che potrebbero essere causa di male a voi e a lui? E quelle lettere di Roma, che quasi dimenticate, sono poste qui (e indicava i luoghi) e quelle altre là? Se le aveste tolte vi sareste liberato da ogni molestia. - Fattosi giorno, scherzando ho raccontato il sogno come lavoro di fantasia; ciò nulla di meno ho messo parecchie cose in ordine, ed alcuni scritti che potevano essere interpretati a mio danno li ho allontanati. Questi scritti erano alcune lettere confidenziali affatto estranee a politica o a cose di governo. Poteva però essere considerato come delitto ogni istruzione ricevuta dal Papa o dall'Arcivescovo sul modo di regolarsi i sacerdoti riguardo a certi dubbi di coscienza. Quando per tanto cominciarono le perquisizioni io aveva trasportato altrove tutto ciò che [547] avesse potuto dare il minimo appiglio di relazioni o allusioni politiche nelle cose nostre”.

 

                Questo è il motivo per cui scarseggiano certe carte autentiche dei primi tempi dell'Oratorio. D. Bosco dovette servirsi in questo trafugamento di alcuni suoi giovani più fidati, i quali in quella premura, non avendo bene intesi gli ordini, parte degli scritti bruciarono, parte nascosero, parte consegnarono in Torino a persone sicure. Perciò il maggior numero dei preziosi documenti, che riguardavano le relazioni colla Sede Apostolica, alcune lettere di Pio IX, le copie delle lettere di D. Bosco al Papa; la corrispondenza dal 1851 coll'Arcivescovo di Torino; il carteggio con uomini di Stato specialmente coi Ministri passati; le memorie e gli appunti sopra i sogni, che D. Bosco soleva scrivere e conservare per suo conforto; la narrazione di grazie concesse dalla Madonna, di fatti miracolosi e anche di azioni straordinarie dei giovani, come oggetti o di pericolo o di pura curiosità, andarono perduti. Non vi era tempo per fare una scelta giudiziosa. Varii di questi fogli da tempo li conservava presso di sè Giuseppe Buzzetti e senza badare ad altro li distrusse per la sicurezza di Don Bosco. Di alcuni fu dimenticato il nascondiglio e furono scoperti anni dopo sotto un trave della chiesa di S. Francesco.

 

                Non deve però recar meraviglia, questo che si potrebbe dire improvvido sperpero, perchè il fatto dimostra come quella fretta fosse necessaria; e ciò che fece stupire Don Bosco si fu, che i persecutori cercarono e rovistarono specialmente in quei siti, dove prima erano tali carte, cioè i luoghi che nel sogno gli erano stati indicati.

 

                Di questi dolorosi avvenimenti D. Bosco tenne memoria, come pure di altre perquisizioni avvenute tre anni dopo, [548] facendo precedere al manoscritto una prefazione. Da alcune frasi di questa si può argomentare che egli volesse dare un maggiore sviluppo a quel suo lavoro e trattare delle condizioni nelle quali si trovava la Chiesa nell'Italia in genere e nel Piemonte in ispecie. Quindi esporre i varii motivi dell'astio settario contro il Papa e contro il clero a lui fedele e ossequente a quella antica legge di disciplina: Miles pro duce; Dux pro causa militat.

 

                Tuttavia o non ebbe tempo a compiere la trattazione, ovvero mutato parere si restrinse alla pura narrazione dei fatti; e tenne per sè quel manoscritto dal quale noi ricaviamo quanto abbiamo esposto e siamo per esporre, aggiungendo alcune circostanze sapute dagli allievi di que' tempi e da lui ommesse.

 

                Presentiamo al lettore la prefazione accennata, la quale porta il titolo: -Ragione di questo scritto.

 

                Per appagare le molte richieste che mi vengono ripetute per conservare memoria di alcuni fatti del 186o, ho giudicato opportuno scrivere le principali cose successe nelle perquisizioni, che le autorità governative fecero nella casa di Valdocco.

 

                La mia intenzione è di tessere un fedele racconto di quanto avvenne in quei momenti di prova: li esporrò letteralmente secondo verità, senza pretendere nè di assolvere, nè di condannare alcuno. Se mai in qualche cosa avessi sbagliato, o avessi proferito pensieri, opinioni, non quali si convengono ad un prete Cattolico, io intendo revocare tutto quello che in rapporto alla religione ivi possa trovarsi meritevole di biasimo.

 

                Ho scritto per i miei figli Salesiani e spero che loro serviranno di norma e di ammonimento. Di norma. Qualora la Divina Provvidenza permettesse che talun nostro socio dovesse trovarsi in casi somiglianti, egli cerchi di poter parlare colle prime autorità. Io osservai che in certe misure odiose, prolungate a danno dei Cattolici, i Ministri vi entravano nell'ordinare le prime mosse, e poi non si curavano più che tanto di andare fino alle estreme [549] conseguenze dei loro comandi. Erano quasi sempre i loro subalterni che spingevano oltre ogni misura le loro indegne vessazioni.

 

                Questi sono sempre i più imbroglioni, ostentano zelo sperando di avanzarsi nella loro carriera: ad essi poco importa schiacciare un uomo: spesso travisano i fatti per dar prova di essere spregiudicati: vogliono aver lode di oculati: col pretesto che non sono essi che fecero le leggi o le ordinanze, si mostrano inflessibili e talora inurbani. Invece i Capi, sia perchè non hanno alcun superiore da rendergli conto della lor gestione, sia perchè han più nulla da sperare avendo tutto ottenuto, sia per la popolarità che desiderano e ambiscono per mantenersi al loro posto; l'amore della quiete necessaria per godere delle loro posizioni; talvolta il piacere di vedersi lodati e che si ricorra con fiducia alla lor lealtà più o meno vera; il pensare che un giorno potrebbero aver bisogno del supplicante o del ceto cui appartiene; l'educazione che hanno ricevuta, il buon nome e la stima che desiderano acquistarsi, l'umano rispetto, la naturale bontà, l'urbanità, fanno sì che si mostrano molto più umani, ragionevoli, arrendevoli dei loro subalterni: e quando la giustizia è evidente, si può sperare di ottenerla. Certamente che bisogna per amore di Gesù Cristo non aver paura delle umiliazioni.

 

                Or dunque noi visitandoli e ragionando con essi guadagneremo assai più con poche parole che non con molte pagine pulitamente e sapientemente scritte.

 

                Seguendo questa regola si potrà dar ragione del nostro procedere sia nelle cose fatte, sia in quelle da farsi, poichè la spiegazione personale delle nostre buone intenzioni, diminuisce assai e spesso fa scomparire le sinistre idee, che nella mente di taluni possono essersi formate. Tal modo di fare è assai conciliante e ben sovente rende benevoli gli avversari. E ciò non è altro che quanto raccomanda lo Spirito Santo: Responsio mollis frangit iram.

 

                In secondo luogo servano di ammonimento a tenerci strettamente alieni dalla politica anche quando si presenta con ispecie di bene. Ma ad ogni evento, ad ogni difficile incontro si ricorra alla preghiera, si facciano in cuore frequenti giaculatorie, per ottenere da Dio lumi e grazia, e poi si esponga con franchezza la verità e si risponda alle autorità con rispetto, ma con chiarezza e con fermezza ad ogni loro domanda. Anzi quando si ha facoltà [550] di parlare se ne approfitti per portare il discorso sopra quelle cose che possono giustificare le nostre azioni. Nel parlare poi con persone del secolo bisogna accennare di volo i motivi religiosi e rilevare preferibilmente l'onestà delle azioni e delle persone e le opere che il mondo chiama filantropia, ma che la nostra santa Religione appella Carità.

 

                Dio ci aiuti a superare le difficoltà che purtroppo sono inevitabili in questo mondo, il quale come dice il Vangelo, è tutto posto nella malignità. Mundus in maligno positus est totus. La Santa Vergine ci ottenga dal suo Divin Figliuolo di aver giorni di pace nel tempo, affinchè possiamo amare e servire Dio in terra e andare un giorno per sempre nella beata eternità. Così sia.

 

                Era l'anno 1860. Gli avvenimenti politici agitavano tutta Europa e l'Italia ne era il centro. Un partito o meglio una fazione sotto il nome di liberali democratici, o semplicemente di Italiani, aveva promosso lo spirito di rivoluzione, cominciando dalla Reggia dei Sovrani fino al tugurio del rozzo contadino e del povero artigiano. Soppresse le corporazioni religiose dell'uno dell'altro sesso, messo in non cale ogni legge della Chiesa e l'autorità del medesimo Pontefice, abolito il foro Ecclesiastico, incamerati i beni delle Collegiate, dei Seminarii e delle mense Vescovili, furono anche invasi nella maggior parte gli Stati della S. Sede. I reggitori delle cose pubbliche, per incutere terrore a tutti e far vedere che temevano nessuno, diedero principio ai domicilii coatti ed alle perquisizioni.

 

                Coloro che fossero caduti in sospetto di essere contrarii alla loro politica per lo più erano messi in prigione o mandati a domicilio coatto, cioè condannati all'esiglio in luoghi determinati per tutto quel tempo che fosse piaciuto all'autorità governativa di stabilire. Ciò si faceva senza che l'imputato fosse ascoltato, o potesse far valere la sua innocenza o le sue ragioni.

 

                Generalmente al domicilio coatto precedeva la perquisizione che era una specie di assassinio legale. Col finto manto della legalità, il fisco faceva una visita nelle case di quei cittadini che qualche delatore avesse denunziati colpevoli, che è quanto dire di non essere rivoluzionari. Il fisco in quelle occasioni doveva fare le più minute indagini a fine di scoprire o lettere, o progetti, o qualsiasi scritto contro il Governo, che solevasi chiamare corpo del delitto. [551] Undici volte la nostra casa fu onorata da queste visite domiciliari. Io ne esporrò una, da cui se ne può arguire il tenore delle altre.

 

                Ma la fortezza di D. Bosco trionfò di tutte. “Un legamento di travi, si legge nell'Ecclesiastico al capo XXII, unite insieme nel fondamento di un edifizio non si scompagina, così un cuore appoggiato a ben pensato consiglio. Le risoluzioni dell'uomo sensato non saranno alterate dal timore in nessun tempo: .... Colui che sta saldo ne' comandamenti di Dio è sempre senza timore”.

 

 

CAPO XL Due Gesuiti incarcerati - D. Bosco e un giovanetto raccomandalo dal Ministro Farini - Arrivo nell'Oratorio dei fiscali - Primo incontro con D. Bosco e questione sul mandato per la visita domiciliare - Le guardie; resistenza giustificata; minacce; beneficenza e malevolenza - Effervescenza nei giovani - Parole di D. Bosco - Angustie di D. Alasonatti - Scene buffe e serie tra le guardie e gli alunni - La sciarpa questurale e il Decreto di perquisizione - Burla sconveniente fatta riparare - Indagini sulla persona - Il cestone delle carte stracciate e l'avvocato - Un telegramma dimenticato - Revisione delle lettere - Episodii - Le note dei debiti - Il Breve Pontificio - In biblioteca.

 

                Era il 26 maggio, vigilia della grande solennità di Pentecoste. La sera prima la Polizia aveva fatta una visita fiscale nella casa abitata da due Gesuiti, il P. Protasi e il P. Sapetti, che era ammalato; ed ambidue consegnati alle guardie, si videro rinchiusi per un giorno e due notti in una carcere sotterranea del palazzo Madama.

                D. Bosco dopo il suo pranzo frugale, verso le due pomeridiane, saliva le scale per ritirarsi in camera, quando [553] sull'entrata nei portici gli si presenta una povera madre che accompagnava un suo figliuolo, con lettera del Ministro dell'Interno, così concepita.

Ministero dell'Interno. - Div. S. - N. 1345] Torino, addì 21 maggio 1860.

 

                Il Sig. Teologo Leonardo Murialdo notificò allo scrivente che il giovane Tommaso Pellegrino venne accolto nell'Ospizio di S. Francesco di Sales in Valdocco.

                Nel mentre il sottoscritto esprime al Sac. Don Giovanni Bosco, Rettore dell'Ospizio anzidetto, i suoi ringraziamenti per l'accoglienza fatta all'invito direttogli, in relazione, alla sua lettera del 27 aprile p. p. lo previene d'aver disposto, acciocchè venga corrisposto all'Ospizio suddetto un sussidio di lire 100 sui fondi di questo Ministero, che potrà riscuotere dalla Tesoriera provinciale di questa città.

D'ordine del Ministro

C. SALINO.

 

                Mentre egli, avendo al fianco il Ch. Cagliero, stava leggendo quel foglio, giungono tre uomini signorilmente vestiti, uno dei quali interrompendolo gli dice:

                - Abbiamo bisogno di parlare con D. Bosco.

                - Eccomi, egli rispose; abbiano solo pazienza un momento. Deliberato quanto riguarda a questo ragazzo, sarò ai loro comandi.

                - Non possiamo attendere, ripetè colui asciuttamente.

                - In che li posso dunque servire, se hanno tanta premura ?

                - Dobbiamo parlare in confidenza.

                - Ebbene, vengano qui presso nella camera del Prefetto.

                - Non nella camera del Prefetto, ma nella camera di lei.

                - Ora non posso andare. [554]

                - Ed ella vi deve andare: è cosa indispensabile. - Ma chi siete voi e che volete da me? - Noi siamo qui per una visita domiciliare.

                Allora D. Bosco capì chiaramente quello che in principio, aveva solo traveduto; e l'altro continuò: - Sì, o signore; abbiamo ordine di perquisire il suo Oratorio in ogni angolo, in ogni ripostiglio, e far rapporto al Governo di quanto, si può trovare di compromettente per la sicurezza dello Stato. Siamo incresciosi di venire a darle disturbo, ma una volontà superiore alla nostra ci impone di fare questo passo disgustoso.

                - Ed essi credono che D. Bosco s'impacci di politica?

                - Noi non crediamo nulla, ma dobbiamo obbedire. Favorisca di accompagnarci.

                - Io? Ma chi sono essi? prese allora a dire D. Bosco con piglio risoluto.

                - Come! Non mi conosce? Lei ha voglia di scherzare. Sono più anni che ci trattiamo e che corrono relazioni fra noi due.

                - No, o Signore, io non la conosco, e non conosco nessuno di questi Signori.

                - Ebbene! replicò risentito colui che pareva il Capo: - Io sono l'avvocato Grasso, Delegato di pubblica sicurezza, e questi due sono l'avvocato Tua e l'avvocato Grasselli; e rappresentiamo il fisco.

                - Avete qualche scritto come la legge prescrive?

                - No!

                - E chi vi autorizza a farmi questa visita domiciliare?

                - Le autorità non hanno bisogno di essere autorizzate.

                - Scusatemi signori. Io credo che voi siate galantuomini, ma potrei anche ingannarmi. Fino a tanto che non mi farete vedere il vostro mandato, coi limiti del medesimo, [555] io non sono tenuto a ricevervi nè in camera mia, nè in altro luogo di questa casa… E saprò difendermi.

                - Come! Oserebbe ribellarsi all'autorità?

                - Io sono un suddito fedele; io rispetto l'autorità e la faccio rispettare dagli altri; ma non voglio soprusi.

                - Qui non vi sono soprusi. Vuole adunque costringerci ad usare la forza?

                - Voi vi guarderete bene di usare la forza in casa mia. Lo Statuto garantisce l'inviolabilità del domicilio ai pacifici cittadini, ed ogni violenza che mi venisse usata, l'avrei come una violazione di domicilio e ne darei querela.

                Il Delegato e gli altri due si guardarono in faccia. Non avevano portato seco il mandato, perchè credevano che bastasse la loro presenza per intimidire un povero prete, ed a costringerlo ad ogni loro volontà. Forse anche a bello studio per istruzioni ricevute avevano lasciato il mandato nell'ufficio del Questore. - Dunque replicarono quei signori, D. Bosco non crede alle nostre parole?

                - Non dico di non credere, dico solamente che se vogliono entrare in casa mia debbono presentarmi il mandato.

                Mentre avveniva questo diverbio tra D. Bosco e que' Signori, si sparsero pel cortile e per le scale 18 guardie di pubblica sicurezza, parte in uniforme e parte travestite; ed un corpo delle medesime stava in sentinella, fuori dell'Oratorio, impedendo l'entrata agli estranei. Pareva che la questura avesse scambiata una povera casa di orfanelli in una fortezza di Austriaci da prendersi d'assalto. Il Delegato Grasso, impaziente per quel lungo colloquio, forse per intimorire D. Bosco, fece avvicinare alcune di dette guardie, e poi con una voce alta e severa, ripigliò:

                - Ci conduce adunque in sua camera? [556]

                - Io non posso condurvi e non vi condurrò sino a tanto che non mi facciate vedere chi vi  manda e con quale autorità e per quale ragione. E guardatevi bene dal venire ad opere di fatto, perchè in tal caso io griderei - ai ladri! ai ladri! - per tutto l'Oratorio, farei suonare a stormo, chiamare i miei cari giovani ed i vicini in aiuto, e considerandovi come aggressori e violatori del domicilio altrui, vi forzerei ad allontanarvi di qui con vostro danno. È vero che voi potreste tentare di condurmi in prigione, ma in questo caso commettereste un'azione biasimevole in faccia a Dio e in faccia agli uomini.

                Egli aveva parlato mantenendo sempre la sua calma e la eguaglianza di spirito. Come ebbe finito una guardia gli si appressò per mettergli le mani addosso, ma avendo Tua e Grasselli osservato finalmente essere giusta la domanda di D. Bosco, il Delegato fattosi più ragionevole ne la impedì, soggiungendo: - Per quanto è possibile facciamo le cose senza guai. - Disse quindi ad un collega: - Vada a prendere il Decreto, che abbiamo dimenticato nell'ufficio del Questore. - Partì subito quell'avvocato, ma ci volle una buona mezz'ora prima che fosse di ritorno.

                In quel lasso di tempo D. Bosco terminò il colloquio col ragazzo raccomandato e colla madre, che non si era mossa di là, rimasti ambedue sbalorditi a quella inaspettata discussione di cui ignoravano la portata. Dal canto suo D. Bosco non sapeva combinare quella raccomandazione del Ministro, quantunque preveduta, con un ordine di perquisizione e minaccia d'arresto da parte del Governo. Era quello un atto d'ipocrisia? Era un tranello? Oppure il decreto veniva emanato da Autorità subalterne e all'insaputa del Ministro dell'Interno? Ad ogni modo D. Bosco, trattate colla madre alcune condizioni di accettazione, non esitò un [557] istante ad accogliere definitivamente il povero figlio tra suoi allievi dicendogli: - Figlio mio, starai qui con me, mangiando il pane di D. Bosco.

                Egli fu lieto che la Divina Provvidenza gli porgesse occasione di rendere bene per male a coloro, i quali, invece di essergli riconoscenti di quanto ci faceva per diminuire il numero dei discoli e per dare alla società cittadini istruiti e probi, ne lo ripagavano con atti ostili, trattandolo quale un cospiratore e perturbatore dell'ordine pubblico.

                Intanto i giovani suonate le ore due, eransi ritirati quali nelle scuole e quali ne' rispettivi laboratorii. Tuttavia alcuni rimasti, od usciti fuori, non tardarono ad accorgersi che qualche cosa di grosso eravi per l'aria: avrebbe bastato a persuaderneli la vista di tante guardie, che pareva attendessero al varco un ladro od un assassino. Quindi in un baleno si sparse per ogni dove la voce che volevano condurre D. Bosco in prigione; infatti alla porta se ne stava preparata la vettura. Questo grido gettò l'allarme e la costernazione in tutta la casa: i giovani non volevano più rimanere nelle scuole e nei laboratorii; e quali schiamazzando e quali piangendo domandavano di uscire per difendere il proprio padre o per andare in prigione con lui. La scena per alcuni istanti fu così commovente che i vecchi allievi ancora adesso ricordandola sentono spuntare sugli occhi le lagrime. I maestri e capi d'arte ebbero molto a penare a fine di rimettere la calma ed infondere la persuasione, che non eravi alcun pericolo per D. Bosco, e che qualora vi fosse stato, eglino stessi ne li avrebbero avvertiti e guidati alla difesa. Il Ch. Giovanni Cagliero dovette accorrere, esortando or gli uni ora gli altri a stare tranquilli e raccomandando a tutti in pari tempo di pregare.

                Fu nondimeno concessa l'uscita ad alcuni de' più adulti, [558] i quali si avvicinarono a D. Bosco, ed uno sottovoce gli domandò: -Permette che ci sbarazziamo di questa canaglia?

                - No, rispose egli; anzi vi proibisco ogni parola, ogni tratto che possa offendere chicchessia. Non abbiate alcun timore; io aggiusterò tutto, e voi andate pure a compiere i vostri doveri, animando i vostri compagni a rimanere tranquilli.

                Senza queste parole di prudenza e di pace, in quella sera sarebbe di certo succeduto un qualche disastro; giacchè tale effervescenza regnava in tutti i cuori dei giovani, che per difendere D. Bosco si sarebbero fatti mettere a pezzi.

                Angustiatissimo mostravasi pure il sempre caro prefetto D. Vittorio Alasonatti, braccio destro di D. Bosco. Egli temeva la prigionia di Don Bosco non meno degli alunni e ne dava questa ragione. - Fra tante lettere che D. Bosco riceve in questi giorni, può darsi che qualcuna tratti di politica in senso contrario al Governo, e disapprovi l'annessione della Romagna. Un simile scritto, quantunque non vergato da lui, tuttavia in questa occasione basterebbe a dare pretesto a costoro di usargli violenza. Povero me, se mai avvenisse tale disgrazia! Che farei io in questa casa senza D. Bosco? Molto meglio sarebbe che incarcerassero me. - Così parlando il degno Sacerdote s'inteneriva sino alle lagrime, e si proponeva di andare egli in prigione invece di D. Bosco.

                Le guardie intanto salite ai varii piani della casa si erano collocate a tutte le porte dei pianerottoli, a tutti gli angoli de' corridoi, a tutti gli usci degli agiamenti. Qui specialmente vigilavano perchè non fossero gettate nei pozzi neri le carte. Per conseguenza accaddero scene e dialoghi, irosi e ridicoli quando alcuno voleva entrare e la guardia pretendeva [559] impedirlo. Altri poliziotti si avvicinavano ai crocchi che si erano formati in cortile e intanto tenevano d'occhio D. Bosco. I giovani poi che rientravano in casa avendo lavorato in città e quelli che dovevano uscire per commissioni, erano minutamente perquisiti, frugando nelle loro tasche e facendo perfin loro levare le scarpe.

                Giunse finalmente il messo spedito a prendere il decreto; e allora il delegato, cintosi della sciarpa questurale e circondato da cinque poliziotti, disse con voce ruvida e solenne: - In nome della legge io intimo la perquisizione domiciliare al Sac. Giovanni Bosco. - Ciò detto davagli a leggere il famoso Decreto, nel quale era pure ordinata la perquisizione al Can. Ortalda, al Sac. D. Cafasso e al Conte Cays. I due primi dovevano averla alcuni giorni dopo; il terzo la subiva più tardi nel febbraio del 1862. Era forse per non far sapere a D. Bosco questi ordini che il Delegato aveva lasciato in questura il famoso decreto.

                La parte che riguardava D. Bosco, era così concepita: “D'ordine del Ministero dell'Interno si proceda a diligente perquisizione nella casa del Teologo sacerdote Giovanni Bosco, e siano fatte minute indagini in ogni angolo dello stabilimento. Egli è sospetto di relazioni compromettenti coi Gesuiti, coll'Arcivescovo Fransoni e colla Corte Pontificia. Trovata qualche cosa che possa gravemente interessare le viste fiscali, si proceda all'immediato arresto della persona perquisita”.

                Lette queste parole e restituito lo scritto, D. Bosco soggiunse: - Così stando le cose vi concedo di esercitare la vostra autorità, perchè mi è imposto colla forza. Andiamo dunque in mia camera. Tuttavia noto che potrei ancora opporre legale resistenza, poichè nell'ordine di perquisizione è sbagliata la qualifica della persona e sta scritto: -  [560] Minuta perquisizione al Teologo D. Bosco. Signori, io non sono teologo, e vi è un altro sacerdote in Torino che porta il mio stesso nome ed è laureato in teologia. - In quell'istante sopraggiungeva il Questore giudice Chiappusso, avvertito forse del ritardo posto da D. Bosco all'esecuzione degli ordini superiori e udite le ultime parole, esclamò: Oh! che! Abbiamo prima da rettificare i titoli? Oibò! Si vada avanti !

                Tutti salirono e furono alla porta della stanza di Don Bosco seguiti da tre guardie.

                Erano scritte sulla fascia o cornice del muro, alla sommità della porta che dava ingresso alla biblioteca, le parole Lodato sempre sia il SS. Nome di Gesù e di Maria. Giunti colà, l'avvocato Tua le lesse in tono burlesco; ma D. Bosco arrestatosi aggiunse: E sempre sia lodato, e, prima di terminare la giaculatoria solita a cantarsi tra noi, e scritta parimenti sulla porta attigua, che metteva alla sua camera da letto, voltosi indietro intimò a tutti di togliersi il cappello. Vedendo che niuno obbediva replicò: - Voi avete cominciato in tono beffardo e adesso dovete finire col dovuto rispetto; onde comando ad ognuno di scoprirsi il capo. - A queste parole risolute giudicarono di ottemperare, ed allora D. Bosco terminò: Il nome di Gesù Verbo incarnato.

                Entrato in camera con quei tre signori, a cui si aggiunsero due guardie in aiuto, D. Bosco si abbandonò al loro arbitrio, ed allora cominciò la vergognosa scena. Quei fiscali presero a mettergli le mani indosso; quindi le sacoccie, il taccuino il portamonete, la sottana, i calzoni, il corpetto, gli orli degli abiti, lo stesso fiocco della berretta fu soggetto alle indagini, vale a dire alla visita domiciliare, a fine di trovare, come essi dicevano, il corpo del delitto. Siccome queste operazioni si facevano in modo grossolano, spingendo il [561] povero prete e frugandolo in tutti i versi, così egli si lasciò sfuggire le parole: Et cum sceleratis reputatits est.

                - Che cosa dice? - domandò uno di loro.

                D. Bosco fissandoli con quel suo sguardo traffiggente: - Dico che voi fate il servizio che altra volta alcuni prestarono al Divin Salvatore.

                Dopo le indagini sulla persona si passò alle due camere, una delle quali serviva di biblioteca. Primo a cadere nelle mani fiscali fu un cestone pieno di carta stracciata, buste, cenci, spazzature e simili. L'avvocato Grasselli, avendo portato gli occhi su quell'arnese, vide una busta di lettera con francobollo dello Stato Pontificio.

                - A me questo, esclamò tosto: niuno lo tocchi.

                - Guardie attente aggiunse il delegato e custodite ogni cosa.

                Allora il fiscale, assistito dai colleghi, sperando di rintracciare qualche lettera del Papa si mise a far passare ad una ad una le buste delle lettere, i pezzi di carta ed ogni altro oggetto, razzolando per buona pezza nella spazzatura e nella polvere, come se avesse a scoprire un tesoro. In quel basso lavoro il poverino s'insudiciava gli abiti abbastanza eleganti, si lordava la faccia grondante di sudore, ed appariva simile a quella gente, che vanno a cercare nelle spazzature delle pubbliche vie, colla speranza di trovare il soldo, onde comperarsi un tozzo di pane e campare la vita.

                - Mi rincresce assai, prese a dire D. Bosco.

                - Che le rincresce? domandò il Grasselli.

                - Mi rincresce il vedere un pari suo a fare questo vile mestiere.

                - Ha ragione; ma l'impiego, l'onore, il dovere...

                - Io vi compatisco tutti, continuò D. Bosco, e sono persuaso che se foste in libertà non vi avvilireste a questo [562] modo. In quanto a me vi assicuro che amerei meglio fare lo spazzino di strada, che imbrattarmi gli abiti e la persona in questa guisa. E poi un avvocato, un giudice, un pubblico funzionario, un uomo che alla Regia Università conseguì onoratamente la laurea, così distinto come tutti dicono, onore del foro, con una posizione indipendente, vedersi ora costretto a lordarsi così!

                - È vero, è vero... Oh! maledetta necessità!

                - Olà, ripigliò allora il delegato, è bene di abbreviare le cose. Don Bosco ci dia le carte che cerchiamo, e noi ce ne andremo subito.

                - Abbiate la compiacenza di dirmi quali carte desiderate da me.

                - Quelle che possono interessare le viste fiscali.

                - Non posso darvi quello che non ho.

                - Ma ella può forse negare di avere carte, che possono interessare le viste fiscali? Scritti, per es., riguardanti ai Gesuiti, a Fransoni, al Papa?

                - Vi do piena soddisfazione; ma voi ditemi prima se credete a quello che vi dirò.

                - Sì, crederemo, purchè ci dica la verità.

                - Ciò vuol dire che voi non siete disposti a credermi, perciò è inutile ogni mia asserzione.

                - Ma si che le crediamo, soggiunse l'avvocato Grasselli.

                - Le crediamo come al Vangelo, aggiunsero gli altri.

                - Se voi mi credete, proseguì Don Bosco, andatevene pure pei fatti vostri; poichè nè in questa camera, nè in alcun angolo della casa voi non troverete cosa che disdica ad onesto sacerdote, perciò niente che vi possa interessare.

                - Ma pure, ripigliò l'avvocato Tua, fummo assicurati che esiste presso di lei il corpo del delitto, e che a forza d'indagini lo troveremo. [563]

                - Se non volete credermi, perchè interrogarmi e farmi parlare? Ma, ditemi, in buona grazia, siete persuasi che io sia uno sciocco?

                - No, certamente.

                - Ma se non sono uno sciocco, non ho di certo lasciato cose compromettenti, che potessero cadere nelle vostre mani, e se le avessi avute le avrei prima d'ora stracciate o trafugate. Ora continuate pure la vostra perquisizione, e vedrete coi vostri occhi come io sia sincero.

                Rovistato inutilmente il cestone que' tre signori si avvicinarono al tavolino per esaminare tutti gli scritti che vi erano sopra. D. Bosco poco prima erasi avveduto di una sua dimenticanza che poteva cagionare grave conseguenza. Su quel tavolino stava un foglietto, copia di un telegramma in cifra che il Governo aveva spedito da alcune settimane a certe Autorità del Regno. Era caduto in sua mano per un singolar accidente. Un giovane telegrafista, che ne' tempi andati aveva frequentato l'Oratorio, trasmettendo quel telegramma, avevalo copiato per capriccio senza capirne nulla, e lo teneva nel portafoglio. Incontrato per via D. Bosco glielo faceva vedere e D. Bosco che era esperto nel decifrare que' segni lo pregava a volerglielo cedere.

                - Prenda pure e si diverta - aveagli risposto il telegrafista ridendo. D. Bosco ritornato a casa si era posto a studiare quelle cifre e non tardava a trovarne la chiave. Erano cinque o sei coppie di numeri arabici precedute da un: Si dia, delle quali ecco il significato: - Si dia nulla a Garibaldi, si neghi tutto ciò che domanda, ma si lasci prendere tutto ciò che vuole. - Garibaldi infatti si era mosso al conquisto della Sicilia asportando da qualche batteria marittima armi e munizioni; mentre le sentinelle avevano per consegna di non vedere. [564]

                Ora questo telegramma era là spiegato sul tavolino colla sua traduzione, perchè D. Bosco voleva mandarlo al Vescovo d'Ivrea che amava i documenti storici. Se fosse caduto in mano agli inquisitori avrebbe potuto compromettere il telegrafista per violazione di segreto; e D. Bosco stesso, dando occasione di sospettare che si trattasse di congiura per mettere sull'avviso coloro ai quali si muoveva la guerra. Pertanto D. Bosco sedutosi, fece destramente scorrere quel foglietto in sua mano e, ridottolo fra le sue dita a piccolissima pallottola, lo lasciò cadere per terra e vi mise un piede sopra. Nessuno si avvide di quel giuoco da prestigiatore.

                Allora tutti gli armadi, i bauli, i cancelli, i forzieri vennero aperti, ed ogni minuta carta, ogni oggetto confidenziale o non confidenziale fu passato a rivista, con una diligenza degna di miglior causa.

                D. Bosco scorgendo che la cosa sarebbe andata in lungo, credette di occupare il tempo in cose più utili, e con quella calma, che non mai abbandona l'uomo giusto e confidente in Dio: - Signori, disse loro, facciano pure quello che debbono fare; io sbrigherò questa corrispondenza: così non perderemo tempo. - E si pose allo scrittoio per soddisfare ad alcune lettere, la cui risposta era in ritardo. Visto ciò l'avvocato Grasselli gli disse:

                - Ella non può scrivere alcuna cosa senza che sia da noi veduta.

                - Padronissimi, rispose D. Bosco; vedete pure e leggete quanto io scrivo.

                Egli dunque scriveva, ed essi in numero di cinque, l'uno dopo l'altro leggevano le sue lettere. Ma avveniva che prima che una fosse letta da ciascuno, egli ne avesse già subito un'altra bell'e preparata da presentare; per cui il Delegato ebbe a dire: [565]

                - Che facciamo noi? Perdiamo il tempo a leggere le lettere, che scrive D. Bosco, e non attendiamo al lavoro, che forma lo scopo della nostra visita. Vogliamo forse aspettare che D. Bosco finisca la sua corrispondenza? Non è certo così minchione da scrivere sotto i nostri occhi cose che possano servir di accusa contro di lui. Facciamo pertanto così: Un solo di noi legga le lettere e gli altri continuino la perquisizione; - e così fu fatto.

                Qui occorsero alcuni episodii, che giovarono non poco ad esilarare gli animi e a volgere in comedia una rappresentazione, che aveva l'aria di una tragedia. Nel visitare un cassettone trovarono chiuso un cancello.

                - Che c'è qui? domandarono con premura.

                - Cose confidenziali, cose segrete, rispose D. Bosco dal suo scrittoio; non voglio che alcuno le sappia.

                - Che confidenza, che segreto! Venga tosto ad aprire.

                - Non voglio assolutamente. Credo che ognuno abbia diritto di serbare nascoste quelle cose che gli possono tornare ad onore o ad infamia; perciò vi prego di passare ad altro; rispettate i segreti di famiglia.

                - Che segreti d'Egitto! o venga ad aprire o rompiamo il cassetto.

                - Giacchè minacciate la forza, io cedo e vi compiaccio.

                In così dire D. Bosco si alzò dal tavolo e andò ad aprire il cancello. Ciò fatto, ritornò a scrivere, lasciandoli che esaminassero a loro bell'agio. I cinque inquisitori, come sicuri di vedere comparire il corpo del delitto, si fanno ansiosamente attorno come per circondarlo onde non isfuggisse, ed aprono tanto d'occhi sopra un mazzetto di carte. L'avvocato Tua se ne impadroniva tosto di tutte per esaminarle, e gongolante di gioia pareva che dicesse: - È qui, è qui, Comincia pertanto a trarre fuori un foglio e legge sì che [566] tutti odano: - Pane somministrato a D. Bosco dal panattiere Magra: Debito, lire 7.800.

                - Eh.… questo non interessa le viste fiscali - dice l'avvocato, e lo mette in un canto. Ne toglie un altro e, legge: - Cuoio somministrato al laboratorio dei calzolai di D. Bosco: Debito, lire 2.150.

                - Ma che carte sono queste? domandò allora il perquisitore a D. Bosco.

                - Poichè avete incominciato, rispose, continuate e il saprete.

                Aprono un terzo foglio, un quarto e via, e si coprono tutti di vergogna, accorgendosi che quelle carte altro non erano che note di olio, di riso, di paste, e simili; note tutte ancora da pagare!

                - Perchè ci corbella così? - disse il Delegato a Don Bosco, dopo essersi accertato della burla.

                - Io non corbello nessuno, questi rispose. Non amava che i miei debiti fossero a voi altri palesi: voi invece avete voluto vedere e sapere tutto: pazienza! Se vi compiaceste almeno di pagarmi qualcuna di queste note, fareste un'opera di carità. Anzi sarebbe molto bene che le faceste vedere al Ministero dell'Interno.

                Quei signori si posero a ridere e passarono ad altro.

                Tra le varie carte trovarono nell'archivio il prelodato Breve del Santo Padre Pio IX, e volevano portarlo via.

                - Non voglio, disse D. Bosco, perchè è un testo originale.

                - Appunto perchè è un testo originale, rispose il Delegato, dobbiamo sequestrarlo.

                - Piuttosto ve ne do copia.

                - Dov'è la copia ?

                - Eccola stampata in questo foglio e in questo fascicolo delle Letture Cattoliche. [567]

                - Ma non è l'originale.

                - Ma è identica.

                - È una traduzione.

                - Ma vi è anche il testo preciso.

                - Vediamo, soggiunse l'avvocato Grasselli, e si pose a verificare linea per linea, parola per parola. Veduto poi che lo stampato era conforme all'originale, conchiuse: - Per noi è meglio avere questa copia, in cui vi è latino e italiano, più facile ad intendersi; - e si contentarono dello stampato, lasciando l'originale manoscritto, che D. Bosco custodiva come preziosa memoria.

                Rovistate tutte le carte e incaponendosi gli inquisitori di trovare ad ogni costò qualche cosa, che potesse interessare le viste del fisco, onde farsene un vanto presso i loro capi, si diedero poscia a cercare nella camera attigua che serviva di biblioteca. Quindi incominciarono a tirar giù i volumi volendo sfogliarli tutti per accertarsi che non contenessero carte. Sollevossi un polverio non indifferente. D. Bosco allora si alzò dalla sedia avendo tenuto sino a quell'istante, nascosto sotto il piede quel telegramma, che ormai era tutto coperto dalla polvere dei mattoni, che formavano il pavimento. Entrato nella biblioteca, esclamò:

                - Bravi, signori miei, disse D. Bosco; li ringrazio della loro degnazione nello spolverarmi i libri. È molto tempo che non ho potuto far simile lavoro, perchè sono troppo occupato. E chi sa per quanti mesi ancora e forse anni la mia biblioteca avrebbe aspettato un simile ripulimento, se non fosse che per loro bontà si prendono questo incomodo.

                Gli inquisitori strinsero alquanto le labbra dissimulando quella frecciata che li feriva. Tuttavia la franchezza di Don Bosco li padroneggiava. Un di costoro aveva trovata una carta nella quale vi era questa sentenza un po' troppo [568] clericale. In tutti i tempi quando si volle abbattere la religione si incominciò dal perseguitare i suoi ministri. Erano già contenti di questa scoperta, quando uno vi lesse sotto queste parole Marco Aurelio: e disse al compagno: - Tu lo sai chi sia Marco Aurelio? - Non ebbe risposta e borbottavano fra di loro: - Marco Aurelio: Marco Aurelio!

                - Se vogliono vedere il volume dal quale è tratta questa sentenza, è là: - disse D. Bosco indicandolo.

                Uno prese tosto il volume e leggendo disse: - Marco Aurelio! Chi era Marco Aurelio?

                - Signori miei, rispose D. Bosco, Marco Aurelio fu uno dei persecutori dei Cristiani, uno di quelli che si valevano della forza per opprimere la debolezza e l'innocenza.

                - È dunque da questo libro che potremo conoscere i suoi sentimenti?

                - Leggano, leggano pure e troveranno che Marco Aurelio faceva fare perquisizioni nelle case dei Cristiani e nelle loro Catacombe per cercar prove colle quali condannarli.

                Tutti si erano aggruppati intorno a quel libro, ciascheduno volendo esaminarlo. - Ben detto! È a proposito, - mormoravano fra di loro.

 

 

CAPO XLI. Ancor della Perquisizione - Opportuno incoraggiamento dato a D. Bosco dal Can. Anglesio - I Bollandisti - La confessione - Sospetti di un nascondiglio - Un'altra raccomandazione di Farini per un giovane da ricoverarsi - Scherzo della Provvidenza - Si stura una bottiglia; i brindisi -La fine della perquisizione - Verbale e prova d'innocenza - I fiscali partono: gioia dei giovani - Preghiere in tutti gli Istituti per D. Bosco - Delirio di un giovane al falso annunzio che D. Bosco è prigioniero - D. Bosco avvisa D. Cafasso degli ordini ministeriali al Fisco - D. Bosco compra un foglio che sparla di lui - Continue visite di condoglianza all'Oratorio - Articoli dell'Armonia e della Gazzetta del popolo - Don Bosco pensa ad ampliar L'Oratorio -Parlata al Capitolo di questo disegno - Trattative per comperare casa Filippi - Generosa offerta del Cavalier Colla - Ragione del coraggio di D. Bosco in simili ampliamenti.

 

                Alle quattro ore, Reano Giuseppe, terminata la scuola ai giovani esterni si recò nella camera di D. Bosco per vedere come andassero le cose. Lasciò scritto: “Lo trovai in piedi nell'atto di correggere gli stamponi delle Letture Cattoliche; e l'udii esclamare: - Ma cosa vogliono trovare in casa di un povero prete? [570]

                - Il Delegato gli rispondeva: - E non sa ella che alle volte si può trovare il corpo del delitto e che lei non sappia nemmeno d'averlo? Da lei in fuori non vi sono altri in questo Oratorio? E poi perchè non si vede in queste camere l'effigie di Vittorio Emanuele?

                “D. Bosco a sua volta: - Perchè non vi è legge che mi obblighi. Loro Signori guardino bene, non vedranno neppure quella di Pio IX!

                “Uscito dalla camera di D. Bosco, D. Alasonatti mi fece chiamare e mi consegnò 200 lire da portare in Torino al costruttore Delponte. Ma ad ogni passo che si faceva in casa s'incontravano guardie di pubblica sicurezza e nel cortile e alla porta e all'ombra dei gelsi, nel prato innanzi all'Oratorio. Mentre io voleva uscire le guardie me lo impedirono; ma a furia d'insistenze, esponendo la premura di fare un pagamento e con un buon spintone dato a tempo, me la cavai. Dopo mezzora compiute le mie commissioni, rientrava in casa e andai in camera di D. Bosco per assicurarmi che nulla fosse accaduto di nuovo. Gli inquisitori continuavano sempre a fargli domande”.

                Nello stesso tempo uno dei più stimati personaggi della città volle compiere un caritatevole ufficio verso D. Bosco. Fu questi il Can. Luigi Anglesio, Superiore della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Il sant'uomo, per la vicinanza del luogo avendo saputa la cosa, si portò immediatamente all'Oratorio per parlare con D. Bosco; ma giunto alla porta, gliene ne fu dai poliziotti proibita l'entrata, come estraneo. Disse pertanto al portinaio: - Va, chiama Don Bosco e digli che debbo parlargli dì cose d'urgenza. Il portinaio andò, ma D. Bosco era in mezzo ai perquisitori e non poteva allontanarsi; d'altra parte il Delegato non glielo avrebbe permesso. Il portinaio ritornò dicendo come non [571] gli fosse stato possibile avvicinare D. Bosco e pregava il Canonico a volerlo attendere.

                - Ho premura, non posso, rispose il Canonico e visto il Chierico Giovanni Boggero, lo chiamò e gli disse: - Vada da D. Bosco e gli dica da parte mia che si faccia animo e prenda fiducia. Oggi l'Oratorio di S. Francesco di Sales è messo dal Signore alla prova; ma da questo istante lo ha benedetto in modo speciale, e sarà consolidato. Da qui innanzi prenderà tale sviluppo ed incremento, che porterà i suoi benefici influssi fuori di Torino e in molte parti del mondo. - E fu profezia.

                Gli uomini del Fisco intanto continuavano a togliere libri dagli scaffali, ed uno di loro preso in mano un grosso volume dei Bollandisti, domandò a D. Bosco: - Che cosa sono questi libracci ?

                - Sono libri dei Gesuiti, che per niente vi riguardano; lasciateli stare e si passi ad altro.

                - Libri dei Gesuiti! esclamò colui: siano tutti sequestrati.

                - No, osservò il Delegato, son troppo grossi e ci andrebbe un mulo a portarli via: anzitutto si osservi che cosa contengono.

                Quel primo per non dare a divedere che non sapeva leggere nei libri grossi, aperse il volume che aveva tra mano e continuò a leggere per quasi una mezz'ora; infine disse: - Vadano alla malora questi libri e chi li ha scritti! non se ne capisce un'acca: son tutti latini. Se fossi re, vorrei abolire il latino, e proibire di stampare libri in questa lingua. Insomma che cosa contengono questi volumi? Quali argomenti trattano ?

                - Le vite dei santi. Questo che voi leggete, rispose Don Bosco, contiene la vita di S. Simone Stilita. Udite un istante [572] tutti: Quest'uomo straordinario atterrito dal pensiero dell'inferno, pensando che aveva un'anima sola, e temendo di perderla, abbandonò patria, parenti ed amici, e andò a fare vita santa nei deserti. Salì poscia e visse molti anni sopra una colonna, gridando sempre contro agli uomini del mondo che pensano soltanto a godersela, senza badare alle pene eterne, che nell'altra vita stanno preparate per coloro i quali vivono malamente sopra la terra. - E sfogliando quel volume, continuava: - Tratta anche di altra brava gente, vedano, che per non andare a casa del diavolo, furono obbedienti alle leggi di Dio e della Chiesa. Osservino questo santo, e accennava l'intestazione della pagina, questo santo si confessava una volta per settimana. Quell'altro, e, mostrava un'altra intestazione, si confessava due volte alla settimana. Quest'altro, poi si confessava tutti i giorni, e quest'altro che vien dopo .....

                - Basta, basta D. Bosco!

                - E basti! Ma osservino che tutti coloro dei quali si leggono le gesta in questi libri, hanno sempre fatta la Pasqua tutti gli anni, come spero che saranno loro pure, o miei signori, soliti a farla.

                A questa sparata a bruciapelo quei bravi signori risposero. - Oh! già!... già!…: diacine...: non creda poi che noi sicuramente…! - E i Bollandisti furono rimessi al loro posto. In quel mentre un inquisitore gli diceva: -Ma, D. Bosco, se continua un poco in queste prediche dovremmo andarci tutti a confessare.

                - Appunto, appunto, rispose D. Bosco. Oggi è sabato, e domani la solennissima festa della Pentecoste. Verso le ore cinque cominciano le confessioni de' miei cari giovani. Che bell'esempio dareste, se voi foste i primi!

                - Sarebbe cosa veramente degna di essere tramandata [573] alla posterità, osservò l'Avvocato Tua, se la nostra perquisizione andasse a finire nella confessione.

                - Bene! Optime! Preparatevi dunque, proseguì Don Bosco, e io impiegherò per voi assai volentieri tutta la sera, e con maggior vantaggio che non è la perquisizione.

                - Eh! per me sarebbe inutile, aggiunse l'Avv. Grasso; per ora mi manca il pentimento.

                D. Bosco sorrideva.

                - Ma come va questo, osservarono quei signori, in tutte quelle case nelle quali andiamo è uno spettacolo d'orrore. Là cade una svenuta, qui un'altra ha le convulsioni, in un luogo vi è uno che piange, altrove uno che grida e lei ride è tranquillo e ci tien tutti allegri. Perchè?

                - Perchè, rispose D. Bosco, io son tranquillo? non ho paura. Non è possibile che mi trovino cose che mi compromettano. La loro visita è una burla e nulla più.

                Intanto quei signori avevano i panni tutti sporchi di polvere, di ragnateli e del bianco color del muro. Pulivansi le mani coi fazzoletti, storcevano il collo guardando sulle proprie spalle e soffregavano e scuotevano leggermente i panni. D. Bosco li guardava con aria di compassione e l'Avv. Tua brontolava: - Se non fosse la speranza di maggior avanzamento .......

                Mentre così andavano e venivano per la stanza, parve ad uno di costoro che sotto il pavimento vi fosse un vano risuonante e dubitò di un ripostiglio: - Che cosa c'è qui sotto? interrogò.

                - Che cosa vuole che ci sia?

                - Si sente un rimbombo; c'è del vuoto.

                - Certo che il pavimento è pavimento.

                - Or bene mandi a chiamare un muratore.

                - E che cosa faremo del muratore ? [574]

                - Per rompere e per vedere che cosa c'è qui sotto.

                - Bravi signori! Si prendano essi questo fastidio, io non ci ho gusto a rovinar la mia camera.

                Intanto quel fiscale andava battendo fortemente le pianelle col tacco onde accertarsi. D. Bosco rivolto allora agli altri e sorridendo: -Scusino, dirò una facezia; ma quel Signore che batte il pavimento con tanto fracasso ha forse i piedi ferrati?

                A questa osservazione, della quale intesero benissimo la portata, dissero al compagno: - Ben ti sta; giusta osservazione. Ma lei D. Bosco dica; qui sotto c'è proprio nessun nascondiglio ?

                - Se vogliono saperlo, sanno come fare. Guardino.

                - Parla con tanta franchezza, dunque possiamo risparmiarci questa noia.

                In quell'istante entrava il fattorino della posta con un grosso fascio di lettere del giorno. Fu subito afferrato dai fiscali, i quali incominciarono a disuggellare le lettere. Ed ecco la prima lettera è niente meno che dello stesso Ministro degli Interni che raccomandava un altro giovanetto:

                Carlo Luigi Farini, il quale temeva che D. Bosco mettesse a repentaglio le sorti future del regno d'Italia, nello stesso tempo raccomandavagli i suoi protetti per la terza volta.

                Ecco il testo della nuova raccomandazione:

 

Ministero Dell'Interno -.Divisione 5 - N. 1470] Torino, addì 23 maggio 1860.

 

                Giuseppe Raspino di Govone ha fatto calde istanze verbali perchè il Ministro volesse accompagnare al Sig. Sacerdote Bosco una domanda per ricovero nell'Ospizio di S. Francesco di Sales in Valdocco di un suo nipote Fulgenzio Craveri, di circa anni dieci, il quale appartenente ad onesta, ma povera e numerosa famiglia [575] e orfano di padre, ha la madre affetta da ricorrenti pazzie e non è in grado di apprendere una professione, che lo metta nella condizione onorata cui apparteneva il genitore.

                Poichè a tale intento eminentemente risponde l'Ospizio diretto dal Sac. Bosco, lo scrivente aderisce di buon grado al desiderio del ricorrente, trasmettendogli la domanda corredata dalla fede di nascita del giovane Craveri e un'attestazione a lui favorevole della Giunta Municipale di Govone, nella lusinga che il Signor Direttore voglia anche in questo caso compiacersi di accettare in un epoca più o meno rimota l'orfano Craveri nel suo Ospizio, come già ebbe ad aderire anche di recente per altri casi consimili.

                Quando l'accettazione fosse decisa, il Ministero non mancherà di disporre pel pagamento del contributo di lire 150 una volta tanto a carico dello Stato, da effettuarsi dopo che sarà seguito il ricovero del Craveri.

D'ordine del Ministro

SALINO

 

                               Al Sig. Sacerdote Giovanni Bosco Direttore dell'Ospizio di S. Francesco di Sales in Valdocco - Torino.

 

                - Contacc! I gridò colui che l'aveva in mano: guardate! Ci mandano a fare le perquisizioni, ci spingono a fare vitacce di questo genere e tengono corrispondenze coi sospetti inquisiti.

                - Signori! esclamò D. Bosco; hanno conosciuta quella firma? Sembra loro leale e generoso questo modo di procedere? In casa i raccomandati dal Ministero, o da persone addette a' suoi ufficii o a quelli del Municipio sommano a 15. Ma io perdono tutto e voglio contraccambiare l'iniquità con un atto di carità.

                Gli inquisitori allora senza più gettarono le altre lettere ancor suggellate sul tavolino, senza curarsi di esaminarle. Se le avessero aperte ne avrebbero trovata una spedita da Roma, la quale, per sè innocentissima, pure avrebbe potuto [576] diventare corpo di delitto e far arzigogolare chi sa quali congiure contro le istituzioni dello Stato. Quanto è buono il Signore e come scherza in cento modi in aiuto de' suoi cari!

                Intanto erano già trascorse quasi tre ore d'inutili ricerche; e i cinque perquisitori e per l'affacendarsi nel loro ingrato uffizio, e per la polvere che avevano dovuto assorbire nel rimovere e scartabellare vecchi libri, e pel caldo che faceva nella camera, avevano tutti la gola asciutta ed arsa dalla sete. D. Bosco se ne accorse e ne ebbe compassione. Era entrato poco prima in camera il giovine Giuseppe Buzzetti, sotto colore di fare a D. Bosco una commissione, ma in realtà per vedere se gli occorresse qualche cosa, e D. Bosco gli diede ordine di portare da bere. In quell'ora i giovani studenti erano già usciti dalla scuola, e stavano facendo ricreazione quasi in silenzio. Se ne vedevano varii gruppi qua e là pel cortile a discorrere tra il timore e la speranza; altri andavano e venivano dalla chiesa a pregare pel buon esito della cosa; tutti poi erano ansiosi di vedere la fine di quell'affare così disgustoso che li teneva tutti in pena. Quando videro Buzzetti con sottocoppa in mano, con bottiglia e bicchieri, apersero il cuore alla speranza e diedero segni di grandissima gioia, ritenendo che non vi fosse pericolo per D. Bosco.

                I perquisitori ormai convinti che D. Bosco non era persona da inspirare timori agli uomini del Governo, scorgendo ancora la bontà e cortesia, che usava loro nell'atto stesso che essi compivano contro di lui un incarico odiosissimo, finirono per concepirne stima ed ammirazione: lo ringraziarono e bevettero tutti insieme allegramente, brindando alla sua salute.

                Questo fatto, le lepidezze precedenti e le amorevoli parole di quando in quando loro rivolte, avevano in certo [577] qual modo reso D. Bosco padrone del cuore dei suoi perquisitori; onde bevuto che ebbero, ei fece loro notare essere giunta l'ora in cui al sabato si metteva a confessare. Perciò li pregò o che lasciassero venire i giovani in sua camera come erano soliti, oppure cominciassero eglino stessi a fare la propria confessione.

                - Io ne ho bisogno, disse uno.

                - Io pure, soggiunse un altro.

                - Ed io più di tutti, concluse l'Avv. Grasselli.

                - Dunque, ripigliò D. Bosco, cominciamo.

                - Se facessimo questo, osservò il Delegato, che direbbero mai i giornali?

                - E se voi andate a casa del diavolo ripetè D. Bosco, i giornali e giornalisti verranno forse a liberarvi ?

                - Ha ragione, ma... contacc... basta... un'altra volta... un'altra volta.

                Intanto tra un discorso e tra un fatto e l'altro suonarono le ore 6 di sera. Avevano rifrustato per ogni angolo della camera di D. Bosco e della vicina biblioteca, ma le loro indagini erano riuscite infruttuose. I perquisitori non avevano solamente più sete, ma appetito. D. Bosco alla sua volta era chiamato ora dall'uno ora dall'altro della casa e con insistenza per molti affari della famiglia; anzi i giovani soliti a confessarsi da lui volevano entrare in camera e cominciavano ad altercare colle guardie, che li respingevano. Laonde i fiscali fatte ritirare le guardie dai luoghi dove erano state poste, giudicavano di venire ad un accomodamento e conchiudere coll'andarsene; ma Don Bosco si oppose.

                - Fate un verbale del vostro operato, diss'egli, e poi partirete.

                - Lo faremo in uffizio, rispose il Delegato. [578]

                - Non conviene nè a voi, nè a me, soggiunse D. Bosco. - Perchè?

                - Perchè voi potreste variare lo stato delle cose, come potrei fare anch'io; perciò sia fatto qui il dovuto verbale.

                - Ma se non abbiamo trovato niente.

                - Fate un verbale negativo, in cui si esprima non essersi trovato nulla.

                - Lo sottoscriverà anche lei?

                - Fatelo qui secondo la verità e lo sottoscriverò ancor io. - E così fu fatto.

                Ecco il documento:

 

                L'anno 1860, alli 26 del mese di maggio, in Torino, nella casa del molto reverendo Sacerdote D. Giovanni Bosco, tenente convitto di giovani artigiani e studenti, situata in via Cottolengo, casa propria.

                In esecuzione della riverita odierna ordinanza dell'illustrissimo signor Questore di Torino, avv. Chiapuzzi, con cui venne prescritto,di procedere ad una minuta perquisizione domiciliare nella casa anzidetta, ci siamo noi sottoscritti Grasso Savino, Delegato di pubblica sicurezza, Tua Avvocato Stefano e Grasselli Avvocato Antonio, ispettori, il primo della sezione Borgo Dora e l'altro a quella di Moncenisio, e colla scorta delle guardie di sicurezza pubblica, trasferiti nella suddetta località, ove giunti, avuta la presenza del predetto Sacerdote D. Giovanni Bosco, s'è notificato al medesimo lo scopo di tale trasferito, e quindi si è passato in di lui concorso ad una diligente visita in tutti gli angoli, ripostigli, carte e libri esistenti nelle due stanze, che servono di abitazione del medesimo; ma, a fronte delle più esatte ricerche, nulla si rinvenne che interessar possa le viste fiscali.

                Di quale operato tutto si è fatto constare col presente verbale, che venne in conferma da tutti quanti gli intervenuti sottoscritto, annotando che copia uguale venne rilasciata al prelodato Sacerdote dietro una sua richiesta. Sottoscritti: GRASSO SAVINO Delegato - TUA Avv. STEFANO, Ispettore - GRASSELLI Avv. ANTONIO, Ispettore.  [579]

                Verso le ore 6 e mezzo i perquisitori se n'andavano dall'Oratorio recando alla questura la carta originale della dichiarazione; e le guardie levavano l'assedio.

                Appena partiti, Don Bosco fu l'oggetto delle più affettuose attenzioni dei suoi cari giovani, i quali fecero tosto con lui quasi come un giorno gli angeli nel deserto praticarono col divin Salvatore, quando fu lasciato libero da un certo perquisitore, di cui ci parla il Vangelo. Chi pertanto gli domandava se avesse bisogno di qualche cosa, chi piangeva di consolazione per vederlo libero, chi voleva sapere quello che gli avevano fatto e detto quei signori in quelle lunghissime ore, chi disapprovava quell'atto ostile e via dicendo: ed egli con volto sereno e col sorriso in sulle labbra rispondeva agli uni, consolava gli altri, a chi sparlava imponeva silenzio, e tutti invitava a ringraziare Iddio, che li avesse fatti degni di patire qualche cosa per suo amore.

                Tale fu la prima perquisizione la quale non riuscì ad altro che a soddisfare la borsa di qualche spia del Governo e ad appagare la vendetta di qualche delatore, recando non lieve disturbo alla casa. L'innocenza di D. Bosco e quella di tutti coloro i quali abitavano nell'Ospizio era dunque altamente constatata. Quel verbale, di cui fu conservata copia nei nostri Archivii, avrebbe quindi dovuto persuadere quei certi rappresentanti del Governo di lasciare in pace D. Bosco; ma pur troppo non doveva essere così.

                D. Bosco era uscito incolume da quel primo terribile frangente, poichè lo scopo della visita poliziesca era precisamente di trovare un pretesto per sradicare l'opera sua. Ma le preghiere di migliaia di anime buone avevano sventato il desiderio dei peccatori. Il falegname Coriasco sopranominato Gioanin, che, abitava nella sua casetta presso [580] l'Oratorio, nel sito ove attualmente si trova la nostra libreria, al comparir delle guardie era corso smanioso, piangente al Cottolengo, al Rifugio, all'opera di S. Pietro, alle Orfane e ad altri pii Istituti dicendo a tutti: -Pregate, pregate; fanno la perquisizione a D. Bosco: vogliono condurlo in prigione.

                Quindi ritornato alla sua casetta dopo aver spiato e cercato di aver notizie, ogni mezz'ora ripigliava il suo giro, correndo e dicendo: -Pregate, pregate; le guardie sono ancora nell'Oratorio! - Finalmente in sull'Ave Maria fu visto comparire tutto lieto sulle porte di quelle case benedette coll'annunzio: - Ringraziate il Signore! Le guardie sono andate via e D. Bosco è libero.

                E questa fu una vera grazia della Madonna, perchè era talmente decisa la carcerazione di D. Bosco, che il giornale La Perseveranza, nella stessa mattina, aveva data la gran notizia che D. Bosco era stato tradotto alle prigioni del Senato. Questa notizia fu causa di una scena commovente. Il giovane Gastini, il quale con varii altri giovani dell'Oratorio, andava a lavorar fuori presso capi d'arte esteri e nelle loro botteghe, dopo aver pranzato, ritornava al suo posto, senza nessun sospetto che la invidiabile pace della casa sarebbe stata fra pochi istanti turbata sì gravemente.

                Mentre lavorava ad un tratto gli si avvicinò un compagno, dicendogli: - Ho una notizia da darti! Il tuo D. Bosco è in prigione. - A Gastini caddero di mano i ferri del mestiere e gridò con angoscia: -Che cosa hai detto? -Che D. Bosco è in prigione; leggi questo foglio. - E glielo porse.

                Gastini lesse, cambiò colore in volto, uscì dalla bottega e a precipizio corse verso l'Oratorio. Si cacciò dentro cogli occhi quasi fuori delle orbite e gridava: - Dov'è D. Bosco, dov'è D. Bosco? Voglio vederlo. [581] D. Bosco stava ancora sotto i portici, ma Gastini era talmente fuori di sè,che non lo vide e continuava a chiedere: - Dov'è D. Bosco, dov'è D. Bosco? - I compagni glielo indicarono, anzi lo condussero dov'era. Gastini subito non lo riconobbe, ma poi calmatosi a poco a poco, scoppiò in pianto e si gettò nelle sue braccia, esclamando: - Ah! D. Bosco! È proprio Lei?

                Anche Villa Giovanni alla voce sparsa in Torino e riportata dai giornali della prigionia di D. Bosco, all'indomani, festa della Pentecoste, era corso all'Oratorio per informarsi dell'accaduto; e lo trovò in chiesa che confessava. Ritornato dopo pranzo lo vide in mezzo a più di duecento giovani, e avvicinatosi a lui, gli disse: - In Torino si va dicendo che D. Bosco è in prigione; ed invece D. Bosco è qui prigioniero in mezzo a' suoi giovani.

                D. Bosco nella seconda festa di Pentecoste si affrettò a recarsi al Convitto di S. Francesco d'Assisi per mettere sull'avviso D. Cafasso e suggerirgli le precauzioni da prendersi per eludere una perquisizione che sembrava imminente. D. Cafasso, nell'udire i termini precisi dell'ordine ministeriale, non turbossi. Esclamò solamente: - Hanno posto Gesù sulla Croce e perchè dovranno risparmiare noi? Nell'andare e nel venire per la via la gente si fermava meravigliata a guardare D. Bosco, avendo tutti creduto che fosse stato tradotto in carcere.

                Infatti mentre D. Bosco si trovava per la città accompagnato dal giovane Garino all'imboccatura della via allora S. Maurizio, entrandosi in via S. Teresa, udì gli strilloni dei giornali che urlavano: - D. Bosco in prigione: un soldo la copia.-

                Era un foglietto in due paginette. Tutti compravano anziosi di leggere la grande notizia. D. Bosco diede due [582] soldi a Garino, perchè comprasse due copie e rideva saporitamente. Certo che il venditore era ben lungi dal sospettare, che colui il quale comperava in quel momento il foglio, era lo stesso D. Bosco.

                Sparsasi per Torino la notizia della perquisizione, cominciò all'Oratorio un andirivieni di persone, di ogni ceto e condizione, ecclesiastici e laici, nobili e plebei, per fare visita a D. Bosco e condolersi con lui per l'affronto ricevuto e congratularsi per la trama sventata. Tra i primi accorse il Marchese Fassati. La serie de' visitatori si protrasse lunghissima per varii giorni. Molto severi erano i giudizi che ognuno emetteva contro gli ordinatori di quell'atto illegale.

                Al martedì 29 maggio nel giornale l'Armonia usciva alla luce un articolo così concepito:

                Perquisizione nell'Oratorio di San Francesco di Sales.

                Omai non passa giorno che in questa benedetta terra della libertà non abbiamo da registrare o qualche arresto di Vescovi o Cardinali, o qualche processo o imprigionamento di parrochi, canonici o sacerdoti, o finalmente qualche perquisizione domiciliare.

                Sabato alle due pomeridiane toccò a quel gran cospiratore che è il Sacerdote Giovanni Bosco, il quale, come tutti sanno, cospira, sovvenendo alla miseria, ricoverando ed educando i poveri figli dell'operaio, e logorandosi la vita nell'esercizio della carità e del ministero sacerdotale.

                Il fisco sperò che nell'Oratorio di S. Francesco di Sales potessero ritrovarsi alcune carte da interessare le viste fiscali. E fu spedito un drappello di apparitori capitanati da un delegato di pubblica sicurezza e due avvocati ispettori, col mandato di procedere ad una minuta visita domiciliare.

                D. Bosco stava appunto accettando un povero giovine raccomandatogli dal Ministro, quando gli giunse inaspettata questa visita. Egli accolse con la sua solita affabilità gli incaricati della [583] forza pubblica, e sebbene v'avesse molto da dire sulla legalità del proprio mandato, tuttavia sciorinò loro innanzi le carte e le lettere, che trovavansi nella sua abitazione.

                Le ricerche si protrassero dalle due pomeridiane fino oltre alle sei, e il Sacerdote Bosco, che in quel tempo doveva ascoltare le sante confessioni, perchè giorno di sabato e vigilia di Pentecoste, fu costretto invece ad assistere alle operazioni della polizia. E vi assistè con quella giovialità, che è figlia di tranquilla coscienza, cercando di trar frutto da quelle ore d'ozio involontario, col fare ai poliziotti qualche opportuno e cristiano riflesso, e mostrare agli avvocati che non era molto gloriosa l'impresa a cui attendevano.

                Non occorre dire che le più minute ricerche riuscirono a nulla. Non sono i preti che cospirano, e i ministri lo sanno. Due carte diedero un po' da pensare alla polizia tra le tante di D. Bosco. In una trovavasi una sentenza un po' troppo clericale. Ma si venne a scoprire che era una sentenza di Marco Aurelio! Nell'altra contenevasi un Breve del Papa al Sacerdote Bosco, ma trovossi che quel Breve era già stato pubblicato per le stampe!

                Alle sei passate la polizia abbandonava l'Orat. di S. Francesco di Sales, rilasciando al suo Direttore la seguente dichiarazione.

 

                È la stessa che noi abbiamo riferito più sopra. I giornali riportavano i giudizi dell'Armonia, ma da tutte parti il giornalismo settario declamava contro la Casa e l'Opera di D. Bosco perfidiando ad eccitargli contro la popolazione.

                Più inviperiia e più invelenita la Gazzetta del Popolo, non si peritò di tornare alla carica, scrivendo: “Il Fisco; ha proceduto ad una perquisizione al noto D. Bosco, direttore di una nidiata di baciapile in Valdocco; si dice che nulla siasi trovato di compromettente. E che? Non basta al Fisco la Storia d'Italia di questo moderno padre Loriquet, per convincerlo quanto possa essere pericoloso un tale precettore?” Non meno plateali erano le espressioni di cui farciva più altri suoi articoli, indicando sempre l'Oratorio come centro dì reazione, essendo vivaio di preti. [584]

                Ma D. Bosco sentiva l'efficacia di quella promessa: Ego eripiam te de affligentibus te, e risolse di maggiormente ampliare l'Oratorio. La tranquillità del suo animo dimostrava inalterabile speranza nella protezione del cielo.

                Aveva già prima progettato col venerando Padre Anglesio, l'acquisto di caseggiati e terreni attigui per duplicare il numero de' ricoverati, quindi una sera raccolti i membri del Capitolo, disse loro: - La perquisizione ha dato occasione ai giornali sia benevoli, sia nemici di parlare di noi e delle nostre opere. Ecco dunque il tempo opportuno per dilatarle. Il Signore per mezzo di questa angheria ci ha fatti conoscere al mondo: approfittiamoci di questa occasione. I nemici hanno tentato di chiudere l'Oratorio e causa precipua di tanti fastidi furono le delazioni di una persona molto beneficata dalla nostra Casa, che volle apparire spregiudicata in fatto di religione, per ottenere avanzamento nella carriera; e noi domani faremo l'acquisto dei locali attigui della Signora Ganna vedova Filippi. La spesa sarà di 80.000 lire. State tranquilli l'anno Venturo avremo un gran numero di giovani”. Fanno testimonianza d'aver udito questo parole D. Rua, D. Savio Angelo ed altri.

                Dio infatti aveva aperta la via a D. Bosco perchè giungesse a tale acquisto. Ad oriente dell'Oratorio c'era un fabbricato ad uso allora di setificio, appartenente al figlio della vedova Filippi. D. Bosco anche per liberarsi dalla molestia delle vicine operaie, aveva fatte pratiche più volte per comperarlo, ma sempre senza effetto. Ed ecco che dopo la perquisizione, lo stesso proprietario invitò D. Bosco a manifestarsi se voleva tuttavia comperare.

                - Sì, disse D. Bosco, ma ora mi mancano, i danari.

                Per questo non s'inquieti, gli rispose il buon signore; [585] se non può oggi, lo farà domani. Io non ho fretta. - E venne tosto firmato il compromesso.

                Poco dopo giungeva all'Oratorio il Cav. Cotta e D. Bosco gli parlò della compra di casa Filippi e della somma che veniva a costare. Il cavaliere approvò quel contratto e senz'altro disse a D. Bosco: - Faccia pure; per metà della somma ci sono io! - D. Francesia e D. Vaschetti, presenti venne tosto firmato il compromesso.

                Ma oltre la compera era anche necessario adattare quei locali, e D. Bosco ne parlava con due suoi alunni osservando che la spesa non sarebbe inferiore alle 100.000 lire. Uno di quelli, che sapeva essere egli ben lontano dal possedere una tale somma, gli disse: - Signor D. Bosco! Comperare la tale casa, riattarla è cosa utile, va bene: ma e i danari?

                - Siete propriamente uomini materiali! Non sapete che pel Signore dare un'idea buona ad uno e dargli i mezzi per realizzarla, è una stessa cosa? Anzi è molto più difficile il creare questa idea, che dare i mezzi da metterla a compimento! Io tengo questa base in tutte le mie imprese. Cerco prima ben bene che quella tale opera ridondi a maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime: se così è, vo avanti sicuro, che il Signore non lascia mancare la sua assistenza; se poi non è quello che io m'immagino, anzi credo, vada pur tutto in fumo ed io sono ugualmente contento.

                Così egli sperava e parlava, mentre tutti i buoni temevano per lui e alcuni ancora lo biasimavano come eccessivamente audace. “Egli però, scrisse il Can. Anfossi, faceva, con dignità e sempre sorridente il suo cammino, ed io che vissi con lui per tanti anni, mi formava l'idea che ogni sua decisione, non fosse altro che l'effettuarsi di un consiglio ricevuto dall'Alto. Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix”.

 

 

CAPO XLII. Il giorno dopo la perquisizione nell'Oratorio - Apparizione al Re di Napoli della sua santa madre defunta - Varie previsioni di D. Bosco sugli avvenimenti pubblici - Il Segretario del Cardinale Corsi nell'Oratorio - Ordinazione Sacerdotale di D. Savio Angelo - I Chierici dell'Oratorio si recano a far ossequio al Cardinale -Don Cafasso prevede vicina la propria morte - L'Armonia smentisce la falsa notizia sull'imprigionamento di D. Bosco - Sicurezza e tranquillità nell'Oratorio - Lettera di un chierico a D. Bosco perchè gli sveli il suo interno, e lo guarisca da una infermità - La vita di famiglia nell'Oratorio - Generosa carità di D. Bosco per i suoi alunni.

 

                Continuiamo il nostro racconto esponendo alcune notazioni della cronaca di D. Ruffino nella loro nativa semplicità.

                “Il 27 maggio festa di Pentecoste il Canonico Anglesio venne personalmente a congratularsi con D. Bosco della patita violenza e gli ripetè: - Si rallegri nel Signore, mio caro D. Bosco. L'Opera sua fu provata. Quando cominciò la persecuzione contro gli Apostoli, questi uscirono da Gerusalemme e andarono a portare la fede anche in altre città e in altre contrade; e così avverrà della sua istituzione.  [587]

                “Oggi due gendarmi vennero trasvestiti ad assistere alla predica del mattino: due altri a quella della sera. Fra coloro che visitarono D. Bosco vi fu il Can. Nasi ed egli presolo al volo, lo fece predicare al mattino. Il Canonico, parlò della preziosità dell'anima argomentando: 1° dalla sua origine, immortalità, incarnazione del Figliuol di Dio, Angiolo assegnatole per custode, divine ispirazioni; cioè dalla stima che Dio ne fa. 2° dalla stima che ne fa il demonio. 3° dalla stima che ne fanno i santi; dalla costanza dei martiri, dalle fatiche dei missionarii, dalla coversione dei popoli.

                “Alla sera, dopo la predica D. Bosco, che narrò semplicemente la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, tra le molte persone cospicue che vennero nell'Oratorio vi furono pure due colonne della Chiesa: il Teol. Margotti Direttore dell'Armonia e D. Ferrando Direttore del Campanile. Dopo le orazioni fu in casa, per la grande consolazione, un gridar continuo di Viva D. Bosco! I capi delle camerate e dello studio diedero una generale amnistia a tutti coloro che avevano ottenuto un voto poco buono. Era un delirio di gioia. Il nostro trionfo era ancor più sentito perchè un traditore, che dicevasi amico e frequentava la Casa, era andato al Ministero ed aveva narrate mille menzogne a carico di Don Bosco. La perquisizione riusciva per lui ad una umiliante smentita.

                “Alla sera D. Bosco aveva raccontato come i nostri santi protettori veglino sopra di noi; e diceva: - Il Re di Napoli vide in sogno sua madre, la venerabile Maria Cristina di Savoia, la quale gli disse: - Fa coraggio: Napoli è tranquilla: tu, figlio mio, domani venerdì, digiuna rigorosamente. Al mattino gli fu portato, secondo il solito il caffè nel latte, ma non volle prenderlo. Più tardi gli fu presentato di bel [588] nuovo, e lo rifiutò: quei di casa erano tutti attoniti e qualcuno parve turbato per questo rifiuto. Allora il Re venuto in sospetto, disse: - Mi si conduca qualcuno che prenda questo caffè. - Ma vedendo che tutti si rifiutavano, dicendo di averlo già preso replicò: - Andate a chiamarmi il farmacista. - Si andò e venne il farmacista, al quale il Re impose di esaminare chimicamente quel caffè. Quegli obbedì e dopo poco tempo venne a dirgli, che dentro aveva trovato una dose di veleno.

                “Due giorni dopo D. Bosco, parlandosi di Garibaldi in Sicilia, osservava: - Se non interviene il braccio di Dio o la forza di una Potenza straniera, Napoli di per sè non può sostenersi.

                “Il 28 maggio veniva all'Oratorio il segretario del Cardinale Cosimo Corsi Arcivescovo di Pisa, per visitare la Casa coll'Abate Tortone e promise a D. Bosco che sarebbe venuto anche Sua Eminenza, qualora fosse rimesso in libertà.

                “Il 2 giugno D. Savio Angelo era insignito del carattere sacerdotale nella chiesa delle suore di S. Giuseppe, da Mons. Balma Arcivescovo titolare di Tolemaide, il quale aveva preso dimora in Torino. Si fece una festa all'Oratorio, essendo D. Savio il secondo giovane della Casa che ordinato rimaneva con D. Bosco.

                “Il 4 giugno D. Bosco mandava tutti i chierici dell'Oratorio a far visita d'ossequio al Cardinale Corsi e come furono di ritorno, parlandosi dello stato della Chiesa, egli soggiunse: - I mali diminuirono in durata, ma crebbero in intensità”. Fin qui la Cronaca.

                A questa apprensione dei mali che si addensavano sulla Chiesa, se ne aggiungeva un'altra molto amara nel cuore di D. Bosco. Egli scrisse: “D. Cafasso toccava ormai il cinquantesimo anno, età in cui l'uomo ha potuto essere  [589] ammaestrato dall'esperienza intorno alle cose del mondo. Sebbene di gracile complessione e vivesse in continua attività tuttavia godeva di un sufficiente grado di salute scevra d'incomodi: egli non era quasi mai stato ammalato. Però in questi ultimi mesi quantunque logoro dalle fatiche, stanco dalle penitenze e dai digiuni, non cessava di assumersi lavori apostolici di diverso genere. Quand'ecco mutare modi di parlare, di pensare, di operare. Manda a chiamare un Sacerdote con cui era inteso di dettare un corso di esercizi spirituali a S. Ignazio di Lanzo, dicendogli che egli non poteva più andare. Chiestone della ragione non altro risponde: - Ne saprete di poi il motivo. - Egli rinunzia ad ogni occupazione estranea al Convitto, gli stessi ammalati, che soleva visitare con tanta carità, li raccomanda e gli affida ad un altro sacerdote, affinchè ne abbia cura, ed egli quasi sempre chiuso in camera, compie le sue disposizioni testamentarie e mette ogni cosa in ordine come se dovesse partire per l'eternità”. D. Bosco era pensieroso: pregava e faceva pregare.

                Intanto pregavano per lo stesso D. Bosco i suoi numerosi amici sparsi ormai in molte regioni dell'Italia, non sapendo essi quali sarebbero state le conseguenze della perquisizione e quali le sorti del Servo di Dio, che molti continua vano a credere essere chiuso in carcere. Fu perciò necessario, per calmare gli animi turbati di tanti buoni cristiani, dare una smentita ai giornali settarii; e l'Armonia il 3 giugno stampava un articoletto.

                S'è fatto correre voce che l'ottimo sacerdote D. Bosco è stato arrestato. Possiamo assicurare che finora non è vero. Diciamo finora che scriviamo, perchè potrebbe bene avvenire, che, mentre i nostri associati leggeranno ciò che scriviamo, il Sig. D. Bosco [590] sia arrestato. Non già che vi sia il menomo motivo o pretesto, sapendosi da tutti chi è D. Bosco; ma oggidì un prete è fuori della legge; quindi contro di esso ogni cosa è lecita.

                Come ognun vede queste poche righe non rassicuravano pienamente i benefattori dell'Oratorio, i quali immaginavano che i giovani ricoverati si trovassero in grande apprensione pel loro avvenire. Questi invece erano tranquilli, perchè D. Bosco li aveva rassicurati, e prestavano piena fede alle sue parole, persuasi che erano parole di un santo, il quale possedeva lo spirito di profezia. “Questo in D. Bosco, notò il Can. Ballesio, non sembrava un istantaneo fulgore come di rapido baleno nel suo intelletto, ma sibbene che fosse divenuta l'ordinaria condizione della sua mente, per modo che egli profetava, pregando, conversando, celiando; e profetava non accorgendosi quasi più nè egli di profetare, nè altri che egli profetasse”. Il lettore giudicherà dell'asserto dalla continuazione di questi volumi.

                Ma oltre lo spirito di profezia confermavano i giovani nella loro ferma fiducia altri doni straordinarii del Signore, che in lui vedevano risplendere. Una lettera di un chierico molto buono, ma infermiccio, scritta a D. Bosco in questi giorni, rispecchia la stima che tutti avevano pel Servo di Dio.

 

                               Ill.mo e Molto Rev. Signore,

 

                Le scrivo questa lettera per darle ragguaglio del mio male e dimandarne conforto. Io ebbi già speranza che fosse per terminare e anche presto, ma pur troppo mi accorgo che s'impossessa ognor più di me. Cerco di tenermi allegro, ma il riso che pure m'accompagna ancora, è riso di chi diedesi del martello sulle dita. L'avrà da seguitare sempre cosi? Sig. D. Bosco Ella ottenne già tanti favori per altri, che pure soffrivano incomodi, non potrebbe ottenere anche a me la mia guarigione? Io so che non la merito, ma [591] so che il Signore concede anche le più segnalate grazie a chi sa pregarlo e lo prega come si conviene.

                Fu già una volta, or saranno due mesi, che io dissi a Lei: - D. Bosco sogni di me! -

                Ed Ella mi ha risposto: “Sta notte vengo in ispirito a trovarti”. - Durante quella notte io mi svegliai, e, se ben mi ricordo, pregai il Signore affinchè desse a D. Bosco il sogno da me desiderato. Io mi trovava in vero bisogno di parlare e non volevo parlare; e mentre dal sogno desiderato mi augurava che Lei conoscesse ciò che io non le aveva detto, così da me la discorreva: “O D. Bosco sogna e saprà; o non sogna e saprà nulla ed io non gli parlerò”.

                Ma D. Bosco sognò; e chiamatomi a sè, dopo avermi raccontato uno strano accidente occorsomi, quale si è quello di camminare giù pel letto del Po e quel che è più in compagnia dello stesso D. Bosco, mi disse: - Donato, sta tranquillo, procura di tener l'animo tuo in pace.

                Queste parole erano belle e buone, ma io ne aspettava altre; se non che Ella proseguì: - Riguardo a ciò che desideri di sapere ti dirò solamente: Ne timeas ubi non est metus. - Queste ultime mi consolarono .....

                Un fatto recente mi dà buoni motivi a sperare per lo mio bene. Non sono più di quattro settimane ed Ella domandava ad un tale che soffriva un incomodo: - Vuoi tu guarire da questo tuo male?

                E a questo tale che aveva risposto affermativamente, Ella soggiungeva ancora: - E in quanti giorni? - E nel fissato tempo quel malore era scomparso.

                Questi ed altri simili fatti sono troppo lusinghieri da non esserne io mosso a ricorrere a Lei pel mio male. Anzi Le dico in verità, che io venni in tanta speranza di ottenere bene ricorrendo a Lei, che solo al pensarvi io mi sentiva consolato. Ed una volta che afflitto piangeva, provai un vero sollievo meditando di tosto ricorrere a D. Bosco. Qual maggiore consolazione può provare un figlio di quella che prova versando nel seno di suo padre i suoi dolori? - Questa prova mi gioverà almeno per conoscere il volere di Dio a mio riguardo. Mi concederà il Signore di guarire? Io lo ringrazierò di tutto cuore, ed oserei promettere che [592] non mi mostrerò tanto indegno di sì grande favore. Che se a Lui piacesse che io rimanessi nello stato in cui mi trovo, pazienza; se per una parte mi sarebbe doloroso, per l'altra mi sarebbe caro sapendo che Dio lo farebbe per mio meglio.

                Io non dico più altro. D. Bosco conosce quanto debbasi desiderare da me e quanto a me è necessario nel Signore. Perciò io La prego che con quel metodo che Le è proprio mi magnetizzi, s'intrometta per me e trovi modo di consolarmi. Abbia la bontà di perdonarmi se questo parlare è forse troppo famigliare e mi creda della S. V. Ill.ma e molto Reverenda

                Dallo studio, il 3 giugno.

Affez.mo come figliuolo

Ch. DONATO EDOARDO.

 

                               Al sig. D. Bosco.

 

                Senza alcun timore adunque anzi con gran pace e gioia si viveva nell'Oratorio. Quivi respiravasi un'aria di famiglia che rallegrava. D. Bosco concedeva ai giovani tutta quella libertà, che non era pericolosa per la disciplina e per la morale. Quindi non si esigeva che si recassero in file ordinate ai luoghi ove chiamavali la campana; e nella stagione calda tollerava eziandio che nello studio deponessero la cravattina e la giubba. Gli assistenti più volte gli facevano osservare come l'ordine e il decoro esigessero un provvedimento. Ma D. Bosco si adattava a stento a quelle rimostranze, tanto piacevagli andare alla buona, sicchè tutto sapesse di famiglia. Solo anni dopo acconsentì quando il numero dei giovani era straordinariamente aumentato.

                E tutti gli antichi allievi ricordano con indicibile tenerezza questi tempi affermando che loro sembrava di trovarsi sempre nella casa paterna coi loro genitori. E contraccambiavano il loro buon padre con tutte quelle attenzioni, che sa ispirare un figliale affetto. Un giorno D. Bosco era da [593] cinque ore in confessionale ed intorno a lui stava ancora un gran numero di penitenti. Il giovane Merlone pensando che egli avesse necessità di qualche ristoro andò in cucina a fargli preparare una tazza di camomilla e gliela portò in chiesa. D. Bosco l'aggradì molto e gli disse con quella soavità di maniere che gli era propria: - Il Signore ti ripaghi di questa attenzione con darti mensuram bonam, con fertam, coagitatam, superefluentem… in questo mondo e nell'altro. -

                Ed egli era tutto occhi per provvedere alle necessità de' suoi alunni. “Se uno di questi, scrisse Enria Pietro, fosse stato alquanto indisposto, D. Bosco si mostrava premuroso d'interrogarlo: - Come ti senti? Se occorre mandiamo a chiamare subito il medico... Se la tua fosse solamente debolezza allora dirò al Sig. Prefetto che ti cambi il vitto. - Mi ricordo di un chierico mio compagno, il quale dovette andare al suo paese per ordine del medico. Recatosi a salutare D. Bosco la prima cosa che il buon padre gli domandò fu questa:

                - Hai i denari pel viaggio?

                - Sì, rispose il chierico; me li ha dati il Sig. Prefetto.

                - Non hai altra somma che i denari del viaggio?

                - Sissignore. Non di più.

                - Ma quanto tempo ti fermerai a casa?

                - Il medico disse che mi fermassi almeno due mesi, ma io credo che non basteranno per rimettermi in sanità.

                I tuoi parenti non sono ricchi e come farai per non soffrire privazioni? Ah! io non permetto che tu sia di aggravio ai tuoi parenti: prendi: - e gli diede 250 lire soggiungendo: - Appena avrai terminato di spenderle mi scriverai e te ne manderò delle altre; guarda solo di fare tutto quello che il medico ti ha detto. Abbiti riguardo e non [594] stancarti. Saluta i tuoi genitori da parte mia: io ti raccomando tutte le mattine nella Santa Messa”.

                Anche D. Garino Giovanni testifica: “È singolare come fra tante occupazioni si prendesse tanta cura dei chierici e della loro salute. Ogni mese eppure due, immancabilmente domandava a quelli che non potevano essere aiutati dai parenti, se loro occorressero abiti, scarpe, e altri oggetti personali, perchè egli in tal caso parlava o scriveva a qualche ricca signora perchè provvedesse. Per certi altri giovani o chierici, D. Bosco stesso trovava protettori che pagassero per loro un po' di pensione anche in Seminario.

                Qualora incontrasse un giovane addolorato per la grave malattia o per la morte di suo padre, lo confortava, dicendogli: - Da qui innanzi io ti sarò padre: - e ad alcun chierico aggregato alla Pia Società, che tutto in lagrime veniva ad annunziargli la morte della madre, essendo già orfano di padre, lo assicurò con queste parole: - Non dubitare, la Congregazione ti sarà madre”.

                Benedetto D. Bosco! La sua carità ricreava lo spirito, pasceva l'anima, nutriva e ristorava il corpo, sicchè a lui si possono riferire le parole dei Proverbi al Capo XVI: - Il cuore dell'uomo sapiente ammaestrerà la bocca di lui; e aggiungerà grazia alle sue labbra. Un bel parlare è un favo di miele: dolcezza dell'anima, sanità delle ossa.

 

 

CAPO XLIII. Costruzione della porteria e della nuova sagrestia - Buzzelli Carlo Capo mastro dell'Oratorio - Largizioni generose di D. Cafasso per le nuove fabbriche e sua ultima visita all'Oratorio - Regolamento della porteria - Progetto di un'obbligazione di 500 lire per la quale un giovinello avrà diritto a stare nell'Oratorio, finchè non sia compiuta la sua istruzione: Circolare: Osservazione di D. Cafasso - Risposta a certi critici - Causa dell'attività di D. Bosco - È proposta a D. Bosco l'accettazione del Collegio di Cavour - il piccolo Seminario di Giaveno a causa della sua decadenza - Il Can. Vogliotti chiede a D. Bosco un prete ed un chierico per Giaveno; Consiglio di D. Cafasso - Disegni del Municipio sul piccolo Seminario e sua offerta a D. Bosco - Il Can. Vogliolli promuove un accordo fra gli interessi della Curia e quelli del Municipio - D. Bosco aderisce condizionatamente alla proposta del Canonico, che vorrebbe affidargli la direzione del piccolo Seminario - D. Bosco scrive al Sindaco di Giaveno - Altra lettera al Can. Vogliotti: si attende una risposta da Giaveno.

 

                Don Bosco fin da quando incominciarono a rumoreggiare le prime voci di perquisizione, coraggiosamente si accingeva ad eseguire nuovi disegni.

                Il primo fu questo. [596]

                Dalla parte della chiesa presso il portone d'entrata vi erano le due scuole per gli esterni e una stanzuccia pel portinaio, come abbiamo già detto. Mancava perciò una conveniente porteria e questa D. Bosco l'aveva fatta costrurre sul finire del 1859. Era di un solo pian terreno, alquanto più grande delle scuole, presso al levante del portone e discosta per alcuni metri dall'antica tettoia appigionata dal Signor Filippi al Sig. Visca. Consisteva in tre vani successivi, cioè in un vestibolo coperto, che dava accesso alla stanza del portinaio, per la quale si entrava in una sala, ove potessero intrattenersi i parenti degli alunni. Tra le scuole e la porteria rimaneva pertanto esposto alle intemperie lo spazio che dal portone metteva nel cortile, per il passaggio dei carri, e D. Bosco decise di coprirlo con una grande volta in mattoni.

                Chiamato l'impresario lo pregò di fare una perizia e poi di eseguire il lavoro. Quegli incominciò a far osservare a D. Bosco, come la sola travatura del tetto sarebbe costata, circa 2.000 lire.

                - Faccia pure il computo della spesa, replicò D. Bosco. Ciò che è necessario non mancherà.

                Presente a questo dialogo era il giovane Buzzetti Carlo, allora semplice muratore, il quale, sdegnato nel vedere come D. Bosco fosse tratto in inganno da chi non guardava che al proprio lucro, aspettò che l'impresario si allontanasse e disse a D. Bosco: - Quel signore, se non mi sbaglio, vuol venir ricco alle spalle di D. Bosco!

                - Che cosa dici?

                - Dico che due mila lire sono uno sproposito.

                - Tu che cosa stimi questo lavoro?

                - Io credo che si possa fare con 600, o 700 lire.

                - La travatura ?

                - No, tutto! [597] Ebbene do a te 1000 lire se sei capace di eseguire il mio disegno.

                - Mille lire sono troppe. Forse cinquecento basteranno.

                - Se ti senti di farlo, fallo pure. - Buzzetti accettò. Don Bosco convinto che l'impresario abusava della sua buona fede, decise di congedarlo; ma non subito e pulitamente. Dovendo egli ancor terminare varie riparazioni in casa, gli sospese la recente ordinazione, dicendogli aver bisogno che i suoi muratori non fossero distratti da ciò che era di maggior premura.

                Carlo Buzzetti non tardò a prender mano a quel lavoro come aveva promesso e in breve lo condusse a termine.

                Le spese di questa costruzione furono sostenute da Don Cafasso, il quale aveva consegnato a D. Bosco una grossa somma, probabilmente per l'acquisto della proprietà Filippi. L'Apologista Cattolico del settembre 1860 affermava quella somma ammontare oltre a 45.000 lire. Di questo dono generoso D. Bosco ne tenne più volte parola con D. Cagliero, aggiungendo come D. Cafasso gli avesse ordinato di non palesare ad alcuno la cosa. Tuttavia egli sovente ripeteva ai suoi giovani, come D. Cafasso fosse un grande benefattore della casa e gli avesse più volte elargite cospicue offerte.

                D. Cafasso venne per l'ultima volta nell'Oratorio, per dare uno sguardo ai lavori della porteria, dei quali aveva già precedentemente esaminato il disegno e a portare all'Istituto la sua benedizione, poichè prima d'allora non si vide quasi mai dalla parte di Valdocco.

                In questo modo inaugurate e messe in ordine quelle stanze, D. Bosco in apposito quadro fece esporre un regolamento da lui scritto. [598]

 

REGOLAMENTO DEL PARLATORIO.

 

                1. Non si permette ai giovani dell'Oratorio di parlare con ogni sorta di persone senza il permesso esplicito dei Superiori o del Curatore. Essi non possono esser chiamati in parlatorio più di due volte al mese, e solamente dalla mezz'ora alle due pom. di tutti i giorni, eccettuati i festivi.

                2. Non si permette mai l'uscita particolare, nè coi parenti, nè con altri.

                3. Non è permesso ai giovani di ricevere vino o liquori, nè di tener danaro presso di sè; chi riceve danaro deve consegnarlo al Prefetto, che glielo somministrerà qualora ne sia il caso.

                4. Così pure essi non possono nè ricevere, nè consegnare cosa alcuna ai parenti, senza che passi per le mani del portinaio.

                5. In parlatorio è proibito di fumare e di mangiare qualunque genere di commestibili.

                6. Finita l'ora di parlatorio i giovani devono subito essere lasciati in libertà.

                7. Ai parenti non è mai permesso introdursi nei dormitori dei giovani.

                8. Il sito destinato per parlare ai giovani è solo il parlatorio; quindi non è lecito penetrare nei cortili senza il permesso dei Superiori.

 

                Come Carlo Buzzetti ebbe finito quel suo primo lavoro D. Bosco gli affidò la fabbrica della piccola sagrestia a ponente della Chiesa di S. Francesco, a fianco del presbiterio. Questa con una camera soprapposta era destinata al piccolo clero. Occupava una parte dell'area di un orticello proprietà di D. Bosco, che stendevasi verso la cinta in via della Giardiniera.

                Buzzetti in questo stesso anno 1860 terminò la sagrestia, ma ebbe più tardi a provare il morso della calunnia. Venne accusato, presso D. Bosco dall'ingegnere architetto come se fosse uomo di mala fede e cercasse di ingannare D. Bosco [599] nelle provviste. L'ingegnere era un bravo cattolico, caritatevole e membro delle Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli; ma nello stesso tempo troppo corrivo nel credere ai rapporti de malevoli, invidiosi del bene degli altri, e ostinato nelle sue prevenzioni. D. Bosco però aveva tale stima di Buzzetti, che non volle credere alle attestazioni replicate dell'ingegnere, sìcchè questi si ritirò dal prestare l'opera sua all'Oratorio, sentendosi sempre rispondere: - Conosco Buzzetti: non è capace di far questo. - Buzzetti Carlo sapeva le voci che correvano sul conto suo, ma tacque sempre, perchè in D. Bosco riposava pienamente sicuro.

                Infatti mentre si tentava di farlo cacciare dall'Oratorio, il vecchio impresario ne fu allontanato. Buzzetti ebbe il suo posto come capo muratore e di qui incominciò la sua fortuna. D. Bosco gli affidò l'erezione di tutti i suoi edifizii per ben trent'anni, sicchè divenne uno dei primi costruttori ed impresari di fabbriche e chiese in Torino.

                Il secondo disegno di D. Bosco fu l'aumento de' suoi alunni specialmente per la formazione del Clero. Per soddisfare ai bisogni, che da ogni parte del Piemonte a lui si esponevano, aspettandone aiuto, D. Bosco risolse di proporre a famiglie agiate e a persone benefiche, che se volessero mandargli giovani già in grado di incominciare i corsi ginnasiali, egli sarebbesi incaricato di far loro percorrere tutti i cinque anni di ginnasio, mediante pagamento anticipato di sole lire 500 per una volta tanto. Nello stesso tempo, perchè la carità avesse doppio stimolo, pensava di promettere che tali somme sarebbero state impiegate in parte pel nuovo edifizio in Valdocco.

                Vi era chi lo sconsigliava da tale progetto, come da un genere di contratto rovinoso; e tra gli altri D. Cafasso, il quale però udite le sue ragioni, e come quell'idea avesse [600] fondamento di essere stata benedetta da Dio, diceva: - È inutile; vuol fare a modo suo; eppure bisogna lasciarlo fare, chè, anche quando un progetto sarebbe da sconsigliarsi, a D. Bosco riesce.

                D. Bosco adunque preparò una circolare, nella quale estese la proposta di quel favore, anche alla classe di quei giovani che desideravano imparare un arte od un mestiere; e qualche mese dopo la pubblicò e la spedì in molte città e paesi.

 

                               Illustrissimo Signore,

 

                Il vivo desiderio di provvedere al bisogno morale ognor crescente della gioventù, il gran numero di giovanetti, che dimandano di essere accolti in questa casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, rendono doloroso il rifiuto che ogni giorno devesi dare a poveri ragazzi, che, abbandonati a se stessi, fanno temere di loro un tristo avvenire.

                L'attuale edifizio, specialmente da che sono stati stabiliti i laboratorii nell'interno della casa, non comportando aumento di numero, nè avendosi mezzi per ampliarlo, ho divisato un progetto che credo poter tornare a V. S. di gradimento e nel tempo stesso utile a radunare i mezzi necessarii per un locale atto ad accogliere un numero di giovani assai maggiore del presente.

                Tratterebbesi di fare un certo numero di azioni di Fr. 500 pagabili come segue: cioè nel corso dei prossimi mesi di

                Agosto e settembre                            Fr. 200

                In gennaio 1861, altri                          200

                In luglio stesso anno 1861                  100

                                                                                  500

                Ogni azionista però acquisterebbe il diritto di mandare in questa casa quel giovanetto che giudicherà destinare allo studio o ad un'arte, secondo le attitudini e le propensioni dell'individuo. (Si vedano le condizioni più sotto).

                In questo modo V. S. concorrerebbe a due opere di carità: [601] ad ingrandire una casa destinata a dare ricetto a poveri ragazzi; ed a beneficare un giovanetto, che Ella stimasse degno di tal favore. Di che, oltre di esserne compensata dinanzi a Dio, avrà eziandio in questa casa chi benedirà la benefica di Lei mano, da cui esso fu tolto dai pericoli ed avviato per la strada che conduce al bene.

                Se tal mio divisamento tornerà a Lei gradito, e stimerà di prendervi parte, gliene professo fin d'ora la più sentita gratitudine, e La pregherei a volermelo partecipare entro quel breve termine che potrà per mia norma. Le fo pure umile preghiera di comunicare il tenore della presente lettera a quelle persone che Ella ravvisasse propense a prendere parte a quest'opera di pubblica beneficenza.

                In caso contrario La prego solo a voler dare benigno compatimento al disturbo che Le ho recato e gradire che Le auguri ogni bene dal Cielo, mentre con pienezza di stima mi professo.

                Di V. S.

                Torino, li…….. di…………. 1860.

Obblig.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                CONDIZIONI PEL GIOVANETTO CHE CIASCUN AZIONISTA POTREBBE INVIARE ALLA CASA DETTA ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES.

 

                Sebbene le condizioni di accettazione in questa casa per via ordinaria siano assai diverse, tuttavia nel caso presente si riducono a quanto segue:

                Il giovinetto può destinarsi allo studio o ad un'arte meccanica.

                1° Se è per un'arte o mestiere si richiede che sia sano, robusto, abbia dodici anni compiuti, e non ecceda i diciotto. La casa si obbliga di provvederlo di alloggio, vitto, istruzione morale e religiosa, finchè abbia terminato l'apprendisaggio della professione che vorrà intraprendere fra quelle che si esercitano nell'istituto.

                2° Se per lo studio, richiedesi che abbia fatto le scuole elementari, e possa presentare un certificato di buona condotta morale. - Sia sano ed esente da esteriore deformità. La casa lo provvederà di alloggio, vitto, scuola pel corso classico di latinità; cioè dal primo anno di grammatica latina inclusivamente fino alla filosofia esclusivamente.

                3° In ambedue i casi il giovine dovrà uniformarsi agli apprestamenti di tavola, alla disciplina, all'istruzione, ed alle professioni compatibili col piano di regolamento in questa casa praticato. [602]

 

                FORMOLA DI OBBLIGAZIONE

                Io sottoscritto dimorante                      casa           via                   N°.

                Per concorrere all'ampliazione della casa detta ORATORIO DI SAN FRANCESCO DI SALES in Torino regione Valdocco mi obbligo di azioni N°.      di cui due quinti pagherò nel prossimo bimestre di agosto e settembre anno corrente 1860.

                Due quinti in gennaio 1861.

                Un quinto in luglio dello stesso anno 1861.

                Intendo di acquistare il diritto di inviare alla detta casa un giovinetto nel tempo, che mi sembrerà opportuno, secondo le condizioni espresse per l'accettazione.

                Dato il giorno del mese di 1860.

Firma dell'Azionista

 

                N. B. I sottoscrittori sono pregati di segnare la presente scheda e mandarla al Sac. BOSCO Giovanni - Torino.

 

                Molti furono coloro che risposero a questo appello. Abbiamo ancora le sottoscrizioni seguenti di adesione ed obblazione colla data del 1860 e 1861.

                Maria Sophie Vibert de la Pierre.- Giovanni Arcivescovo di Saluzzo. - Conte Pietro Giov. Gloria. - Conte Aleramo Bosco di Ruffino. - Rev. Can. Camillo Peletta elemosiniere del Re. - Can. Celestino Fissore Vicario Generale. - Can. Giuseppe Ortalda. - Giorgio Oreglia Canonico Prevosto di Fossano. - D. Ajachini Antonio Giulio Rettore Parroco di Santa Maria della Sanità degli Orti di Alessandria.

                D. Bosco aveva ideate quelle obbligazioni di 500 lire, eziandio per creare uno stato di cose che rendesse quasi impossibile la chiusura del suo Ospizio. Il diritto di terze persone, era persuaso che avrebbe fatto, esitare i suoi avversarii nell'esecuzione del loro progetto.

                Ma queste ed altre sue imprese, delle quali parleremo, erano biasimate da certi uni che si credevano uomini [603] prudenti. Un Teologo insigne, dotto e pio, soleva però dir loro, come asserì D. Turchi: - È facile criticare, ma intanto noi non siamo capaci di fare la centesima parte di quello che fa lui senza mezzi assicurati. D. Bosco è un uomo straordinario, quindi non va giudicato alla stregua comune.

                D. Bosco stesso rispondeva poi tante volte a voce o per lettera ad alcuni che lo rimproveravano della sua intraprendenza: - Quando io sappia che il demonio cesserà dall'insidiare le anime, io pure cesserò dal cercare nuovi mezzi per salvarle da' suoi inganni e dalle sue insidie.-

                Il terzo disegno era dei più arditi per quei tempi, cioè di estendere fuori di Torino la sua incipiente Congregazione, e di affidarle qualche collegio di giovani studenti. La divina Provvidenza guidava gli avvenimenti e il Municipio di Cavour gli offeriva la direzione del suo antico Collegio Civico, chiuso da qualche tempo e che volevasi riaprire.

                Quasi nello stesso tempo il Signor Canonico Celestino Fissore, Vicario Generale e che fu poi Arcivescovo di Vercelli, gli aveva fatto sentire il suo vivo desiderio che egli pensasse al piccolo Seminario di Giaveno.

                Questo Seminario fondato poco dopo il Concilio di Trento e a norma de' suoi savi decreti, era stato per quasi tre secoli il vivaio del Clero primieramente dell'Abbazia di San Michele della Chiusa, cui apparteneva, poi dell'Archidiocesi di Torino, alla quale al principio del secolo XIX veniva incorporato. Qui erano state fiorenti per lungo tempo le classi di tutto il ginnasio, le uniche allora in diocesi destinate a promuovere le vocazioni. In questi ultimi anni però erano scemati talmente gli allievi che il Seminario stava per essere chiuso ed ingoiato dal Governo.

                Il Ch. Anfossi, andato a visitarlo nel 1859, fu meravigliato per il silenzio che vi regnava e gli fu detto che non [604] vi si contavano più di venti allievi circa; gli studi erano trascurati ed il Vice Rettore ed economo, solamente per le cose interne, D. Pogolotto Teol. Alessandro, aveva stanza in una palazzina attigua. Il vero Rettore, rappresentante la Curia e che aveva piena autorità, era il Prevosto Canonico della insigne Collegiata di S. Lorenzo. A lui apparteneva l'accettazione degli alunni, l'alta sorveglianza e l'amministrazione dei beni del Seminario e delle pensioni. I sette professori del ginnasio erano alloggiati in collegio, ma non avevano altro compito fuorchè l'insegnamento; e da un anno non ricevevano lo stipendio, perchè le rendite più non fruttavano le somme necessarie. Due chierici assistenti erano incaricati della vigilanza, disciplina e studio ed uno di essi doveva sostituire quell'insegnante delle classi elementari che per qualche ragione non avesse potuto far scuola. Queste classi erano tre, frequentate dai collegiali e dai giovanetti del paese per i quali erano destinate le sale di una parte dello stesso Seminario. I loro maestri pagati dal Municipio, da lui dipendevano. Il clero di Giaveno poi erasi sempre intromesso nelle cose del Collegio con danno della disciplina, poichè il Vice Rettore aveva le mani legate e doveva piegarsi alle esigenze di quei Signori.

                Era questa una delle cause per le quali il Seminario si trovava ridotto a mal partito. Anche la tristezza dei tempi aveva fatta sentire la sua malefica influenza. Il collegio potevasi paragonare ad un Lazzaro quatriduano e si vedeva così scaduto dalla stima delle popolazioni, che nessuno voleva più collocarvi in educazione i proprii figliuoli. Non si aveva nessuna speranza di poter accrescere nell'anno venturo il numero degli allievi.

                Questo è il genuino racconto che ci dettò un professore insegnante in quegli anni nel Seminario. [605] Intanto i superiori ecclesiastici pensavano di chiuderlo per non stipendiare professori che facessero scuola ai banchi. Prima però di mandare ad effetto tale decisione, il Canonico Vogliotti Provicario e Rettore del Seminario metropolitano andò a supplicare D. Bosco, perchè trovasse modo di rialzare quel povero collegio, infondendogli nuova vita. Domandava solamente un prete idoneo come Direttore e un chierico abile nell'assistenza.

                D. Bosco chiese tempo a riflettere, essendo in trattative con que' di Cavour; e andò a parlare con D. Cafasso, il quale esitò nel suggerire una risoluzione, perchè forse conosceva certi retroscena, che non erano ignoti a D. Bosco. Quindi gli chiese: - E chi manderete a Giaveno per Direttore? - Non avendo io preti disponibili nell'Oratorio, ho pensato di mandare il tale Sacerdote diocesano, uno de' miei amici, di quelli che nel Seminario di Chieri erano sempre con me. È pio, dotto e di una moralità inappuntabile.

                - Non fa per voi! - replicò D. Cafasso, il quale non errava nel giudicare delle persone! È troppo focoso e bisbetico!

                Intanto il Municipio prevedendo la dissoluzione di quel Seminario, non aspettava altro, desideroso di prenderne possesso, per insediarvi, meglio le sue scuole comunali, le quali non avevano luogo adattato e decoroso. Era nel suo diritto, come si affermava, qualora venisse a cessare il primo scopo cui era destinato quel locale. La direzione del Seminario informata di tale disegno era in gravi angustie vedendo imminente il pericolo di perdere quel magnifico edifizio.

                Ma il sindaco di Giaveno signor Schioppo Giuseppe, aveva mire ancora più vaste e decise oltre l'accomodare le scuole elementari d'istituirvi un collegio o scuole civiche [606] di ginnasio e affidare la direzione a D. Bosco. La proposta venne fatta fin dal maggio e fu da D. Bosco trasmessa alla Curia. Il Can. Vogliotti, il quale cercava di procurare un accomodamento per conciliare il possesso di quell'edifizio ecclesiastico, coi desiderii e le pretensioni del Municipio, mandò chiamare D. Bosco. Espostogli lo stato delle cose, lo consigliò, facendogli da parte sua larghe promesse, di non rifiutare quell'incarico. D. Bosco non oppose difficoltà, trattandosi del bene della diocesi e assicurò il Canonico che qualora le condizioni di convenzione offerte dal Consiglio Comunale di Giaveno fossero state accettabili, avrebbe studiato il modo di secondare i suoi desiderii.

                D. Bosco scrisse adunque al sindaco di Giaveno chiedendo che il Municipio formolasse una convenzione, e determinasse il concorso pecuniario, col quale intendeva cooperare allo stabilimento del nuovo convitto-collegio in beneficio del paese. Non aveva però ancor rinunciato al progetto di Cavour.

                Il Canonico Vogliotti era impaziente di avere da lui una risposta intorno al risultato di queste pratiche, e D. Bosco gli rispondeva con un foglio dal quale si può intendere il contesto della lettera del Rettore del Seminario di Torino. In questa come in tutte le altre sue lettere D. Bosco perora sempre la causa de' suoi cari figliuoli.

 

                               Benemerito Signor Rettore,

 

                Prima di tutto Le rendo umili ringraziamenti di quanto ha fatto e vedo pronto a fare in favore di questi giovanetti. Riguardo al giovane Ch. Berutto vi fu la sola intelligenza che io avrei tenuto meco Ruffino e che Ella avrebbe fatto la stessa carità assegnando la pensione gratuita al Berutto nel Seminario di Chieri.

                Quivi non fu mai in posizione di pagare un soldo perciò l'ho sempre tenuto gratis, e volentieri per la sua grande buona volontà. [607] Una sua zia se ne occupava e se ne occupa tuttora per vestirlo. Qualora non si potesse assolutamente avere l'intera pensione gratis faccia Ella quel che può, di poi io mi metterò a fare la rogazione per supplire a quel tanto di cui non si può fare a meno.

                Attenderò il riscontro da Giaveno prima di legarmi con Cavour. Grazie della pianeta verde che ci fa sperare; noi siamo proprio al verde.

                Finora sono fuori carcere. V. S. ed il Vic. Gen. procurino di fare altrettanto.

                Con pienezza di stima e di gratitudine me Le offro in quel che posso.

                Di V. S. Ill.ma e Benem.

                Torino, 5 Giugno 1860.

Obb.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco.

 

 

CAPO XLIV. Imprigionamento del Canonico Ortalda - Perquisizione a D. Cafasso -Riflessioni di D. Bosco - Seconda perquisizione nell'Oratorio -D. Bosco smarrito per Torino è ricondotto a Casa dalla divina Provvidenza - Ispezione nella scuola degli esterni - Scena dolorosa: D. Alasonatti svenuto - Arrivo di D. Bosco - Prigionia minacciata - Rimproveri ai perquisitori - Le guardie allontanate -Dichiarazione sui diritti del Papa - Visita alle scuole -Perlustrazione minuziosa della Casa - Subdole domande e franche risposte - Il sequestro dei quaderni - Ringraziamenti al Signore - Due consolazioni.

 

                Il Governo frattanto temeva e perseguitava i buoni sacerdoti. I loro avversarii avevano accumulate sul capo di questi, tante accuse calunniose che il Ministro dell'interno Farini aveva giudicato necessario di far proseguire in Torino le ricerche fiscali onde, trovato il filo della temuta congiura, premunirsi contro ad un colpo di mano.

                Ai più pareva un mistero che alcuni preti consacrati ad opere di carità, potessero incutere tanta paura al Governo, il quale aveva a sua disposizione schiere di soldati e di carabinieri; eppure è un fatto storico.

                In quei giorni era stato incarcerato il Canonico Ortalda, dopo che fu perquisita la sua abitazione. Riuscita vana ogni [609] ricerca di trame reazionarie, gli fu imputato a delitto, come disse D. Bosco, l'aver senza licenza fatto trasportare un torchio della stamperia Falletti a S. Tommaso, per adoperarlo alla stampa del suo giornale, Il Museo delle missioni.

                Ed ecco il 6 giugno il Questore far la perquisizione nel Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi. Le vicende politico-religiose avevano inasprito anche contro il Convitto gli antichi sospetti. D. Cafasso non aveva trascurata nessuna delle precauzioni suggerite da D. Bosco. I delegati entrarono nella sua casa, mentre egli attendevali seduto sopra un seggiolone. Due questurini si fermarono in fondo alla scala, due nell'anticamera, e due frugarono con vero rigore per un paio di giorni la stanza, ogni angolo, ogni ripostiglio. E nulla trovarono che potesse dar ragione alle paure del Governo.

                Delusi in queste ricerche si lusingarono di riuscir meglio nell'Oratorio.

                D. Bosco così lasciò scritto: “Io mi pensava che la fatta perquisizione  avesse disingannate tutte le autorità intorno alla ridicola supposizione di reazione e che perciò niuno avrebbe più in simile guisa turbato il nostro pacifico domicilio. Ma invece  avendoci i Signori del Governo trovate gusto la prima volta, rinnovarono fino a dieci volte la medesima funzione, sempre però con impiegati diversi. Per non essere troppo lungo, e troppo minuto darò soltanto un cenno delle cose più importanti della seconda perquisizione, benedicendo sempre il Signore che in quelle prove ci abbia in modo veramente sensibile protetti. Sicut pulli, volantibus desuper milvis, ad gallinae alas accurrunt, ita et nos sub velamento alarum tuarum abscondimur”.

                Noi seguendo la traccia della sua narrazione, andremo ampliandola con altre testimonianze. [610]

                Erano le ore 10 del mattino del 9 giugno, 15 giorni appena dopo la prima perquisizione, quando con una scorta di poliziotti si portavano all'Oratorio tre signori. Erano i signori Malusardi segretario del Ministro Farini, il Cav. Gatti Ispettore generale al Ministero della pubblica istruzione; e il professore Petitti, laureato in teologia, ma laico. Il primo aveva per incarico precipuo di esaminare il libro dei conti e perlustrare il locale, il secondo di visitare le scuole e interrogarne i giovani, e l'ultimo scrivere da stenografo le domande e le risposte. Li seguiva qualche altro impiegato dei due Ministeri; e alcune guardie furono piantonate fuori della porta dell'Istituto.

                Sventuratamente D. Bosco era uscito poco prima in città; senza lasciar detto ove intendesse andare in quel mattino. Furono tosto spediti varii giovani a cercarlo tra cui Giuseppe Buzzetti; ma inutilmente percorrevano Torino in tutte le direzioni.

                I perquisitori incominciano a visitare la scuola del maestro Reano presso la porteria, ove un buon numero di giovani esterni, circa 93, quasi tutti rifiutati dalle scuole civiche, o, per essere troppo discoli, o troppo sudicii, incominciavano ad imparare a leggere e a scrivere. Ci voleva la pazienza di Giobbe per tenerli in ordine. “Entrò, scrisse il maestro Reano Giuseppe, nella mia classe un signore della questura e avvicinatosi a me, chiese se io avessi la patente d'insegnante e risposi che no. Quindi s'informò minutamente dell'istruzione che io impartiva; ed io soddisfacendolo gli presentai anche un quaderno nel quale avevo scritta una raccolta di buone massime, che dettava a quei poveri ragazzi, affinchè imparassero a divenire buoni cristiani e buoni cittadini. Quel signore mi chiese quali castighi si infliggessero ai di scoli, ed io gli risposi: - Nessuno; nessuno affatto. [611]

                - Possibile! esclamò quel signore. - Possibilissimo! io risposi; il castigo che adopero, secondo gli ordini avuti dal Superiore della Casa, consiste nel distribuire in certi giorni della settimana, ai giovani che si regolano bene, essendo tutti figli di gente povera, alcuni buoni di pane da prendersi alla panetteria Magra in via Pellicciai; e ai discoli non congedo alcuno di que' buoni. Tale è l'unico castigo che si usa in questa scuola. D. Bosco poi, per alletarli a venire, di quando in quando prepara per loro qualche premio, per esempio oggetti di vestiario. - Quel signore allora si congedò e parve che nulla avesse da notare”.

                Entrati nel cortile, i tre perquisitori salirono al primo piano della casa, e non essendovi D. Bosco, si presentarono al Sig. D. Vittorio Alasonatti, che in qualità di prefetto ne faceva le veci. Annunziatisi per quelli che erano, ed esposto lo scopo della loro visita, il Sig. Malusardi gli dice pel primo:

                - Ci mostri anzitutto il libro dei conti.

                - Ecco, disse il buon Sacerdote, questo è il libro mastro, che porta il nome, cognome, paternità e patria di ciascun allievo; questo è il memoriale delle spese giornaliere; e in quest'altro sono notate le condizioni di accettazione.

                Quei signori prendono in mano quei registri, sfogliano qua e colà, e dopo alcuni minuti il Segretario dice:

                - Ma di questa contabilità se ne capisce nulla.

                - Se non capiscono, io non so che farci, rispose D. Alasonatti. Se vogliono aver pazienza io spiegherò loro ogni cosa.

                - Sì, vogliamo sapere tutto, e in poche parole. Ci dica primieramente quanti giovani sono ricoverati in questa casa.

                - I giovani esterni che frequentano l'Oratorio sono oltre a 700, e gli interni ammontano a 300, divisi in due categorie, [612] di studenti e di artigiani. Fra questi gli orfani di padre e di madre sono 40 e 127 i privi di uno dei genitori.

                - Quanto pagano di pensione?

                - Solo 17 allievi e due chierici pagano pensione regolare. La maggior parte, essendo assolutamente poveri ed abbandonati, pagano nulla, anzi bisogna ancora calzarli e vestirli; gli altri pagano qualche poco, secondo la possibilità delle loro famiglie.

                - Che cosa è questo poco?

                - Dieci o dodici lire al mese, o qualche brenta di vino, all'anno, o un sacco di riso, o di meliga, o di castagne e simili.

                - Questo non basta certamente a mantenere tanti giovani per tutto l'anno; come dunque si tien fronte alle spese ?

                - Il Municipio di Torino dà annualmente trecento lire; l'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro lire cinquecento; e la Mensa Arcivescovile lire mille.

                - Tutte queste elargizioni non fanno che la somma di mille ed ottocento lire, e non possono coprire le spese di vitto, di vestito e di manutenzione. Con quali altri mezzi si provvede adunque?

                - Sul principio a quello che mancava provvidero in parte D. Bosco e sua madre colla vendita del fatto loro, e in parte la carità di pie persone. Oggimai si può dire che tutte le nostre risorse siano nelle limosine dei benefattori.

                - Chi sono questi benefattori?

                - Molti non li conosco, ed altri non amano che li facciamo conoscere, e perciò non sono in grado di soddisfare alla domanda.

                - Dove si tengono i danari?

                - Non abbiamo neppure la cassa ove tenerli, perchè [613] non appena giunge qualche somma, l'adoperiamo tosto ad estinguere alcuno dei debiti scaduti o scadenti.

                Queste coscienziose e veritiere parole del nostro buon Prefetto non andarono a sangue dei tre perquisitori. Costoro, indettati dai loro padroni, si eran fitto in capo che D. Bosco possedesse gran quantità di danaro inviatogli dal Papa e dai principi spodestati, sotto colore di provvedere ai bisogni dei giovani, ma in realtà per arruolare soldati e promuovere la guerra contro il Governo. Questa fissazione era alimentata dai giornali settarii, i quali spacciavano ai quattro venti la falsa notizia, che il fisco aveva scoperto presso i Gesuiti residenti in Torino grandi tesori e documenti importanti, che svelavano la esistenza di una vasta congiura. Ora D. Bosco è in relazione coi Gesuiti, andavano dicendo i suoi nemici; dunque, conchiudevano, anche nel suo Istituto si deve trovare il corpo del delitto. Imbevuti di questi pregiudizi i tre perquisitori pretendevano ad ogni costo che D. Alasonatti indicasse loro il tesoro; onde il Malusardi con fiera voce e per incutergli timore gli disse:

                - Lei c'inganna; lei ha del danaro e ce lo vuol nascondere; lei è un Gesuita; ma avrà da fare con noi.

                Così dicendo lo presero per le braccia, lo scossero, lo spinsero in più direzioni per la stanza, malmenando così nella sua persona la dignità sacerdotale. A questo villano trattamento quell'uomo di Dio, che era sempre oppresso dalle occupazioni, e già poco bene in salute, si sentì venir meno le forze.

                - Ma io, signori, non vi faccio alcun male - disse e svenne. Questo inaspettato deliquio fece vergognare quelli illustrissimi, che accortisi di aver operato non già da onesti funzionarii, ma da malandrini, cercarono di rimediare al mal fatto, sorreggendo lo svenuto e adagiandolo sopra una sedia. [614] E D. Bosco? Egli era uscito di casa, leggendo tranquillamente la legge sull'Istruzione scolastica. In quel mattino doveva andare in due luoghi: in Giudicatura per aggiustare qualche differenza riguardo alla compera della casa Filippi, quindi nel palazzo del Marchese Fassati, ove ad ora fissa, era atteso a pranzo con promessa di un soccorso in danaro. Ma cosa singolare! Uscito di Giudicatura, risoluto, di recarsi dal Marchese, venne soprappreso da tale distrazione da non riflettere più ove andasse. Invece di inoltrarsi verso il  centro di Torino, passò lentamente da una via in un'altra, da una piazza in un'altra in parte opposta, e riescì come uno smemorato nella via Cottolengo. Aveva già percorso un buon tratto di questa, quando si accorge del suo sbaglio! - Povero me!, pensò, che ho mai fatto! Andare a casa mi rincresce perchè oggi mi aspettano que Signori.... Tornare indietro mi pesa e temo di non giungere all'ora indicata. D'altra parte domani è domenica, questa sera vi sono le confessioni e bisogna che io mi trovi al mio posto molto presto. - E mentre pensando continuava a camminare, si risolse: - Sia quel che si vuole; sono qui vicino a casa e voglio andarvi.

                Ed ecco che vede spuntare improvvisamente tre giovani, Duina, Martano e Mellica, i quali, vistolo, studiarono il passo e: - D. Bosco, dissero, venga, venga presto che ci è una seconda perquisizione! L'Oratorio è pieno di guardie! - Allora D. Bosco riflettè: - Adesso lo so il motivo perchè ho sbagliata la strada. La mano visibile della Provvidenza mi ha ricondotto a casa ove è necessaria la mia presenza. Il Signore vedeva più in là di me.-

                E si affrettò a rientrare nell'Oratorio, quando appunto, vi era atteso come un angelo liberatore. In quell'istante succedeva la scena ben dolorosa per D. Alasonatti. [615]

                I giovanetti erano tutti sossopra per lo spavento, tanto più al vedere che le guardie avevano bruscamente impedito di uscire al Ch. Giovanni Cagliero, che andava a scuola di musica dal Maestro Cerrutti, recando con sè qualche spartito musicale. Parte di loro si erano raccolti in Chiesa a pregare, e alle loro preghiere si univano quelle delle migliaia di persone ricoverate nel Cottolengo per il comando del Canonico Luigi Anglesio. Questi aspettava con viva ansietà l'esito di quella prepotenza.

                Appena D. Bosco ebbe salito la scala, alcuni giovani operai stazionarono ai piedi di essa, pronti a resistere, onde impedire che D. Bosco fosse condotto via. Il Ch. Anfossi non seppe trattenersi dall'introdursi nella camera del Prefetto e dall'avvicinarsi a D. Bosco, il quale era entrato in quell'istante appunto che D. Alasonatti sveniva. Veduto in quel deplorevole stato il suo caro e degno aiutante, ne provò vivissima pena. Avvicinatosi gli prese la mano e lo chiamò per nome. Il buon Alasonatti alla parola di D. Bosco parve rinvenire alquanto e con fioca voce risposo: - D. Bosco....mi aiuti - Non si affanni, gli soggiunse questi; ora ci sono io, e prendo la cura di ogni cosa: si faccia coraggio. - Vim patior, soggiunse stentatamente il buon Prefetto. - Il vedo purtroppo, che soffre violenza, continuò D. Bosco, e la compatisco di cuore; ma si ricordi che regnum coelorum vim palitur et volenti rapiunt illud.

                Dette queste parole di conforto al povero paziente, Don Bosco si rivolse ai perquisitori e loro domandò che cosa pretendessero. Anfossi udì uno di quelli rispondere: - Che ci venga consegnato il conto esatto del bilancio della casa e del denaro che ritiene presso di sè; altrimenti abbiamo ordine di  arrestarlo. - A queste parole ei rispose semplicemente: - Mi lasceranno qualche minuto per dare la benedizione [616] a' miei figli, e poi, sarò ai loro ordini. Essi vogliono ciò che io non ho, perchè noi viviamo alla Provvidenza.

                Mentre egli così diceva, D. Alasonatti parve quasi che venisse meno la seconda volta, e D. Bosco rivoltosi ai perquisitori con animo giustamente sdegnato: - Voi, disse, abusate del proprio potere; dovete essere giudici e vi fate carnefici. Questo procedere non vi meriterà nè le benedizioni di Dio, nè la stima degli uomini; ma bensì nella storia una pagina infame. Siete qui inviati per cercare cose, che possano interessare le viste fiscali? Compite pure il vostro mandato, ma non siate oppressori degli onesti cittadini nel pacifico loro domicilio. Io muoverò protesta contro di voi presso ai Ministri, presso alla stessa persona del Re, e spero che non saranno insensibili ai miei reclami.

                A queste energiche parole il Cav. Gatti, con esteriore umile e cortese: - Signor D. Bosco, rispose, ci scusi, ma noi non siamo venuti qui per far del male ad alcuno: non abbiamo fatto altro che domandare schiarimenti.

                - Gli schiarimenti si domandano a chi può darli. Superiore responsabile di questo istituto sono io; a me domandate schiarimenti e non ai subalterni, che non sono in grado di soddisfare alle vostre domande. Questi vi prego di lasciarli in pace.

                - Ci compatisca, presero a dire alla loro volta, il signor Malusardi e il Prof. Petitti, e si persuada che l'accaduto fu contro alla nostra intenzione. -E così ebbe fine l'incidente.

                D. Bosco allora affidò alla cura di alcuni famigli il povero D. Alasonatti. Fece quindi passare i perquisitori nella camera attigua, per togliere dalla presenza del buon Prefetto gli autori del suo male, i quali esposero anche a D. Bosco [617] come avessero incarico di perlustrare la casa e visitare le scuole, ma di fare ogni cosa in modo amichevole e cortese.

                - Se avevate l'incarico di fare le cose in modo amichevole e cortese, osservò D. Bosco, non occorreva che vi faceste accompagnare da una schiera di Poliziotti a spaventare i miei poveri giovani.

                - Si assicuri, rispose il signor Malusardi, che le guardie non torceranno un capello ad alcuno dei suoi, e sono venute per semplice comparsa.

                - Le guardie di pubblica sicurezza, i soldati e i carabinieri, replicò D. Bosco, fanno le semplice comparse in piazza d'arme; ma nelle case dei privati sogliono comparire per arrestare i malfattori. Mi pare impossibile che uomini di senno e costituzionali quali debbono essere i signori Ministri, senza alcuna prova possano ritenere che in questo Ospizio vi siano dei malfattori, mettendo sotto i piedi gli articoli dello Statuto, che guarentiscono la inviolabilità del domicilio e la immunità delle persone.

                Questo franco parlare sconcertò alquanto il triumvirato perquisitore, il quale diede tosto a divedere che faceva molte cose di suo arbitrio; imperocchè dopo le osservazioni di Don Bosco le guardie dileguaronsi dall'abitazione l'una dopo l'altra, e si andarono a postare nei campi deserti, che in quel tempo circondavano l'Oratorio.

                La conversazione di D. Bosco con que' signori si protrasse per oltre ad una mezz'ora, e gli inquisitori, dopo aver tentato di prenderlo in contraddizione con ciò che aveva detto D. Alasonatti, si ebbero da lui tutte quelle informazioni., le quali dovevano convincerli che dal suo Istituto il Governo non aveva punto a temere.

                - Ma insomma che ne pensa lei delle recenti annessioni al Piemonte delle Provincie Romane? [618]

                D. Bosco alzando la voce con  energia: - Come cittadino, esclamò, sono pronto a difendere la patria, anche colla mia vita, ma come cristiano e come sacerdote non potrò mai approvare queste cose.

                Il Ch. Ghivarello che si trovava nella camera vicina udì in modo distinto queste ultime parole.

                Allora gli agenti del Governo lusingandosi di trovare nell'Oratorio qualche piccolo indizio che, scoperto, porgesse loro il destro di potersene lodare presso i loro padroni, domandarono di visitare le scuole, e D. Bosco li soddisfece. Li volle accompagnare lo stesso D. Alasonatti, rinvenuto, e rinfrancato. Gli alunni erano nelle proprie classi: 176 interni e 10 esterni.

                Qui è bene di notare che il Cav. Gatti, il quale dicevasi incaricato in modo speciale di visitar le scuole, sapeva poco di latino e di greco, perchè era stato semplice professore di storia e di geografia al Collegio Nazionale, ed allora aveva al Ministero di pubblica istruzione l'uffizio di ispettore delle scuole elementari. Quindi egli limitavasi ad interrogare gli allievi sopra la geografia e la storia, e a muovere loro delle suggestive e subdole domande. Il sig. Malusardi seduto in capo dei banchi faceva ai giovani vicini interrogazioni confidenziali; e, il professore Petitti ora prendeva nota, ed ora esaminava i quaderni di bella e di brutta copia. Pareva che loro intento fosse di strappare dalla bocca degli scolari qualche risposta, o di trovare scritta qualche parola, la quale potesse interpretarsi contraria al Re o alle libere istituzioni, per farne poscia accusa a D. Bosco, come se facesse impartire una istruzione dannosa o pericolosa allo Stato.

                Vollero esaminare tutti i libri, domandavano che cosa, dicesse D. Bosco dello Statuto, dell'esercito, dell'Italia. Lo, stesso catechismo servì loro di appiglio a fare le più strane [619] e maligne interrogazioni per condurre i giovani a conclusioni che non avevano mai immaginate. Intendevano sorprendere quali idee i superiori venissero loro insinuando, o far loro asserire ciò che non era.

                Daremo qui un piccolo saggio delle fatte interrogazioni.

                Nella 1ª classe ginnasiale, dove insegnava il Chierico, Celestino Durando, il Cav. Gatti interrogando sulla geografia e sui confini dell'Italia fece ad un allievo di nome Ricchiardi queste domande:

                - In quante specie si divide il Governo monarchico?

                - In due: in Governo monarchico assoluto e in Governo monarchico temperato o costituzionale.

                - Qual'è il migliore di questi due Governi?

                Il povero fanciullo udendo a farsi una domanda così superiore alle sue forze non sapeva che rispondere. Se ne avvide il Gatti, e come se bramasse udire una espressione contraria al Governo costituzionale, gli fece questa insinuazione:

                - Non ti pare che sia migliore il Governo assoluto, nel quale il Re fa tutto da sè,e quello che gli pare e piace?

                A queste suggestioni il professore Durando si credette in dovere di osservare al Gatti, che quelle non erano domande da fare a giovanetti di prima ginnasiale. - Come può pretendere da un fanciullo, gli disse, un'adeguata risposta ad un quesito, che darebbe da pensare seriamente, ad una persona attempata e profonda in politica?

                Ma lo scolaro, come se avesse ricevuta l'imbeccata da un angelo, rispose:

                - Mi pare che qualunque forma di Governo sia buona, quando coloro che comandano sono brava gente.

                Questa risposta così bene appropriata fece restare il Gatti e i suoi colleghi con un palmo di naso, e fu per molti giorni in Casa il tema delle conversazioni. [620]

                I perquisitori domandarono al maestro se avesse la patente e udito che no, ne presero il nome. Era un pretesto per continuare la visita nelle scuole. Esaminati in ultimo i libri del Professore tolsero e portarono con sè la vita di Savio Domenico.

                Le interrogazioni più ingannatrici furono fatte dal Cavaliere Gatti nella 4ª e 5ª a ginnasiale, dove insegnava il Chierico Giovanni Battista Francesia:

                - Che scuola fai?

                - Io faccio la quinta ginnasiale.

                - Hai studiato la storia romana?

                - Sì, signore; ho studiato quella parte, che secondo il programma scolastico sarà materia dell'esame finale.

                - Sapresti tu dirmi da chi fu ucciso Giulio Cesare?

                - Giulio Cesare fu ucciso da Giunio Bruto e da altri congiurati.

                - Bruto ha certamente fatto bene ad uccidere quell'oppressore della libertà, quel tiranno del popolo; che ne dici?

                - Dico invece che Bruto ha fatto male, perchè un suddito non deve mai ribellarsi al suo Sovrano, e tanto meno togliergli la vita.

                - E quando un Sovrano fa male?

                - Se fa male sarà egli pure giudicato e punito da Dio, ma i sudditi lo devono rispettare.

                - Ma dimmi un poco: non si potrebbe fare un colpo a Vittorio Emanuele, affinchè lasci in pace i frati, le monache, i preti, i vescovi e il Papa?

                - Signor Cavaliere, disse a questo punto D. Alasonatti, queste non sono domande da farsi a giovani scolari; questo non è un esame, ma un tranello; ed io sarò costretto proibire ai giovani di rispondere. [621] Per nulla commosso l'inquisitore insistette, ed il giovanetto rispose:

                - No, signore, non si può. Se un Re non fa bene, a suo tempo ne renderà conto a Dio, ma i sudditi non possono in coscienza fargli alcun male. Essi devono piuttosto pregare il Signore che gli usi misericordia, gli tocchi il cuore e la converta, e intanto avere pazienza.

                - Se dobbiamo pregare Dio che gli tocchi il cuore e la converta, dunque è segno che è cattivo; non è così?

                - Ma io non ho detto che il Re sia cattivo; io ho parlato in generale e nulla più. - Dette queste parole, lo scolaro tutto conturbato si pose a piangere, e il Cav. Gatti gli domandò:

                - Perchè piangi?

                - Perchè lei mi domanda cose che non riguardano la storia, e io temo di risponderle male.

                - Sta quieto, conchiuse il Gatti; tu mi hai risposto bene. E forse con suo dispiacere, possiamo asserire noi, l'esaminatore non poteva dire altrimenti.

                Nella scuola medesima domandò il Cavaliere ad un altro allievo:

                - Come ti chiami?

                - Ropolo da Villafranca.

                - Che scuola fai?

                - Faccio quarta ginnasiale.

                - Conosci il Re?

                - Non l'ho mai veduto, ma so che Vittorio Emanuele è nostro Sovrano.

                - Sovrano perverso che perseguita la Chiesa, non è vero ?

                - Queste cose non appartengono alla storia che dobbiamo studiare, e perciò non so che cosa risponderle. [622]

                - Se non le hai studiate nella storia, le avrai udite da qualcheduno. D. Bosco vi ha detto tante volte queste cose! Non è vero ?

                - Non le ho mai udite; anzi la storia d'Italia scritta da D. Bosco che ci serve di testo, fa onorata memoria di Vittorio Emanuele e de' suoi antenati.

                - Insomma i persecutori della religione sono scellerati, soggiunse un altro dei tre; ma Vittorio Emanuele è un persecutore della religione; dunque è uno scellerato.

                - Lei, signore, conosce i fatti meglio di me, e potrà ragionare così; ma io non ho mai detto, nè udito a dire, nè da D. Bosco, nè dal mio professore che il Re sia uno scellerato. Questo so che tempo fa, il Re essendo caduto malato, D. Bosco ordinò preghiere per la sua guarigione e pel bene dell'anima sua, ed ho pregato anch'io.

                - Ma tu mi rispondi cose, che qualcuno ti ha suggerito.

                - No, signore, ma rispondo quello che mi detta il cuore e secondo verità. Niuno mi suggerì cosa alcuna, perchè niuno certamente avrebbe potuto immaginare che lei mi avrebbe fatte tali domande.

                Nella 3ª ginnasiale ove insegnava il Chierico Giovanni Turchi, le dimande si raggirarono sulla geografia d'Italia, e l'esaminatore parve soddisfatto delle pronte e adeguate risposte di un giovanetto per nome Luigi Jarach. Quindi si rivolsero al maestro.

                “Interrogato, scrive D. Turchi, quali fossero le punizioni di cui mi serviva per mantenere l'ordine, ricordo aver risposto che di punizioni, a parte qualcuna di niuna importanza, non aveva bisogno di usarne”.

                Ma gli allievi messi ad una vera tortura furono quei di 2ª ginnasiale, che avevano per maestro il Chierico Secondo [623] Pettiva. In questa scuola gli inquisitori riuscirono a trovare di che gloriarsi. Visitando i quaderni di bella copia degli allievi, scopersero che il professore aveva dettato per lavoro un brano di lettera latina di Papa Pio IX, la quale aveva già veduta la luce nei pubblici fogli.

                - Come? domandò il Gatti; si dettano agli scolari le lettere del Papa?

                - Osservi, Sig. Cavaliere, rispose il maestro, che non è una lettera ma solo un brano di lettera, ed è uno squarcio di pura latinità, che pare estratto da un'opera di Cicerone.

                Il Cavaliere, che non sapeva guari di latino, osservò nè punto, nè poco e replicò:

                - Comunque sia, non sono questi gli autori da proporre nelle scuole.

                - Io non ho punto proposto gli scritti del Papa ai miei allievi; ne ho solamente dettate poche linee da tradursi per uno dei lavori così detti di prova o dei posti. Per questi, soliti a darsi una volta per settimana, scelgo generalmente temi isolati: mi venne tra mano questo brano, che mi parve adattato alla capacità della mia classe, e lo dettai. Credo di non aver con ciò violata alcuna legge scolastica.

                Queste ragioni non approdarono a nulla; onde i tre perquisitori, ghermiti que' cartolari, e giudicando di aver finalmente scoperto il filo della cercata congiura, vollero esaminare dal primo all'ultimo gli allievi di quella scuola; ma siccome i giovanetti dovevano recarsi a pranzo, così vennero consacrate a questa inquisizione le ore pomeridiane.

                Era intanto mezzogiorno. Chierici, assistenti, capi d'arte, maestri e giovani andarono a pranzo, e i perquisititori accompagnati da D. Bosco, che aveva surrogato D. Alasonatti, approfittarono di quel tempo, per recarsi in giro nella casa a caccia del corpo del fantastico delitto. Quindi non vi fu [624] angolo, nascondiglio, che non sia stato da loro visitato; ogni cosa che porgesse lieve motivo a sospetto era manomessa e tolta di posto. Si portarono in refettorio, essendo presente Rossi Giuseppe, mentre vi si trovavano i giovani, esaminando che cosa mangiavano e interrogando questo e quell'altro, se non pativano di fame. Visitarono poscia la cucina ove si informarono minutamente dal cuciniere intorno vitto. Gustarono la minestra e il pane, e fecero molte interrogazioni ora all'uno, ora all'altro degli inservienti, sempre colla fisima che tutti fossero congiurati contro le istituzioni dello Stato. Capovolsero le pentole si fecero aprire gli armadii e spinsero lo sguardo scrutatore sino nel vaso dell'olio e in un sacco di riso. Anzi il Cav. Gatti, che dei tre mostravasi il più zelante, visto un mattone del pavimento collocato di fresco, venne tosto in sospetto che sotto vi fosse stato nascosto il corpo del delitto, e vi si fece sopra battendo col piede ed ascoltando, se suonasse da vivo o da morto. Nel luogo medesimo aperta una credenza ne scapparono due topi, e D. Bosco si pose a ridere.

                - Perchè ride? gli domandò il Sig. Molusardi.

                - Veramente, rispose egli, dovrei piuttosto compiangere lo spreco di autorità e dignità, che fate con sì puerili indagini; ma rido perchè spaventate i topi.

                Scesi in cantina vi perlustrarono non solo gli angoli oscuri, ma anche le botti. Veduto un grosso tino, il signor Malusardi domandò se fosse vuoto o pieno.

                - Disgraziatamente è vuoto, rispose D. Bosco.

                Allora colui vi salì per guardare dentro, mostrando di sospettare che fosse pieno di danaro o di armi, e fors'anche di congiurati, come il cavallo di Troia. Disgustati ed avviliti per non trovare quello che cercavano, i tre perlustranti si confortavano dicendo: [625]

                - Fummo assicurati che esiste in questa casa il corpo del delitto; dunque cercando dovremo trovarlo.

                - E io vi assicuro, soggiunse D. Bosco, che in questa casa non vi fu, nè vi è corpo di delitto alcuno, epperciò voi non lo troverete, lo cercaste ben anche sino al dì del giudizio.

                Di qui passarono a visitare minutamente la chiesa, i laboratorii, le sale di studio; apersero tavolini, scrittoi: nulla passò d'inesplorato, e per isbaglio o per troppo zelo aprirono fin anco i luoghi comuni.

                Rimaneva ancora da ricercare nei dormitorii, e vi furono condotti. Ivi tasteggiarono i guanciali e rovesciarono i sacconi; ma i poverini non riuscirono che a trovare qualche pulce e a portarsela via loro malgrado.

                Erano suonate le ore due pomeridiane, e i giovani, finita l'angosciosa loro ricreazione, si raccolsero, gli artigiani nei laboratorii, gli studenti nelle rispettive scuole.

                Allora i funzionarii cessarono la indecorosa loro occupazione, e ripigliarono l'esame degli scolari, pel quale mostravano maggior gusto. A quel punto D. Bosco li lasciò, e andò a prendere un boccone di cibo, perchè era ancora a stomaco vuoto.

                Per essere più liberi gli esaminatori si portarono nell'anticamera del Prefetto, e fecero chiamare a sè ad uno ad uno tutti gli allievi di seconda ginnasiale, classe di numero inferiore alle altre. Domandavano: - Ditemi, che cosa ha aggiunto del proprio il professore prima o dopo di aver dettato quel brano di lettera pontificia? - Alcuni asserivano che non vi aveva aggiunto niente. Quattro per caso non erano a scuola quando aveva dettato quel latino e nulla potevano dire. Dagli altri non cavarono una risposta che soddisfacesse la loro viva aspettazione.

                - Ma possibile, dicevano ad un certo Rebuffo, possibile [626] che non vi abbia detto niente? Dimmi: su quel machinationibus, su quel affictionibus del Papa, su quel patrare vi ha detto niente?

                - Io non mi ricordo: so che ha detto l'italiano in fretta e poi è scappato di scuola.

                E non diceva bugia, perchè il professore Pettiva una sera obbligato a dare una lezione di musica ed essendo piuttosto tardi, avendo in mano un foglio che conteneva la lettera del Papa, l'aveva dettata perchè la volgessero in italiano. E in fretta era uscito dalla classe. Tuttavia il medesimo maestro Pettiva, avendo capito lo scopo di quelle interrogazioni, entrò nella stanza e disse al Cavaliere Gatti: - Senta, nelle nostre scuole non si usa parlar di politica e perciò prescinda pure dall'interrogare.-

                Dopo questi più altri ancora di classi diverse, furono chiamati, assoggettandoli a tali torture di domande da disgradarne qualunque inquisizione: - Di chi sono le legazioni, le Marche, l'Umbria? Che cosa è il dominio temporale del Papa? Chi comanda in Italia? Che libri studiano? - E visto che correva tra le mani dei giovani la Storia d'Italia di D. Bosco ne facevano loro colpa.

                Non ebbero nessun riguardo e ce ne porge una prova l'interrogatorio seguente fatto subire al giovane Costanzo.

                - Da chi vai a confessarti?

                - Da D. Bosco.

                - È da molto tempo?

                - Due anni che sono in questa casa, sono sempre andato da lui.

                - Ci vai volentieri?

                - Ci vado molto volentieri.

                - Che cosa ti dice di bello in confessione?

                - Mi dà dei buoni consigli. [627]

                - Dimmene qualcuno; desidero tanto di conoscerli.

                - Ho udito a dire che le cose ascoltate in confessione non va bene ripeterle al di fuori. Del resto, se lei desidera aver dei buoni consigli, potrebbe andarsi a confessare da D. Bosco e son sicuro che gliene darebbe finchè ne vuole.

                - Ora non ho tempo. Ma dimmi: non ti dice che il Papa è un santo?

                - Dice che il Papa si chiama Santo Padre; e io credo benissimo che egli sia Santo, perchè è molto buono ed è il Vicario di Gesù Cristo.

                - Non ti dice che sono scellerati coloro, i quali gli hanno tolto una parte dei suoi Stati?

                - Queste cose non appartengono alla confessione.

                - Ma queste cose non sono peccati?

                - Se sono peccati ci pensino i colpevoli, quando vanno a confessarsi. Io non le ho fatte, e perciò non sono tenuto a confessarle.

                Da ciò ognuno si faccia idea del resto.

                O fosse per la stanchezza o per la convinzione di non poter trovare il corpo del delitto, i perquisitori, dopo quasi 7 ore d'inutile fatica, desistettero dall'ignobile impresa e giudicarono di andarsene. Sequestrarono tuttavia un pacco di quaderni tolti da ciascuna scuola per meglio esaminarli in uffizio: il Gatti vi unì una copia della Vita del giovane Savio Domenico, trovata ad un allievo della prima ginnasiale; e D. Bosco per fare buona misura vi aggiunse altresì le regole della Casa, allora soltanto manoscritte. - In queste regole, diss'egli nel consegnarle, i Sig.ri Ministri vedranno su quali principii e massime morali si appoggi l'educazione, che io imparto ai miei giovanetti, e potranno persuadersi che questo istituto, lungi dal creare delle noie al Governo, coopera invece al benessere delle famiglie e della società, col [628] formare dei buoni figliuoli e dei savii cittadini. Voglio quindi sperare, soggiunse, che lascieranno in pace me ed i miei poveri giovani.

                D. Bosco, libero che fu, ricomparve in mezzo ai suoi alunni e li invitò tutti a recarsi in chiesa per ringraziare il Signore.

                Al Ch. Durando però rincresceva che i quaderni degli alunni stati sequestrati rimanessero in mano all'autorità e quindi per mezzo dei giovani stessi li fece reclamare. Adussero per motivo il bisogno che ne avevano e per le scuole, e per gli esami finali, e perchè erano loro proprietà. Furono restituiti.

                D. Bosco ebbe poi una grande consolazione. Due de' principali istigatori di questa doppia visita, vennero a trovarlo per gli affari dell'anima loro. Così il Can. Ballesio.

 

 

CAPO XLV. D. Bosco nel tempo di tribolazione - Si leggono nell'assemblea dei socii le Regole della Pia Società - Previsioni sui pubblici avvenimenti - Le Regole della Pia Società sono firmate da tutti i socii e mandate a Mons. Fransoni - Risposta dell'Arcivescovo - La Questura di Torino e le persone di servizio dell'Oratorio - La politica e le ricchezze di D. Bosco - Giudizii di Urbano Rattazzi - Esposizione e supplica di D. Bosco a due Ministri - Udienza non concessa - D. Bosco si mostra sempre più allegro quanto più gravi sono i dispiaceri - Cinque giovani raccomandati all'Oratorio dal Ministero degli Interni.

 

                Nel tempo delle perquisizioni D. Bosco anzichè perdersi d'animo parve che ne acquistasse ogni dì più; e radunati i suoi coadiutori, diceva loro:

                Non temete: il Signore non ci abbandonerà. L'umile nostra società andrà avanti col suo aiuto. Haec est nostra salus, vita, spes, consilium, refugium, auxilium nostrum, Maria!

                Infatti come se vivesse in piena pace, preparava un atto importantissimo per il progresso della sua Congregazione.

                Il 7 giugno, due giorni prima della seconda perquisizione, D. Bosco aveva presieduta la radunanza dei membri della Congregazione di S. Francesco di Sales, i quali erano [630] ventisei. Fece leggere il regolamento, invitando tutti a sottoscriverlo in una prossima radunanza, perchè intendeva mandarlo all'Arcivescovo Fransoni acciò l'approvasse. Qualcuno proponeva che fosse attribuito a D. Bosco anche il diritto di eleggersi i Consiglieri del Capitolo; ma egli arrecando savie ragioni, asseriva che quei consiglieri dovevano essere eletti da tutta la Pia Società. Sciolta l'assemblea, narra la cronaca di D. Ruffino, e rimasti alcuni presso di lui, egli, che aveva sempre dinanzi le vicende che agitavano la Chiesa e lo Stato, asseriva: - Le cose del giorno in Italia da quest'anno saranno mutate. Con ciò indicava chiaramente l'Italia governata da un solo Sovrano.

                L'11 D. Bosco, alla sera dopo le orazioni, radunava di bel nuovo tutti i soci della Congregazione. E gli angeli rividero lo spettacolo già da loro ammirato in Egitto, la notte nella quale il popolo Ebreo doveva partire per la terra di Chanaam. Tutti avean promesso di non separarsi mai per veruna ragione l'uno dall'altro; di stare tutti uniti tra loro e con Dio. “I giusti figliuoli dei santi, di nascosto offerivano il sacrifizio, e di unanime consentimento stabilirono questa legge di giustizia; che i giusti avrebbero del pari avuto parte ai beni ed ai mali; e cantavano già gli inni de' padri”[18].

                Si legge adunque nella cronaca di D. Ruffino - “L'11 giugno abbiamo sottoscritte le regole della Congregazione di S. Francesco di Sales per mandarle all'Arcivescovo Fransoni; e facemmo tra noi promessa solenne che se per mala ventura a cagion della tristezza dei tempi non si potessero fare i voti, ognuno in qualunque luogo si troverà, fossero anche tutti i nostri compagni dispersi, non esistessero [631] più che due soli, non ce ne fosse più che un solo, costui si sforzerà di promuovere questa Pia Società, e di osservarne sempre, per quanto sarà possibile, le regole.” Ecco il prezioso documento.

 

                               Eccellenza Reverendissima,

 

                Noi sottoscritti, unicamente mossi dal desiderio di assicurarci la nostra

                eterna salute, ci siamo uniti a far vita comune a fine di poter con maggior comodità attendere a quelle cose, che riguardano la gloria di Dio e la salute delle anime.

                Per conservare l'unità di spirito, di disciplina e mettere in pratica mezzi conosciuti utili allo scopo proposto, abbiamo formulato alcune regole a guisa di Società Religiosa, che escludendo ogni massima relativa alla politica, tenda unicamente a santificare i suoi membri, specialmente coll'esercizio della carità verso il prossimo. Noi abbiamo già provato a mettere in pratica queste regole e le abbiamo trovate compatibili colle nostre forze, e vantaggiose alle anime nostre.

                Ma noi sappiamo, che la mente dei privati va troppo soggetta ad illusioni e spesso ad errare se non è guidata dall'autorità stabilita da Dio sopra la terra, che è la santa Madre Chiesa. Egli è per questo motivo, che noi ricorriamo umilmente a V. E. Reverendissima, facendole umile preghiera di voler leggere l'unito piano di Regolamento, cangiare, togliere, aggiungere, correggere quanto il Signore Le inspirerà per maggior sua gloria e compatibile colle nostre forze.

                Noi riconosciamo in Lei, Eccellenza Reverendissima, il Pastore, che ci unisce col supremo Gerarca della Chiesa di Gesù Cristo. Parli V. E. e nella voce di Lei noi riconosceremo la volontà del Signore.

                Mentre La supplichiamo di accogliere con bontà questa nostra dimanda, prostrati le dimandiamo la Santa Sua Benedizione, e La preghiamo di voler leggere l'unito piano di regolamento, in fine a cui tutti ci sottoscriviamo:

                Sac. Bosco Giovanni, Rettor provvisorio.

                Sac. Alasonatti Vittorio, Prefetto.

                Sac. Savio Angelo, Economo. [632]

                Diac. Rua Michele, Direttore Spirituale.

                Ch. Cagliero Giovanni, Consigliere, 3. anno di Teologia.

                Ch. Bonetti Giovanni, Consigliere, 1. anno di Teologia.

                Ch. Ghivarello Carlo, Consigliere, 2. anno di Filosofia.

                Ch. Francesia Gio. Battista, 3. anno di Teologia.

                Ch. Pettiva Secondo, Stud. 2. anno di Teologia.

                Ch. Bongiovanni Giuseppe, Stud. 2. anno di Teologia.

                Ch. Ruffino Domenico, Stud. 2. anno di Teologia.

                Ch. Durando Pietro Celestino, 1. anno di Teologia.

                Ch. Anfossi Giov. Battista, 1. anno di Teologia.

                Ch. Vaschetti Francesco, 1. anno di Teologi.

                Ch. Rovetto Antonio, 2. anno di Filosofia.

                Ch. Cerruti Francesco, 1. anno di Filosofia.

                Ch. Lazzero  Giuseppe, 1. anno di Filosofia.

                Ch. Provera Francesco, 1. anno di Filosofia.

                Ch. Chiapale Luigi, Stud. di 2. Rettorica.

                Ch. Garino Giovanni, Stud. di 2. Rettorica.

                Ch. Capra Pietro, Stud. di 2. Rettorica.

                Ch. Donato Edoardo, Stud. di 2. Rettorica.

                Ch. Momo Gabriele, Stud. di 2. Rettorica.

                Albera Paolo, Stud. di 1. Rettorica.

                Rossi Giuseppe, Coadiutore.

                Gaia Giuseppe, Coadiutore.

 

                Monsignor Fransoni rispondeva a D. Bosco col seguente foglio:

 

                               M. Reverendo Signore,

 

                Ricevetti in ritardo la sua lettera 13 scorso giugno colle unite Costituzioni, che già ho letto una volta, ma mi riservo a meglio ponderarle, mentre aspetto un'occasione per rimandarle a Torino; e penso anche di consultare qualche persona che meglio di me s'intenda di quanto riguarda la vita di comunità, e frattanto le do questo breve cenno per sua regola.

                Ho veduto ben con dispiacere le vessazioni, a cui venne sottoposto; ringrazio il Signore che la sua salute non abbia avuto a gravemente soffrirne. [633] Scrivo di volo per trovarmi molto occupato, e pregando dal Cielo le più copiose benedizioni sulla di Lei persona e su tutti i membri della pia associazione, mi raccomando alle orazioni di tutti e sono colla più perfetta, cordiale stima

                Lione, 7 luglio 1860.

Suo dev.mo ed aff.mo

Servo LUIGI Arc. di Torino

 

                Così D. Bosco aveva risposto alle minacce del mondo, il quale però continuava nelle sue opere maligne.

                Pochi giorni dopo la riferita perquisizione il Questore Chiapussi, per incarico di chi non si sa, mandò a chiamare a se varii uomini, che sapeva essere stati all'Oratorio; alcuni dei quali vi erano tuttora in qualità di capi di laboratorio o di servi; ed altri che trovavansi già impiegati in città in qualche casa di commercio od officina. Avutili in questura fece loro, pressochè a tutti le stesse domande. Voleva conoscere quale fosse la politica di Don Bosco, se Pio IX gli mandava molto denaro per arruolare soldati, dove D. Bosco prendesse le somme necessarie per effettuare tante imprese, quali fossero i principali suoi benefattori. Ma niuno potè affermare cosa la quale compromettesse l'Oratorio. Risposero concordemente: - Non abbiamo mai udito D. Bosco parlare nè di armi, nè di guerra; quando non ha più danari va in giro per tutte le parti del mondo per trovare chi gli faccia la carità. -

                Fra gli interpellati vi fu un certo Domenico Goffi, già capo dei nostri calzolai e portinaio. Costui era sui 40 anni, conosceva D. Bosco da molto tempo, aveva le gambe storte ma la lingua sciolta. Sebbene non si fosse mai trovato dinanzi alle pubbliche Autorità, tuttavia non si perdè di animo, e col cuore alla mano e con franchezza, rispose:

                - Signor Questore, lei mi dimanda qual sia la politica [634] di D. Bosco; io la conosco da molti anni, e le rispondo che la sua politica consiste nel pensare a provvedere pagnotte ai suoi giovanetti.

                - Ma non vi parlò di andarvi ad arruolare tra i soldati del Papa per fare la guerra al nostro Re?

                - A me una tal proposta non l'ha mai fatta certamente, perchè son zoppo e mi dovrebbero portare; ma nella mia qualità di portinaio trattavo con tutti i miei compagni e coi giovani più adulti dell'Oratorio interni ed esterni, e posso assicurare che non ho mai udito a dire da alcuno che D. Bosco abbia detto loro consimili parole. Parla sovente di combattere il diavolo, colle armi della preghiera e colla frequenza ai Sacramenti, ma non s'immischia mai nè di guerra, nè di soldati di questo mondo.

                - Corre voce che Pio IX gli abbia mandato una grossa somma di danaro; e voi ne sapete niente?

                - So che l'anno 1858, quando D. Bosco fu a Roma, Pio IX gli diede una somma di denaro, perchè facesse stare allegri una volta tutti i giovani, che frequentano i tre Oratorii di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia; ma non so e non credo che in appresso gli abbia mandato tanto danaro, come lei mi dice. Se fosse così non si vedrebbe D. Bosco ad uscire tanto sovente per andare a chiedere la carità in Torino pei suoi orfanelli, e non sarebbe così perseguitato dai creditori. S'immagini, signor Questore, che di quando in quando in porteria ho assistito a scene, le quali mi fecero propriamente compassione. Vengono i creditori, e sapendo che nella tale ora egli deve uscire od entrare in casa lo aspettano, e poi chi domanda, chi prega, chi grida, chi minaccia che vuol essere pagato. Il povero uomo promette che soddisferà tutti, che non farà perdere un soldo ad alcuno, ma che per ora [635] abbiano pazienza, perchè ha nulla, proprio nulla. Io stesso ho fatto il calzolaio e so che il provveditore del corame talora non vuole più somministrarne, perchè Don Bosco non può pagarlo a tempo e luogo. E può ella credere, signor Questore, che se D. Bosco avesse tanto danaro, come si dice, non lo userebbe anzitutto per levarsi simili noie?

                - E il denaro che manda ai suoi fratelli, i quali comprano cascine e fabbricano case e palazzi, dove lo prende?

                - Questo non è vero, signor Questore, perchè Don Bosco non ha più nè padre, nè madre, nè sorelle, ma un sol fratello, che lavora la terra con i suoi figli.

                - Eppure mi fu detto che nelle vacanze conduce i suoi giovani in campagna a Castelnuovo d'Asti; in casa di chi li conduce?

                - Li conduce in casa sua; ma quella ben lungi dall'essere un palazzo od una gran cascina, è sì piccola, che i giovani possono a mala pena essere riparati dalle intemperie della stagione, agglomerati nella stalla e sul fienile.

                - Sarà come voi dite, ma non si può negare che Don Bosco riceva del denaro. Sapreste voi dirmi quali sono, i principali suoi benefattori?

                - Credo anch'io che D. Bosco abbia in Torino dei benefattori che gli diano dei soccorsi, se no, dovrebbe lasciar morire di fame più centinaia di poveri giovanetti, o metterli sopra una pubblica strada. Tutti quelli che hanno un po' di carità gli prestano aiuto; ma non saprei chi siano i suoi benefattori. Confesso per altro che vorrei che fossero benefattori di D. Bosco tutti i Torinesi, compreso, il signor Questore e i questurini. Se possono, lo aiutino, pure D. Bosco, e siano sicuri che la loro carità sarà bene impiegata. [636] Tali parole, dette con molta bonarietà da quel bravo uomo fecero ridere tutti i presenti, ed una guardia scherzando disse: - Porta il nome di Goffi, ma parla da savio.

                Cotali vessazioni erano una vera tribolazione; ma per la bontà di Dio apportarono anche non pochi vantaggi. Non ultimo di questi fu l'aver guadagnata a D. Bosco e ai suoi alunni la simpatia degli uomini dabbene, e di quelli eziandio i quali non la sentivano con lui in fatto di principii religiosi, ma che passavano per gente onesta ed amante della vera libertà.

                I promotori di questa ultima inquisizione, amavano che rimanesse nascosta, imposero silenzio agli interrogati, ma ottennero l'esito opposto. La cosa volò a notizia di tutti, e da tutte parti si andava dicendo, essere una pura malignità, che un Governo sotto l'insidioso manto della legge si facesse lecito di mettere sossopra le case de' privati cittadini, rendendosi così da se stesso odioso.

                Alcuni degli stessi Deputati non si peritavano di qualificar per abusi di potere quelle molestie, e le chiamavano atto illegale ed impolitico; illegale, perchè contrario allo Statuto; impolitico, perchè praticato a danno di un Istituto, che dava pane, alloggio ed istruzione a più centinaia di fanciulli abbandonati, molti dei quali, senza un tale provvedimento, avrebbero dato dei gravi fastidi al Governo.

                Fra gli altri Urbano Rattazzi, allora non più Ministro, ma semplice Deputato, mandò a chiamare D. Bosco, ed avutolo in casa sua, si fece raccontare per filo e per segno tutto quanto avevano fatto e detto i perquisitori. All'udire le scene avvenute si mostrò altamente irritato, dichiarò essere quelle perquisizioni vere infamie e si offerse di muoverne interrogazione al Ministro in Parlamento. Egli [637] diceva: - Io non sono un pretofilo, ma amo il bene da chiunque si faccia e a qualunque partito egli appartenga. Il Ministro, molestando o permettendo che i subalterni vadano a molestare simili Istituti, si rende reo di lesa filantropia, e commette tale iniquità, che merita di essere denunziata a tutte le nazioni civili. - D. Bosco ringraziò l'ex - Ministro della sua buona intenzione a favore dell'Oratorio, ma non giudicò di permettere che egli desse a quei fatti sì grande pubblicità nella Camera dei Deputati, amando meglio di abbandonare la sua causa nelle mani della Divina Provvidenza, e di appigliarsi a mezzi pacifici. A questo uopo egli scrisse ed inviò al Ministro degli Interni Luigi Farini, e al Ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani, una breve esposizione in forma di supplica così concepita:

 

                               Ill.mo Sig. ministro,

 

                Prego rispettosamente la S. V. Ill.ma a voler con bontà leggere ciò che brevemente espongo riguardante alla Casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco. Sabato, 9 corrente, per ordine di cotesto Ministero fu fatta una perquisizione nelle scuole, nei dormitorii, negli apprestamenti di tavola, sulle entrate ed uscite, sulle provenienze di mezzi, con cui quest'opera è sostenuta. Io non ho potuto sapere i motivi, che abbiano dato luogo a tale misura governativa, ma se V. S. volesse usarmi la grande bontà di dirmeli, l'assicuro che sarei pronto a soddisfarla francamente secondo verità, senza disturbare più oltre le Autorità governative, e senza recar danno forse irreparabile all'opera degli Oratorii. Frattanto La prego umilmente a volersi persuadere che io:

                1. Sono in Torino da venti anni, ed ho consumato ogni momento di mia vita nel Ministero Sacerdotale per le carceri, per gli ospedali, scorrendo talor le piazze, le contrade per togliere dai pericoli i fanciulli abbandonati, ed avviarli alla moralità, al [638] lavoro, ed allo studio, secondo la rispettiva capacità ed inclinazione.

                2. Ho sempre lavorato per compire il dovere di sacerdote, senza aver mai nè percepito, nè chiesto corrispettivo di sorta. Anzi ho impiegato, e lo farei volentieri ancora oggi, tutte le mie sostanze nella costruzione dell'attuale edifizio e nel sostentamento dei giovani ivi accolti.

                3. Sono sempre stato rigorosamente estraneo alla politica; non mi sono mai mischiato nè pro, nè contro alle vicende di attualità del giorno. Anzi per impedire ogni principio di partito, fu in questa Casa proibito parlar di politica in qualsiasi senso. Quindi niuno di questa Casa fu mai associato ad alcun giornale. Questo ho stimato di fare, nella persuasione, che un sacerdote possa sempre esercitare il pio ministero di carità verso il suo prossimo in qualsiasi tempo e luogo, e in mezzo a qualunque specie di Governo. Ma mentre le assicuro che fui sempre estraneo alla politica, posso con egual franchezza accertarla che non ho mai nè detto, nè fatto, nè insinuato cosa, che fosse in opposizione alle leggi del Governo.

                4. Le mie scuole non sono mai state approvate legalmente, perchè scuole di beneficenza. Ma i Provveditori, gli Ispettori ed i medesimi Ministri di pubblica istruzione ne erano informati, e davano la loro tacita approvazione con visite personali, venendo ad assistere agli esami, come fecero più volte il Cav. Baricco, l'ispettore Nigra, il Cav. Aporti, ed altri. Approvarono pure talvolta con largizione di danaro e di libri, e talvolta colla dispensa dal minervale ed anche con lettere. Unisco soltanto copia di una di esse del Ministro Lanza, con cui incoraggia l'opera degli Oratorii e le scuole che ivi hanno luogo. Questo favore del Ministro di pubblica istruzione era in parte motivato da due ordini del giorno, uno della Camera dei Senatori, l'altro dei Deputati, in cui raccomandavasi al Governo del Re di sostenere e promuovere l'opera di cui è discorso. È vero che la legge Casati sottomette l'insegnamento ad alcune formalità, le quali io aveva già iniziato con quel Ministro, che fu ed è nostro insigne benefattore. E tal cosa avrei certamente eseguito prima che fosse cominciato l'anno scolastico 1860 - 61, in cui deve essere compiuta l'applicazione generale della legge, art. 379. [639]

                5. Da alcuni anni in qua venendo le officine ristrette, ed essendo frequentissime le domande di giovani da ricoverarsi, ho destinato un maggior numero di giovani allo studio. Ora ne ho un buon numero che si guadagnano altrove il pane della vita, chi in qualità di maestro approvato, chi colla musica, ed altri avendo percorso la carriera ecclesiastica lavorano in diversi paesi nel Sacro Ministero.

                Se V. S. Ill.ma, dopo aver letto quanto sopra stimasse di prendere qualche deliberazione in proposito, io non ho difficoltà di sottomettermi. Le fo soltanto umile preghiera a volerlo far privatamente come un padre, il quale desideri che le opere si compiano nel miglior modo possibile; ma non con atti minacciosi, che a tali opere talvolta recano un danno irreparabile.

                Ora che ho esposto quanto maggiormente mi premeva, raccomando in fine questi miei poveri giovani alla sua clemenza; e pregandola a voler dare benigno compatimento al disturbo che Le ho recato, sono contento di poterle augurare ogni bene dal Cielo, reputando ad alto onore di potermi professare con pienezza di stima e di gratitudine

                Torino, 12 giugno 1860.

Obbl.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco.

 

                A questa esposizione era unito un quadro esatto e particolareggiato dello stato dell'Oratorio, del quale più non ci rimane che la traccia, conforme però pienamente alle risposte date da D. Alasonatti e da D. Bosco ai perquisitori.

                Alla lettera che D. Bosco aveva indirizzato al Ministro Farini, era fatta la seguente risposta.

 

MINISTERO DELL'INTERSO - GABINETTO PARTICOLARE

 

                Il Ministro dell'Interno ha ricevuta la lettera del Sig. Sacerdote D. Bosco, e per ora non essendogli concesso di rispondere al medesimo per iscritto, gli fa conoscere, che se Egli volesse [640] venire a questo Ministero prima delle cinque, di quest'oggi, o nella mattina di domani, conferirà con lui direttamente.

                D'ordine del Ministro

                Torino, addì 13 giugno 1860.

Il segretario particolare di Gab.

G. BORROMEO.

 

                D. Bosco fu puntuale, e si recò al palazzo del Ministro. Ma la freddezza colla quale fu accolto dagli impiegati, l'annunzio che il Ministro non poteva riceverlo essendo, occupato in affari di stato imprevvisti, gli fecero intendere che la tempesta sull'Oratorio non era ancor dissipata.

                Ritornava perciò all'Oratorio persuaso di dover andare incontro ad altre e forse più dure prove. Vedendo quell'ostinata insistenza de' suoi nemici, incominciò a riflettere, sulle future possibili complicazioni, e l'anima sua fu angustiata. - Adunque che cosa sarà di me e dell'Oratorio?... che il Signore voglia permettere, almeno per ora, la sua distruzione? - E non sapeva come vederci chiaro in tanto buio. Non già che dubitasse dell'esito della sua missione; ma Dio permetteva questo turbamento perchè si conoscesse che da lui solo venivagli ogni forza. Tuttavia il ricordo delle parole che il Canonico Anglesio aveva proferite nel tempo della prima perquisizione, gli procurava un grande sollievo; e in volto appariva sempre la pace; ed era segno per D. Rua, che i suoi fastidi erano giunti allo stato acuto, quando aggiungeva al sorriso lo scherzo. In queste circostanze soleva interrogare or sopra una storiella ora sopra un'altra. Ad uno: - Tu raccontami la storia di Gianduia - Tu quella della torre del palazzo di Città. - Ad altri: Avete notizie di Garibaldi?-

                E rideva. [641] Avrebbe anche potuto dire: - Sua Ecc. Farini che cosa fa? - Risum tenatis amici.

                Dalla Divisione quinta del Ministero dell'Interno continuavano in questi stessi giorni a pervenirgli cinque raccomandazioni, perchè accettasse nel suo Ospizio giovani poveri ed abbandonati.

                Il 20 giugno la posta recava a D. Bosco una petizione fatta al Ministro, in favore di Quaranta Lorenzo, di Vernante in età di anni dieci, orfano di padre e di madre sotto la quale stava scritto: “Al sig. Sac. Bosco Direttore dell'anzidetto pio istituto con preghiera di veder modo di accogliere in esso il giovanetto di cui è caso. - D'ordine del Ministro, Salino”. Questo documento porta il N. 1770.

                Il 25, e il 29 giugno segnate dai numeri 1823 e 1874, rimettevansi due suppliche l'una presentata per G. B. Guglielmetto nato a Susa nel 1848, privato di padre per un accidente ferroviario; l'altra scritta da Gallo Giuseppe di anni 12 di Collereto Castelnuovo, Ivrea, perchè desideroso di imparare un arte, nel ricovero del sig. D. Bosco.

                In calce di queste due suppliche stava scritto: “Al Sacerdote D. Giovanni Bosco Direttore del pio Istituto di S. Francesco di Sales in Valdocco sobborgo di Torino, per quei speciali riguardi che ravviserà il caso. - D'ordine del Ministro, Salino”.

                Oltre le suddette suppliche, per un quarto giovane il Ministro non si accontentò di una semplice postilla.

Torino, addì 25 giugno 1860.

 

                Ministero dell'Interno, Divisione 5 N. 1817 Pervenne testè a questo Ministero il qui accluso ricorso, coll'unitevi fedi, inteso a conseguire la gratuita ammissione nel pio Istituto di S. Francesco di Sales in Valdocco sobborgo di questa [642] Capitale, del giovinetto Giulio Paroncini figlio di Petronilla Paroncini.

                Preso a considerare le circostanze ivi esposte, e ritenuto che la dimora dello stesso fanciullo in detto pio Istituto si limiterebbe, a poco più di due anni avvenire, in quantochè al raggiungere del 14 anno di sua età potrà essere accolto nel Collegio Militare in Racconigi, il sottoscritto non può che caldamente raccomandarlo alle caritatevoli premure del Sig. Sacerdote Bosco, Direttore dell'anzidetto Pio Istituto.

                Nella fiducia quindi che anche in questo caso il Sig. Sacerdote Bosco sia per aderire, favorevolmente a cosiffatta domanda, con disporre per la pronta ammissione di questo fanciullo in cotesto Istituto, il Ministero si riserva, non appena sarà informato del di lui effettivo ricovero, di fargli corrispondere una sovvenzione di lire 60 per una volta tanto nel proprio bilancio, avuto riguardo alla non lunga assistenza che per tal modo verrà prestata allo stesso giovanetto.

D'ordine del Ministro

SALINO.

 

                Nello stesso giorno S. E. rinnovava sue istanze per l'accettazione del giovane Fulgenzio Craveri, già fatte e giunte per lettera all'Oratorio nel tempo della prima perquisizione. D. Bosco aveva accettato quel poveretto, ma rimandando la sua entrata in casa al tempo che avesse compiuti i dodici anni.

Torino, addì 25 giugno 1860.

 

                Ministero dell'Interno, Divis. 5 N. 1470 Partecipata al Giuseppe Raspino di Govone la risposta fatta a questo Ministero dal Sig. Sacerdote Bosco, Direttore del pio Istituto di S. Francesco di Sales in Valdocco, colla di lui lettera del 2 corrente mese in ordine al ricovero, nello stesso pio Istituto del giovane Fulgenzio Craveri, si fa egli ora a porgere nuove [643] istanze onde questo povero orfano sia ivi accolto immediatamente non ostante il difetto dell'età additato nell'anzidetta lettera.

                Nel riconfermare quindi al Sig. Sacerdote Bosco quanto il sottoscritto ebbe al riguardo ad accennargli con dispaccio del 23 scorso maggio N. 1470, lo prega a veder modo, se gli sia possibile di fare appagato il pietoso desiderio del suddetto Raspino, zio del povero Craveri di cui è caso.

D'ordine del Ministro

SALINO.

 

                D. Bosco lo accettò pel 1 marzo 1861 epoca dell'entrata dei nuovi artigiani.

 

 

CAPO XLVI. Malattia di D. Cafasso e cause di questa - D. Bosco al letto del suo benefattore - Morte di D. Cafasso e dolore di D. Bosco - Nell'Oratorio è tramandata la festa di S. Giovanni - Funerali - Il testamento e un legato - Gli onori ad un santo e la trista fine di un nemico del Papa - La festa di S. Luigi nell'Oratorio - La messa di settima per D. Cafasso - Il Canonico Galletti ed il Teol. Golzio.

 

                In questo mese di giugno Torino, il Piemonte, la Chiesa, dovevano soffrire la perdita di una vita così utile e così preziosa come quella di D. Cafasso. Molti incomodi lo assalirono. La nausea del mondo, il pensiero dell'eternità accompagnavano ogni suo passo.

                Il lunedì giorno 11 un messo del Convitto recava all'Oratorio una inquietante notizia. D. Cafasso, confessando, aveva sentito a mancarsi le forze e per non cadere in isfinimento, un'ora prima del mezzo giorno era andato a letto. Il suo male, che provveniva da un'affezione al polmone con un corso di sangue allo stomaco, in gran parte, era cagionato dal dolore che provava e per le perquisizioni fatte all'Oratorio di S. Francesco di Sales ed al Convitto e per ciò che si faceva in Italia contro la Chiesa e contro [645] la religione. In varie città venivano imprigionati molti religiosi, preti e chierici. Erano in carcere il Card. Baluffi Vescovo d'Imola e i Vescovi di Carpi, Ferrara, Faenza. Il Vescovo di Piacenza Mons. Antonio Ranza il 9 giugno era stato condotto a Torino da' carabinieri come prigioniero di Stato. Tratto dinanzi al Ministro di Grazia e Giustizia, ebbe la sofferenza, Egli Pastore, di udirsi insegnare il Vangelo da tale pecora, e fu confinato nella casa dei Fratelli della Dottrina Cristiana. Questi venerandi ministri di Dio venivano così vessati perchè non vollero cantare certi Te Deum! Anche ai laici toccavano le carezze del Governo, il quale fece frugare in tutti; gli angoli del palazzo a Borgo Cornalense presso Torino della Duchessa di Montmorency l'insigne benefattrice di D. Cafasso e di Don Bosco: e l'abitazione del Conte di Collobiano, il quale andava frequentemente a visitare l'Arcivescovo di Pisa. Ma non trovò il minimo filo della supposta congiura clericale.

                D. Cafasso addolciva la pena che gli cagionavano tali notizie colle aspirazioni continue verso il Paradiso. Egli prevedeva con tanta chiarezza la sua morte, che pareva ne avesse avuta chiara rivelazione del giorno, dell'ora e di altre particolarità, quantunque i più accreditati periti nell'arte medica, facendo quanto l'affetto e il dovere potevano suggerire, nutrissero per una settimana fiducia di guarigione. La sua tranquillità, la sua pazienza, la sua rassegnazione e la viva fede giungevano all'eroismo.

                D. Bosco ogni giorno andava a visitarlo e una volta D. Cafasso gli disse di ordinare per lui speciali preghiere nell'Oratorio. L'abbiamo già fatto rispose D. Bosco e, continueremo a pregare: ma ho detto ai nostri giovani che lei sarebbe venuto un giorno festivo a darci la benedizione col SS. Sacramento. - State tranquillo, soggiunse [646] D. Cafasso; andate, pregate e dite ai vostri giovani che vi benedirò tutti dal Paradiso.

                Allora D. Bosco lo richiese se avesse qualche commissione a lasciare, qualche cosa a scrivere, qualche ordine a dare: - Sarebbe bella, rispose ridendo, che io il quale ho sempre predicato agli altri che un prete deve ogni sera aggiustare le cose sue, come se quella fosse l'ultima notte di sua vita, io poi non l'avessi fatto ed avessi aspettato a questo momento ad aggiustare le mie cose temporali. Tutto è aggiustato, tutto è aggiustato. Un sol affare debbo ancora trattare, ed è quello che riguarda il Paradiso che presto avrò! presto avrò! -

                Era da tutti notato come egli accogliesse colla solita bontà, chiunque si avvicinasse al suo letto; ma dopo alcuni minuti raccomandandosi alle preghiere de' visitatori, dava segno che se ne partissero. Non voleva che alcuno si fermasse con lui più del tempo richiesto dallo stretto bisogno. Bramava di rimanere solo a fine di potersi più liberamente trattenere col suo Dio, anche quando la malattia stava per estinguere la sua vita. Anzi non dava segni di gradimento neppure quando gli erano suggerite giaculatorie; quasi che tali preghiere gli interrompessero gli ordinarii colloquii con Gesù Cristo, con la Madre del Salvatore, col suo Angelo Custode e con S. Giuseppe.

                Lo disturbava una continua assistenza dell'infermiere. Tuttavia D. Bosco un giorno rimasto solo con lui si fece animo a dirgli, essere cosa ottima l'avere regolarmente persona presso al suo letto, sia per que' servigi che frequentemente gli occorrevano, sia anche per ricevere qualche parola di conforto. - No, tosto rispose; no. - Di poi esclamò con forza: - E non sapete che ogni parola detta agli uomini è una parola rubata al Signore?-  [647] D. Bosco partendo lo stava qualche volta osservando, dall'uscio socchiuso della sua camera e lo vedeva giungere le mani, baciare e ribaciare il crocifisso, poi cogli sguardi rivolti al cielo, parlare interrottamente come in un discorso famigliare.

                Il venerdì 22 giugno D. Cafasso ricevuto il Viatico in forma solenne, fece egli stesso conoscere che desiderava si apparecchiasse rocchetto, stola e rituale per l'Olio Santo e per la benedizione papale. Al sacro rito volle presenti i convittori dei quali nel Convitto ne rimanevano Soli 250 per loro ragioni particolari, o pel servizio alla Chiesa. Gli altri subìto l'esame annuale erano partiti per le loro case. D. Bosco alla sera chiedeva l'ultima benedizione al suo padre spirituale e benefattore; fu una scena commoventissima.

                Scrive Mons. Cagliero: “Trovandosi D. Cafasso negli ultimi momenti di vita incontrammo D. Bosco che veniva da visitarlo per l'ultima volta. Era afflittissimo; ma noi non eravamo meno afflitti di lui. D. Bosco per consolarci ci disse che presto lo avremmo avuto protettore in cielo. E ci parlò come un santo sa parlare di un altro santo, delle sue rare virtù, dei doni straordinarii che aveva ricevuto da Dio. Ci descriveva la sua divozione alla Madonna e come il sabato fosse per lui un giorno tutto di Maria SS.; e lo passasse in rigoroso digiuno; ed Ella gli concedesse con prontezza in quel giorno qualunque grazia le avesse chiesta”.

                Spuntava il 23 giugno. D. Cafasso di buon mattino faceva celebrare la santa Messa nell'Oratorio annesso alla sua camera e, come aveva praticato nei giorni antecedenti, si comunicava. Era sabato, ed egli, che tanto aveva operato per la gloria di Maria, desiderava di morire in tale [648] giorno a Lei consacrato. Spesso aveva detto e lasciava pure scritto: “Che bella morte morir per amor di Maria. Morire nominando Maria. Morire in un giorno dedicato a Maria. Morire nel momento più glorioso di Maria. Spirare nelle braccia di Maria. Partire pel paradiso con Maria. Sedere in eterno vicino a Maria”.

                Verso le nove ore antimeridiane entrava in agonia mettendo le braccia in croce. Ed ecco suonate le dieci, presso a spirare, mentre già si recitava il Profiscere, ad un tratto si scuote, e si volge come se avesse udito chiamarsi per nome e per tale maniera che si vide sensibilmente il suo corpo sollevarsi dal letto e rimanere così in aria su di un fianco, cogli occhi destati, vivi quasi per meraviglia. Ed ecco stende le braccia amorosamente ad un oggetto invisibile e misterioso. Era la Santa Vergine, come si ha ogni ragione di credere, che gli compariva visibilmente a consolarlo in quegli ultimi aneliti, accordandogli la grazia che egli aveva per tanti anni implorata con quella preghiera: - Voglio slanciarmi tra le vostre braccia in punto di morte! - Lo sguardo del morente era volto verso l'estremità del letto e cadeva sul quadro rappresentante la morte di S. Giuseppe. Poco dopo spirava. Attestarono il fatto due convittori D. Allachis e D. Bonino, che erano presenti e Mons. Cagliero che l'udì dalla bocca di D. Bosco.

                D. Bosco era stato avvisato in fretta del trovarsi Don Cafasso agli estremi. Egli andò subito col giovane Cerruti Francesco e giunse che era spirato da pochi istanti. Gettatosi in ginocchio a fianco del letto, ruppe in dirottissimo pianto.

                Alla sera diede ai giovani il doloroso annunzio, fece l'elogio di D. Cafasso, promise che ne avrebbe scritta la [649] vita e ordinò che la festa di S. Giovanni Battista fosse trasportata fino alla domenica 1 luglio dopo la solennità di S. Luigi, che si doveva celebrare il 29 giugno.

                Il 23 e il 24 giugno la camera di D. Cafasso venne mutata in cappella ardente. Vi fu un grande concorso di gente a contemplare il corpo del santo prete che spirava dal volto un aria di Paradiso. Si baciavano le sue mani, si tagliavano i suoi panni, i suoi abiti, i suoi capelli, si faceva toccare il suo corpo con oggetti che divenivano preziosi per tale contatto. Tutti volevano reliquie.

                Il 24 alla sera chiusa la salma in una cassa di noce fu trasportata nella chiesa di S. Francesco d'Assisi, in mezzo a folla straordinaria che baciava il drappo funebre. Qui per le vive istanze del popolo, si riaperse la bara, si fece vedere il sacro cadavere e poi si rinchiuse.

                Il 25 al mattino sull'alba recitato dai convittori l'ufficio dei defunti, il Teol. Golzio cantò la messa da Requiem. La gente faceva ressa, molti piangevano e alcuni deponevano fiori e gigli sul feretro. Era uno spettacolo commovente.

                Giunta l'ora fissata per la sepoltura sfilò il corteggio funebre. Procedevano varie confraternite, i Francescani, una rappresentanza dell'Oratorio di Valdocco e una fila di circa 200 Sacerdoti, fra i quali D. Bosco, senza tener conto dei molti che seguivano la bara. Lungo la via stavano assiepati migliaia e migliaia di cittadini. D. Bosco udiva da ogni parte, elogi, preghiere, singhiozzi.

                Giunti alla parrocchiale dei Santi Martiri pure stipata di gente, si cantò la messa, si fecero le esequie e quindi i soci della confraternita di S. Rocco levarono sulle spalle il prezioso deposito e si diressero al campo santo. Molta gente d'ogni ordine di persone prese a seguire il feretro [650] recitando preghiere e rosari alternati tra sacerdoti e popolo. La piccola chiesa del cimitero Torinese non potè contenere la moltitudine che seguiva quelle venerande spoglie. Compartita l'assoluzione funebre il feretro era trasportato in una camera mortuaria, ove fu una gara tra i fedeli nel dividersi i fiori soprastanti alla cassa, quasi preziose memorie del defunto sacerdote.

                I giorni seguenti continuarono le visite al suo sepolcro delle persone da lui beneficate. D. Bosco fu pure a visitarlo e lasciò scritto: “Il Cristiano cimitero sempre eloquente maestro a chi vi entra collo spirito della fede e colla preghiera della religione, diviene un luogo indispensabile al cuore, quando tra quelle tombe dimorino le ceneri dei nostri diletti benefattori”.

                Intanto, con verbale del 25 giugno 1860 della Corte d'Appello, fu aperto il testamento segreto di D. Cafasso, che aveva la data del 10 ottobre 1856. Il servo di Dio lasciava i beni di famiglia a' suoi parenti, e quelli ereditati dal Guala alla piccola Casa della Divina Provvidenza. Fra i molti legati vi era l'articolo decimoquarto in favore di D. Bosco e de' suoi giovinetti “Lascio al Sacerdote D. Bosco Giovanni di Castelnuovo d'Asti e domiciliato in Torino quanto è di mia proprietà per sito e fabbrica attigua all'Oratorio di S. Francesco di Sales in questa Capitale regione Valdocco, coll'aggiunta di lire cinquemila per una volta tanto. Condono al medesimo quanto fosse per essere debitore verso di me al mio decesso, lacerando perciò o rimettendogli ogni memoria in proposito”.

                Con questo testamento rimase D. Bosco solo proprietario dell'acquisto fatto dal Sig. Pinardi.

                D. Bosco alla sera parlò ai giovani come D. Cafasso avesse lasciato loro nel suo testamento una memoria della [651] sua carità, descrisse il magnifico funerale che attestava le sue virtù da tutti riconosciute; notò l'impressione salutare che arreca e anime pie la morte del giusto e l'orrore che desta la fine del malvagio esposta da un fatto terribilmente tragico avvenuto in quei giorni.

                “A Prato un focoso rivoluzionario entrato in un caffè cavò fuori due pistole dicendo: - Con una voglio uccidere Pio IX, con l'altra il parroco della Cattedrale. - Quindi per confermare col gesto questo suo infame proposito, battè sul tavolino col calcio di una di quelle pistole. Disgraziatamente essendo carica, scattò il grilletto, sparò, e la palla si piantò nella testa allo sciagurato. Si corre per un prete e il primo che si incontrò fu il parroco stesso della Cattedrale, voluto uccidere da quell'infelice. Il parroco corse in fretta, ma non trovò più che un cadavere”.

                Il 29 giugno nota Ruffino, si celebrò nell'Oratorio la festa di S. Luigi. Si distribuirono ai giovani le medaglie coll'immagine di S. Luigi da un parte e quella dell'Angelo Custode dall'altra. Tutti se l'attaccarono al vestito, anche i chierici e i preti. Fece la predica il sig. D. Ciattino parroco di Maretto e parlò sul far conto delle cose piccole. Piacque molto. Al dopopranzo vi fu una rappresentazione drammatica. Alla sera si fece la processione. I giovani avevano tutti la loro medaglia. Come altre volte varii rappresentavano alcuni santi fra cui uno vestito da San Giovanni Battista. Sul far della notte palloni areostatici, razzi e fuochi artificiali.

                Il 30 giugno si cantò per D. Cafasso la Messa di settima nella chiesa di S. Franceso d'Assisi con una funzione assai modesta. D. Bosco prendeva parte a quanto riguardava i suffragi al santo suo compatriota e nel Convitto trovava sempre il suo sollievo. Si era scelto per nuovo [652] confessore il Teologo Golzio, al quale continuò a confessarsi regolarmente ogni otto giorni. Anche il Teologo era persuaso che il Signore conducesse D. Bosco per vie straordinarie e non si oppose al suo metodo di spirituale direzione anche quando l'Oratorio fu pieno di alunni interni e di chierici. “Grande era il rispetto che aveva per lui D. Bosco, afferma D. Albera, e così sentito il rispetto e l'amore del Teol. Golzio per D. Bosco, che risolveva di lasciarlo erede dei suoi beni”. Il Rettore che succedeva nel Convitto a D. Cafasso era il Canonico Eugenio Galletti, il quale per amor di Dio aveva già rinunziato al suo canonicato per chiudersi in mezzo ai poveri della Piccola Casa del Cottolengo. Il degno sacerdote era pure amico di D. Bosco, il quale continuò ad avere da lui nel Convitto una stanza e la biblioteca a sua disposizione, perchè potesse liberamente, come in un luogo più tranquillo, ritirarsi a scrivere i suoi libri. Continuò pure per suo volere a recarsi in quest'anno e ne' seguenti agli esercizi spirituali di S. Ignazio.

 

 

CAPO XLVII. L'onomastico di D. Bosco - Guarigione del Ch. Castellano - Funerali a D. Cafasso nell'Oratorio - D. Bosco legge l'orazione funebre e la dà alle stampe col titolo: RIMEMBRANZA STORICA FUNEBRE DI DON GIUSEPPE CAFASSO - Letture Cattoliche - IL PONTIFICATO DI S. SISTO II E LE GLORIE DI S. LORENZO MARTIRE - Il Cardinale Corsi nell'Oratorio.

 

                La domenica 1 luglio col solito apparato in cortile, musiche, canti, poesie si festeggiava l'onomastico di D. Bosco. Era un bisogno per i giovani di esternare il loro affetto, eziandio con qualche dono.

                “D. Bosco, lasciò scritto Enria Pietro, non badava mai se la sua veste fosse ben fatta, se addattata alla sua persona, se spessa nell'inverno o sottile nell'estate, purchè non disdicesse alla dignità sacerdotale, cioè pulita e decente. Perciò i primi anni del suo onomastico gli alunni si quotavano e qualche volta gli presentavano, come segno di ossequio, alcuni abiti da prete che gli mancavano, convenienti alla stagione”.

                “Il 4 luglio, leggiamo nella cronaca di D. Ruffino, il Chierico Castellano Luigi guarì ed ecco il modo. Stando molto male, il medico lo aveva già dato per ispedito e [654] quasi più non lo visitava. Si chiamò un secondo dottore e sentenziò come il primo; un terzo parimente non diede speranza di sorta. D. Bosco andò a visitarlo ed anche egli, visto lo stato dell'infermo, ne giudicò disperata la guarigione. Fin dal 25 aprile D. Bosco aveva ripetuta questa frase: - Sono decise due cose: la rovina delle Sicilie e l'andata del Ch. Castellano in paradiso. - Tuttavia dopo averlo confessato gli diede la benedizione ed esclamò: - Se Savio Domenico lo farà guarire sarà un documento certo della sua santità.-

                E in quello stesso giorno cessò la febbre al Chierico e poco dopo venne all'Oratorio”. Ma la predizione di Don Bosco, come vedremo, dovevasi avverare.

                Intanto nell'Oratorio onoravasi la memoria di D. Cafasso. La perdita di questo insigne benefattore era stata con gran dolore sentita dagli alunni e sebbene si fossero già fatte, e continuate speciali preghiere, con varii ufficii di cristiana pietà in suffragio dell'anima di lui, era tuttavia nel desiderio di tutti il tributargli un atto di pubblica riconoscenza con un funerale sontuoso, per quanto portava la loro povera condizione.

                Il giorno 10 luglio adunque, diciasettesimo dopo il doloroso di lui decesso, fu scelto per dare questo segno di gratitudine. La chiesa era tutta addobbata in nero, due iscrizioni vennero affisse alle entrate della chiesa, ed altre nell'interno della medesima intorno al feretro.

                Sulla facciata della Chiesa:

 

                FERMATI O PASSEGGIERE - E LEGGI UN CASO DOLOROSO - IL MODELLO DI VITA SACERDOTALE - DEL CLERO MAESTRO PER ECCELLENZA - IL PADRE DEI POVERI - IL CONSIGLIERE DEI DUBBIOSI - IL CONSOLATORE DEGLI INFERMI - DEGLI AGONIZZANTI CONFORTO - IL SOLLIEVO DEI CARCERATI - LA SALUTE DEI CONDANNATI AL [655] PATIBOLO - L'AMICO DI TUTTI - IL GRANDE BENEFATTORE DELL'UMANTA' - IL SAC. GIUSEPPE CAFASSO - MORI' -ALL’ETA¢ DI SOLI ANNI 49 - 23 GIUGNO 1860 - MA CONSOLIAMOCI - EGLI VOLO' AL CIELO - E SARA' NOSTRO PROTETTORE.

 

                Sulla porta laterale che mette nel cortile:

 

                JOSEPHO CAFASSO - SACERDOTI  EGREGIO INTEGERRIMO

                OPTIME DE NOBIS MERITO - QVI FATO IMMATVRE CONCESSIT - IVVENES PARENTATVM - AEDEM INGREDIMINI  MOESTI - GRATI ANIMI ERGO.

 

                Ai piedi del feretro:

 

                VERE - SAL TERRAE - LVX MVNDI - FVIT.

(MATT. V, 13).

 

                A destra:

 

                QVIA AD JVSTITIAM - ERVDIVIT MVLTOS - FVLGEBIT QVASI STELLA

                IN PERFETVAS AETERNITATES.

(DAN. XII, 3).

                A sinistra:

 

                LABIA JOSEPHI CVSTODIERE SCIENTIAM - ET LEGEM REQVIREBANT - EX ORE EJVS.

(MALACH 11, 7).

                Al capo

 

                CORONA SENVM FILII EJVS - ET GLORIA FILIORVII - PATER EORVM.

(PROV. XXVII, 5).

 

                Ciascuna delle iscrizioni del feretro era accompagnata da figure allusive agli insigni suoi meriti. I medesimi giovani, con sollecitudine, prepararono un canto musicale nel miglior modo loro possibile. Alcune preghiere precedettero ed accompagnarono la sacra funzione. Alle 6½ si cominciò la messa parata, cantata dal Teol. Borel. Secondo l'uso dell'Oratorio, i giovani, premessa la debita preparazione, [656] fecero tra la messa la santa Comunione, che certamente è uno dei mezzi più efficaci per suffragare le anime dei fedeli defunti. Tra i nostri giovani e parecchi distinti personaggi, amici o ammiratori del Defunto, la chiesa era piena di gente.

                Dopo la Messa, prima delle esequie, D. Bosco lesse la biografia di D. Cafasso accomodata alla condizione e desiderio degli uditori. Gli sgorgarono più volte le lagrime dagli occhi e le cose che narrò rapirono talmente gli uditori, che lo videro finire con rincrescimento.

                Tale biografia fu nell'agosto di quest'anno pubblicata coi tipi di Paravia. Aveva per titolo: Rimembranza storico - funebre, dei giovani dell'Oratorio di San Francesco di Sales verso al Sacerdote Cafasso Giuseppe loro insigne benefattore pel Sacerdote Bosco Giovanni. D. Bosco aveva diviso il suo ragionamento in capitoli - Giovinezza di D. Cafasso - Vita clericale di D. Cafasso - Vita Sacerdotale pubblica di D. Cafasso - Vita Sacerdotale privata di D. Cafasso - Vita mortificata di D. Cafasso - Sua Santa morte.

                Nell'esordire la biografia scrisse:

 

                Non era mia intenzione di darla alle stampe essendo questo un semplice e famigliare discorso indirizzato ad una radunanza d'amici e di giovanetti, che godo poter chiamare miei cari figliuoli nel Signore; ma le replicate dimande fattemi da persone autorevoli mi hanno determinato di pubblicarla. Questa biografia è un compendio della vita del Sac. Cafasso che ho in animo di pubblicare, se il Signore nella sua misericordia mi darà sanità e grazia.

                Siccome so star molto a cuore delle persone divote di aver qualche ricordo di D. Cafasso, ho pensato di soddisfare a questo pio desiderio aggiungendo in forma d'appendice la stampa di due esercizi di pietà composti ed usati da lui medesimo. Questi sono: Ultima volontà per disporsi alla morte, ossia Esercizio per la buona [657] morte, che egli soleva fare una volta al mese. Visita al SS. Sacramento per ciascun giorno della settimana, la quale visita egli faceva ogni giorno invariabilmente.

                Il Signore Iddio che secondo li imperscrutabili suoi disegni ci ha voluto privare di un così raro e prezioso amico, faccia almeno che le azioni e gli scritti di lui ci siano di eccitamento ad imitarlo nella sua grande carità e nelle altre virtù. Così facendo io spero che saremo sicuri di battere come lui quella strada che conduce all'eterna felicità.

 

                L'Armonia del 15 settembre aggiungeva.

 

Orazione funebre al Sig. D. Cafasso.

 

                Dalla tipografia di G. B. Paravia venne pubblicato un libretto di un centinaio di pag. in-16, il quale tornerà assai gradito ai Torinesi, ed a moltissimi delle provincie, i quali rimpiangono quest'ottimo sacerdote che fu D. Cafasso. Il libretto contiene l'Orazione funebre che fu recitata dal Sig. D. Bosco nell'Oratorio di San Francesco di Sales ove erano stati celebrati solenni funerali al compianto defunto. Questa orazione dettata con quel calore e quel profondo sentimento d'affetto, che l'amicizia fra uomini virtuosi suole ingenerare, è un sunto della vita del Cafasso tutta consacrata alla salute delle anime ed a sollievo dei poveri. Coll'orazione funebre sono uniti due scritterelli spirituali del Cafasso, i quali saranno gustati da tutte le pie persone. Vendesi al prezzo di cent. 50 a profitto dei giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di cui fu il Cafasso insigne benefattore.

 

                Mentre D. Bosco scriveva questa sua orazione, era eziandio occupato intorno a tre fascicoli delle Letture Cattoliche per agosto, settembre, ottobre.

                Il primo era la continuazione della vita dei Papi: Il Pontificato di San Sisto II e le glorie di San Lorenzo martire per cura del Sacerdote Bosco Giovanni (K).

                Si ragiona a lungo delle reliquie, dei miracoli e dei [658] santuarii dell'eroico diacono: si espone la regola di vita cristiana per ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno ed in ogni tempo di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, regola semplice di vita spirituale fondamento di quella che D. Bosco aveva imposta ai membri della sua Pia Società. Si notano in appendice due morti istantanee di uno che malediceva al Papa e di un altro che scherniva le scomuniche.

                Il secondo fascicolo era uscito dalla penna di un grande amico di D. Bosco. Il Modello della povera fanciulla, Rosina Pedemonte, morta in Genova in età di 20 anni, il dì 30 gennaio del 1860 per Giuseppe Frassinetti Priore a Santa Sabina in Genova. È un fiore così bello e odoroso di virtù ordinarie, non difficili a praticarsi, che non si potrebbe desiderare di più. Era ascritta in Genova alla pia unione delle figlie di Maria Immacolata formata in Mornese, terra del Monferrato, Diocesi d'Acqui nell'anno 1855, che fu poi approvata dal Vescovo della Diocesi con suo decreto del 20 maggio 1857. Dopo un anno dall'ascrizione, che si considera come noviziato, queste buone figlie fanno una specie di professione promettendo di osservare il regolamento.

                D. Bosco vi aggiunse per varietà due fatti - Esercizii spirituali di un vecchio militare - Grazia ottenuta ad intercessione del Beato Benedetto Labre.

                Il terzo fascicolo destinato pel mese di ottobre fu il seguente: Il Cielo aperto mediante la confessione sincera. Era scritto da Fra Carlo Filippo da Poirino Sacerdote Cappuccino. Espone le molteplici ragioni che impegnano un cristiano a dichiarare tutti i suoi peccati in confessione. Insegna il modo di far l'esame di coscienza per riparare alle confessioni mal fatte. Risponde ai pretesti [659] soliti a recarsi per non accusare certi peccati. Reca esempi spaventosi di confessioni sacrileghe punite.

                In que' giorni, continua la cronaca, il Governo permise a Sua Em. il Cardinale Arcivescovo di Pisa il ritorno alla sua Sede. L'Augusto porporato appena fu libero, il 14 luglio venne a far visita all'Oratorio. Entrò alle 6,30 per la porta della chiesa accompagnato dal segretario e dal domestico. Disse la S. Messa assistito dai due canonici Ortalda ed Alasia, e dai Sacerdoti D. Dadesso, D. Corsi e D. Alasonatti. Dopo il Vangelo fece una breve predica e prima della Comunione un fervorino molto commovente; quindi distribuì la SS. Eucaristia a tutti i giovani. Terminata la messa diede la benedizione. Il Cardinale, preso un po' di ristoro e dopo che a sue spese era stata donata agli alunni un'abbondante porzione di ciliege, essendogli stato preparato un trono sotto i portici, vi si assise. Ascoltò con molta compiacenza le musiche, le poesie del Ch. Francesia e del Ch. Bongiovanni, e la prosa letta da D. Rua. Era questa un indirizzo scritto dallo stesso D. Bosco.

 

                               Eminenza Reverendissima,

 

                Prima che voi partiate dal nostro umile recinto, Eminenza Reverendissima, permettete che io vi esprima alcuni sentimenti di gratitudine più sincera a nome de' miei venerati superiori e che raccolga i pensieri de' miei amati compagni per dirvi che questo è il più bel giorno pel nostro Oratorio, giorno glorioso, che forse un simile non si vedrà mai più. È vero, Eminenza, che in mezzo alla gioia siamo confusi, perchè la nostra condizione, il tempo, il luogo non hanno permesso di farvi la desiderata accoglienza: ci consola però l'animo il riflettere che quella bontà che V. E. ci ha usato venendo fra noi per esporci dolci e consolanti parole di vita eterna, darà benigno compatimento alla pochezza nostra.... [660] Ed ora permettetemi che io vi esponga un comune nostro, desiderio. Eminenza, umilmente vi preghiamo a degnarvi di porgere qualche supplica per noi al Signore, onde possiamo uscire illesi dalle fiere burrasche di questa vita e giungere al porto di nostra salute. Vi preghiamo a benedirci non solo mentre siete qui fra noi, ma ancora quando reduce alla vostra amatissima diocesi, siederete nuovamente su quella cattedra a cui il Sapientissimo Iddio vi ha destinato. Noi dal canto nostro vi promettiamo d'innalzare i nostri deboli, sì, ma fervidi voti a quel trono di misericordia e di giustizia, onde le più copiose benedizioni piovano sopra l'Eminenza Vostra. Iddio si degni di conservarvi per lunghi anni al bene della sua Chiesa che voi cotanto edificate coll'esempio e colle parole e di cingere la vostra fronte di quella corona che è dovuta a chi ha combattuto coraggiosamente le battaglie del Signore...

                Ancora un favore, Eminenza, mi rimane a domandarvi, ed è che voi prendiate questo nostro Oratorio sotto la vostra potente protezione e continuiate a favorirci presso il Santo Padre, quel Santo Padre che forma l'oggetto più grande della nostra venerazione e del nostro amore, della nostra tenerezza. Deh, voi, Eminenza, la prima volta che vedrete l'amabile volto di quel nostro tenero e santo Padre, ditegli che i giovani i quali frequentano gli Oratorii di questa città, lo ringraziano dei grandi favori e spirituali e temporali che ha loro concesso; ditegli che preghi per noi e che ci dia la santa sua benedizione, ditegli che noi lo amiamo tanto (è questa l'espressione di più migliaia de' miei compagni); e che se si trattasse di dare per lui e per quella religione santissima di cui è Capo, sostanze, sanità e vita, tutto siamo disposti ad offrire volonterosi.

                Moltissime cose vorrei ancor dirvi, ma temo di abusare della vostra pazienza, perciò mentre sono glorioso di aver potuto parlare, io mi taccio confuso, perchè non ho detto come si doveva; e darò campo a' miei compagni, perchè con una sola, voce esprimano gli affetti del cuore.

                Evviva Pio IX nostro Beatissimo Padre!

                Evviva Sua Eminenza il Cardinale Corsi, che in questo istante lo rappresenta nel nostro Oratorio. [661]

                Sua Eminenza rispose che fin da quel momento faceva partecipe l'Oratorio di tutte le preghiere che per sua disposizione si sarebbero fatte nella sua diocesi e che vedendo il Santo Padre non si sarebbe' dimenticato dei figli di D. Bosco. Allora tre giovanetti gli offrirono una copia di tutte le Letture Cattoliche, dicendogli un di loro che essendo le Letture Cattoliche molto raccomandate dal Santo Padre, lo pregava a volerle far conoscere ai suoi diocesani, qualora ciò credesse ridondare a' onore e gloria di Dio ed a salute delle anime. - Fortunati noi, concluse, se ella gradirà un tal dono. - Sua Eminenza fece un segno d'approvazione e di affermazione. Ciò finito visitò la casa, andò nelle camerate, nello studio, nei laboratorii, nel refettorio dei chierici, nella cucina, la quale benedisse dicendo: Il Signore provveda in abbondanza per tutti.

                Partì dalla casa alle 10,30 fra le grida di Viva Pio IX, viva il Cardinale Cosimo Corsi. I giovani fecero ala dai portici alla vettura che era alla porta, ed egli passò nel mezzo benedicendo con trasporto.

                Il Canonico Alasia disse di non aver mai veduta funzione simile e non aver potuto trattenere le lacrime. Il Canonico Ortalda affermò lo stesso di sè .

                Di qui il Cardinale andò al Rifugio dove non era stata fatta alcuna preparazione per riceverlo: entrò come un semplice prete, non disse parola, diede la benedizione col Santissimo, poi andò, colla Marchesa di Barolo, a visitare il Santuario della Consolata per ringraziare la Madonna della sua liberazione. Il 21 luglio mettevasi in viaggio alla volta di Pisa.

 

 

CAPO XLVIII. Maligne insinuazioni del giornalismo a danno dell'Oratorio - D. Bosco non è ricevuto negli uffici del Ministero - Risoluzione e fiducia in Dio - Lunga e paziente attesa nell'anticamera del segretario generale - D. Bosco è ammesso all'udienza del Segretario: inurbanità e forzata cortesia - Altri giovani raccomandati dal Ministero.

 

                L’Arcivescovo di Pisa usciva d'angustie, non così D. Bosco. In tempi normali era da sperarsi che l'esposizione mandata da lui al Ministero e l'accettazione di tanti giovani da quello raccomandati, avrebbero potuto rassicurare il Governo e indurlo a cessare dalle molestie contro l'Oratorio; ma tale speranza svaniva in quei tempi, per le quotidiane istigazioni e violenti assalti della stampa malvagia, che inventando e spargendo liberamente le più strane accuse, cercava di traviare l'opinione pubblica ed aizzare le civili Autorità contro l'Oratorio. Così accendevano anche le passioni malvagie dei popolani. Un giorno D. Bosco, accompagnato dal giovane Garino, attraversando piazza Savoia, s'incontrò in due persone, che gli dissero insolentemente sul viso: - Questi preti bisognerebbe impiccarli tutti. - D. Bosco, sorridendo, loro rispose: - Quando abbiano i vostri meriti.

                Non mancavano gli scrittori assennati di segnalare [663] il ridicolo di simili accuse, e l'ingiustizia e viltà di cotali assalti, e varii periodici presero pure la difesa; ma tutti i giornali della setta, seguendo come una parola d'ordine, dissimulavano le ragioni e le difese, e andavano ripetendo le loro calunnie, stimolando il Governo a farla finita con l'Oratorio. E purtroppo per il carattere degli uomini sedenti al timone dello Stato, non si poteva sperar molto nella loro equità. Non essendo essi pienamente sicuri sull'esito della causa che avevano a trattare in Italia, si lasciavano con facilità ingannare dai loro agenti, e vedevano sovente nemici e pericoli dove non erano; oppure pieni di paura, tentavano di impaurire coloro che sospettavano avrebbero tentato incagliarli. Era quindi a temersi che un giorno o l'altro prendessero un'estrema misura, ed ordinassero la chiusura dell'Ospizio di Valdocco. D. Bosco sapeva che si era già deciso di mandarlo a domicilio coatto, ma persone influenti e di grande autorità avevano sventato quel disegno.

                Bisognava adunque premunirsi - Ma come fare? diceva D. Bosco: Scrivere rimostranze? Non mi rispondono. Chiedere ancora udienza a Farini? Sono convinto che di presenza potrei assai di leggieri fargli rilevare la mia innocenza. Ma purtroppo che il Ministro non vuole accordarmela. Eppure bisogna tentare tutte le prove.

                Aveva ripetuta la domanda due e tre volte di essere ascoltato ma indarno. Nelle cosidette sfere governative si temeva in modo straordinario un incontro con D. Bosco, tanto la sua parola aveva potere anche sopra i cuori meno disposti, quindi erano state prese tutte le misure necessarie perchè egli non fosse ricevuto da nessun Ministro.

                Egli però con calma e coraggio risolse di superare ogni ostacolo. Avrebbe spesa non solo la vita, ma messo [664] sossopra il cielo e la terra, prima di permettere che gli fossero strappati dal fianco i suoi figli, e senza di lui ed umanamente parlando l'Oratorio era perduto.

                Pertanto non potendo riuscire di presentarsi al Farini, D. Bosco si rivolse al Cav. Silvio Spaventa, Segretario generale del Ministero dell'Interno; ma anche costui ricusava di riceverlo e a fine di stancarlo ed evitarne l'incontro, rimandavalo per mezzo degli uscieri da un giorno all'altro, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino. Alla perfine dovette riceverlo ed eccone il modo.

                Era il 14 luglio, e per le ore undici antimeridiane il Segretario avevagli fatto sperare di riceverlo in udienza. I giovani dell'Oratorio erano trepidanti per la loro sorte. D. Bosco afflitto, ma per nulla turbato, chiamò il Chierico Giovanni Cagliero e gli disse: - Accompagnami al Ministero. - Giunto in via Palatina si fermò un istante ed esclamò: - Come è cattivo il mondo! Quei signori del Governo hanno una gran voglia di chiudere e distruggere ad ogni costo l'Oratorio. Poverini! Si sbagliano! Non ci riusciranno. Credono di aver a fare col solo D. Bosco; e non sanno di aver da fare con chi è più potente di loro: colla Beata Vergine e con Dio medesimo che disperderà i loro consigli. No, non ci riusciranno a chiudere l'Oratorio!-

                Per l'ora fissata D. Bosco giungeva al palazzo del Ministero ed entrato nella sala d'aspetto si faceva annunziare. Ma lo Spaventa o dimentico o pentito della parola data, gli faceva dire essere difficile che lo potesse ammettere stante gravissimi affari che aveva tra mano. A questo annunzio: - Aspetterò, rispose D. Bosco, finchè  il signor Segretario possa ricevermi; - e deciso di fermarsi tanto che fosse necessario per essere ricevuto, con impareggiabile tranquillità non badando nè al caldo, nè al bisogno [665] di rifocillarsi, nè alla sete, rimase in aspettazione fino alle sei della sera. In quelle sette ore d'intervallo la sala si riempiva sempre di moltissime persone di ogni ordine e condizione, che erano introdotte nel gabinetto del Segretario, e financo gli ultimi arrivati; ma il torno di D. Bosco non veniva mai. Gli uscieri attraversavano la sala, guardavano il povero prete con aria beffarda, sorridevano malignamente e incontrandosi si facevano cenno coll'occhio, movendo il capo.

                I signori che aspettavano di essere introdotti guardavano con meraviglia quel sacerdote che stava seduto in un angolo, avendo ai fianchi prima il Chierico Cagliero e poi il Sac. Savio Angelo venuto a surrogare il compagno, perchè si recasse a pranzo.

                A quando a quando D. Bosco si alzava per avvicinarsi a qualche usciere replicando la sua domanda ed insistendo per essere ammesso all'udienza. Quindi sempre paziente ritornava al posto di prima. La cosa parve cotanto amara che perfino gli uscieri incominciarono a sentire compassione per lui.

                Finalmente il Cav. Spaventa preso forse dal rossore di trattare in quel modo un cittadino, che, quantunque prete, era pure uguale agli altri in faccia alla legge, si decise di lasciarsi almeno vedere. Perciò dopo aver brontolato, ma in modo che D. Savio l'udì: - Che cosa vuole questo importuno? - fattosi alla porta del suo gabinetto, - D. Bosco... Che cosa c'è per tanta insistenza di parlarmi? - disse con voce ed aspetto burbero. A quella vista e a tali parole tutti gli spettatori, domestici ed uscieri presenti nella sala, rivolsero gli occhi al povero prete che così rispose:

                - Ho bisogno di conferire un momento colla Vostra Signoria. [666]

                - Che vuole?

                - Vorrei parlarle in confidenza.

                - Parli pure anche qui, ma sia spiccio: questa che ci ascolta è tutta gente di confidenza.

                Allora D. Bosco per nulla contando quell'atto scortese, disse con alta ed intelligibile  voce: - Signor Cavaliere ho 500 ragazzi abbandonati da mantenere: e da questo, momento li rimetto nelle sue mani, e la prego di provvedere al loro avvenire.

                - Chi sono questi ragazzi?

                - Sono fanciulli poveri od orfani o pericolanti, che il Governo mi ha dapprima indirizzati ed ora vuol ricacciati in mezzo alla strada.

                - Dove sono presentemente?

                - Sono ricoverati in casa mia. Chi li mantiene?

                - La carità di alcuni benefattori.

                - Il Governo non paga pensione per essi? - Di pensione nemmeno un soldo.

                A questo dialogo fatto a domande e risposte, così brevi, vivaci ed interessanti, tutti quelli che stavano in quella sala si fecero più da vicino ed attorno a D. Bosco meravigliati ed ansiosi di vedere come andava a finire la cosa, e nello stesso tempo mostravano sdegno pel disprezzo col quale era accolto un uomo così venerando. Da ciò accortosi lo Spaventa, che non faceva la più bella figura del mondo nel condursi in tal modo, si ridusse a migliore consiglio; tanto più che D. Bosco avvicinatosi a lui gli diceva sottovoce: - Abbia la bontà di ascoltarmi, e presto, altrimenti se ne pentirà prima di domani a sera. Il Segretario, sorpreso da quelle parole si risolse di dargli privata udienza, lo prese per mano, dicendogli [667] cortesemente - Venga avanti! - E lo fece entrare nel suo gabinetto.

                Ci narrò D. Savio: Essendosi chiusa la porta dietro ad ambidue io nè vidi, nè udii più nulla. Pochi istanti dopo, Spaventa rientrò in anticamera tutto sconvolto ed affannato e voltosi ai segretarii, ai diplomatici e ad altri cospicui personaggi che erano venuti per conferire con lui di affari di Stato: - Scusino, disse; ho un negozio importantissimo, da sbrigare, che non ammette indugi. Oggi non posso dar loro udienza. Ritornino domani. - E si ritirò di bel nuovo chiudendo la porta. D. Bosco stette là entro lunghissimo tempo. Che cosa egli disse a Spaventa da produrre un simile cambiamento non si seppe mai.

                D. Bosco narrò poi ai suoi coadiutori, la sola parte di tale colloquio che aveva per oggetto l'Oratorio, e dalle sue parole si potè ritenere il seguente dialogo.

                Il Segretario fece sedere D. Bosco presso di sè, e poscia con voce benigna, ed amorevole, disse:

                - So che lei fa del bene; mi dica dunque in che cosa la posso servire, chè per quanto dipenderà da me il farà volentieri.

                - Domando rispettosamente, rispose D. Bosco, la ragione delle perquisizioni, anzi delle persecuzioni, che mi fa il Governo.

                - Ma lei segue una politica... ha uno spirito... Del resto io non sono in grado di dirle tutto. Vi sono più cose riservate al Sig. Ministro. Sarebbe mestieri parlare con lui. Posso per altro dirle che ogni molestia sarebbe immediatamente finita, se ella volesse parlare chiaro e svelare i segreti.

                - Non so quali segreti ella intenda, signor Cavaliere.

                - I segreti gesuitici, per iscoprire i quali le furono atte le perquisizioni, di cui si lagna. [668]

                - Ignoro affatto cotali segreti, e sono ansioso di conoscerli, per dare opportuni schiarimenti, se ciò è in poter mio. La S. V. mi parli pure con tutta schiettezza, ed io le risponderò con eguale sincerità.

                - In questo io non posso immischiarmi; ne interroghi il sig. Ministro, che le dirà tutto.

                - Se la S. V. giudica di non potermi dire le cose che dimando mi faccia almeno un'insigne opera di carità.

                - Sarebbe?

                - Ottenermi udienza dal sig. Ministro.

                - Sì, vedrò di ottenergliela; ma a quest'ora è assai difficile. Vado nondimeno a farne richiesta. Lei rimanga qui un istante, ma non parli con altri di questo affare, perchè potrebbe essere malamente inteso e peggio interpretato con maggior suo danno.

                Ciò detto, il sig. Spaventa uscì dal gabinetto, si recò dal Commendatore Farini, e dopo mezz'ora ritornò, dicendo a D. Bosco:

                - Il Ministro è occupato, e per ora non può darle udienza, ma di domani le farà tenere avviso del quando potrà accordargliela.

                D. Bosco gli rese le dovute grazie e quando uscì era tranquillo e sorridente. Il Segretario serio e rispettoso lo accompagnò fino alle scale. Gli uscieri veduto quel tratto di cortesia del loro padrone verso D. Bosco, appena quegli si ritirò nel suo ufficio, incominciarono a far riverenze al povero prete, lo circondarono, più d'uno gli baciò la mano e vi fu chi lo accompagnò fino nel portico.

                D. Bosco fece ritorno all'Oratorio accompagnato da D. Savio. Erano le 8 di sera ed aveva ancora da pranzare.

                Ma prima di andare a riposo fatto lo spoglio delle lettere giunte in quel giorno, trovò uno supplica con alcune [669] righe sovrascritte dal Cav. Salino in favore dell'orfano Alberto Tasso di Oneglia, e col numero d'ordine 2091 in data del 13 luglio. Il giorno 10 ne aveva ricevute due altre degli orfani di padre Reydet e Penchienatti, raccomandati dal suddetto Cavaliere in nome del Ministro, coi rispettivi numeri di protocollo 2039 e 2044.

                In una di queste e in altre precedenti si leggeva espressa in vario modo la seguente frase “Oso pregare V. S. a degnarsi di far accettare il nostro raccomandato in qualche stabilimento di carità in cotesta metropoli, per es. in quello diretto da D. Giovanni Bosco, il quale interpellato non avrebbe difficoltà di ricoverarlo e di pigliarne tutta la cura”. - D. Bosco prese nota per l'accettazione, quantunque non sembrasse che la sua condiscendenza potesse scongiurare il pericolo dal quale era minacciato.

                Il servo di Dio più volte in quella sera deve aver ripetuta con fervore quella preghiera al Signore che Ester rivolgeva al Re Assuero: Si inveni gratiam in oculis tuis, o Rex, et si tibi placel, dona mihi populum meum pro quo obsecro (VII, 3).

 

 

CAPO XLIX. Udienza fissata dal Ministro degli Interni e preghiere nell'Oratorio - Conferenza importante di D. Bosco coi Ministri Farini e Cavour - Promesse e speranze di pace - Compra di Casa Filippi -Annunzio di questa compra ai giovani.

 

                Il 15 luglio D. Bosco ricevette una lettera dal Conte Guido Borromeo, la quale informavalo che nel giorno seguente verso le 11 ant. il Ministro Farini gli avrebbe accordata udienza.

                Dopo le orazioni nel sermoncino della sera D. Bosco raccomandò che al domani tutti pregassero per un affare di alta importanza, ascoltassero la S. Messa con maggior divozione del solito, e potendo si accostassero eziandio alla Santa Comunione secondo la sua intenzione; e ordinò che tutti i giovani andassero per torno in chiesa a far la visita al SS. Sacramento, finchè egli non fosse ritornato a casa.

                La sua parola non cadde invano:

                L'indomani 16 luglio, festa della Madonna del Monte Carmelo, D. Bosco pieno di fiducia nella protezione della Beata Vergine usciva dall'Oratorio. Il motivo di tanta sua sicurezza l'aveva un giorno spiegato a Mons. Cagliero: - Io non lascio mai di fare un'opera che so essere buona e da farsi, per quanto siano numerose e grandi le difficoltà [671] che mi si presentano. Si tratta di andare a far visita ad un grande personaggio, il quale io sappia eziandio essermi contrario? Ci vado senza più! Ma prima di incominciar quell'impresa dico un Ave Maria: la dico pure prima di presentarmi a qualsivoglia altra persona. Poi avvenga quel che vuole. Io pongo tutto ciò che è in me, il resto lo lascio al Signore.

                D. Bosco adunque detta la sua Ave Maria si trovò per tempo al palazzo del Ministero, dove, poco prima dell'ora fissata, giunse pure il Comm. Farini. Da chi lo accompagnava, i chierici G. B. Francesia e G. B. Anfossi, abbiamo saputo che il Ministro appena vedutolo gli strinse la mano con parole improntate di cortesia, lo condusse in una sala, dove stavano scrivendo alcuni segretarii; e colà ebbe luogo una conferenza delle più importanti, perchè doveva decidere della vita o della morte dell'Oratorio. Farini era di quelli che “parlano di pace col prossimo loro, ma nei loro cuori covano il male: non hanno intese le opere del Signore”[19].

                - Lei è dunque l'Abate Bosco, cominciò Farini. Noi ci siamo già visti una volta a Stresa in casa dell'Abate Rosmini, e godo rinnovare sua conoscenza. Mi è noto il bene che ella fa alla povera gioventù, ed il Governo le è molto tenuto pel servizio, che gli presta con quest'opera filantropica e sociale. Ora mi dica quello che desidera da me.

                - Desidero sapere la ragione delle reiterate perquisizioni, che mi furono fatte in questi ultimi mesi.

                Sì, gliela dico e con quella schiettezza, colla quale desidero che ancor lei mi risponda. Fino a tanto che la [672] S. V. si è occupata di poveri fanciulli, fu sempre l'idolo delle Autorità governative; ma da che lasciò il campo della carità per entrare in quello della politica, noi dobbiamo stare sulle vedette, anzi adocchiare i suoi andamenti.

                - Questo appunto mi sta a cuore di sapere, soggiunse D. Bosco. Fu sempre mio vivo desiderio tenermi estraneo alla politica, e perciò bramo di conoscere quali fatti mi possano su tale materia compromettere.

                - Gli articoli che lei scrive pel giornale L'Armonia, i convegni reazionarii che tiene in casa sua, le corrispondenze coi nemici della patria, ecco i fatti che rendono inquieto il Governo sul conto suo.

                - Se Vostra Eccellenza mel permette farò alcune osservazioni sopra quanto si compiace confidarmi, e parlerò colla schiettezza che mi domanda. Premetto anzitutto che niuna legge, che io mi sappia, proibisce di scrivere articoli nè su L'Armonia, nè sopra qualsiasi altro giornale; ciò non di meno posso assicurare la E. V. che io non iscrivo sopra giornale alcuno, e non vi sono neppure associato.

                - Lei può negare  finchè vuole, ma il fatto sta ed è che una buona parte degli articoli inseriti in quel diario escono dalla penna di D. Bosco. Ciò è confermato da tali argomenti, che niuno può mettere in dubbio.

                - Argomenti che io non temo, signor Ministro, ed asserisco francamente che non esistono.

                - Vuole forse dire che io imputi fatti non esistenti, e che sia un mentitore e calunniatore?

                - Non dico questo, perchè V. E. relata refert, asserisce quanto le fu deferito; ma se la relazione che le fu fatta non è veridica, sono di lor natura non veri i fatti che si deferirono. In questo caso la calunnia cade a vergogna di chi la fece e non di chi in buona fede la ricevette. [673]

                - Si persuada che i nostri impiegati sono persone oneste e che non sono capaci di dire una cosa per un'altra. E sono questi stessi che l'accusano.

                - Eppure si sono ingannati.

                - Dunque lei osa accusare il Governo di impiegare al suo servizio persone senza onore, capaci di false delazioni e calunniatrici!

                - Io non dico questo; solamente affermo che sul conto mio si dissero falsità.

                - Ma insomma lei così parlando, signor Abate, censura i pubblici e privati funzionari, censura lo stesso Governo, ed io la invito a correggere le sue espressioni.

                - Mi ricrederò e correggerò di tutto se Vostra Eccellenza mi prova non aver io detto il vero.

                - Non è da buon cittadino il censurare e calunniare le pubbliche Autorità.

                Mi scusi, sig. Commendatore, io non intendo di censurare Autorità alcuna, ma dire solo la verità, colla schiettezza dell'uomo onesto, che si difende da false imputazioni, e col coraggio del buon cittadino, che mette in sull'avviso il Governo, affinchè non si lasci menare a giudizi e ad atti ingiusti contro a sudditi fedeli, coprendoli d'infamia presso le genti civili. Or bene, per essere uomo onesto e buon cittadino debbo dire, come dirà sempre, che il tradurmi quale autore di articoli di giornali, che non ho immaginato, il chiamare la mia casa di beneficenza luogo di convegno rivoluzionario, il farmi corrispondente coi nemici dello Stato, questo è un calunniarmi. Cotali accuse sono prette invenzioni di uomini maligni, deferite allo scopo di ingannare le Autorità, e spingerle a commettere falli madornali a sfregio della giustizia e della libertà. [674]

                Questa franchezza di parlare di D. Bosco non potè  non colpire il Farini, il quale stupefatto ed insieme rammaricato giudicò d'intimorirlo prendendo un tono autocratico e un cipiglio minaccevole, e continuò.

                - Lei, signor Abate Bosco, si lascia trasportare da troppo calore e da indiscreto zelo; e si mette in compromesso, non badando che parla al Ministro.

                - Faccia quel che vuole: io non ho paura.

                - Ma lei non vede che dipende da una sola mia parola, farlo tradurre su due piedi in prigione?

                - Replico, che ciò non mi spaventa.

                Farini si volse al segretario particolare Conte Borromeo, e ad altri, che cessato lo scrivere, erano tutti intenti a quel dialogo: -Romeo, Romeo. - Il Conte si avvicinò cogli altri e Farini disse loro: - Udite, udite, ciò che dice D. Bosco.

                - Sì, continuò D. Bosco, io non temo punto quello che mi possano fare gli uomini per aver detta la verità, temo solo quello che mi può fare Iddio, se pronunciassi la menzogna. Del resto poi, la E. V. è troppo amante della giustizia e dell'onore, e non sarà mai per commettere l'infamia di far gettare in carcere un cittadino innocente che da 20 anni consacra vita e sostanza a vantaggio del suo simile.

                - E se io facessi appunto una tal cosa?

                - Non credo possibile che l'onestà del Commendator Farini si muti in viltà, e se ciò avvenisse ho dei mezzi per far valere le mie ragioni.

                - E in che modo?

                - Imitando il suo esempio.

                - Varrebbe a dire?

                - La E. V. ha scritto di storia e segnò alla pubblica [675] riprovazione certi personaggi che giudicava colpevoli. Io pure ho scritto la Storia d'Italia: non avrei che da aggiungervi un capitolo, pubblicando ciò che occorse fra di noi.

                - Oh questo poi .....

                - E che? soggiunse D. Bosco con un sorriso; potrei ben fare lo stesso anch'io e perpetuare la memoria delle perquisizioni fatte nell'Oratorio. Io dirò a tutto il mondo come vi sia stato un Ministro del regno, il quale impiegò la sua potenza nello spaventare i fanciulli di un istituto di carità per ridurlo al niente.

                - Ma lei non lo farà!

                - Non lo farò? questo dipende da me. Ma sappia V. E. che lei non si è regolata da quel signore compito, che realmente è, e adorno di pregi così eletti, e che io riconosco. Il contraccolpo delle armi indirizzate contro di me, ricadrebbe su quei poveri giovani beneficati da lei per mano mia, avendoli ella raccomandati. Io non credeva di essere ripagato in questo modo delle mie premurose accondiscendenze... Ma basta: Iddio giusto ed onnipotente vendicherà a suo tempo l'innocente oppresso.

                I segretari si guardavano in faccia. Alcuni sorridendo ed altri pensierosi.

                Intanto Farini ripeteva:

                - Ma lei è pazzo, signor Abate, lei è pazzo. E se io la fo mettere in prigione, come potrà ella scrivere e tramandare queste cose alla stampa?

                - Ancorchè in prigione crederei che la E. V. mi lascierebbe per mio conforto almeno una penna, un po' di carta con inchiostro; e ove poi fossi privato anche di tali oggetti e financo della vita, sorgerebbero ben altri scrittori a fare in tempo opportuno le veci mie. [676] E lei avrebbe il coraggio di tramandare fatti alla storia, che potessero infamare un Ministro ed un Governo?

                Chi non vuole essere infamato non ha che da regolarsi onestamente. Per altro io credo che lo scrivere e pubblicare la verità sia un diritto ed un dovere che spetta ad ogni buon cittadino, e di più un servizio che si rende alla civile società; e tale compito lungi dall'essere biasimevole, è commendevolissimo; anzi è una gloria. Dal canto mio sono lieto di pensare che siano pur queste le considerazioni, che indussero la E. V. a scrivere varie sue opere, massimamente Lo Stato Romano.

                Qui il Farini tacque; per un istante parve che fosse assorbito in seria riflessione, e poi ripigliato il tono primiero e cessando dalle minacce, ritornò sulla sostanza della questione e domandò:

                - Ma lei, signor Abate, potrebbe in coscienza affermare che in casa sua non si tengono radunanze reazionarie, e non mantiene carteggio coi Gesuiti, coll'Arcivescovo Fransoni e colla Corte Romana a scopo politico?

                - Eccellenza, se lei ama la verità e la schiettezza mi permetta che le dica che io mi sento mosso a sdegno, non contro di lei che rispetto quale Autorità, ma contro a quei cotali, che le deferirono siffatte menzogne a mio carico; contro a quei miserabili, che per un turpe guadagno, calpestano ogni principio di onestà e di coscienza, e fanno mercato dell'onore e della tranquillità di pacifici cittadini. Sì, le ripeto in tutta coscienza, che io non ho fatto nulla di quanto le fu deferito contro di me e del mio Istituto e attendo da Lei anche solo una prova, che smentisca questa mia affermazione.

                - Ma le lettere .....

                - Che non esistono. [677]

                - E le relazioni politiche coi Gesuiti e con Fransoni e col Cardinale Antonelli...

                - Che non vi sono e non vi furono mai. Dei Gesuiti in Torino ignoro persino la dimora; e con Mons. Fransoni e colla Santa Sede non ho mai avuto altre relazioni, fuori di quelle che un sacerdote deve mantenere coi suoi superiori ecclesiastici, per quelle cose che spettano al sacro Ministero.

                - Ma pure abbiamo lettere, abbiamo testimonianze.

                - Ma se vi sono lettere, se vi sono testimonianze contro di me, perchè dunque la E. V. non me ne produce alcuna? A questo punto, signor Ministro, io non dimando grazia, ma dimando giustizia. A lei e al Governo dimando giustizia, non per me, ma per tanti poveri fanciulli, che sono costernati dalle ripetute perquisizioni e dalle comparse di poliziotti nel loro pacifico ospizio, e piangono e tremano pel loro avvenire. A me più non regge il cuore il vederli in tale stato, segnati dalla stampa persino alla pubblica riprovazione. Per essi adunque ripeto giustizia e riparazione di onore, affinchè loro non venga a mancare il pane della vita.

                A queste ultime parole il Farini apparve turbato e quasi commosso. Laonde alzatosi in piedi, si pose a passeggiare silenzioso per la sala. Egli possedeva la lettera sequestrata dell'Arcivescovo Fransoni; avrebbe potuto presentarla a D. Bosco; ma forse il trattenne la vergogna di aver per tal modo violato il segreto postale. Per altra parte quel foglio non provava nulla, perchè non scritto da D. Bosco, ma da Monsignore. Avrebbe dunque dovuto riconoscere che uno dei motivi, per cui il Governo aveva preso D. Bosco in sospetto, era un fatto in cui egli entrava per niente. [678] Dopo alcuni minuti ecco che si apre una porta, e compare il Conte Camillo Cavour, allora Ministro degli Esteri e Presidente del Consiglio. Con aria sorridente e fregandosi le mani: - Che cosa c'è? - domandò egli, come se fosse ignaro di tutto. - Oh! si usi un po' di riguardo a questo povero D. Bosco, - proseguì poscia con tutta bonarietà - e aggiustiamo le cose amichevolmente. Ho sempre voluto bene io a D. Bosco e gliene voglio ancora. Che cosa c'è dunque, - ripetè egli, prendendolo per mano e invitandolo a sedere. - Quali sono questi guai?

                Alla vista di Cavour, e a queste sue benevole espressioni, D. Bosco previde che l'affare sarebbe andato a finir bene, non già perchè Cavour in politica fosse migliore di Farini, poichè l'uno valeva l'altro, ma perchè era stato con D. Bosco in amichevole relazione, conosceva la natura e lo scopo dell'Oratorio. E perciò con grand'animo rispose:

                - Signor Conte, quella casa di Valdocco, che fu tante volte da lei visitata, lodata e beneficata, la vogliono distruggere; quei poveri fanciulli raccolti dalle vie e dalle piazze, ed avviati colà ad una vita laboriosa ed onesta, e che furono già l'oggetto delle sue compiacenze, me li vogliono rigettare nell'abbandono e al pericolo del malfare; quel sacerdote, che V. E. ha sovente portato a cielo colle sue lodi quantunque immeritate, lo si traduce ora come un reazionario, anzi come un capo di ribelli. E ciò che più d'ogni altro mi addolora si è che senza addurmi ragione alcuna fui perquisito, molestato, pubblicamente disonorato con grave danno della mia istituzione, sostenuta sinora dalla carità pel suo buon nome. Di più; la moralità, la religione, i sacramenti furono dagli agenti del Governo fatti segni alla derisione in casa mia e in [679] presenza dei giovanetti, che ne rimasero scandolizzati. Tacio più altre cose gravissime, che mi pare impossibile essere state ordinate di consenso colla Eccellenza Vostra. Io non so che sarà di me; ma questi fatti non possono durare a lungo nascosti agli uomini, e presto o tardi saranno pur vendicati da Dio.

                - Si dia pace, soggiunse Cavour, si dia pace, caro D. Bosco e si persuada che niuno di noi le vuol male. Noi due poi siamo sempre stati amici, e voglio che continuiamo sempre ad esserlo per l'avvenire. Lei peraltro è stato ingannato, caro D. Bosco, e taluni abusando del suo buon cuore l'hanno tratto a seguire una politica, che conduce a tristi conseguenze.

                - Che politica e che conseguenze! Il prete cattolico non ha altra politica, che quella del santo Vangelo e non teme conseguenze di sorta. I Ministri intanto mi suppongono colpevole, e come tale mi proclamano ai quattro venti, senza portare innanzi nè anche una prova delle accuse che si vanno spacciando contro di me e del mio Istituto.

                - Giacchè vuole obbligarmi a parlare, riprese Cavour, io parlerò e dico nettamente che lo spirito da alcun tempo dominante in lei e nella sua istituzione. è incompatibile colla politica seguita dal Governo; onde ragiono così: Lei è col Papa; ma il Governo è contro il Papa; dunque Lei è contro il Governo. Di qui non si scappa.

                - Eppure io scapperò dal suo sillogismo, signor Conte. Anzitutto osservo che, se io sto col Papa, ed il Governo sta contro del Papa, non ne segue già che io stia contro il Governo, ma piuttosto che il Governo sta anche contro di me: ma lascio questo a parte e dico: In fatto di religione io sto col Papa e col Papa intendo di rimanere [680] da buon cattolico sino alla morte, ma ciò non m'impedisce punto di essere pure buon cittadino; imperocchè non essendo mio uffizio di trattar di politica, io non me ne immischio, e nulla fo contro il Governo. Sono vent'anni che vivo in Torino, ho scritto, parlato, operato pubblicamente, e sfido chiunque a recare in mezzo una mia linea, una parola, un fatto, che possa meritare censura dalle Autorità governative. Se la cosa è altrimenti, si provi; se sono colpevole, mi si punisca pure; ma se non lo sono, mi lascino attendere in pace all'opera mia.

                - Ha bel dire, signor Abate, uscì fuori Farini, ma lei non mi darà mai ad intendere che divida le nostre idee, le idee del Governo.

                - Ecchè? signor ministro; in tempo di tanta libertà di opinione, vorrebbesi persino dare aggravio ad un cittadino, se in privato la pensa come gli pare e piace? Vorrebbesi portare la tirannia sino ad imporgli o incatenargli le idee ?

                - Ma non posso persuadermi come ella vivendo in un paese le cui leggi sono affatto contrarie alle sue opinioni, se ne stia là incantucciato come un fantoccio.

                - E non potrà egli un uomo qualunque ritenere nel suo interno che quel cotale opera malamente, e intanto non dire, nè fare cosa alcuna contro di lui, o perchè l'opporglisi riesce inutile od anche dannoso, o perchè un siffatto uffizio non è di sua spettanza? Or bene qualunque sia la mia privata opinione intorno alla condotta del Governo, su certi affari del giorno, io ripeto che, nè fuori nè dentro in casa mia, non ho mai detto, nè fatto cosa veruna, che possa dare appiglio a trattarmi quale nemico della patria, e questo deve bastare alle Autorità. Ma io fo di più, Eccellenza; poichè raccogliendo in casa mia centinaia di fanciulli poveri ed abbandonati, ed avviandoli [681] ad una carriera onorata, vo cooperando col Governo al benessere di molte famiglie e della intera società, diminuendo i vagabondi ed i fannulloni, ed accrescendo i cittadini laboriosi, istruiti e morigerati. Questa è la mia politica e non ne ho altra.

                I due Ministri non poterono non trovar buona la risposta di D. Bosco, tanto più che era corroborata con fatti; ma il Cavour piccandosi di religione e di Vangelo, gli fece da buon sofista quest'altro sillogismo:

                - Senza dubbio D. Bosco crede al Vangelo; ma il Vangelo dice, che colui il quale è con Cristo, non può essere col mondo; dunque se lei è col Papa e perciò con Cristo non può essere col Governo. Sit sermo vester est est, non non. Siamo schietti: o con Dio o col diavolo.

                - Con questo ragionamento, rispose D. Bosco, sembra che il signor Conte voglia far credere che il Governo sia non solo contro il Papa, ma contro il Vangelo, contro Gesù Cristo medesimo. In quanto a me stento a persuadermi che il Conte Cavour e il Comm. Farini siano giunti a tale eccesso di empietà da rinunziare persino a quella Religione in cui son nati e furono educati, e verso la quale colle parole e cogli scritti si mostrarono più volte pieni di rispetto e di ammirazione. Ma comunque sia il Vangelo che la E. V. mi cita risponde a puntino alla difficoltà, là dove Gesù Cristo dice: Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che e di Dio. Perciò secondo il Vangelo un suddito di qualsiasi Stato può essere buon cattolico, stare con Gesù Cristo, sentirla col Papa, fare del bene al suo simile, e nel tempo stesso stare con Cesare, vale a dire, osservare le leggi del Governo, eccettuato il caso che si abbia a fare con persecutori della religione, o con tiranni della coscienza e della libertà. [682]

                - Ma l'est est, non non, non obbliga egli forse un cattolico a dichiararsi sinceramente per qual partito tiene, se per Cristo e contro di Lui?

                - L'est est, non non è una sentenza del Vangelo, che come sacerdote sono in grado di spiegare alle loro Eccellenze. Queste parole non hanno nulla da fare colla politica; ma significano che, sebbene in conferma della verità il giuramento sia lecito, non lo si deve tuttavia usare, se non quando la necessità lo richiede; significano che ad una persona dabbene, per essere creduta, basta l'asserire semplicemente se la cosa sia o non sia, senza aver punto bisogno di ricorrere al giuramento; significano in fine, che le persone oneste e civili devono credere a chi afferma così, senza pretendere che giuri. Il fare altrimenti è indizio o di diffidenza degli uni, o di mala fede degli altri e di poco e niun rispetto di tutti al nome santo di Dio, che non va mai invocato vanamente. Ora stando al caso nostro e non ostante le mie asserzioni, crede forse il signor Conte che D. Bosco sia un cospiratore, un nemico della patria, un mentitore?

                - Non mai, non mai. Io ho anzi sempre ravvisato in lei il tipo del galantuomo; e perciò intendo fin d'ora che tutti i guai siano finiti, e lei sia lasciato in pace.

                - Sì, ripetè Farini, tutto sia finito e D. Bosco vada a casa, si occupi tranquillo dei suoi fanciulli; chè  così facendo non solo non avrà più molestie, ma la riconoscenza e la protezione del Governo e del Re. Ma prudenza, caro Abate, prudenza, poichè  siamo in tempi difficili, ed un moscherino può apparire un camello.

                - Posso dunque stare sicuro di non essere più molestato per parte del Governo? domandò D. Bosco. Posso credere che il Governo sia disingannato sul conto mio, e [683] persuaso che nel mio Istituto non vi fu, nè vi è cosa alcuna, che possa interessare le viste fiscali?

                - Sì, l'assicuriamo, rispose Farini, che niuno più le recherà molestia, e tutti siamo convinti della sua onestà personale e della natura benefica della sua istituzione; ma l'avverto che si guardi da taluni, che le si danno come amici, e intanto sono i suoi traditori

                - Ed io la prego, signor Ministro, se avesse qualche consiglio, avviso o provvidenza a darmi per l'Oratorio, voglia farlo come padre che desidera il bene dei suoi figli; ma non con minacce perchè ciò cagionerebbe danni irreparabili ad un'opera che costò sollecitudini al Governo ed ai privati. Infatti ne' miei bisogni eccezionali ho sempre fatto ricorso ai Ministri e sempre ottenni da loro aiuti.

                - Siamo d'accordo... E stia sempre lontano della politica.

                - Io non ho da star lontano dalla politica, perchè non ci sono mai stato vicino. Io sono di nessun partito.

                - Dunque - alzatisi e strettagli ambidue la mano - noi siamo intesi, conchiuse Cavour, e saremo amici ancora per l'avvenire; e lei.... preghi per noi.

                - Sì, pregherò Dio che li aiuti in vita ed in morte,- terminò D. Bosco, e se ne ritornò in Valdocco pieno il cuore di gratitudine al Signore, per averlo assistito in quel cimento, che avrebbe potuto riuscire funestissimo non tanto a lui, quanto ai giovani raccolti all'ombra della sua carità.

                Rientrava nell'Oratorio verso le 2 pomeridiane, e nello stesso giorno, in cui temevasi per la conservazione dell'Oratorio, il Signore sembrava che scherzasse rendendo vano il malvolere degli uomini. Così si legge nella cronaca dell'Oratorio. [684]

                “Con atto 16 luglio 1860 Rog. Lomello la signora Lucia fu Gaetano Ganna vedova Filippi e i figli Gaetano e Rita vendono a D. Bosco Ettari 1.10.14 dì terreno comprendente casa, cortile, tettoie orto e prato per il prezzo di lire 65.000”. D. Bosco in quella stessa sera ne dava annunzio ai giovani:

                - Vedete i primi effetti delle persecuzioni. Lo voleva negli anni scorsi comprare la casa dei Filippi, andai a far visita ai padroni, proposi condizioni molto vantaggiose, ma mi fu risposto che a nessun costo mi si voleva fare quella cessione. Ora senza che io riapicassi nessuna pratica, il signor Filippi è venuto a farmi proposta per la vendita della sua casa, e mi domanda una somma inferiore a quella che io gli aveva offerta. Avendogli io risposto che ora non possedevo danaro, egli mi assicurò di non aver premura e che avrebbe aspettato il mio comodo. Quindi il contratto venne stipolato. Questo fatto è una caparra della protezione di Maria.

 

 

CAPO L. Coraggio di D. Bosco nel presentarsi ai Ministri - Il bene ricavato dal male - I giovani crescono sempre di numero nell'Oratorio - Domande delle Autorità a D. Bosco, perchè dia ricovero ai poveri giovanetti - Mons. Bonomelli, D. Bosco e la politica - Fine disgraziata di alcuni perquisitori - D. Bosco non conserva rancori e perdona a' suoi avversari.

 

                La memoria scritta diffusamente da D. Bosco, le note raccolte da D. Bonetti e la cronaca di D. Ruffino ci hanno lasciata una relazione completa del memorabile colloquio del nostro fondatore coi due Ministri. D. Ruffino aggiunge un'osservazione: - “Don Bosco sapeva patire senza stancarsi nelle persecuzioni, ma possedeva eziandio un coraggio più unico che raro nel presentarsi a qualsivoglia autorità per quanto alta fosse. Non lasciavasi intimidire, di nulla si sgomentava. Dimostravasi franco nelle sue risposte. Ragionava, supplicava, rimproverava e minacciava persino, quando ciò credeva necessario. Sempre fermo, ma sempre calmo: talvolta serio, benchè amorevole, mai offensivo, spesso sorridente. La stessa sua voce non cangiava tono”.

                Con queste sue maniere, unite alla conoscenza e pratica [686] di tutti i mezzi giusti, retti e legali per tutelare i suoi diritti, e allo studio per evitare che si inasprissero certe contraddizioni, trovava modo di trarre profitto a suo vantaggio delle stesse difficoltà che insorgevano contro la sua istituzione. Di ciò è chiara prova quello che egli riuscì a superare per tanti anni. Più volte abbiamo udite persone estranee, oltre quelle che lo conoscevano da vicino, a dire: - È veramente singolare: quest'uomo le indovina tutte. - E talora esclamavano: - Che furbacchione è D. Bosco; riuscirebbe un buon ministro di Stato! Questi santi son tutti furbi!

                Perciò anche questa volta egli ottenne pienamente il suo fine, anzi avverossi il proverbio che dice: Ogni male non viene per nuocere; e l'assicurazione di San Paolo che le cose tutte tornano a vantaggio per coloro che amano Dio: Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum.

                L'Oratorio ebbe a sperimentare la verità di queste parole: imperocchè le persecuzioni del Governo e i codardi assalti della stampa malvagia finirono per fargli del bene. Infatti queste odiose e ad un tempo clamorose perquisizioni fecero meglio conoscere D. Bosco e l'opera sua; posero alle pubbliche Autorità occasione e modo di convincersi, che nulla avevano a temere della sua politica, anzi gli fecero indirizzare da molte parti un si gran numero di fanciulli che in breve da 500, giunsero a 600 e poscia a 700 e fino a 1000; e l'Oratorio divenne come un popolo di giovanetti di bellissime speranze per la Chiesa e per la civile società. Non solo genitori e parroci, ma Sindaci, Prefetti o Intendenti presero ad inviare in maggior copia di prima i figliuoli dei loro impiegati defunti e di altri poveretti, che facevano ricorso per essere ricoverati in qualche pio Istituto. Alcuni dei Governanti avevano concepita tanta stima per D. Bosco e per l'Oratorio, che pareva non trovassero [687] in tutto lo Stato nè persona, nè luogo più sicuro cui affidare i loro raccomandati.

                Lo stesso Farini il 18 luglio ripigliava o meglio continuava le sue raccomandazioni. Con questa data il Cavaliere Salino trasmetteva la supplica col numero d'ufficio 2155, in favore di Paolo Bertino di anni 13, nativo di Levone. Era presentata da quel Municipio, appoggiata dal Parroco e dal Deputato, perchè il Ministro ottenesse da D. Bosco un posto gratuito in condizione di studente nel suo Istituto al giovane raccomandato.

                Altre raccomandazioni si susseguirono, e abbiamo sott'occhio molte lettere di Ministri e dei loro Segretarii[20] colle quali si fanno istanze a D. Bosco pel ricovero di giovanetti orfani ed abbandonati con espressioni di alto encomio e con promessa di sussidio all'opera sua. Questo fatto fu per l'Oratorio di valido appoggio in quei tempi, in cui bastava  che una qualsiasi, anche buona istituzione, non fosse benevisa o venisse in sospetto al Governo, per trovarsi subito esposta a guerre atroci e al pericolo di soccombere alle violenze di chi brandiva la spada od impugnava la penna.

                D. Bosco però conservava il più stretto riserbo nel non entrare in cose o in discorsi di politica, tanto più che la formola addottata poi dai Cattolici: Nè eletti, nè elettori, gli diede buon giuoco per restare neutrale nelle gare dei partiti. Egli vedeva, stante i tempi, come il Sacerdote dovesse essere il consolatore di tutti, e a lui convenisse fossero aperte le porte di ogni casa, affinchè al bisogno chiamato o non chiamato potesse entrare recando i salutari carismi della religione. [688]

                Mons. Bonomelli scrisse:

                “Un giorno, non sono molti anni, mi tratteneva famigliarmente con quell'uomo di Dio che fu il Sacerdote Giovanni Bosco, vero apostolo della gioventù, e il cui nome è rimasto in benedizione. Con quel suo fare semplice e pieno di tatto pratico, mi disse queste precise parole che non dimenticherò mai: - Nel 1848 io mi accorsi che se voleva fare un po' di bene doveva mettere da banda ogni politica. Me ne sono sempre guardato e così ho potuto fare qualche cosa e non ho trovato ostacoli, anzi ho trovato aiuti anche là dove meno me l'aspettava. Questa regola è il frutto dell'esperienza e non ha bisogno di commenti”[21].

                Tuttavia colla sua prudenza D. Bosco non aveva potuto essere immune dalle violenze odiose delle sette, perchè non di politiche umane, ma si trattava dei diritti sacrosanti della Chiesa da lui coraggiosamente difesi. Ma se quelle violenze furono per lui fonte di benedizione non possiamo dire che siano state altrettanto per coloro che le ordinarono ed eseguirono. E questo appunto ci pare luogo acconcio a segnalare alcuni fatti, nei quali si scorge la giustizia di Dio aver fatto pesare tremenda la sua mano su coloro che più colpevolmente avevano attentato alla distruzione dell'Oratorio. “Diverranno impotenti, è scritto, nel Salmo IX, e dal tuo cospetto verran dissipati: perocchè tu hai presa in mano la mia causa e la mia difesa”.

                Il Comm. Carlo Luigi Farini, uomo dal polso di ferro e dal cuore di selce, aveva firmato il decreto che tenne per molte ore in un ambascia e diremo in un'agonia di morte i ricoverati nell'Oratorio; e fu l'ultimo decreto di [689] tal genere, come credesi, che egli sottoscrisse. Era giunto a minacciare D. Bosco di prigione e a dargli del pazzo: e alcuni mesi dopo, nel 1861, affranto dalla lotta sostenuta per regolare le rivolte nell'Italia meridionale e fare qualche riparo all'anarchia; dal colmo della potenza precipitò si basso nell'estimazione de' suoi stessi complici, che ben si accorse di non poter vincere la prova. Quindi smise l'autorità quasi regale di luogotenente, onde si era fatto investire a Napoli; e colto dall'itterizia incominciò a dar segni di turbata immaginazione, e a vacillare talvolta nel senno. L'11 dicembre 1862 era nominato presidente del Ministero. Mezzo imbecillito e inetto al lavoro, sul principio del 1863 fu assalito da un timor panico, che lo rendeva ridicolo ed insociabile. Si figurava che tutti gli si fossero ribellati, che l'Europa fosse in arme contro l'Italia, e proferiva stranezze inconcepibili. Nel mese di marzo già affatto impazzito e con la fantasia esaltata per i casi della Polonia si presentava al Re Vittorio Emanuele. Appuntandogli al petto una pistola, come dissero i giornali di allora, gli intimava di muovere all'istante coll'esercito in aiuto dei Polacchi o di morire. Il Re si avvide subito che aveva da fare con un pazzo, gli si mostrò prontissimo a fare il voler suo e così l'ebbe disarmato.

                Ne' suoi vaneggiamenti Farini andava gridando: - Grande e generosa è la Francia; vedete, i suoi eserciti percorrono l'Europa: la Polonia e l'Ungheria sono salve: il Papa più non esiste. - Il povero pazzo aveva ordinato un carrozzone della strada ferrata per andare a Parigi a parlare coll'Imperatore Napoleone III, e invece la sera del 20 marzo, accompagnato alla stazione, fu condotto al convento della Novalesa presso Susa da poco tempo convertito in manicomio. Questo convento uno dei più famosi [690] che la storia della civiltà italiana ricordi, appartenente ai Benedettini, i quali colla loro pietà e dottrina gli avevano acquistata una fama immortale, rispettato per 10 secoli dagli stranieri e dai barbari, vedeva cacciati i suoi religiosi nel 1856 dal Governo in nome della libertà. Mutato in ospedale dei pazzi, fra i primi che vi entrarono fu un Ministro del Regno.

                Pochi giorni appresso venne trasferito alla villa Cristina, che era una pazzeria speciale. Colà l'infelice stette alcun tempo e contemplando Torino asseriva esser quella la città di Varsavia: ma non lasciando egli alcuna speranza di guarigione ne fu tratto e condotto a Quarto sul mare. Dopo aver menato una vita peggior della morte, sequestrato dal consorzio degli uomini, moriva il 1 agosto 1866 senza più ricuperare il senno. In mezzo alle ricchezze che era andato ammassando aveva ripetuto dappertutto di voler morir povero e così fu. Nei giorni di sua gioventù e di sua possanza aveva abbeverata di fiele e di mirra la Chiesa ed i suoi più fedeli difensori, copertili di calunnie infamanti; orbene testimoni oculari attestarono che nella sua furiosa pazzia voleva nutrirsi delle proprie immondezze e in queste, giorno e notte, si ravvoltolava. Dio gli abbia usato misericordia.

                Sorte non meno funesta toccò agli istigatori ed esecutori degli odiosi suoi comandi.

                Due di costoro che si erano mostrati veramente zelanti in queste perquisizioni ed in quelle fatte ad altre famiglie della città, furono in premio del loro zelo politico inviati poco dopo a Bologna delegati di pubblica sicurezza. Mentre colà raddoppiavano le loro sollecitudini per dimostrarsi degni della ricevuta promossione, una sera circa la mezzanotte, mentre ritornavano dall'ufficio della questura, da [691] mano incognita restarono ambidue colpiti dallo sparo di un trombone ed ambidue caddero estinti all'istante.

                “Un terzo, scrive D. Turchi Giovanni, il più ostile in quelle perquisizioni, venne anni dopo ucciso nel proprio ufficio da un subalterno a Ravenna, se ben mi ricordo. Per queste disgrazie o per altro, si diceva allora, e si suol dire tuttavia, che chi perseguita D. Bosco tardi o tosto la paga e finisce male”.

                Ma D. Bosco ardeva sempre di compassione per i suoi avversari, fossero persone pubbliche o private. Raccogliamo alcune testimonianze che vennero fatte a voce e in iscritto.

                D. Bonetti Giovanni: “Nei giorni in cui più accanitamente ci tribolavano i nostri nemici, D. Bosco nel farci sapere che le cose sarebbero riuscite a bene, ci raccomandava sempre che pregassimo per loro, affinchè aprissero gli occhi a conoscere l'errore, dessero luogo a sentimenti di umanità, e così non demeritassero la divina misericordia”.

                Monsignor Cagliero: “In tutte le lotte e persecuzioni D. Bosco si manteneva calmo, sereno, e fidente in Dio e Soleva dire: - Se Dio permette queste prove e tribolazioni al nostro Oratorio è segno che ne vuol trarre del gran bene. Ci bisogna coraggio, sacrifizi e pazienza, ma dobbiamo sempre andare avanti confidando in Lui. - Contro gli avversari e persecutori delle opere sue non conservava rancore, e non l'intesi mai a sparlare di loro. Ricordo che qualcuno di noi indignato dall'iniquo procedere per parte dell'autorità, avrebbe voluto, come i figli di Zebedeo, invocare il fuoco dal cielo, sopra gli autori di tante vessazioni. Il servo di Dio però sorridente e calmo Soleva dirci: - Eh! voi siete ancora ragazzi; bisogna lasciar tutto nelle mani del Signore! Egli che ciò permette saprà disperdere i loro cattivi disegni; intanto preghiamo e non [692] temiamo. - Quando poi si discorreva sulla mala fine fatta da coloro che avevano avversato l'opera degli Oratorii e sulle disgrazie che li incolsero, alzando gli occhi al cielo: - Oh come sono mai terribili, ci diceva, i giudizi del Signore contro coloro che perseguitarono il nostro Oratorio! Dio voglia aver usato misericordia per le anime loro. Calunniato dai giornali, come la Gazzetta del Popolo di Torino, non permise che loro si rispondesse, nè che si nutrisse risentimento contro gli indegni scrittori, nè che si proferissero parole che fossero in qualche maniera a loro ingiuriose o a quelli che li ispiravano. Invece era solito a dire: - Eh là! pazienza! Anche questa passerà!... Buona gente! Se la prendono contro D. Bosco, che non cerca che fare del bene! Avremo dunque da lasciar che si perdano le anime? Avversano senza volerlo l'opera di Dio! Egli saprà bene sventare le loro trame!”

                Il Can. Anfossi: “Avvenne a me più volte, allorchè vedevalo trattare con certi amici sospetti, di avvisarlo: - Ma quel tale non è favorevole a lei! - Ed egli mi rispose: - Non mi pare, perchè fu qualche volta da me per raccomandarmi dei giovani ed ho fatto il possibile per accontentarlo. E soleva addurre questa ragione, quando si discorreva dei suoi avversari maldicenti: - Essi parlano così, giudicano così, perchè non conoscono D. Bosco; generalmente non sono mai venuti all'Oratorio; quando s'avvicinassero cesserebbero di essere avversarii. Credeva difficilmente quando gli si affermava essere alcuno suo nemico”.

                D. Dalmazzo: “Una cosa che spesso mi sorprese fu il vedere, come egli trattasse dolcemente e colla più grande carità persone notoriamente a lui avverse, che si sapeva come screditassero il suo Istituto e parlassero  e scrivessero male di lui, narrando cose non vere. Interrogato una [693] volta perchè si mostrasse così benigno verso quelle persone nemiche rispondeva: - Perchè è nostro dovere di amare tutti ed anche i nemici. E se trattavasi di uomini potenti che appartenevano al Governo aggiungeva: - Ed anche ne noceant.

                Notai parimenti che nella stessa guisa si comportava con certi giovani, i quali dopo essere stati da lui educati e mantenuti per lo spazio di molti anni, e conseguite anche varie lauree, se ne andavano dall'Oratorio, divenendo suoi nemici o per passioni, o per rispetto umano, o per opinioni politiche, D. Bosco ne parlava sempre in bene, li accoglieva caritatevolmente quando li trovava, e ad alcuni procurò posti onorifici e lucrosi dopochè lo avevano maltrattato.

                Uno di questi che per molti anni avevagli recate gravissime ingiurie e danni, ed era sempre stato lontano da lui, venne a visitarlo sul fine del pranzo, per qualche suo affare, ma non già per domandargli venia. Il serviente l'annunziò, e noi presenti eravamo curiosi di assistere a quell'incontro. D. Bosco all'udire quel nome rispose tranquillo: - Ma che cosa viene a fare qui?... Ditegli che mi lasci in pace. - Ma quegli all'improvviso e inosservato entrò nella sala, fu alle spalle e: - D. Bosco? - gli disse. D. Bosco non trasalì, non mutò colore, non fece atto d'impazienza; e senz'altro esclamò: - Ah sei qui? - E conversò con lui come se fossero sempre stati in ottima relazione”.

                D. Cerruti Francesco: “Non conosceva nè astio, nè vendetta. Tale è la convinzione che si formarono quanti lo conobbero da vicino. Le sue vendette erano il cercare di rendere qualche servizio ai suoi nemici, e godeva grandemente quando gli si presentava l'occasione. In questo modo ridusse favorevoli, anzi benefattori, tanti che prima l'osteggiavano”. [694] D. Rua, D. Berto e D. Turchi ad una voce ripeterono: - D. Bosco segnalò la sua grande carità nel perdono, delle offese pubbliche e private, nel trattare con dolcezza i suoi offensori e nel pregare per loro; e non ricordava gli insulti ricevuti nelle più disgustose circostanze. Parlando a' suoi alunni dava tra le altre queste norme: - Siate sempre facili a giudicare bene del prossimo, e quando non potete altro giudicate bene delle intenzioni scusandolo almeno per queste; non rinfacciate mai i torti già perdonati. Fate del bene a tutti, del male a nessuno. Egli infatti portavasi con grande mansuetudine, occorrendogli di soffrire danni nelle opere sue o nei suoi giovanetti; faceva altresì le sue ragioni, ma non conservava mai alcun risentimento personale, anzi, richiesto, beneficava, quei medesimi che gli avevano recato nocumento od ingiuria. A chi lamentandosi di quei mali trattamenti, dimostrava disposizione di far rappresaglia, diceva: noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

                Questo suo esercizio della mansuetudine portato a grado eroico era causa di quella sua profonda continua tranquillità di animo, che lo portava a fare sempre ogni cosa, come se avesse null'altro a fare; quella che lo faceva riuscire in tutto ciò che intraprendeva con meraviglia di quanti lo conoscevano. Rimaneva imperturbabile non solo fra le contraddizioni e i biasimi, ma anche in mezzo alle lodi che hanno così lusinghiere attrattive preoccupando la mente. Un giorno esclamava essendo noi presenti: - Dite pure bene o male di me come vi capita, purchè il dir male o bene di me riesca a salute di qualche anima. A questo modo così la lode come il biasimo mi farà sempre piacere”.

 

 

CAPO LI. D. Bosco è invitato a fondare un collegio in Mirabello - È afflitto da una gonfiezza al collo; non prega per la sua guarigione - Sviene a S. Ignazio - Conversione di un giovane cavaliere - Lettere di D. Bosco a varii chierici ed alunni - D. Rua agli esercizi nella Casa dei Lazzaristi e generosità del Can. Vogliotti - Disastroso fine dell'anno scolastico a Giaveno. - Nuove istanze del Vicario generale a D. Bosco perchè accetti la direzione di quel seminario -Trattative col Municipio di Giaveno e lettera di D. Bosco al Can. Vogliotti con sue proposte - D. Bosco con altra lettera accetta di accompagnare il Canonico a Giaveno per intendersi col Municipio; accordo fallito - Sacra Ordinazione e prima messa di Don Rua - Un parere di D. Bosco sulla costumanza di baciarsi in segno d'amicizia.

 

                Avvenimenti di grande importanza per la novella Pia Società, incominciavano a svolgersi nel mese di luglio. D. Bosco aveva ricevuti molti inviti, affinchè non limitasse il suo apostolato tra i fanciulli della sola diocesi di Torino. Egli avrebbe voluto aderire alle varie richieste, che gli venivano dal Monferrato, perchè fondasse un collegio in quella regione coll'aiuto [696] di qualche persona benefica; ma attendeva che la divina Provvidenza gli indicasse il tempo e il luogo. Ed ecco in que' giorni giungere nell'Oratorio D. Coppo Felice parroco di Mirabello diocesi di Casale, facendo viva insistenza per la costruzione di un edificio scolastico e per convitto nella sua parrocchia. D. Bosco fu persuaso dalle sue ragioni, sostenute anche dal Ch. Francesco Provera, ed acconsentì a studiare le basi di quelle trattative, benchè si risentisse fisicamente di tante lotte, e fatiche sopportate in quest'anno. Per sopra più eraglisi formato un grosso tumore nel collo che gli dava grave fastidio e pena.

                D. Coppo Felice, vedendolo così sofferente, gli disse: Ma lei che ha guariti tanti coll'intercessione di Maria SS., perchè non domanda alla Madonna che lo guarisca?

                - Veda, rispose D. Bosco; se io sapessi che basterebbe un Ave Maria per guarirmi, io non la reciterei. Lasciamo che si faccia la volontà di Dio.

                Stabilito quest'affare, D. Bosco non badando ai suoi incomodi dolorosi andò a S. Ignazio per gli esercizi, risoluto di occuparsi nel sacro ministero. Aveva condotti con sè i chierici Boggero, Durando e Francesia. Al segno delle sacre funzioni D. Bosco andò in Chiesa. Vicino a lui prendeva posto un giovane Cavaliere, che non gli era sconosciuto, da lungo tempo immerso nelle più stravaganti avventure del bel mondo. Si trovava a S. Ignazio per contentare l'afflitta madre, che aveagli promesso di pagare i suoi debiti. Ora accadde che a D. Bosco non bastando le forze per stare in ginocchio, quanto portava la funzione, ed essendosi aperto il tumore, egli cadde in deliquio.

                Il Cavaliere visto D. Bosco svenuto si sentì preso da tale compassione quale aveva mai provato. Se lo tolse [697] in braccio, lo portò delicatamente in camera, ove le cure prodigategli non tardarono a farlo rinvenire. Quando D. Bosco ritornò ai sensi vide ai piedi del letto piangente il Cavaliere.

                Chiamatolo a sè, lo prese per la barba, se lo tirò adagio adagio sul petto e con accento affettuoso gli disse: - Oh! ora ella è nelle mie mani. Che cosa ne devo fare? - Aggiunse poi alcune altre parole e il nobile giovane commosso da quella carezza affatto paterna, da quel punto divenne cosa tutta sua.

                Cedendo all'impulso della grazia, si confessò; e rinunciava con santi propositi di costanza e di fede alla sua vita dissipata.

                D. Bosco intanto da S. Ignazio rispondeva ai giovani che dall'Oratorio, o dai loro paesi gli avevano scritto delle lettere. Eccone alcune.

 

                All'Ornatissimo giovane il Sig. Rossetti Stefano, studente di Prima Rettorica. Montafia.

 

                               Amatissimo figliuolo,

 

                La lettera che mi hai scritto mi ha fatto veramente piacere, con essa dimostri che tu hai compreso quale sia l'animo mio verso di te.

                Sì, mio caro, io ti amo di tutto cuore, ed il mio amore tende a fare quanto posso, per farti progredire nello studio e nella pietà e guidarti per la via del Cielo.

                Rammenta i molti avvisi che ti ho dati in varie circostanze; sta allegro, ma la tua allegria sia verace, come quella di una coscienza monda dal peccato. Studia per diventar molto ricco, ma ricco di virtù, chè la più grande ricchezza è il santo timor di Dio. Fuggi i cattivi, sta amico dei buoni; rimettiti nelle mani del tuo sig. Arciprete e seguine i consigli e tutto andrà bene.

                Saluta i tuoi parenti da parte mia; prega il Signore per me, [698] e mentre Iddio ti tiene lungi da me, lo prego a conservarti sempre sdo finché. sarai di nuovo con noi, intanto che ti sono con paterno affetto

                S. Ignazio presso Lanzo, 25 luglio 1860.

affez.mo

Sac. Bosco GIOVANNI

 

Al giovane Parigi Domenico,

 

                               Parigi fili mi,

                Si vis progredi in viam mandatorum Dei perge quemadmodum aliquo ab hinc tempore cepisti. Quod si volueris animam tuam pretiosis margaritis exornare, amicitiam institue cum humilitate, caritate et castitate. Eo sanctior eris quo strictior erit haec amicitia.

                Ora pro me. Vale.

S. Ignatii, 25 julii 1860.

Sac. BOSCO GIOVANNI

 

Al chierico Giovanni Anfossi,

 

                               Dilecto filio Anfossi salutem in Domino.

                Ut recipiam fratrem tuum domi apud nos per epistolam postulasti. Hic et nunc absolutum responsum dare non possem; sed cum venero ad te disponam quomodo satius in Domino fieri potuerit.

                Interim, fili mi, praedica verbum importune et opportune, argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina. At cave a magistris, et sunt, qui a verbo Dei auditum avertunt, ad fabula autem convertuntur; hos devita. Audi constanter verba oris mei, et spera in Domino esse futura verba et monita salutis.

                Ora pro me. Vale.

                S. Ignatii apud Lanceum, 25 julii I86o.

Sac. BOSCO GIOVANNI [699]

 

Al giovane Giovanni Garino,

 

                               Garino fili mi,

 

                Magnam rem, fili mi, obtulisti per epistolam tuam; in manus meas voluntatem tuam commendasti; hoc frustra non erit. Praebe mihi etiam cor tuum; et ego duo tibi promitto. Rogabo Dominum pot quotidie intendat in adiutorium tuum, et totis viribus agam ut cor tuum semper immaculatum coram Domino permaneat.

                Bono animo esto; res magni momenti te expectat: cum venero apud te nexum resolvam.

                Ora pro me ne in vacuum gratiam Dei recipiam. Vale.

 

S. Ignatii apud Lanceum, 25 julii I86o.

Sac. BOSCO GIOVANNI

 

Al Chierico Ghivarello Carlo,

 

                               Dilecto filio Ghivarello salutem in Domino.

                Si propter dentis deficientiam verborum articulatio et pronunciatio impeditur, utique tibi concedo ut eidem alium ab artis  perito substituere valeas. Cave tantum ne res melioris boni gratia  incoepta in pejus vertatur.

                Interim, fili mi, praebe teipsum exemplum bonorum operum. Cura ut scientia, gratia, et benedictio Dei quotidie augeatur in corde tuo, adeo ut cas de virtute in virtutem donec videas Deum  Deorum in Sion.

                Ama me in Domino, sicùti ego amo te. Vale.

S. Ignatii apud Lanceum, 25 julii I86o.

Sac. Bosco GIOVANNI

 

A D. Michele Rua.

 

                               Dilecto flio Rua Michaëli salutem in Domino.

 

                Litteris gallicis conscriptam epistolam ad me misisti; et bene fecisti. Esto gallus tantum lingua et sermone; sed animo, corde  et opere Romanus intrepidus et generosus. [700] Scito ergo et animadverte sermonem. Multae tribulationes te expectant; sed in his magnas consolationes dabit tibi Dominus Deus noster. Praebe teipsum exemplum bonorum operum; vigila in petendis consiliis; quod bonum est in oculis Domini constanter facito.

                Pugna contra diabolum; spera in Deo: et si quid valeo totus tuus ero.

                Gratia Domini N. J. C. sit semper nobiscum. Vale. S. Ignatii apud Lanceum, 27 julii 1860.

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                D. Rua in quei giorni si trovava a fare gli esercizi spirituali nella casa dei Lazzaristi in Torino preparandosi per la sacra Ordinazione del Sacerdozio. Il Can. Vogliotti non solo pagava per lui a que' religiosi la retta fissata per quei dieci giorni di ritiro, come aveva già fatto prima per le ordinazioni del suddiaconato e diaconato, ma sborsava quasi per intero la somma assai vistosa dovuta alla regia cancelleria per il placet concesso alla dispensa giunta da Roma. Ciò consta da una lettera di D. Rua scritta in ringraziamento al detto Canonico, il quale mentre con quest'atto generoso compieva una fiorita carità, nello stesso tempo aveva di mira un altro santo scopo, cioè quello di far risolvere D. Bosco in favore di Giaveno.

                Non era ancora decisa da D. Bosco l'accettazione del Seminario. Questo sulla fine dell'anno scolastico 1859-1860, prima ancora del 12 agosto giorno di chiusura secondo il Regolamento, più non contava che pochissimi alunni e nel congedarli i Superiori avevano loro dichiarato che probabilmente nell'anno venturo non si sarebbero più riaperte le scuole.

                Pareva spenta ogni speranza di far rivivere quell'Istituto dal quale tanto clero aveva ricevuta la sua prima [701] educazione. A Mons. Fransoni doleva grandemente un tal fatto; ma non sapendo come scongiurarlo per essere lontano, rimetteva al pieno arbitrio del Vicario generale lo scioglimento di quel problema. Il Vicario allora non vide altro partito sicuro, se non quello di insistere nuovamente presso D. Bosco nella fiducia che questi, colla fama del suo nome e coll'opera de' suoi figli, avrebbe richiamato quel Seminario a florida vita, conservandolo alla Chiesa. Egli adunque interpretando la mente dell'Arcivescovo lo pregò a voler accettare quell'incarico. D. Bosco acconsentì ai desideri del suo Superiore ed accettò di gran cuore l'offerta, lietissimo di poter in quel modo cooperare viemeglio al bene dell'Archidiocesi, ma però non senza certe prudenziali riserve, come vedremo.

                Egli pertanto troncò le trattative pel Convitto di Cavour, rimandandone la ripresa ad altri tempi; ma dovette aspettare per più di un mese le risposte del Municipio di Giaveno, senza le quali non conveniva prendere una decisiva risoluzione. Quelle giunsero finalmente in Curia con uno schema di convenzione per iscritto, poichè così Don Bosco erasi inteso col Sindaco. Il Can. Vogliotti, dopo averle esaminate, le mandava a Lanzo ove si trovava D. Bosco. Questi gliele restituiva colle seguenti riflessioni.

 

                               Ill.mo e Molto R.do Sig. Rettore,

 

                Ho letto attentamente la risposta o meglio il progetto del Municipio di Giaveno, e sebbene in esso io scorga il buon volere e dal canto mio siavi disposizione di fare quid quid valeo, tuttavia colla somma di mille franchi io non posso assumermi e garantire tutti i pesi che si vorrebbero imporre.

                L'unica cosa che parmi potersi fare, e per cui m'adoprerei quanto posso nel Signore, si è di studiare di montare un seminario unicamente per giovani che aspirano allo stato ecclesiastico; [702] e rinunciando ad ogni trattativa col predetto Municipio, mettersi in piena libertà pei maestri limitandosi ad alcuni patentati.

                Le cose basate su questo punto si possono, parmi, provare per un anno e vedere quello che la divina Provvidenza vorrà disporre di noi. Venerdì 27 corrente mese sarò di nuovo a Torino e mi darò premura di recarmi da Lei.

                Dio Le doni sanità e grazia e mi creda quale con gratitudine mi professo

                Di V. Sig. Ill.ma e Molto R.da

                Lanzo, 17 luglio 1860.

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Il Can. Vogliotti il quale, amante della pace, temeva di venire in urto col Municipio, se quelle pratiche' non fossero riuscite a buon termine, risolse di recarsi in persona a Giaveno, e tentare la prova per venire ad una conclusione favorevole ad ambe le parti. Era un passo necessario, perchè quel Municipio aveva già presentato domanda formale di quell'edifizio scolastico al Ministero dell'Istruzione pubblica, ottenendo eziandio l'appoggio del Ministro di Grazia e Giustizia. I decreti necessari si diceva che già fossero pronti. Scrisse pertanto a D. Bosco invitandolo ad accompagnarlo a Giaveno. D. Bosco gli rispondeva.

 

                               Ill.mo e Molto R.do Signore,

 

                Con vero piacere andrò con V. S. Ill.ma a Giaveno, ma credo che si farà poco.

                Il punto fondamentale sta qui: D. Bosco fu perquisito due volte, perciò sospetto al Governo. Il Municipio vorrebbe svincolarsi da quella specie di offerta, che prima aveva fatto fare a D. Bosco e ciò vorrebbe fare in bel modo.

                E quando anche andassi a Giaveno, ed il Seminario, così giudicando i miei Superiori, mi fosse affidato, saremmo forse in urto continuo con tutti quelli che ecc. [703] Ho stimato bene di notarle questo pensiero, pronto però a fare quanto posso per secondarla in tutto quello che sembrerà di maggior gloria di Dio e salute delle anime.

                Con pienezza di stima e di gratitudine mi professo

                Di V. S. Ill.ma e molto R.da

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Il 27 luglio D. Bosco, accompagnato dai suoi tre chierici, scendeva da S. Ignazio per obbedire all'invito del, Can. Vogliotti di recarsi con lui a Giaveno. Ma nulla si potè  conchiudere, poichè i signori del Consiglio Municipale stettero fermi a non mutare la convenzione proposta, adducendo per causa le ristrettezze finanziarie. D. Bosco ruppe allora ogni trattativa.

                D. Rua Michele il 29, Domenica, veniva insignito del carattere sacerdotale da Mons. Balma, in Caselle nella villeggiatura del Barone Bianco di Barbania, detta di Sant'Anna. Nella cappella di questo insigne benefattore amicissimo di D. Bosco servirono ai sacri riti il Ch. Durando e il Ch. Anfossi.

                Il 30 luglio D. Rua celebrava nell'Oratorio senza speciale solennità la sua prima messa e alla sera, invece di D. Bosco, teneva il discorsino dopo le orazioni, dimostrandosi commosso e riconoscente per le festose accoglienze e supplicando tutti a pregare per lui Gesù e Maria a sostenerlo onde potesse portare degnamente il grave peso, che gli imponeva la nuova qualità di sacerdote. Gli alunni infatti in quel giorno furono continuamente intorno a lui a baciargli affettuosamente la mano. Quest'atto doveroso, fece nascere tra i chierici una questione sull'abitudine ovvero sulla costumanza di baciarsi a vicenda in certe circostanze. “Il 31 luglio, nota la cronaca, fu interpellato [704] D. Bosco, che rientrava in casa ed egli diede la seguente risposta: - 1. Quando si tratta del padre e della madre o di qualcuno che si diporta verso di noi con affetto paterno, riceviamo e restituiamo il bacio.

                2. Baciamo quando vi è un'utilità o convenienza, come quando si potrebbe con questo atto spegnere un odio, o non dimostrarci avversi, escludendo però sempre le persone di diverso sesso.

                3. Quando fosse una persona amica che da molto tempo non abbiamo più vista. Del resto tutti quelli che reggono, comunità, e attendono all'educazione della gioventù, proibiscono il mettersi le mani addosso, il baciarsi, il toccarsi la mano, eccetto che sia in occasione di un addio per lungo viaggio, oppure di rivedersi dopo una prolungata assenza”.

 

 

CAPO LII. L'onomastico di D. Alasonatti - La Messa solenne di Don Rua nell'Oratorio; festeggiamenti; pronostici; elogi - II Marchese e la Marchesa Fassati costituiti padroni dell'altare della Madonna nella chiesa di Valdocco - Il sogno delle quattordici tavole: spiegazioni - D. Bosco parte per Strambino; dialoghi in ferrovia; chiede la elemosina per il panegirico di S. Rocco. - La trigesima di D. Cafasso a S. Francesco d'Assisi: D. Bosco legge l'orazione funebre: suo continuo ricordo del caro benefattore - Garibaldi a Napoli - Invasione dei Piemontesi nelle Marche e nell'Umbria: battaglia di Castelfidardo e presa d'Ancona - Consiglio di D. Bosco; per i soldati che partivano per quella guerra - Il Card. De Angelis prigioniero in Torino - L'esercito piemontese nel Napoletano: vittoria al Garigliano e occupazione di Capua - Le sorti dell'Austria.

 

                Il giorno 3 di agosto, si commemorò nell'Oratorio l'onomastico del Sacerdote Vittorio Alasonatti. Questa annuale dimostrazione di riconoscenza, ebbe luogo subito dopo il pranzo, dovendo il buon Prefetto partire per recarsi a confessare a S. Ignazio. In quei giorni un grandissimo numero di fedeli saliva in pellegrinaggio al Santuario. [706] Il 5, Domenica, solennità della Madonna della Neve, si festeggiò la messa nuova cantata da D. Rua, che fu assistito da D. Bosco. Tutti i giovani studenti ed artigiani non avevano mancato di fare la loro comunione, sapendo essere questo il più vivo desiderio del novello prete. Il tripudio fu tale da non potersi immaginare da chi non fu presente. Un entusiasmo febbrile animava tutti gli alunni, che non potevano trovare modi adeguati per dimostrare il loro affetto a D. Rua. Anche i giovani esterni gli presentarono il loro mazzo di fiori. Si lessero nell'accademia ventisette composizioni, fra le quali primeggiava una poesia petrarchesca dei Ch. Francesia. In questa accademia si udì ripetuta una singolare affermazione. Il Ch. Vaschetti Francesco lesse fra gli elogi le seguenti frasi.

                “Tu dei sacerdoti sei l'esempio, dei chierici il maestro in virtù ed in scienza, degli studenti il consigliere, degli artisti sei la guida, degli ammalati sei il sollievo, degli afflitti sei il conforto, di tutti sei l'allegrezza. Tu insomma amato ed ammirato da tutti, porti in te il cuore di un altro D. Bosco, e già tutti ti notano a dito come ben degno di lui successore”.

                Un poeta così concludeva la sua ode:

 

“Verso i fanciulli porti tanto amore

Che tu trastulli anche un deforme e losco,

Perciò t'avrà (preveggo) successore

Il buon D. Bosco”.

 

                Tutto il giorno fu un continuo gridare: Viva D. Rua! Il quale si sforzava di rivolgere queste ovazioni a D. Bosco. Fu una viva immagine del trionfo della Carità. D. Rua nella parlata di chiusa dell'accademia, chiamando fratelli i giovani, li  ringraziò, chiese preghiere, e venia se talvolta avea dovuto rimproverare qualcuno a suo bene, promise loro un affetto efficace inestinguibile, li supplicò ad avvisarlo con [707] piena confidenza qualora sembrasse aver egli mancato a questa sua promessa, e finì con inneggiare a D. Bosco suo e loro caro padre.

                D. Rua fin d'allora teneva in mano gran parte della gestione degli Oratorii, colla sua invincibile fermezza di carattere. In lui le qualità più eminenti si congiungevano ad una profonda umiltà. Il suo spirito era il più retto e più pratico che potesse darsi. D. Bosco conoscendolo capace di cavarsi dagl'imbrogli, a lui non tardò a lasciare larga facoltà d'iniziativa nelle opere, quantunque egli non si scostasse mai dalla più rigorosa ubbidienza. Per questo splendore di virtù D. Bosco disse più volte di lui: - D. Michele potrebbe far dei miracoli se volesse.

                Nello stesso giorno D. Bosco volle dare un attestato solenne di riconoscenza ad una famiglia di insigni benefattori, che avevano partecipato alla gioia dell'Oratorio per quella festa a D. Rua. Loro conferiva il patronato di un altare della sua Chiesa. Ecco il documento.

 

                Dichiarazione di Patronato a favore del signor Marchese Domenico

                Fassati e della signora Marchesa Maria De Maistre.

 

                Il sottoscritto, per dare un segno di gratitudine verso i signori coniugi Marchesi Domenico e Maria Fassati per le caritatevoli largizioni fatte in vari tempi a favore dei poveri giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di sua spontanea volontà ha deliberato la seguente dichiarazione di Patronato.

                I prelodati signori coniugi Fassati avendo concorso con vistose oblazioni alla costruzione ed ornamento di questa chiesa detta Oratorio di S. Francesco di Sales ed a totale loro spesa avendo, fatto costrurre muro, pavimento, altare, balaustrata ed provveduto di un'elegante statua di Maria SS. col Bambin e quanto riguarda la cappella a Lei dedicata, il sottoscritto Direttore della chiesa e della casa annessa costituisce i mentovati signori Marchesi Domenico e Maria Fassati e loro eredi a [708] patroni della detta cappella di Maria SS., dando loro facoltà di farla abbellire, ornare e di fare ivi celebrare tutte quelle sacre funzioni che loro sembreranno tornare a maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime.

                I Patroni si obbligano dal canto loro di mantenere almeno l'altare in uno stato decente da poter servire al divin culto.

                La presente munita del bollo dell'Oratorio si manda ai novelli Patroni da valere per sè e pei loro eredi ogni qualvolta fosse caso di esercitare qualche diritto nei limiti e nelle forme sopra descritte. Ma tanto il sottoscritto quanto i Patroni intendono uniformarsi a quanto è prescritto dai sacri Canoni, e venisse ordinato da Santa Madre Chiesa, di cui e nominante e Patroni si professano ubbidientissimi figliuoli.

                Torino, 5 agosto, festa della Madonna della Neve 1860.

 

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                E il Marchese con una somma provvide a tutte le future eventualità di tale cappella.

                D. Bosco chiudeva la festa raccontando alla sera il seguente sogno:

 

                Si trovavano tutti i miei giovani in un luogo ameno come il più vago de' giardini, seduti a mense che da terra formando gradinata, si innalzavano tanto che quasi più non se ne vedeva la sommità. Le lunghe tavole erano quattordici disposte a vasto anfiteatro e come divise in tre ordini ciascuno sostenuto quasi da un muro che formava ripiano.

                Al basso intorno ad una tavola posta sul nudo suolo spoglia d'ogni ornamento e vasellame si vedeva un certo numero di giovani. Erano mesti, mangiavano di mala voglia ed avevano innanzi un pane a forma di quello delle munizioni dei soldati; però tutto rancido e muffito che faceva schifo. Il pane sulla tavola era in mezzo a sudiciume e ghiande. Quei poveretti stavano come gli animali immondi al trogolo. Lo voleva dir loro che gittassero via quel pane; tuttavia mi son contentato di chiedere, perchè avessero innanzi un cibo così nauseante. Mi risposero: - Dobbiamo [709] mangiare il pane che ci siamo preparati e non ne abbiamo altro. - Era lo stato di peccato mortale.

                Dicono i proverbi al Capo I: “Ebbero in odio la disciplina e non abbracciarono il timor del Signore, e non porsero le orecchie a' miei consigli e si fecero beffe di tutte le mie correzioni. Mangeranno pertanto i frutti delle opere loro e si saluteranno de' loro consigli”.

                Ma di mano in mano che le mense salivano, i giovani si mostravano più allegri e mangiavano pane più prezioso. Erano bellissimi, splendenti e di beltà e splendore sempre crescente. Le loro tavole ricchissime erano coperte con tovaglie di raro lavoro, sulle quali brillavano candelabri, anfore, tazze, vasi di fiori indescrivibili, piatti con preziose vivande; tesori di valore inestimabile. Il numero di questi giovani compariva grandissimo. Era lo stato dei peccatori convertiti.

                Finalmente le ultime mense alla sommità avevano un pane che non so definire. Pareva giallo, pareva rosso, e lo stesso colore del pane era quello delle vesti e della faccia dei giovani, che splendeva tutta di luce vivissima. Costoro godevano di una allegria straordinaria e ciascuno cercava di parteciparla agli altri compagni. Nella loro beltà, luce e splendore di mense, superavano di gran lunga tutti quelli che occupavano i gradi sottoposti. Era lo stato di innocenza.

                Degli innocenti e de' convertiti afferma lo Spirito Santo ne' proverbi al Capo I: “Chi ascolta me, avrà riposo senza paura, e sarà nell'abbondanza, scevro dal timore dei mali”.

                Ma il più sorprendente si è che quei giovani li riconobbi tutti dal primo all'ultimo, dimodochè vedendone ora uno, parmi vederlo ancora là assiso nel suo luogo a quella tavola. Mentre io era meravigliato a quello spettacolo che non poteva capire, vidi un uomo alquanto lontano. Corsi per interrogarlo, ma intanto inciampai in qualche cosa e mi svegliai trovandomi nel letto. Voi mi avete domandato un sogno ed io ve l'ho raccontato. Però non fatene altro caso di quello che può meritarsi simile materia.

                Il giorno seguente D. Bosco disse in privato ad ogni alunno qual posto occupasse a quelle mense. Per manifestare l'ordine che ciascuno teneva incominciava dalla tavola [710] più alta, venendo alla più bassa. Gli si domandò se uno potesse da una tavola inferiore salire ad una superiore. Rispose che sì, eccetto che l'andare a quella che sovra tutte le altre soprastava, perchè i decaduti da essa, più non vi potevano ritornare. Era il luogo destinato solo per coloro che conservano l'innocenza battesimale. Il numero di questi era piccolo, ma grande quello del secondo ordine e del terzo.

                D. Ruffino Domenico e D. Turchi Giovanni, testimoni auriculari, presenti, lasciarono narrazione di questo sogno e il nome di qualcuno che stava assiso alla mensa primaria.

                Il 15 agosto D. Bosco partiva dall'Oratorio per recarsi a Strambino. Lo accompagnava Reano Giuseppe, che ci lasciò in iscritto la relazione di questo viaggio. Appena D. Bosco fu nel vagone con altri viaggiatori, entrò un uomo che all'apparenza sembrava un ricco negoziante. Tosto si mise a fumare, quantunque ciò fosse vietato in quello scompartimento. Aveva però, prima di accendere il sigaro, chiesto a D. Bosco licenza, domandandogli se non soffriva a quel fumo. D. Bosco rispose che se egli avesse fumato per breve tempo non avrebbe sofferto. Il negoziante fumò un sigaro e come l'ebbe consumato si accingeva ad accenderne un secondo. D. Bosco allora colla sua solità giovialità gli disse: - Scusi, signore, finora io ho fatto penitenza per lei mangiando il suo fumo; adesso io desidererei che ella facesse un po' di penitenza per me coll'astenersene.

                - Ella, Reverendo, ha tutte le ragioni, rispose il negoziante riponendo il sigaro; e fra loro due si appiccò discorso di Torino, e di altre varie cose. Finalmente il negoziante venne a dire delle Opere pie, della carità di preti e in ultimo dell'Oratorio di Valdocco e di D. Bosco. Affermava che quel buon sacerdote teneva 300 e più ragazzi in sua casa e che là questi avevano una ginnastica addattata [711] alla loro età; e, quel che maggiormente importa, che l'insegnamento in quell'Ospizio era buono e buona l'educazione, poichè vi si insegnava la scienza e la morale. -Un giorno o l'altro esclamò, voglio recarmi a vedere quella casa e quei giovani. - D. Bosco ascoltava sorridendo, e taceva. Il convoglio in quel mentre giunse a Montanaro, e il buon negoziante discese.

                Tra Montanaro e Strambino salì un altro viaggiatore, il quale incominciò subito a parlare con famigliarità a Don Bosco, e non tardò egli pure, ma in maniera diversa, a far cadere il discorso sui preti, chiamandole persone inutili alla Società, che si godevano le loro prebende e non seguivano le massime del Vangelo. D. Bosco lo interruppe, garbatamente: -Scusi, ma ella vorrebbe forse che non ci fosse più nessun prete al mondo?

                - Oh! questo no, rispose quel viaggiatore; una religione vi deve ben essere.

                - E adunque come ella intenderebbe di fare?

                - Vorrei spretarne una buona metà.

                - E quali vorrebbe spretare? I buoni od i cattivi?

                - I cattivi.

                - E cosa farne di questi cattivi?

                - Far loro esercitare un altro mestiere.

                - Lei ne conosce molti dei preti? - Più di cinquanta. - Fra questi cinquanta ne conosce dei cattivi? - Una metà. - Saprebbe ella dirmi il nome di costoro? - Oh sì; e di molti.

                D. Bosco allora tirò fuori il taccuino e con una matita in mano in atto di scrivere, gli disse: - Mi detti il nome di questi preti cattivi e le prometto di farli tutti sospendere [712] dall'esercizio del sacro ministero. - A questo atto gli altri viaggiatori gettarono gli occhi su D. Bosco e sul suo interlocutore, curiosi di vedere l'esito di quella sfida; e l'espressione dei volti dimostrava simpatia per quel prete.

                - Dunque? - replicò D. Bosco, continuando a stare in atto di chi è pronto a scrivere. - Quel critico incominciò a mostrarsi confuso e D. Bosco ripetè: - Chi sono questi preti ?

                Quel signore incominciò a lisciarsi i baffi e con parole ingarbugliate disse timidamente: - Ne conosco uno che è dicono insomma che è un codinaccio che manda denari al Papa invece di darli ai poveri .....

                - E gli altri ?

                - Un altro è pure contrario alla politica del governo..... nemico dell'Italia, critica le leggi votate dal Parlamento .....

                - Ma questi non sono delitti - esclamò D. Bosco; e quel buon uomo, che forse non aveva mai bazzicato coi preti, ma solo aveva imparato ad accusarli per la lettura di pessimi giornali, non osò proseguire. Non sapendo come sbrogliarsi e seccato dalle insistenze di D. Bosco concluse bruscamente: - Parliamo d'altro! - D. Bosco allora gli fece un fervorino adattato al luogo ed alla persona, che produsse buon effetto su tutti i suoi compagni di viaggio.

                A Strambino D. Bosco predicò le glorie di Maria Assunta in Cielo, e il giorno dopo recitò il panegirico di S. Rocco sulla piazza della cappella dedicata a questo santo. I priori gli avevano domandato che somma desiderasse per onorario della predica e D. Bosco rispondeva che essendo povera la cappella nulla domandava. Lo invitarono dopo la funzione ad andare con loro per bere un bicchiere di vino e Don Bosco pronto sempre ad accondiscendere, con quel suo ingenuo sorriso: - Per un bicchiere ci sono! - Si andò in [713] casa di un priore con numerosi amici e quivi erano apparecchiate paste, dolci e varie qualità di vini prelibati. Si passò quindi nella casa di un secondo priore ed anche in questo luogo dolciumi e vini. Finalmente la comitiva dei principali del paese entrò in una gran sala, ove nel mezzo campeggiava una mensa lautamente bandita. D. Bosco fe' cenno di voler parlare, e con quella sua naturale bonomia esclamò: - Io credeva di aver da trattare con povere persone, ma mi avvedo che siete ricchi. Datemi adunque, vi prego, l'elemosina che negli anni scorsi eravate soliti a dare al predicatore di San Rocco: non è giusto che io debba trascurare di chiedere qualche soccorso per i miei figli poveri. - Si rise un pochino dell'uscita e tosto gli fu dato.

                Intanto si era istituito un Comitato per la trigesima di D. Cafasso in S. Francesco d'Assisi, il quale in breve tempo raccolse all'uopo 5.000 lire. Pel discorso funebre si manifestarono due pareri, alcuni propendevano pel Can. Giordano, altri per D. Bosco. Prevalsero questi ultimi, perchè il Superiore dell'Oratorio di Valdocco aveva conosciuto il defunto fin da giovane e lo aveva accompagnato per tutta la vita.

 

                “Il 30 agosto, così D. Ruffino, nella chiesa di S. Francesco d'Assisi si celebrò un magnifico funerale per D. Cafasso. La chiesa straordinariamente ornata a lutto, splendeva di preziosi ed artistici drappi. Il Professore D. Carlo Ferreri aveva dettate le otto iscrizioni da collocarsi sulla porta del tempio e intorno al catafalco. Durante tutto il mattino si celebrarono molte Messe, e moltissimi fedeli ricevettero la SS. Eucarestia in suffragio di quell'anima, benedetta. I giovani dell'Oratorio qui vennero a fare la Comunione. Il Can. Anglesio cantò la S. Messa. Trecento preti assistevano alla mesta funzione, e due file di essi in cotta occupavano [714] tutta la chiesa dal presbiterio alla porta. Vi fu scelta musica del maestro Rossi ed egli medesimo diresse la grande orchestra. Da tutta Torino accorse gran folla di popolo. Dopo il Santo Sacrificio D. Bosco lesse l'orazione funebre e molti piansero con lui. Aveva scelte per testo le parole del secondo libro dei Paralipomeni, capo XXXI, 20; Operatus est bonum et rectum et verum….in universa cultura ministerii domus Domini.

                Fu un espositore fedele delle virtù e delle e egregie prerogative di D. Cafasso.

                L'Armonia descrisse questo funerale e accennava alla funebre orazione: “semplice, cara, patetica, letta dal Sacerdote Bosco uno dei più intimi discepoli ed amici del defunto”. Concludeva l'articolo, annunziando: “Si spera di poter dare stampata fra breve l'orazione funebre e insieme le iscrizioni del tumulo e della porta”.

                Era un secondo opuscolo che D. Bosco preparava per eternare la memoria del suo impareggiabile maestro, e dal quale si potè  scorgere come ci lo giudicasse un gran santo. Desiderava di scriverne più ampiamente la vita e cercò di raccogliere testimonianze di altri suoi fatti memorabili e di sue virtù; senonchè non potendo poi egli più occuparsene per i troppi suoi lavori, incaricò varii Teologi di compiere questo suo voto: ma rimase inesaudito per varie difficoltà.

                Del resto D. Bosco tenne sempre presso di sè, per ricordo, conforto e norma le regole del Convitto Ecclesiastico. Per venerazione, per gratitudine dei benefizi ricevuti, con quel sentimento gentile del quale D. Bosco fu sempre maestro e modello, adornò le pareti della sua stanza coll'effigie con molta cura custodita di D. Cafasso. Quante volte non l'udirono i giovani parlare coll'animo commosso di questo suo secondo padre! Lo proponeva loro per modello, ne ripeteva [715] i sapienti consigli, specialmente quello di conformarsi alla volontà di Dio. “In tutto, diceva, bisogna avere l'intenzione di fare la volontà di Dio, talmente che siamo pronti per abitudine a lasciare qualunque cosa ove conoscessimo non essere di sua volontà; pronti poi a fare ogni cosa, quando sia suo volere, malgrado ogni difficoltà. E per conoscere la volontà di Dio tre cose si richiedono: Pregare, aspettare, consigliarsi”.

                Nella cronaca di D. Ruffino abbiamo già detto, come si legga la seguente nota - Il 12 aprile D. Bosco disse in pubblico: - Nel mese di gennaio io diceva aspettiamo il mese di marzo, e ora dico: aspettiamo il mese di agosto. - Con questa frase aveva risposto alle domande di chi avrebbe voluto sapere l'esito degli avvenimenti che turbavano l'Italia e minacciavano il Papa. Nell'Oratorio si stava in apprensione ed ecco il 19 agosto Garibaldi, conquistata la Sicilia, passare lo stretto di Messina con 17.000 volontarii ed entrare nelle provincie napoletane tutte in agitazione per opera delle sette. A Reggio Calabria il generale borbonico Vial con 30.000 soldati combatte solo per salvar le apparenze e lascia la vittoria al nemico. Garibaldi senza più ferir colpo è acclamato in tutte le città e paesi per cui passava. Il 6 settembre il Re di Napoli, tradito, si ritirava a Gaeta, e Garibaldi il giorno 7 è accolto trionfalmente nella Capitale. Di là minaccia lo Stato Romano e bande di volontarii e fuorusciti lo invadono. La prima orda entra l'8 settembre.

                Con questi il generale Lamoricière con 13.000 soldati Pontificii, gran parte volontarii e tra essi molti della prima nobiltà di Francia e del Belgio, poteva opporre vittoriosa resistenza, quand'ecco il Governo Piemontese cogliere il desiderato momento. Il 27 agosto Napoleone, che aveva [716] dichiarato ufficialmente di voler rispettati i diritti del Papa sui dominii che gli restavano, dava al Ministro Farini venuto a Chambery il chiesto permesso di occupare le Marche e l'Umbria, con quelle famose parole: - Fate  presto, ma non toccate Roma. - Allo stesso tempo aveva promesso al Papa il suo aiuto, dichiarandosi pronto ad opporsi colla forza ad una invasione piemontese.

                Fidandosi di questa sleale promessa il Lamoriciére e i suoi soldati si disposero a combattere valorosamente, quando l'11 settembre Fanti e Cialdini con 33.000 uomini dalla Toscana entravano nella Cattolica. Preceduti da 20.000 volontarii, e seguiti da altri 30.000 soldati regolari s'impossessarono di Pesaro e di altre città. Il 18 settembre i Pontificii erano sconfitti a Castelfidardo e il 27 dopo 8 giorni di bombardamento per mare e per terra e una splendida resistenza, Ancona si arrendeva. Napoleone erasi dichiarato pel non intervento e le Marche e l'Umbria furono annesse al Piemonte. Quivi per i decreti dei commissarii regii Lorenzo Valerio e Gioachino Pepoli incominciò l'incameramento dei monasteri.

                D. Bosco in quei giorni aveva dovuto regolarsi con una grande prudenza. Molti erano venuti a chiedergli, o con sincerità o per insidia, se i soldati piemontesi potessero in coscienza marciare e combattere contro i difensori del Papa; se certi coscritti avrebbero fatto bene a non presentarsi ai quartieri o a disertare dalla bandiera. E D. Bosco rispondeva: - Vadano a fare una buona confessione. È il miglior consiglio che io posso dare.

                In questi trambusti gravissimi danni ed ingiurie patirono Vescovi, preti e religiosi. Il 28 settembre veniva arrestato il Cardinale De Angelis, Arcivescovo di Fermo, per essere deportato a Torino, ove giunse il 5 ottobre e fu condotto dai [717] Lazzaristi ad occupare le stanze abbandonate dal Cardinale Corsi.

                Intanto dagli Stati del Papa l'esercito piemontese passava nel regno di Napoli per soccorrere Garibaldi messo alle strette dai borbonici, i quali il 2 novembre vinti al Garigliano, e scacciati da Capua dopo breve assedio, parte si dispersero e parte si ritirarono a Gaeta presso il loro Sovrano, Francesco II, tradito da Napoleone, abbandonato dalla sua alleata, la Russia, e privo di ogni speranza sull'aiuto dell'Austria. D. Bosco aveva espressa qualche sua opinione sull'avvenire di questo ultimo Impero, ma non ci fu dato di conoscerla, per quanto interrogassimo varii antichi allievi fra i suoi più intimi. Ciò apparisce da un cenno nella cronaca di D. Ruffino, in questi termini:

                “19 settembre. D. Bosco fece il seguente sogno:

 

                Ecco una gran vittoria

                Segue il valor dell'Austria;

                Ma poi con essa gloria

                Il trono insiem cadrà”.

 

 

CAPO LIII. D. Bosco accetta la direzione del collegio di Giaveno - Condizioni da lui proposte e accettate dal Provicario - Elezione di un nuovo Rettore - Scelta di assistenti Conferenza di D. Bosco ai socii della Congregazione: egli è Pronto a sottomettersi al volere di Dio se non fosse approvata la pia Società: non s'introducano novità nelle consuetudini della Casa: non si abbiano sospetti che venga meno l'affezione del Superiore: annunzia che fu delegalo chi deve esaminare le Costituzioni - Lettera di Monsignor Fransoni a D. Bosco colla notizia della suddetta delegazione - Giudizi dell'esaminatore - Lettera del Card. Gaude che ha ricevuto le Costituzioni - Stato desolante del Seminario di Giaveno - Entrata nell'Oratorio del Cav. Federico Oreglia di S. Stefano - Calcoli di D. Bosco sulla spesa necessaria all'erezione di un collegio - Il nuovo programma di Giaveno e nessuna domanda d'accettazione - D. Bosco trova modo di mandarvi molti allievi - Il Sindaco deluso ne' suoi disegni - Arrivo nel piccolo Seminario di chierici e giovani - Le scuole in ordine - Lodi a D. Bosco - Avviso importante da lui dato al nuovo Rettore.

 

                Rotte definitivamente le pratiche col Municipio di Giaveno, non pareva all'Autorità Ecclesiastica infondato il timore che il Sindaco si potesse risolvere ad aprire nuove negoziazioni con qualche [719] professore più arrendevole e più gradito di D. Bosco al partito dominante. Essa pertanto decise di attenersi a Don Bosco come ad unica tavola di salvezza.

                Il Provicario Can. Vogliotti e il Teol. Arduino Innocenzo Canonico prevosto di Giaveno erano venuti in agosto nell'Oratorio per supplicarlo colle più commoventi ragioni ad affrettarsi nel soccorrere quel Collegio. D. Bosco si disse pronto a fare tutto quello che fosse in suo potere, ma che prima desiderava conoscere con quali condizioni essi intendessero legarlo. Risposero: - Nessuna condizione; si dà a lei piena libertà di agire; si metta pure alla testa delle cose; faccia alto e basso come di affare tutto suo; fissi il personale; nomini il Direttore, accetti chi vuole in Collegio, stabilisca regolamenti! Riuscir nell'impresa, ecco tutto!

                D. Bosco allora accettò, e, coi più sentiti ringraziamenti, i due canonici gli confermarono ogni piena autorità in quella direzione.

                - Ma con quali mezzi intende riuscire nel suo scopo? - Gli domandarono ancora quei signori.

                - Lascino fare a me e vedranno. Riapriremo le scuole a novembre con cento allievi, per lo meno. - Il Canonico Vogliotti esclamò che gli sembrava cosa impossibile raggiungere quel numero sul bel principio dell'anno scolastico; ma D. Bosco confermò la promessa, ed espose il suo piano. Per sè riserbava, come attesta Don Francesco Vaschetti, la direzione suprema del Seminario, non volendo però averne la veste ufficiale, che in fatto non prese mai. Quindi pose per condizione assoluta che il Rettore interno sarebbe stato indipendente dal Prevosto e da qualunque altro prete del paese; e che non avrebbe riconosciuto altro Superiore, fuorchè la suprema autorità diocesana. Chiese ancora che un decreto della Curia dichiarasse tale indipendenza. [720] E il Canonico accettò queste condizioni.

                D. Bosco avrebbe desiderato poter mandare Rettore a Giaveno D. Alasonatti Vittorio; ma la sua presenza essendo indispensabile a Torino, propose per tale carica il suo amico D. Grassino Giovanni vice parroco a Cavallermaggiore, che aveva dimorato per sei mesi nell'Oratorio e conosceva il suo metodo di educazione.

                Il Provicario acconsentì, e l'antico vice Rettore ed economo il Teol. Pogolotto Alessandro, non andò molto tempo che fu nominato Canonico della Collegiata di Chieri.

                D. Grassino avvisato dell'incarico onorevole, ma grave che gli si voleva affidare, venne all'Oratorio dichiarando di non accettarlo; ma si acquetò alle ragioni di D. Bosco. Questi gli promise che avrebbegli dato in aiuto alcuni chierici di specchiata virtù e un Prefetto che s'intendeva di economia d'insegnamento classico e che sarebbe stato il suo braccio forte per l'assistenza. Lo assicurò eziandio che egli lo avrebbe sempre assistito col consiglio e con l'opera.

                Condotti a termine questi accordi, D. Bosco studiava chi avrebbe dovuto scegliere per gli altri ufficii inferiori del piccolo Seminario. Nell'Oratorio era un gran parlare di Giaveno e più d'uno dei chierici desiderava di andarvi e ne faceva domanda. D. Bosco però, sapendo quanto ciascuno valesse, ed anche per quale via il Signore lo chiamasse, teneva a bada quelli che non erano atti per tali occupazioni.

                Uno di questi fu l'ottimo chierico Baravalle Giovanni, il quale esponeva a D. Bosco un'inquietudine intorno al suo avvenire e quindi gli manifestava il desiderio di recarsi l'anno venturo nel seminario di Giaveno. Egli nutriva piena fiducia in D. Bosco, perchè la prima volta che si era presentato a lui, che appena appena lo conosceva, avendogli esposto il desiderio di conferire su di un affare che [721] stavagli a cuore, con sua meraviglia il servo di Dio aveagli risposto: -Anch'io da molto tempo bramava conferire  teco su questo stesso affare. - E il chierico constatò come D. Bosco conoscesse perfettamente i suoi casi.

                Ora alla domanda di andare a Giaveno nell'anno venturo, Don Bosco senza dare una negativa, gli disse:

                Un altr'anno! Un altr'anno! Se quest'anno andassi un pò in paradiso non saresti contento?

                Il Chierico rispose che sì.

                - Ebbene di che vuoi crucciarti? - e non disse di più. Il Chierico confidò quanto gli era accaduto al compagno Ruffino Domenico, il quale ne prese memoria nella sua cronaca. Baravalle era chiamato da Dio nell'Ordine Francescano, nel quale a suo tempo entrò e ne fu sostegno ed ornamento.

                Mentre D. Bosco zelava l'effettuazione dei desideri del Vicario generale, il 6 settembre, si tenne la radunanza della Pia Società. D. Bosco così manifestò il suo pensiero.

 

                Se le nostre regole, se la nostra Congregazione, non è per ridondare a maggior gloria di Dio, sono assolutamente contento che il Signore faccia uscire delle difficoltà per cui non vengano approvate nè quelle, nè questa.

                Intanto vi dico: Non si introduca alcuna novità nella casa; ancorchè si veda che una cosa sarebbe migliore, non importa. Lasciamo il migliore e teniamoci semplicemente al buono. Non si faccia alcuna interpretazione, alcuna violenza alle regole; non si lascino perdere certe pratiche di pietà per stabilirne delle nuove. Per es. alcuno vorrebbe stabilire la società del Sacro Cuore di Maria: questa società mi piace, la desidero, ma siccome sarebbe in danno di quella di S. Luigi che ora a stento si sostiene, lasciamo simili progetti buonissimi in sè e procuriamo solo di eccitare la divozione verso Maria Santissima.

                Aggiungo ancora un avvertimento di piccola importanza. [722] Quando qualcuno è avvisato dai Superiori per qualche suo difetto o mancanza, non consideri questo fatto come una diminuzione di stima per parte del Superiore verso di lui. Ciò non è, nè può essere. Tutti possono fallire ma l'avvertimento proviene da un amico, che ama sinceramente; e chi ama, stima. Così pure non argomentiamo dallo sguardo del Superiore se siamo o no nelle sue grazie. Talora perchè ci sembra che il Superiore non ci abbia fatto quel solito sorriso, oppure non ci abbia volta la parola, o fatto un saluto, subito ci rattristiamo e si va cercando un perchè. Ciò può accadere per tutt'altro motivo che quello dell'essere egli poco soddisfatto della vostra condotta. Può essere inavvertenza, preoccupazione di mente, che distragga il Superiore dall'osservarvi. Ma non è mai che abbia qualche cosa contro di voi. Quando non si fa alcuna ammonizione è segno che c'è nulla di male sul vostro conto. Noi non abbiamo per metodo che quando c'è qualche rimprovero da fare, si aspetti una seconda mancanza, perchè la correzione abbia maggior forza. No! quando c'è qualche cosa da dire si dice subito.

                Da qui innanzi desidero che occorrendo le feste della Madonna, noi facciamo in queste le nostre Conferenze. Intanto vi annunzio che fu eletto il Sig. Durando prete della Missione per esaminare le nostre regole e farne ottenere l'approvazione dall'Arcivescovo.

 

                Di questo incarico dato al Sig. Durando, e già conosciuto da D. Bosco per confidenze di amici, gli dava notizia Monsignor Fransoni colla risposta ad una sua lettera.

Ginevra, 12 settembre 1860.

 

                               Carissimo D. Bosco,

 

                La sua lettera, che porta la data del 7 luglio, credo che sia stata scritta il 7 agosto, ma anche in tal caso mi è giunta bene in ritardo, giacchè l'ho ricevuta ieri soltanto da Lione, dove deve essere stata rimessa assai poco prima, giacchè nella settimana precedente, me ne erano state inviate altre. Mi spiace che, atteso la mia assenza, non ho potuto vedere la Signora Losanna, che credo di conoscere, e non ho avuto luogo di conoscere quali sieno le [723] nuove facoltà che desidera, in ampliazione del Rescritto Pontificio per l'Oratorio privato. Circa il Regolamento, aspetto risposta da Torino, giacchè, come credo averle scritto, ne ho fatto commettere l'esame ad Ecclesiastici pratici di Comunità, non avendo del resto io fatto, che un piccolo rilievo. Ella poi se avesse delle osservazioni a fare sulle variazioni che si facessero, me le potrà proporre liberamente.

                Godo che gli Oratorii procedano bene, e spero che il Signore non permetterà quanto teme, sebbene ne abbia pur troppo fondamento.

                La prego di salutarmi i tre Ecclesiastici che mi ha nominato, e mi creda quale di tutto cuore godo di ripetermi

Suo devot.mo ed aff.mo servo

LUIGI Arciv. di Torino.

 

                Il Rev. Sig. Durando spediva all'Arcivescovo le sue osservazioni sulle regole della Pia Società. Iddio metteva alla prova l'umiltà di D. Bosco facendo uscire le prime difficoltà per l'approvazione di queste regole.

 

                Regole o Costituzioni proposte ad osservarsi dalla Congregazione di S. Francesco di Sales.

 

                Se fosse il caso di esaminare in particolare gli articoli delle Regole, dovrebbero farsi molte osservazioni, giacchè alcuni sono inesatti, altri abbisognano di maggior sviluppo ed alcuni altresì sono inconvenienti allo scopo. Ma in generale si può dire:

                I. La Congregazione di S. Francesco di Sales può e potrà essere approvata dalla Chiesa, ma stante le leggi attuali del Governo e lo spirito del mondo avverso a tutto ciò, che ha apparenza di corporazione religiosa, non avrà mai sanzione civile che le dia esistenza; eppure secondo queste Regole e Costituzioni la Congregazione di S. Francesco di Sales possiede case, mobili, e può possedere beni. Ora come può la Congregazione possedere non avendo esistenza civile? Come ed in qual modo conservarli? Il tutto è a nome del M. R. D. Bosco; e dopo la morte di taluno che egli possa fare suo erede, che ne sarà? [724] Tanto più che ogni dodici anni scambia il Rettore maggiore. Questo punto è della massima importanza e vuole essere inteso, spiegato o nelle stesse regole o in qualche costituzione a parte.

                II. Lo scopo principale, almeno uno dei fini della congregazione si è l'istruzione del clero giovane, e formarlo alla virtù e alla scienza; ma non si spiega abbastanza la dipendenza dall'Ordinario e la giurisdizione che vi deve esercitare; siccome non si parla di rapporti che necessariamente devono aver luogo fra il Rettore e l'Ordinario, sia per accettare i giovani o per rimandarli, sia per la necessaria relazione che si dovrebbe fare sul profitto, sulla condotta ecc. Nulla poi delle classi, scienza e nulla del metodo, o piano da tenersi per formarli alla pietà. Non vi sono nelle regole che parole generali, le quali lasciano tutto a desiderare, e non danno alcuna garanzia per il presente e per l'avvenire molto meno.

                III. Si accennano nelle Regole Collegi per l'istruzione di giovani poveri, di chierici, e si direbbe, a giudicarne dalle medesime che abbiano una educazione comune, e che vivano tutti insieme; mentre è di tutta importanza che siano separati, che abbiano direttori speciali, regolamenti convenienti alla vocazione e al decoro dello stato Ecclesiastico. Cosa mai aspettarsi da chierici che non hanno nè direzione, nè regole speciali, e che vivono amalgamati ad un gran numero di giovani poveri, senza educazione, e che non hanno altro scopo se non di imparare qualche arte o mestiere? La cosa non solo sembra tale nelle Regole, ma tale nel fatto e nell'atto pratico.

                IV. Non avendo che voti triennali, e farli perpetui essendo in libertà di ciascuno, non possono essere ordinati se non hanno patrimonio Ecclesiastico, accordandosi l'ordinazione titulo paupertatis o titulo mensae comunis a quelle congregazioni che hanno voti perpetui. Con questo metodo avrà molti giovani, che entreranno nella congregazione unicamente per farvi gli studi e ricevervi l'ordinazione e tutto ciò gratuitamente, e poi uscirne ed essere d'imbarazzo ai Vescovi e fors'anche di poca edificazione al popolo.

                V. Il successo o, a meglio dire, l'avvenire di una congregazione, qualunque ella siasi, dipende dai suoi principii. Se al presente nel fatto non si vede una separazione dei giovani chierici dal rimanente, se non vi sono norme fisse per gli uni e per gli [725] altri, se la stessa congregazione non ha il suo Noviziato e studio separato dal rimanente e non ha norme e regole speciali per essere formati nello spirito dell'Istituto, non si può sperare nè una durevole esistenza, nè un esito felice.

                VI. Quanto poi è accennato sopra i voti non è bastante, specialmente sulla povertà, per la quale naturalmente nasceranno dubbiezze.

                In quanto poi al Regime della Congregazione, alle attribuzioni del Rettore Maggiore, de Superiori locali, Consiglieri, Prefetti ecc. noti si vede la cosa chiara, ed è difficile di bene intendere l'armonia, l'unione, la dipendenza, il genere di amministrazione ecc: siccome non è abbastanza chiaro il metodo di elezione del Rettore Maggiore e degli altri che devono dirigere, e governare le case, ossia collegi.

 

Sac. MARIA ANTONIO DURANDO

Visitatore della Missione.

 

                Non era adunque troppo favorevole il voto del signor D. Durando. L'Arcivescovo aveva trovato un solo appunto, mentre egli non approvava il complesso stesso delle Regole. Ma il santo e dotto Lazzarista non comprendeva lo spirito, il pensiero, e l'azione di D. Bosco. Non si trattava di un Ordine religioso, ma di una Congregazione la quale secondo i bisogni dei nuovi tempi doveva avere una forma speciale. Pio IX aveva riconosciuto questa necessità. D. Bosco ammetteva l'importanza di un noviziato, ma dentro a limiti del possibile. L'educazione religiosa però che s'impartiva ai chierici non era tale da dirsi inferiore a quella che si dà in un fervente noviziato, quindi quelli che allora uscirono dall'Oratorio per entrare in diocesi, non erano di peso, ma di aiuto ai vescovi. Anzi le virtù e l'esercizio che acquistavano stando in mezzo ai giovani li rendevano abili a reggere una popolazione. Altre ragioni e spiegazioni le daremo nel processo dei racconti. Certamente D. Bosco [726] doveva ancor fare qualche aggiunta o correzione agli articoli, ed egli tornava spesso a meditare questo suo lavoro. Il suo ideale era quello descritto dall'Ecclesiastico al Capo, primo: “I figliuoli della Sapienza sono congregazione di giusti e la loro stirpe è obbedienza e amore”.

                Intanto egli aspettava sulle Costituzioni una risposta da Roma che venne in ottobre.

 

                               Preg. Sig. D. Bosco,

 

                Mi è pervenuto il suo piego contenente lo scritto sulla Società di S. Francesco di Sales unitamente al suo foglio, e a quello del Ch. Boggero. Ben volentieri io mi prendo l'incarico di leggere il piano di Regolamento di detta Società, e di farvi, occorrendo, quelle osservazioni secondo il modo da lei accennatomi, ma per ora non potrei adempierlo, mentre non solo non mi sono mai ristabilito dal male accadutomi nel passato Luglio; ma me ne è sopraggiunto un altro, per cui mi sono già dovuto fare 5 sanguigne. E quantunque io stia alquanto meglio, ciò nondimeno per ordine dei medici devo avermi una somma cura e sopratutto astenermi da qualunque occupazione e ciò - sarà per qualche mese. Quindi se l'esame del lodato scritto acclusomi potrà senza loro danno differirsi, allora farò quando mi sarà possibile; in caso diverso potrà dirigersi a chi meglio crederà nel Signore. Tanto le scrivo per sua regola e norma.

                Mi farà poi grazia di far sapere al nominato Ch. Boggero mio conterraneo, che io lo ringrazio di cuore della sua lettera, e della premura che addimostra di sapere le mie notizie e vedere i miei caratteri. Quando mi sarò rimesso e potrò occuparmi a scrivere, non mancherò di compiacerlo: intanto che mi raccomandi al Signore e continui per me le sue preghiere, come spero farà pur Ella coi suoi addetti alla lodata Società.

                E nell'esternarle i sensi della mia stima, passo a rassegnarmi

                Di Lei

                Roma, li 14 ottobre 1806.

Aff. di cuore

F. Card. GAUDE. [727]

 

                Fu l'ultima lettera del Cardinale a D. Bosco. Questo suo fido consigliere e alto protettore cessava di vivere il 14 dicembre del 1860, e la sua morte fu causa che si differisse oltre l'occorrente l'approvazione della Pia Società e delle regole.

                Ma l'affare che più in questi mesi occupava D. Bosco era quello di far rivivere il piccolo Seminario dì Giaveno. Noi andremo narrando questo fatto dal principio alla fine colle stesse parole che ci dettò D. Vaschetti alla presenza di D. Giulio Barberis. Qualche altra notizia ci fu comunicata da D. Rua, da D. Bonetti, da D. Durando, dal Canonico Anfossi, dal signor Tamone di Giaveno e da varii altri testimoni contemporanei.

                Il 25 settembre D. Bosco fece partire per Giaveno il Chierico Vaschetti incaricato dell'ufficio di Prefetto. Questi trovò le sole e nude muraglie del Seminario, essendo stato spogliato di tutto. Non un quadro, non un pezzo di legna, non un cucchiaio. La cappella era così piccola e miserabile da essere poco adattata al culto divino. Di allievi rimaneva un solo giovanetto, certo Peracchione di Collegno, orfano, ma molto ricco, che il tutore non aveva condotto a casa.

                Vaschetti vista quella desolazione il 26 settembre ritornò in Torino, parlò col Canonico Fissore Vicario Generale, il quale, udito lo stato delle cose, gli diede 400 lire per le provviste più necessarie. E il Can. Vogliotti gli portò 300 lire per il primo mantenimento.

                Tutto mancava e tutto si provvide. D. Bosco incominciò a mandare a Giaveno gli arnesi necessarii per le cucine, i refettorii e le scuole; i pagliericci, lenzuola, coperte, tovaglie, sedie per i suoi; e faceva rifornire il magazzeno della cartoleria e della libreria, la dispensa, la cantina, la legnaia.

                Di ciò fu incaricato il Cav. Federico Oreglia di S. Stefano. [728] Questo signore era noto in tutta Torino, per ingegno, scioltezza di modi, nobiltà di animo e di tale tempra da non aver timore di alcuno. Agli esercizii di Sant'Ignazio si era incontrato con D. Bosco, e talmente era stato preso dai suoi ragionamenti, che aveva risolto di consacrarsi al Signore con una vita cristianamente perfetta.

                Era già stato ospite circa un mese, dopo gli esercizi, a Stresa presso i Padri Rosminiani, ma trovate discrepanti, le sue idee colle opinioni di alcuni di essi, determinò di ritirarsi nell'Oratorio di S. Francesco di Sales per studiarvi la sua vocazione, prestando intanto quei migliori servigi che avrebbe potuto. Egli infatti assoggettavasi volenteroso a tutti i sacrifizii con piena abnegazione e fu tosto per tutta la casa un esemplare di umiltà e di pazienza. La sua risoluzione di far vita nel sodalizio di Valdocco ebbe il plauso di molti, anche per lettere, fra le quali ne scegliamo due.

 

                               Ill.mo Sig. Cavaliere,

 

                Ritornato da Stresa mi venne consegnata la pregiatissima della S. V. Ill.ma e Car.ma dei 14 settembre. Mi consolò assai la determinazione presa dalla S. V. di rimanere coll'egregio signor D. Bosco, poichè non potrebbe essere in migliori mani.

                Ringraziamo il S. N. Gesù Cristo e Maria SS. Quivi ella ha ogni mezzo per farsi santo e gran santo. Non mancherò nella mia miseria di tenerla presente nelle orazioni, massimamente nel Santo Sacrificio della Messa: confido che Ella avrà la carità di aiutarmi colle sue.

                Le sono grato per la cordialità che esprime nella sua. Sarà sempre un onore e piacere che procurerà alla casa di S. Michele ogni qualvolta ci favorirà della sua visita.

                Pregandola dei miei rispetti al caro Sig. D. Bosco mi pregio di professarmi col più cordiale rispetto

                Della S. V. Ill.ma

                Dalla Sacra di S. Michele, 20 settembre 1860.

Umil.mo Devot.mo. servo

GIUSEPPE GIOACHINO CAPPA Rett. [729]

 

                Il Conte Vittorio di Camburzano gli scriveva da l'Ermitage presso Nizza Marittima:

                “Io non chiuderò questa lettera senza offrirle le mie felicitazioni per aver trovato modo di convivere col nostro redivivo S. Vincenzo de' Paoli ed è questa una fortuna che molti, e noi fra i primi, le invidiamo sinceramente. Voglia chiederle, ottimo sig. Cavaliere, una benedizione su di noi e ci raccomandi alle sue preghiere”.

                Mentre il Cavaliere era a Giaveno per la disposizione dei locali, D. Bosco faceva il calcolo approssimativo della somma necessaria per impiantare e costituire un collegio nuovo, calcoli che ancora esistono fra le nostre carte. Questi studii dovevano servirgli mirabilmente per quando avrebbe fondate le numerose case destinategli dalla Provvidenza.

                Aveva anche preparato il programma desunto in parte da quello che era già in vigore nel piccolo Seminario. Si stabilivano però due pensioni: la prima di franchi 30, la seconda di franchi 22 al mese da pagarsi a trimestri anticipati, oltre a 6 franchi annuali per le spese di cappella; e 2,50 al mese per chi desiderasse affidare al Seminario il bucato, il soppressamento e rappezzatura della biancheria. Il Seminario doveva rimanere aperto in tutto il tempo delle vacanze autunnali per maggior vantaggio degli allievi, che volessero approffittare della scuola che avrebbe avuto luogo in quei mesi. L'insegnamento per quest'anno 1860-61 comprendeva le sole tre prime ginnasiali oltre le classi elementari.

                D. Bosco presentò questo programma, e, il Provicario lo fece stampare da Paravia e lo pubblicò, mandandone copia a tutti i parroci dell'Archidiocesi. Le domande per le accettazioni degli allievi dovevano dirigersi solamente o al Rettore del Seminario Metropolitano, o al Superiore [730] locale in Giaveno, cioè D. Grassino. Questo invito non ebbe ascolto. Dopo venti giorni che era stato diffuso non si ebbe nessuna domanda.

                Allora D. Bosco, avendo centinaia di richieste per alunni da collocarsi nel suo Oratorio, decise di mandare un bel numero di questi giovanetti a Giaveno. Quindi a tutte le domande faceva rispondere affermativamente. Quando poi venivano in Valdocco i genitori accompagnando i loro figli, ne esortava un buon numero a volerli collocare a Giaveno. Costoro sulle prime si rifiutavano risolutamente. Ma D. Bosco assicuravali, che lo spirito del piccolo Seminario da qui innanzi sarebbe il medesimo che quello dell'Oratorio, il vitto ancor migliore e l'aria buonissima. I parenti sentendo come quel Collegio fosse diretto da D. Bosco, acconsentivano e si mostravano contenti, tanta era la fiducia che ispirava il suo nome. E tali proposte ci le faceva ai più agiati, sicchè tutti pagavano l'intiera pensione, con non leggero scapito delle finanze dell'Oratorio, che riteneva per sè i più meschinelli.

                D. Bosco alcun tempo prima erasi condotto a Giaveno. Il sindaco essendo persuaso che per mancanza di alunni il Collegio fosse chiuso e senza alcuna speranza che potesse ancora riaprirsi, venne in Seminario per conferire col Teologo Pogolotto, nulla sapendo delle ultime decisioni della Curia. Ei recava con sè una lettera Ministeriale nella quale si riconosceva il diritto del Municipio al possesso di quell'edifizio scolastico. Incontratosi con D. Bosco gli chiese:

                - Il Rettore dove si trova? Debbo comunicargli cosa di grande importanza.

                - Dica pure; il Rettore sono io.

                - Lei D. Bosco? Ma il collegio non venne chiuso definitivamente? [731] Il Collegio non fu chiuso e continuerà a servire alla scopo pel quale venne fondato.

                - Ma non è vuoto di giovani da molto tempo?

                - Vuoto? Il Collegio è pieno di giovani. Molti debbono giungere in questa settimana che sono già accettati. Venga fra qualche giorno ad osservare e ne vedrà venir fuori da tutte le parti.

                Il sindaco restò muto; osservò i preparativi che si facevano per dar principio alle scuole e ritirossi. Non si attendeva una simile sorpresa.

                Infatti oltre il Ch. Vaschetti, Prefetto per la disciplina e per l'amministrazione economica, giunsero i chierici Boggero Giovanni e Turletti Filippo, destinati all'ufficio di assistenti e scelti per trapiantare in quella comunità lo spirito dell'Oratorio. Don Rocchietti doveva esercitare l'ufficio di Direttore spirituale venendo a quando a quando da Torino. Così D. Bosco con grande sacrificio pel bene della Diocesi si privava di un ottimo personale che gli sarebbe stato di grande aiuto per l'ognora crescente suo Oratorio.

                Dopo i chierici, sul cominciare dell'ottobre, non tardarono ad arrivare gli alunni.

                Il Ch. Vaschetti conduceva da Torino la prima schiera composta di 22 giovani, fra i quali alcuni dei più buoni, scelti fra quelli che da qualche anno erano educati nell'Oratorio, perchè continuassero i loro studi in quel Collegio. Tutte le settimane o Rossi Giuseppe, o Buzzetti, o il Chierico Anfossi si mettevano in viaggio per Giaveno accompagnando ora 15, ora 20 ora 30 nuovi allievi per volta. A metà di novembre il numero degli allievi era di 110. Da quel punto essendosi saputo che D. Bosco assumeva la cura di quel Seminario, le domande per collocarvi giovani allo studio [732] incominciarono a piovere da tutte le parti. Prima che finisse l'anno scolastico gli accettati erano 150.

                Avvicinandosi l'incominciamento dell'anno scolastico 1860-1861, tre professori furono scelti d'accordo con Don Bosco fra gli antichi insegnanti. Cinque giovani avevano presentata supplica alla Curia di poter avere un corso di Rettorica a Giaveno chiedendo un'eccezione al programma; e il Vicario Generale Fissore dava l'incarico al Ch. Vaschetti di far quella scuola: e quei giovani riuscirono eccellenti Sacerdoti.

                I corsi si apersero al tempo stabilito cioè il 4 novembre. Regnava perfetta disciplina, moralità, studio e religione. D. Grassino fu udito dal Sig. Bargetto, impiegato al Convitto ecclesiastico, esclamare più volte: - Se non era per Don Bosco il Collegio di Giaveno non si sarebbe mai più rialzato. - Fu questo il primo esperimento del suo sistema di educazione fatto da D. Bosco fuori di Torino. Il Chierico Cagliero da lui mandato sul finir di novembre a visitare ufficialmente il piccolo Seminario, dopo aver esaminato ogni cosa, fece un rapporto il più consolante.

                Il Vicario Generale, il Provicario, i canonici del Duomo di Torino, il clero della parrocchia di Giaveno, il paese intero erano meravigliati. Non bastavano le parole per levare alle stelle D. Bosco.

                Fra quelli che di cotale risultato ebbero a goderne fu il Prevosto Arduino, il quale negli anni decorsi aveva deplorato altamente il deperimento di quell'Istituto. Ora non ostante la stima che aveva di D Bosco, giudicava così difficile una ristorazione completa da ripetere che se questi fosse riuscito a portare fino a 50 il numero degli alunni, gli avrebbe fatto collocare il ritratto tra quello de' più insigni benefattori del Seminario e del paese. Vedendo poi come [733] l'evento superasse la sua e l'altrui aspettazione, esclamò: Non solo un ritratto, via una statua si deve a D. Bosco!

                Il Canonico Vogliotti venne anche a visitare il Seminario, essendo già l'anno inoltrato e fu grandemente contento e stupito di quella riforma: sè visto in cortile l'altalena, il passo del gigante, le parallele e altri attrezzi di ginnastica - Si vede, disse, che qui entrò D. Bosco!

                Ma D. Bosco, desiderando che l'ordine entrato con lui non fosse più turbato da nessuno, prescriveva a Don Grassino e al Chierico Vaschetti: - Non cedete di un punto solo la vostra autorità, che deve essere piena, assoluta, perchè altrimenti non farete nulla. - E raccomandava al chierico che assistesse e consigliasse il Rettore, qualora in qualche maniera tendesse a piegarsi alle insistenze di certi personaggi influenti del paese. Nello stesso tempo gli faceva premura di insistere perchè la Curia mantenesse la sua promessa di stendere il decreto col quale si conferisce al Rettore interno un'autorità indipendente da qualunque indebita ingerenza.

                Vaschetti obbedì; D. Bosco a Torino fece le sue parti; ma la Curia per sei mesi fece aspettare quel decreto.

 

 

CAPO LIV. Progetto per la costruzione del collegio in Mirabello - Don Bosco a Casale per avere l'approvazione del Vescovo - Spiacevole incontro nel viaggio - Il Benedicite prima del pranzo - D. Bosco in Asti: propone al Vicario Capitolare di pilotare il ritiro dei suoi chierici nell'Oratorio essendo occupato il Seminario dal Governo: pratiche per iscritto: arrivo in Valdocco di quei Seminaristi: malumori dissipati: buona riuscita - D. Bosco vuole i giovani occupati anche in tempo di vacanze - Prime partenze degli alunni per i Becchi - Il Ch. Cagliero a Castelnuovo difende i diritti del Papa - Previsioni avverate di Don Bosco intorno al regno di Napoli.

 

                Il restituire l'antica floridezza al piccolo Seminario di Giaveno, non era stato in questi mesi l'unica impresa di D. Bosco per assicurare vocazioni allo stato ecclesiastico.

                Aveva eziandio rivolto il suo pensiero alla Diocesi di Casale. Il Ch. Francesco Provera dopo la visita del suo parroco a D. Bosco, non aveva cessato di pregare, perchè in Mirabello venisse aperta una casa per l'educazione cristiana della gioventù. Suo padre, di animo generoso, risolvevasi a secondare questo nobile progetto e offriva, per incominciare quella costruzione, una sua casetta posta in mezzo [735] ad un terreno presso l'abitato, venutagli in eredità paterna. Nei tempi antichi era stata proprietà di religiosi; ed egli, aveva deciso che la Chiesa ne riprendesse in qualche modo il possesso, benchè fosse stata acquistata dalla sua famiglia col permesso dell'autorità ecclesiastica. D. Bosco meditato quel progetto, vide che si sarebbe potuto realizzarlo, innalzando presso quella casetta un ampio fabbricato; ma non volle dar parola senza prima aver chiesto il parere e la licenza del Vescovo Mons. Luigi dei Conti di Calabiana, col quale era in attinenza da ben 10 anni. Partì adunque per Casale e nell'ultimo tratto di via ebbe per compagni un prete ed un frate francescano del convento di Sant'Antonio. Questi due incominciarono a parlare di quei sacerdoti che in Piemonte segnalavansi per opere di carità, e il discorso cadde su D. Bosco. -Oh! questo poi non è quell'uomo che la fama ci narra, disse il fraticello: è un vero scroccone, un menzoniero; conosce a meraviglia l'arte di far danari per arricchire i proprii nipoti, i quali essendo una volta poveri contadini, ora vivono da signori, poichè ha fabbricato per loro un palazzo nella sua borgata.

                D. Bosco senza darsi a conoscere e conservando la sua abituale pacatezza, lo interrogò se avesse mai conosciuto quel sacerdote che giudicava così severamente, e visitato il suo Istituto in Valdocco. L'altro rispose che no, ma che tutto quanto aveva detto, gli era stato riferito da persone degne di fede. E insisteva ne' suoi spropositi, mentre D. Bosco si limitava ad esortarlo di assicurarsi di presenza intorno alla veracità di quanto aveva inteso andando a visitare l'Oratorio, facendo la conoscenza di D. Bosco e intrattenendosi con lui. - Veda, gli diceva, io sono andato da quelle parti, ove lei dice che D. Bosco si è edificato un palazzo, e non ho mai udito narrare, da nessuno simili stranezze. [736] Così ragionando arrivavano a Casale, ove alcuni ecclesiastici aspettavano l'arrivo di D. Bosco. Ed ecco D. Provera Oclerio istitutore dei figli della Contessa Callori, aprire lo sportello della vettura, salire e aiutare D. Bosco a discendere mentre anche gli altri preti, appena lo videro, lo chiamavano per nome salutandolo festosamente. Il fraticello si avvide allora che il suo compagno di viaggio era proprio quel desso, del quale egli aveva tanto sparlato; e tutto confuso gli tenne dietro. Raggiuntolo gli chiedeva perdono scusandosi col dire che non aveva inteso di offenderlo, poichè non sapeva chi egli fosse. D. Bosco occupato nel rispondere alle cortesi accoglienze degli amici, parve che subito non badasse alle sue parole, ma non tardò a rivolgersi a lui con una certa serietà, dicendogli: - Va bene: ma un'altra volta non parli di ciò che non conosce, e non si permetta mai di sparlare del prossimo: glielo raccomando. -

                Giunto in Episcopio, ove eragli preparata la stanza, fu accolto con grandi feste dal Vescovo e dal Teol. Alvigini Giambattista, Canonico Penitenziere nella Cattedrale e Rettore del Seminario, suo vecchio amico. Dopo aver discorso di varie cose riguardanti la Diocesi, D. Bosco espose il progetto dell'erezione di un collegio in Mirabello, ove si potessero coltivare specialmente le vocazioni ecclesiastiche, le quali scarseggiavano. Monsignore fu lietissimo di quella proposta, l'approvò, la benedisse e ne ringraziò il Signore. D. Bosco che si riservava di esporre a suo tempo la convenienza e l'utilità di dare a quel collegio il carattere di piccolo Seminario diocesano, si fermò qualche giorno a Casale.

                Ora accadde che fu invitato ad un gran pranzo al quale doveva trovarsi il Vescovo con molti preti e signori secolari costituiti in dignità. D. Bosco, che era amico e confidente colla maggior parte di quei commensali, venne informato, [737] che in simili occasioni non solevasi benedire la tavola e come ciò cagionasse ammirazione a qualche pia persona. D. Bosco, che di nulla prendevasi fastidio o timore quando si trattava della maggior gloria di Dio, pensò ad uno scherzo che servisse di avviso. Suona l'ora del pranzo; i convitati siedono a mensa e senz'altro è servito l'antipasto. In questo mentre D. Bosco, che a bello studio entrava per l'ultimo, in atto di scusare un ritardo increscevole, va al suo posto, recita il Benedicite a voce sommessa ma chiara, e in fine rivolto al Monsignore e inchinando il capo, conclude: Iube Domne benedicere. In quella sala regnò per un istante un profondo silenzio; e Monsignore sorridendo, gli disse: Questa ancora ci andava, signor D. Bosco! - Il buon Vescovo essendo poi rimasto solo con lui gli diceva: - È stata una buona lezione quella che ci ha data, e non cadrà dalla mia memoria.

                Di questo fatto tenne ricordo D. Bonetti nelle sue cronache, aggiungendo che D. Bosco esortando i giovani ad essere franchi, ma rispettosi e misurati nelle parole in ogni circostanza, soleva dire: - Bisogna farsi coraggio e ciò basta!

                Dato ragguaglio al parroco di Mirabello D. Coppo Felice, e al padre del chierico Francesco Provera della piena approvazione di Monsignor di Calabiana ai loro disegni, lasciava Casale standogli eziandio a cuore la Diocesi di Asti. Essa era vacante per la morte di Mons. Filippo Artico avvenuta in Roma il 21 dicembre 1859. Il seminario era stato occupato dal Governo e quindi i pochi chierici studenti di teologia e filosofia, non vi si potevano più riunire per applicarsi in pace a loro studii. Quelli che appartenevano alle scuole superiori di latinità si trovavano in più grave pericolo di perdere la loro vocazione. La Curia aveva procurato loro [738] scuole e maestri, ma non sapeva a qual partito appigliarsi per scongiurare gravi inconvenienti. Alcuni avevano già abbandonata la carriera intrapresa. D. Bosco pertanto conosciuti gli imbarazzi di quella Curia aveva scritto al Vicario Capitolare proponendogli l'Oratorio come rifugio de' suoi seminaristi. Il Vicario gli rispondeva invitandolo a recarsi in Asti per esporre a voce la sua intenzione.

                D. Bosco era andato in Asti, aveva presentato il suo programma per la buona educazione ed istruzione di quel giovane clero, e ritornava in Torino colla gioia di aver fatto un'opera eccellente per la Chiesa. Ma egli in Torino aveva fra i varii alunni di Asti, tre chierici i quali compiuti nell'Oratorio i corsi ginnasiali e messo qui l'abito talare, continuavano gli studi nel seminario metropolitano. Erano questi Molino Giovanni, Merlone Secondo, Viale Carlo che erano andati alle case loro in vacanza.

                Egli prevedendo che le loro inclinazioni non li portavano ad occuparsi in cose scolastiche, o ad aggregarsi alla Pia Società; considerando che avrebbero giovato molto ai giovanetti loro compatrioti aspettati da Asti coll'assistenza e col buon esempio; sicuro che formando con essi come un sol corpo, li avrebbero istradati nelle regole e consuetudini dell'Oratorio con grande facilità, scriveva al Canonico Penitenziere Cerutti Giovanni, perchè ottenesse a costoro licenza di ritornare per un anno all'Oratorio, ed il favore di una pensione come erasi pattuito per gli altri.

                Il Canonico rispondevagli:

 

                               Rev. Sig. D. Bosco,

 

                Ben volontieri mi sono impegnato presso questo Rev. Signor Vicario Generale a favore dei chierici raccomandati da V. S. Rev. Non si è perduta ogni speranza per riavere il Seminario; ma ad [739] ogni modo il Superiore è ben contento che i nominati chierici passino il loro anno scolastico in codesto suo Stabilimento, dove non potranno a meno di ricevere continui esempi di virtù. In quanto alla pensione da concedersi ai chierici predetti, il prefato sig. Vicario Generale mostrò delle ottime disposizioni e mi incaricò di dirle che prima d'Ognissanti si abboccherà in proposito con V. S. Rev. in Torino.

                Riguardo poi alla circolare in favore delle Letture Cattoliche, che fu preparata prima d'ora come le aveva annunziato, se ne differì soltanto la pubblicazione per dar luogo ad altre di maggior urgenza. Si persuada Ella però che la cosa non sarà dimenticata.

                Mi raccomando alle sue preghiere e mi protesto di cuore Di V. S. R.

                Dalla Curia Capitolare di Asti il dì 2 ottobre 1860.

Dev. servo

Canonico G. CERUTTI

 

                Ma il Vicario generale tardava alquanto a notificargli le sue decisioni, perchè forse vi era qualche opposizione da superare, difficoltà finanziarie da riconoscere, e certamente la proposta ai parenti e il loro consenso, perchè i chierici venissero trasferiti in Torino. Finalmente venne l'aspettata risposta.

 

                               Mio caro sig. D. Bosco,

 

                In seguito ai concerti presi già da gran tempo con Lei allorchè Le parlai qui in Asti, ed alla lettera ultimamente da Lei scritta a questo egregio mio amico e collega il Canonico Penitenziere, ho stabilito di chiudere qui le scuole di Rettorica e di mandare a V. S. Carissima gli allievi delle medesime. Essi saranno una dozzina circa; alcuni possono pagare la pensione ma sono pochi; alla maggior parte il Seminario fisserà un sussidio per cadun mese a testa. Abbia la bontà di dirmi quale sarebbe il prezzo ristretto della pensione, affinchè io possa dare le convenienti [740] disposizioni; e mi faccia di questi giovani dei bravi e zelanti Ecclesiastici.

                Preghi Dio per me e mi consideri sempre per quello che sono e voglio essere

                Asti, 22 ottobre 1860.

Suo aff.mo servitore ed amico

A. V.SOSSI VIC. Gen. Capit.

 

                Entrarono finalmente nell'Oratorio i chierici del Seminario di Asti in numero di 17, ma non tutti appartenevano alla classe di rettorica. Li conducevano i tre alunni già nominati, sicchè fra tutti erano 20. Ebbero festose accoglienze e D. Bosco dando notizia del loro arrivo al Vicario Capitolare gli mandava l'elenco dei cari e nuovi alunni.

                I giovani chierici mandati dal Seminario di Asti furono: Molino Giovanni di S. Damiano del 2° anno di Teologia; Merlone Secondo da S. Damiano del 1° anno di filosofia; Viale Carlo da Montechiaro; Vespa Antonio da Agliano; Fagnano Giuseppe da Rocchetta Tanaro; Delaude Stefano pur della Rocchetta; Sartoris Giacinto da Montegrasso; Riccio Giuseppe da Agliano; Barbero Giuseppe da Albugnano; Messidonio Stefano da Villafranca; Ricca Giuseppe da Camerano; Gay Giacomo da Costiglione; Canta Carlo da Villanova; Fasolis Gian Pietro da Asti; Ponte Giuseppe da Rocchetta; Borio Alberto da Costigliole; Fagiani Antonio da Rocchetta Tanaro; Gaddo Stefano da Viarigi; Damiasso Giuseppe da S. Damiano; Crosetti.

                Il Vicario generale gliene dava riscontro:

 

                               Carissimo Sig. D. Bosco

 

                La ringrazio della sua lettera del 16 corrente e dell'elenco dei chierici che passai al Teologo Mussa...

                Siccome eravamo rimasti d'accordo, tutti quei chierici che [741] hanno il posto gratuito nel Seminario, o ne ricevono un sussidio mensile, dovranno intendersela con questo sig. Economo, il quale pagherà la pensione intera di lire 37 al mese per ciascheduno di essi a V. S. Car. E appena il prefato signor Economo, sarà reduce qui da una festa che fece alla sua patria, gli dirò che mandi costì un acconto.

                Le raccomando istantemente codesti chierici: me li faccia buoni e pii, che questa diocesi ne ha necessità estrema. Dio La benedica e La rimeriti colla grazia sua del gran bene che Ella opera per la Chiesa. Mi conservi la sua benevolenza e preghi per me. Tutto suo

                Curia Capitolare - Asti 19 novembre 1860.

Dev.mo e aff.mo servo ed amico

A. V. Can. SOSSI Vic. Gen. Cap

 

                I chierici di Asti corrisposero alle premure amorevoli di D. Bosco, benchè nei primi due mesi qualche malintesa paresse minacciare la loro tranquillità. Era cosa da prevedersi. Il trovarsi molti insieme di una stessa regione, che costituivano quasi un ente morale a sè, in una casa estranea, nuovi venuti tra quelli più numerosi che avevano una precedenza di abitazione, cagionava un po' di malumore, quasi fossero tenuti per inferiori agli altri e meno stimati. Comunicandosi a vicenda qualche propria malinconia, davano corpo alle ombre.

                Ma buon per loro che avevano una gran stima dell'equità di D. Bosco, il quale, conoscitore del cuore umano, sapeva compatirli e consolarli. Il 27 gennaio 1861 si presentavano a lui, lamentandosi di non essere trattati con giustizia nei voti di condotta e di studio. D. Bosco li acquetò con poche parole. - Fate il vostro dovere, disse loro; poi qualunque voto vi si dia, non turbatevi; io vi conosco tutti non solo esternamente ma ancora internamente. - Questa ragione [742] era perentoria, avendo quei chierici prove incontrastabili, e in que' stessi giorni, di ciò che egli asseriva, come fra poco vedremo. Essi avevan preso ad amare D. Bosco che loro prodigava ogni cura a costo anche di gravi sacrifizi, e non cessarono a dimostrargli il loro affetto in ogni tempo. Era deciso che dimorassero nell'Oratorio l'anno scolastico 1860 1861 per ritornare quindi al proprio Seminario, qualora fosse restituito alla Curia. Ma questi seminaristi però non fecero tutti la stessa riuscita. Tre di essi presi da infermità furono costretti ad interrompere gli studii; due altri essendo privi delle virtù necessarie allo stato ecclesiastico deposero la veste talare; gli altri riportarono buoni voti all'esame finale e, ritornati nel Seminario, ricevettero poi i sacri Ordini. Varii di loro divenuti parroci lavorarono con buon successo nel sacro ministero. Due rimasero nell'Oratorio: uno affezionatissimo a D. Bosco e amante della vita di comunità, vi stette più anni anche da prete, finchè  non ebbe deciso di accettare un ufficio in Diocesi. Il secondo, D. Fagnano Giuseppe, si ascrisse alla pia Società di S. Francesco di Sales, ed è il Prefetto Apostolico della Patagonia Meridionale e della Terra del Fuoco.

                Il Canon. Anfossi, per citare un testimonio, conferma quanto abbiamo detto, avendo conosiuti tutti questi chierici.

                D. Bosco adunque aveva consecrata la seconda metà del 1860 ad assicurare le vocazioni ecclesiastiche di tre diocesi, mentre non trascurava in nessun modo i suoi alunni anche nel tempo delle vacanze. Scriveva D. Bonetti: “Abborriva dall'ozio ed insegnava coll'esempio che le nostre giornate si dovevano impiegare per il Signore. Sulla porta della sua camera stava scritto: - OGNI MOMENTO DI TEMPO È UN TESORO. - Ed egli non fu mai visto perdere un istante [743] sia che fosse in casa, sia che fosse fuori. Uscendo quasi ogni giorno per visitare infermi o per cercare elemosine, si approfittava di quel tempo per condurre con sè preti, chierici, o laici della casa e dar loro udienza. Se qualche volta andava solo, come avveniva nei viaggi, leggeva lettere, correggeva colla matita bozze di stampa, continuava a comporre qualche libro, oppure pregava. Lo stesso metodo teneva nelle passeggiate autunnali accompagnando i giovani”.

                E dai giovani stessi che egli mandava al Becchi qualche settimana prima della festa del Santo Rosario, esigeva che non stessero oziosi. Era contento che facessero passeggiate a Mondonio, a Capriglio, ad Albugnano ed altrove; che prendessero parte alle vendemmie di suo fratello Giuseppe: ma voleva che oltre all'esatta osservanza del regolamento giornaliero dell'Oratorio riguardo alle pratiche di pietà, impiegassero qualche ora tutti i giorni nel ripassare materie scolastiche dell'anno trascorso, ovvero nel prendere cognizioni di ciò che avrebbero studiato nella classe alla quale erano stati promossi. Era sempre con loro qualche chierico o professore a cui potevano rivolgersi per sciogliere le difficoltà. Ed ebbero talvolta anche un po' di scuola di lingua francese.

                Ora nel 1860 si avvicinavano i giorni nei quali solevasi disporre quanto era necessario per la grande passeggiata. Il 15 di settembre partiva per i Becchi una prima squadra di alunni, ma tre giorni dopo giungeva la notizia della battaglia di Castelfidardo. Alcuni dell'Oratorio temevano che in quest'anno D. Bosco rinunziasse alle escurzioni autunnali; ma tale non era il suo pensiero, quantunque apparisse afflitto per le angustie che travagliavano il sommo Pontefice. Ei deplorava quegli avvenimenti e con lui ne sentivano dolore i suoi discepoli. [744] Infatti il Ch. Cagliero Giovanni il 27 settembre condotta un'altra piccola brigata di allievi ai Becchi, si recava a Castelnuovo per visitare sua madre. Qui gli accadde ciò che egli stesso ci descrisse. “Un mio antico maestro sacerdote, in una conversazione sosteneva e difendeva l'operato del Governo per l'invasione delle Marche e dell'Umbria; aggiungendo che il Papa poteva benissimo, e senza scapito della religione, lasciare Roma e andare a fissare dimora a Gerusalemme o in altro luogo. Così l'Italia sarebbe stata una e indipendente. Io non rimasi silenzioso, ma la mia opposizione fu tanto accalorata, che credetti avergli perduto il rispetto; quindi all'indomani pensai di chiedergliene scusa. Egli senza farne caso, disse: - Ti compatisco; D. Bosco a riguardo del Papa vi scalda tanto la testa che sareste capaci a farvi martiri per la sua causa”.

                Nell'Oratorio intanto dopo il pranzo o dopo la cena i chierici si avvicinavano a D. Bosco parlando degli avvenimenti che agitavano l'Italia; e siccome il maggior sforzo della guerra era contro il regno di Napoli gli chiedevano con ansiosa curiosità quale ne sarebbe il risultato. Nella Cronaca di D. Ruffino abbiamo la risposta. “Il 1° ottobre Don Bosco disse: Le cose politiche di quelle regioni saranno tutte aggiustate nel 1862: nel 1861 finirà la crisi”.

                Le previsioni di D. Bosco non fallivano. Si consulti la storia; e prima la crisi, ossia il cambiamento di Governo. Il 21 settembre 1860 a Napoli e in Sicilia si era fatto il plebiscito per l'unione col Piemonte. Il 5 ottobre Vittorio Emanuele entrava solennemente in Napoli e un mese dopo in Palermo. Il 13 febbraio 1861 dopo tre mesi e mezzo di eroica resistenza, Gaeta si arrende ai Piemontesi e Re Francesco II ripara in Roma colla Regina Sofia ospite di Pio IX nel Quirinale. Il 26 febbraio Vittorio Emanuele II [745] è proclamato dal Parlamento Re d'Italia e sono presenti tutti i deputati delle provincie Italiane meno quelli di Roma e di Venezia. Il 13 Marzo 1861 dopo quattro giorni di bombardamento alza la bandiera bianca la cittadella di Messina, e la medesima sorte tocca a Civitella del Tronto negli Abruzzi il 20 marzo. Così compievasi la conquista delle due Sicilie e veniva disperso l'esercito borbonico. Il principio del Non intervento bandito dalla Francia e dall'Inghilterra assicuravano il Piemonte da ogni nemico esterno.

                Finita la crisi monarchica, bisognava conservare e ordinare la conquista; ma ciò non riuscì senza incredibili violenze. Nelle provincie continentali continue erano le rivolte. I soldati borbonici, affezionati ai loro primi sovrani, si ordinarono in bande contro gli invasori, i quali dovevano continuamente ributtare i loro assalti e correre a scovarli nelle montagne e foreste. Feroci oltre ogni dire furono le loro vendette e sovente ingiuste. Basti dire, essere risultato in modo certissimo che, dal principio delle sommosse, sino all'agosto 1861, in quelle provincie si erano fucilate 8968 persone, ferite 10604, arse 918 case, incendiati oltre otto paesi, imprigionate presso a ventimila persone. Tali macelli duravano incessanti per due anni, cadendo anche uccisi in gran numero i soldati piemontesi. Verso la metà del 1862 era cessata la insurrezione dinastica. Le bande brigantesche non avendo più aspetto e indirizzo politico, continuavano però a combattere ferocemente per disperazione. I sospetti e gl'indicati dagli spioni come loro complici certi di essere fucilati senza processo, correvano ad accrescere il loro numero. Questa gente però mancava di tutto: quindi ricatti, imboscate, rapine, invasioni nei villaggi e rappresaglie.

                Ma 120.000 soldati piemontesi il cui numero andava [746] sempre crescendo, custodivano la conquista. Alcuni reggimenti francesi stanziavano in Roma e nel Patrimonio di S. Pietro poichè Napoleone temeva che ritirandoli, l'Austria fosse chiamata a sostituirli.

                La Francia, poi l'Inghilterra, il Belgio, il Portogallo, la Svizzera, l'Olanda, gli Stati Uniti d'America, la Grecia, la Prussia, la Turchia avevano riconosciuto il Regno d'Italia. Ultima in questo riconoscimento fu la Russia il 6 agosto dell'anno 1862.

                Giuste erano adunque le previsioni di D. Bosco.

 

 

CAPO LV. D. Bosco e gli amici di Chieri - Ai Becchi - L'avvenire di due giovanetti - La passeggiata autunnale e varie stazioni - Le Prediche - Le confessioni: buon esempio degli alunni dell'Oratorio - Fiducia dei genitori in D. Bosco - I fanciulli dei Paesi dietro a D. Bosco e ai suoi allievi - Confidenza di questi con D. Bosco in tempo di camminate: poche vocazioni Per l'Oratorio: norma la sola volontà di Dio - Una virtù che non regge alla prova - Riconciliazione - Ritorno a Torino.

 

                Don Bosco il 5 ottobre aveva risoluto di recarsi ai Becchi. Ascoltata la S. Messa, i giovani Jarach, Costanzo, Cerruti ed Albera partirono a piedi da Torino. A Chieri andavano a pranzo dal Canonico Calosso.

                Alla sera D. Bosco arrivò in vettura e si fermò ad alloggiare in casa del Cav. Marco Gonella, accolto con mille feste da quella buona famiglia. Qui convennero anche i quattro giovanetti. Siccome mancava qualche ora alla cena si incominciarono allegri ed istruttivi discorsi e Don Bosco che era tutto amorevolezza, parlava, sorrideva in mezzo a quell'allegro cicalio. In un punto però nel quale i capi di casa erano usciti dalla sala per vedere se gli apprestamenti per la cena fossero pronti, D. Bosco disse con [748] Albera che gli sedeva vicino: - Oh, se mi dessero un po' di carta, una penna, un calamaio io comincierei a preparare il fascicolo delle Letture Cattoliche. Ma cosa fare? Bisogna aver pazienza e tener compagnia a questi buoni Signori. - Si cenò, e tre dei giovani andarono a passar la notte presso D. Calosso, Albera rimase e gli fu apprestato un letto nell'anticamera, ove era la porta della camera assegnata a D. Bosco. Al mattino D. Bosco con quella delicatezza verginale che usava sempre in ogni circostanza trattando co' suoi giovani, prima di aprire la porta fece sentire la sua voce: - Albera, ti sei già levato?

                - Sì, D. Bosco; mi son già vestito!

                Allora D. Bosco entrò nell'anticamera e disse: - Andiamo in cappella: se non viene Cerruti dirai tu le orazioni in tempo della S. Messa. - Così soleva sempre ordinare Don Bosco quando aveva con sè qualche suo giovane, per l'edificazione di chi l'ospitava e di altri fedeli.

                Egli in quel giorno non mancava poi di andare a visitare il Can. Cottolengo, fratello del venerabile fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, ove convenivano molti amici per trattenersi con lui. Passava pure ad ossequiare il suo antico professore di rettorica che portava lo stesso suo nome e cognome. Era questi dottore aggregato al collegio della facoltà di Lettere e filosofia nella regia università e professore di lettere italiane nella regia Accademia militare. Abbiamo già detto come egli stringesse intima amicizia, inalterabile col suo discepolo appena ne conobbe nella scuola i rari pregi.

                Altra visita carissima faceva D. Bosco coi suoi giovani alla tomba di Luigi Comollo nella chiesa di S. Filippo.

                In quel giorno D. Bosco proseguì, co' suoi quattro alunni, il viaggio a piedi; e toccata Riva di Chieri giunse a Buttigliera [749]. Quivi erangli venuti incontro i giovani da lui mandati ai Becchi. Riposatosi e preso un ristoro in canonica, si continuò la strada. Via facendo un alunno colla punta del suo bastone aveva infilzato un verme. D. Bosco che avealo veduto, gli disse: - Perchè ucciderla così, povera bestia! La vita per loro è il più bel dono che abbiano da Dio! Per loro tutto finisce colla morte. -

                A sera tarda, soppraggiunsero ai Becchi i musici, i cantori, i meritevoli di quel premio speciale, o altri bisognosi di incoraggiamento per continuare con perseveranza ne' buoni propositi.

                Il 7 ottobre era la Domenica del S. Rosario che fu celebrata colla solita festa religiosa e i consueti divertimenti.

                Il giorno 8 tutta la comitiva andò a pranzo dal parroco di Castelnuovo. Qui D. Bosco s'imbattè in un ragazzino del paese, Bernardo Arato, di circa 10 anni. Lo guardò sorridendo, lo accarezzò e poi col pollice gli segnò gentilmente in fronte un segno di croce, dicendo: - Continua ad essere buono; un giorno tu sarai prete e farai molto bene. - Il fanciullo non capì allora che cosa volessero dire quelle parole, e se ne dimenticò; ma entrato poi nell'Oratorio, il solo incontro con D. Bosco gli fece ritornare a mente le parole udite; ed essendo venuto con lui anche un suo cugino lo condusse nella camera del servo di Dio chiedendo: - Sarà prete anch'egli? - D. Bosco non rispose, ma fissò il fanciullo con uno sguardo pieno di bontà e poi soggiunse: - No, il tuo cugino non diventerà sacerdote, quantunque ne vestirà per qualche tempo, l'abito. Egli è chiamato a fare del gran bene nel mondo.

                E l'uno fu prete e parroco insigne e suo cugino, datosi all'insegnamento, dopo dismessa la veste di chierico, gode meritata fama di abile maestro cristiano. [750]

                Ritornata la comitiva ai Becchi, il giorno 9 avendo tutti i giovani aggiustati i loro piccoli fagotti incominciarono la passeggiata che durò poco più di una settimana. Noi, per non ripetere fatti simili ai già narrati, con pochi tratti di penna ne faremo memoria, rimandando i nostri lettori a rivedere quanto abbiamo notato nella passeggiata del 1859 e in quelle più limitate degli anni antecedenti, allorchè i giovani ogni sera rientravano nel loro quartiere ai Becchi.

                Una stazione adunque si fece a Passerano, passando per Mondonio, nella villeggiatura del conte Radicati, ove era parroco D. Allamano Giovanni, ambedue affezionatissimi a D. Bosco. Spesse volte negli anni antecedenti que' dell'Oratorio avevano ricevuto l'invito dal Conte di andarlo a visitare nel suo castello, accolti sempre con generosa cordialità.

                Altra stazione fu a Primeglio ove li ospitò la Marchesa Doando ed il Marchese, che oltrepassava i novant'anni. Avevano fatto uccidere un vitello e quindi abbondò la carne arrostita. Qui si cantava una Messa da morto in musica, senza organo, senza partitura, poichè non si aveva pensato a portarla da Torino. Celebrò il parroco D. Prinotti Teol. Giuseppe.

                Furono eziandio per un giorno intiero a Montechiaro coi due parroci D. Belussi Giacomo e D. Aluffi Giuseppe.

                Li ebbe anche Montiglio con gran festa del Vicario foraneo D. Roberto Vincenzo.

                A Marmorito li accolse in trionfo il parroco Teol. Valfredo Carlo, dopo che ebbero visitato qualche altro villaggio.

                Ovunque D. Bosco andasse era sempre aspettato da una straordinaria folla di popolo. La banda, i teatri, le solennità e i canti in chiesa avevano certamente una grande attrattiva; ma sovratutto la parola di Dio, trionfava in que' [751] giorni. Per D. Bosco tali passeggiate si mutavano in vere missioni apostoliche di nuovo genere. Egli predicava continuamente volentieri, in ogni occasione, essendo persuaso essere questo suo stretto dovere.

                I suoi sentimenti manifestati in varii tempi e modi erano quelli di S. Paolo: “Se io evangelizzerò, non ne ho gloria, atteso che ne incombe a me la necessità; e guai a me se non evangelizzerò. Conciossiacchè se di buona voglia io fo questo, ne ho mercede; se di contraggenio, è stata affidata a me la dispensazione (ma senza alcun profitto per me)[22].

                E D. Bosco dopo una predica che eragli uscita dal cuore, si disponeva a confessare.

                Alla sera accadeva la scena più varia e più commovente. Fra i giovani dell'Oratorio chi preparava il palco per il teatro, chi portava e ordinava le tavole nel luogo destinato alla cena, chi suonava, chi cantava, e chi andava a confessarsi da D. Bosco. Uomini del paese entrando in chiesa e vedendo quegli alunni così composti a divozione nel prepararsi e nel confessarsi, commossi andavano anch'essi ai piedi di D. Bosco.

                - Ma perchè siete venuti? interrogava D. Bosco.

                - Ho visto que' suoi giovanetti.…..Bisogna che mi confessi.

                I giovani paesani spinti dalla curiosità andavano a vedere uno spettacolo al quale non erano guari assuefatti e il buon esempio fu per tanti stimolo a mettersi in grazia di Dio.

                Una sera uno di questi si ferma a contemplare Don Bosco e i suoi penitenti; si allontana, ritorna; in ultimo con [752] atto risoluto si avvicina a D. Bosco, e gli si presenta, dicendo: - Non posso più stare così! Voglio levarmi di dosso i miei peccati. -E piangeva.

                E D. Bosco a lui: - Ma che cosa vi ha colpito il cuore? - Questi giovani innocenti, ho detto fra me, si confessano così bene; ed io che sono un peccatore dovrò rimanere in questo stato? Voglio confessarmi. - E continuava a piangere.

                Il giorno seguente più e più volte era occupata tutta la balaustra da quelli che ricevevano l'Ostia santa, e in moltissimi si vide poi una grande e stabile riforma morale e religiosa.

                Le popolazioni ammiravano gli alunni dell'Oratorio così vispi, pii e morigerati che alla sera divertivano tutto un paese e al mattino erano alla Comunione.

                D. Bosco intanto continuamente in pensiero de' suoi giovani, stava in mezzo alle loro ricreazioni, con essi quando si mettevano in via; ad ogni istante rivolgeva loro qualche parola che ricordava Dio, e la Vergine SS. od una virtù da praticarsi. Il suo contegno era sempre quello di un santo.

                La gente vedendo quelle continue sue cure paterne concepiva grande stima dei sacerdoti e non pochi parenti si animavano ad affidargli i proprii figliuoli in educazione. I giovanetti di que' paesi erano entusiasmati e si intruppavano intorno alla schiera dell'Oratorio, attratti dalle belle ed affettuose maniere di D. Bosco, dalle buone ed efficaci parole che loro sapeva indirizzare. Parea il buon Gesù quando esclamava: Sinite parvulos venire ad me. Anzi molti seguivano la comitiva per un intero giorno, partecipando al pranzo, ai divertimenti, alle pratiche di pietà e verso sera [753] poi ritornavano alle loro case. Altri non sapevano staccarsi dai nuovi amici e al fine della giornata prendevano alloggio con essi. Più d'uno di tappa in tappa per più giorni non allontanavasi da quell'allegra tribù, aggiustandosi come poteva nelle cascine, quando non trovava luogo nella casa dell'ospite. Taluni continuavano il cammino con D. Bosco sino alla fine della passeggiata e venuti in Torino più non volevano tornare a casa.

                “Così D. Bosco, scrisse il Can. Giacinto Ballesio, in queste poetiche escursioni faceva le sue pesche; pescava i giovani di quelle borgate, li tirava al bene, per farli istrumenti delle sue sante imprese. In questo aveva un criterio fine e delicatissimo”. E l'esercitava specialmente co' suoi alunni interni. Costoro un dopo l'altro gareggiavano nell'accompagnarlo in quelle lunghissime strade e avevano campo di aprire tutto il loro cuore; e con quell'intima famigliarità che a lui li stringeva, nulla tenevangli celato di quanto avevano fatto o pensato, udito o visto. Talora tutto quel tempo ei riserbavalo per intrattenersi con un solo giovane. Il suo discorrere si aggirava quasi sempre sulla vocazione e sul modo di venire a conoscerla. Infatti “la sapienza dell'uomo accorto sta in conoscere la sua strada; l'imprudenza degli stolti è vagante” cioè esce fuori di strada e la sbaglia per passione, per vanità, per interesse. Così i pro, verbi[23].

                Quanti cari aneddoti vi sarebbero da esporre! Narra un sacerdote che un giorno nel primo anno del suo chiericato, D. Bosco, avendo mandato innanzi tutta la comitiva a Passerano dal Conte Radicati lo ritenne seco, perchè lo accompagnasse, qualche ora dopo, presso quel medesimo [754] signore. Giunti sulla vetta di una collina, D. Bosco gli diceva che molti de' suoi giovani camminavano bene nella via della virtù, ma pochissimi esser coloro che sarebbero rimasti nell'Oratorio.

                Allora quegli colto il destro gli domandò - Ed io starò sempre nella Congregazione? - E dopo alcuni istanti, vedendo che assorto in profondi pensieri non rispondeva, soggiunse: - Almeno mi dica se sarò sempre buono?

                E D. Bosco allora sorridente rispose alle due domande: - Sì, sì!

                La mente di D. Bosco erasi rivolta al gran bisogno che egli aveva di numerosi coadiutori; tanto più che andava guardingo a fare un invito, allorchè non era certo di una vocazione. Anzi se parevagli che un giovane fosse chiamato altrove da Dio per la sua maggiore gloria, non esitava ad annunziarglielo. Infatti nell'anno 1860 e precisamente il 28 ottobre D. Bosco disse a D. Ruffino: - I chierici Duino e Becchio non sono chiamati a stare con noi. La loro vocazione sarebbe di farsi Domenicani. Diedi loro questo consiglio: essi ci pensarono sopra, ma non tornò loro a grado. Perciò raccomandai Duino e lo consegnai al suo Vescovo, il quale lo accolse volentieri nel Seminario di Pinerolo.

                A quelli poi che domandavano di rimanere con lui soleva talvolta imporre qualche prova.

                Nel tempo di una passeggiata Suttil Gerolamo aveva instato, come già altre volte, che D. Bosco lo accogliesse nel numero dei Salesiani. D. Bosco gli rispondeva: - Ma come potrai tu assuefarti alle mortificazioni, alle umiliazioni, agli stenti che deve soffrire un Salesiano?

                Mi metta alla prova, diceva il giovane, e vedrà che sono capace di sopportar tutto. [755]

                - Non ci riuscirai, ti dico.

                - Mi metta alla prova.

                - Ebbene io ti prendo in parola, soggiunse D. Bosco.

                - Accetto!

                Da quel momento D. Bosco non gli fece più motto che alludesse a questa specie di sfida; ma andato a Buttigliera dalla solita Contessa benefattrice per passarvi la giornata, lo mise alla prova.

                Una mensa sontuosa era preparata in una magnifica sala per D. Bosco e per i più notabili della compagnia; e il giovane Suttil, abilissimo pianista, incominciò a suonare alcuni pezzi difficili così stupendamente, da riscuotere vivi applausi.

                Venne intanto l'ora del pranzo. Il grosso della comitiva aveva preparato il suo posto in un luogo a pian terreno.

                Suttil era solito a sedersi alla mensa d'onore. D. Bosco lo mandò a chiamare, e: - Ascolta, gli disse: da te che hai giudizio ho bisogno di un piacere. Scendi abbasso, assisti i giovani: di' loro che mangino pure liberamente, ma che non facciano disordini col troppo mangiare o troppo bere. Se tu sei con loro io resto più tranquillo. E tu pranzerai con essi.

                Suttil non rispose parola e scese le scale. Era serio; sedette a mensa, ma ben presto si alzò e passeggiava su e già in mezzo alle tavole alle quali assisi i giovani mangiavano allegramente. Egli faceva uno sforzo per apparire tranquillo; ma non potendo più nascondere la melanconia e la stizza che agitavalo, uscì nel cortile e continuò a passeggiar soletto.

                - Che cosa ha per la testa Gerolamo? - dicevansi i giovani a vicenda. - È ammalato? Ebbe qualche dispiacere? Non è secondo il solito! [756] Finito il pranzo D. Bosco cogli altri signori scese in mezzo ai giovani, i quali gli narrarono come Gerolamo non avesse mangiato e fosse mesto. D. Bosco gli si avvicinò. - Ebbene mio caro; che cosa hai? Ti hanno fatto qualche torto i compagni? Ti senti male?

                Suttil non rispondeva, ma dopo alcune altre interrogazioni di D. Bosco, facendo uno sforzo, uscì in queste parole: - Le dico schietto: vedermi escluso dalla compagnia dei soliti suoi commensali mi ha fatto troppo colpo.

                - Ah! esclamò D. Bosco. Non mi hai detto che ti mettessi alla prova?

                Quel giovane alzò gli occhi, che fino allora aveva tenuti bassi, in volto a D. Bosco e mettendosi a ridere: - Se me lo avesse detto, allora mi sarei posto in guardia e avrei resistito al colpo, rispose.

                - Bravo! Se tu lo avessi saputo, non era più una prova!

                - Ha ragione! - E continuò a ridere riprendendo la sua giovialità.

                Il giovane non fu accettato nella Congregazione; andò, in Francia e poi ritornato dopo molti anni nell'Oratorio, morì in mezzo ai Salesiani.

                Anche in quest'anno 1860, D. Bosco dopo essere ritornato ai Becchi e visitata la cara tomba di Mondonio; recavasi a Chieri dove il pranzo era imbandito dalla damigella Pozzo. Di qui egli spediva a Torino il giovane Albera Paolo con un compagno, perchè annunziassero a D. Alasonatti come per quella sera la comitiva non sarebbe giunta all'Oratorio.

                Dopo il pranzo accompagnato dal Corpo musicale e dagli altri giovani proseguiva la marcia per la solita via provinciale di Torino, ma a breve distanza dalla Madonna del Pilone e dal Po si rivolse a destra e salì a Pino torinese. Ivi era [757] parroco D. Aubert Giacomo col quale era legato da antica amicizia. Fin dal 1845 e poi per molti anni egli era andato ad esercitare il sacro ministero in quella parrocchia campestre, ed aveva scoperte ed avviate vocazioni di varii giovani alla carriera Ecclesiastica. Quivi conobbe il fanciullo Del Mastro che mandò al Cottolengo perchè fosse allievo nei Tommasini, i quali allora erano soli dieci; e il Del Mastro riuscì un santo e dotto parroco.

                A Pino abitava anche la famiglia Ghivarello della quale il figlio Carlo da più anni era alunno dell'Oratorio. Sovente i condiscepoli di Carlo, andando a Chieri, facevano, o in pochi o in molti, quivi una breve sosta ed erano trattati con generosa cordialità. Fra i vari amici che D. Bosco contava in questo paese v'era un vecchio contadino ricco proprietario. Questi per certo equivoco di parole, che riputava offensive al suo onore, conservava amarezza col parroco, e da più anni aveva rotta ogni attinenza con lui; schivava ogni occasione d'incontrarlo e di parlargli. D. Bosco da molto tempo meditava il modo per riuscire ad una conciliazione. Ora quell'uomo, cocciuto, ma non cattivo, avevalo invitato in quest'anno a passare a Pino co' suoi giovani e ad intrattenersi un giorno intero in sua casa. D. Bosco aveva accettato e andava volentieri per i santi suoi fini. Il vecchio fuor di sè per la gioia apparecchiò una buona cena; i giovani suonarono le loro musiche e alla sera fecero il teatro. Ivi passarono la notte. D. Bosco, aveva fatto il possibile per accaparrarsi l'animo di quell'uomo. Quindi cercò occasione per entrare in argomento e qualche volta riuscì a far cadere il discorso sulla necessità e dolcezza di far pace. Il vecchio protestava di voler perdonare al parroco, ma che non si sentiva di stringere più nessuna relazione con lui. - Dunque, gli diceva D. Bosco, fino a quando volete andare avanti così?... Siete [758] ormai sull'orlo della tomba e volete presentarvi al tribunale di Dio con questi rancori? Perchè non tornare amico col parroco, che del resto è un bravo uomo e so che vi vuol bene e parla con stima di voi? - Ma tutto era inutile. Il vecchio non capiva ragione.

                Il domani D. Bosco nel partirsi da quella casa, invitò il suo ospite ad accompagnarlo per un breve tratto; e senza che se ne avvedesse e poi potesse esimersene, fece avviare la sua brigata verso la casa parrocchiale sotto il pretesto di fare una breve suonatina, come era conveniente, sotto le finestre della canonica. Giunti là, il parroco avvisato, esce all'incontro ed invita D. Bosco ad entrare in canonica. Il vecchio ne provò ripugnanza grande, pure non potè  sottrarsi all'invito fatto a lui con modi festevoli e cordiali e introdotto in casa, fu accolto con mille riguardi. Il parroco, aveva preparato del buon vino e pregò il vecchio a ridonargli la sua amicizia. Quegli a tali preghiere e alle nuove e replicate istanze di D. Bosco non seppe resistere, fece la pace e così fu compensato largamente dell'ospitalità data a D. Bosco.

                Alla sera la felice brigata rientrava nell'Oratorio.

 

 

CAPO LVI. Innovazione nei dormitorii - Nuovo programma per l'accettazione di studenti - Presa di possesso di Casa Filippi e sua descrizione - Un ponte di legno - Varie cause dell'entrata di alcuni alunni nell'Oratorio; un'invito di D. Bosco; una preghiera esaudita; la campana dell'Ave Maria e una voce consolante - Fantasie fatidiche e confortanti di due giovani - La Madonna e il dono della memoria - Esami e voti de' Chierici - Lettura solenne del regolamento dell'Oratorio - Principio delle scuole e prolusione dei maestri - Le pagelle dei voti trimestrali - Due ammonimenti ai chierici.

 

                Nell’Oratorio tutto si disponeva pel cominciamento dell'anno scolastico 1860-61 e con maggior dispendio degli anni trascorsi.

                Nelle camerate bisognò ridurre ad uniformità tutti i letti dei giovani poichè, gli uni dormivano in un letticciuolo recato da casa, gli altri in una branda. Chi metteva il saccone o il materasso sopra assi sostenuti da cavalletti di legno o di ferro. Qualcuno si accontentava di un pagliericcio sul pavimento. “Chi diede la spinta a tal riforma, scrisse Giuseppe Reano, fu madama Ropolo madre di un allievo. Venuta nell'Oratorio e incontrato D. Bosco, dopo aver parlato con lui del figlio e de' suoi studi, uscì francamente in queste parole: [760]

                - D. Bosco, ho visto i letti ne' dormitorii e sono tutti meschini: perchè non adotta i letti in ferro?

                D. Bosco le rispose: - Appena avrò vinto un quaterno al lotto provvederemo tutte le camerate di bei letti in ferro. - Quattrocento non bastavano e la spesa era grave.

                Ma ecco, poche settimane dopo quel colloquio, D. Bosco dar commissione al Sig. Chiusani, che aveva la sua officina presso le fontane di Santa Barbara, di costrurre e portare ogni settimana nell'Oratorio venti letti in ferro, finchè  ogni allievo non fosse provvisto del proprio. In alcuni mesi il desiderio di madama Ropolo fu soddisfatto. D. Bosco certo non aveva vinto il quaterno al regio lotto, ma sibbene a quello della divina Provvidenza. Infatti i letti erano stati pagati.

                Questa innovazione nella casa che incominciò nelle camerate degli studenti, obbligò D. Bosco a scrivere un nuovo programma di accettazione per i parenti dei giovani che domandavano l'ammissione all'Oratorio per darsi agli studii. Ma siccome le domande erano molto numerose e ci voleva una garanzia che desse tempo a conoscere lo stato e le intenzioni dei parenti e le disposizioni dei giovani colla loro morale e intellettuale condotta, impose una retta fissa per i primi due mesi di stanza nell'Oratorio. Era una misura necessaria per ovviare che fossero a carico della casa quelli, che non meritavano di goderne la beneficenza. D. Bosco però nella sua carità sapeva fare molte eccezioni.

                Queste sono le condizioni stampate e distribuite:

 

PER GLI ARTIGIANI.

 

                1. Siano orfani di padre e di madre.

                2. Abbiano 12 anni compiuti e non oltrepassino i 18.

                3. Poveri ed abbandonati. [761]

 

PER GLI STUDENTI.

 

                1. Abbiano compiute le classi elementari e voglian percorrere il corso ginnasiale.

                2. Siano commendevoli per ingegno e per moralità.

                3. Siano tenuti due mesi in prova a fr. 24 mensili e di poi si faranno le intelligenze secondo il merito.

 

DISPOSIZIONI GENERALI.

 

                È rigorosamente proibito agli allievi di tenere danaro presso di sè . Chi ne ha lo consegni al Prefetto della casa, che lo ritornerà a semplice richiesta giusta il bisogno.

                2. Ogni somma in qualunque limite convenuta, dovrà pagarsi a trimestri anticipati.

                Lo stabilimento somministrerà agli allievi lettiera in ferro, saccone con foglie. Ogni altro oggetto di vestiario e di letto è a carico degli allievi, ad eccezione che facciano constare la loro impotenza per povertà.

 

                D. Bosco intanto era già entrato in possesso della proprietà vendutagli dalla famiglia Filippi. Consisteva primieramente in un terreno quadrilatero irregolare, che un muro separava dal cortile dell'Oratorio. A mezzogiorno una tettoia stendevasi lungo la via della Giardiniera e all'estremità di questa, a levante, si apriva il portone per i carri. Sul lato che formava angolo con tale entrata, vedeansi le stalle coi fenili, nei quali molti vagabondi abbonati erano soliti a passare la notte; e un tratto di muro. A settentrione quasi in linea retta col corpo principale dell'Ospizio, si alzava una casa di due piani, non compreso il pian terreno destinato a setificio. Era lunga 35 metri, larga 7½ ed alta quasi 2. Due ale della stessa altezza, alle estremità, larghe ciascuna 13 metri, si protendevano parallele verso mezzogiorno per lo spazio di 8 metri e [762] racchiudevano una piazzetta non più larga di 9 e mezzo. Si accedeva a questa per un sentiero fiancheggiato da due spesse ed alte siepi.

                Del suo nuovo acquisto però D. Bosco potè  utilizzare solamente il piano superiore destinandolo a dormitorii, poichè le stanze inferiori erano ancora occupate dagli antichi inquilini e la tettoia, le stalle ed il cortile dal signor Visca, fino alla scadenza dei loro fitti. Quindi per più di un anno non fu abbattuto il muro che divideva i due stabili. Perciò all'altezza dell'ultimo piano fu costrutto per il passaggio un ponte provvisorio di travi ed assi, sotto il quale una via metteva nel prato retrostante annesso a quel podere. Siccome tra una casa e l'altra eranvi sette metri di spazio, quasi uno stretto di mare, come dicevano gli alunni, con una parola divenuta famosa l'edificio nuovo chiamavano la Sicilia, perchè separato dal corpo principale della casa, cioè dal Continente.

                Molti giovani erano persuasi che Dio stesso avesse loro preparato quell'asilo colla sua amorosa misericordia, dandone loro indizio non fallace come essi credevano. Altri che la Vergine benedetta avesse loro ottenuta tanta grazia e quasi li avesse condotti per mano, onde arricchirli colle sue benedizioni. Un certo numero, si trovava nell'Oratorio attirato in modo mirabile da un invito del servo di Dio e di Maria, al quale soavemente sentivansi costretti ad acconsentire.

                Incominciando da questi ultimi esporremo un fatto semplice, che in vario modo si ripetè cento e cento volte nel corso degli anni, quale ci fu raccontato da una buona madre.

                La signora Rosa Rostagno nata Masino, nel 1860 veniva a Torino da Pinerolo con suo figlio quindicenne di [763] nome Severino e, sbrigati vari affari, si presentava a Don Bosco desiderosa di farne la conoscenza. Essa rimase incantata dell'affabilità di D. Bosco, il quale preso a parte il Severino, gli disse alcune di quelle misteriose parole nell'orecchio che operavano tante meraviglie. La madre era rimasta ad una certa distanza e non poteva udire, ma stupì nel vedere l'effetto che quelle parole facevano nel suo giovanetto. Era rimasto come entusiasmato, magnetizzato. Ambedue partirono dall'Oratorio beati di aver visto D. Bosco.

                Il figlio però tenne per sè il segreto delle parole di D. Bosco e non volle mai confidarle a nessuno, portando nella tomba il suo segreto. Neppure la madre potè  penetrarlo.

                D. Bosco nel congedare Severino gli aveva detto: - Scrivimi qualche volta ed io ti risponderò. - Il giovinetto esitava a scrivere; essendo malaticcio era alquanto indietro nella classe ed arrossiva all'idea di non scrivere bene.

                La madre esortavalo a scrivere; egli si schermiva, benchè affermasse che aveva tante cose da dire a Don Bosco. - Ebbene, la madre concludeva: fa conto di essere alla presenza di D. Bosco e scrivi tale quale come se gli parlassi. - Severino finalmente si arrese e scrisse a Don Bosco, il quale così gli rispondeva.

 

                               Figliuolo mio dilettissimo,

 

                La tua lettera mi ha fatto piacere. Se tu provasti grande consolazione per un momento di tempo che fummo insieme a fare poche parole, qual gaudio non sarà per noi quando, aiutandoci Iddio, vivremo per sempre beati in cielo dove faremo una sola voce per lodare il nostro Creatore in eterno? [764] Coraggio adunque figliuol mio, sii fermo nella fede, cresci ogni giorno nel santo timor di Dio; guardati dai cattivi compagni come da serpenti velenosi, frequenta i Sacramenti della Confessione e Comunione; sii divoto di Maria Santissima e sarai certamente felice.

                Quando ti vidi parmi aver ravvisato qualche disegno della Divina Provvidenza sopra di te; ora non tel dico ancora: se verrai altra volta a vedermi parlerò più chiaramente e conoscerai la ragione di certe parole dette allora.

                Il Signore doni a te ed alla tua Madre sanità e grazia; prega per me che ti sono di cuore

                Torino, 5 settembre 1860.

Aff.mo

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                All'Ornatissimo giovane il Sig. Rostagno Severino studente. Via del

                Pino, casa Valetti. Pinerolo.

 

                Severino ricevuta questa lettera era impaziente di andare a vedere D. Bosco, ma la mamma per i suoi affari temporeggiava a condurlo. Finalmente la vigilia della festa di S. Severino il giovanetto disse alla madre. - Pagami la festa del mio onomastico col condurmi a veder D. Bosco. - La madre lo consolò. All'indomani fu a Torino, parlò lungamente a D. Bosco e concluse instando presso la madre, perchè volesse affidare a D. Bosco la sua educazione. Vi erano difficoltà, ma furono superate colla seguente lettera:

 

                               Carissimo nel Signore,

 

                Se da buon militare ti senti reggere alla pensione ordinaria, ove era Muriana, te la darò gratuita, rimanendo però a carico di tua madre le minute spese dei libri e del vestito; per quanto occorre di corredo dimandane a quelli che sono già stati tra noi. [765] Se va bene così, vieni presto e lavoreremo di tutto cuore pel bene dell'anima.

                Dio ti benedica; credimi tuo

                Torino, 29 ottobre 1860.

Aff.mo in G. C.

Sac. Bosco GIOVANNI.,

 

                Il giovine volò all'Oratorio.

                A questi inviti si univano le ispirazioni della Madonna.

                Enrico Bonetti di 24 anni nato in Caprino provincia di Bergamo, vestito l'abito clericale, dovette poi deporlo avendogli una gravissima difficoltà attraversata la via al sacerdozio. Dovette perciò cercarsi il vitto col frutto delle sue fatiche, e venne a Torino ove trovò un impiego. Ma le antiche aspirazioni che erano in lui sempre vive, la compagnia di miscredenti e viziosi nella casa in cui abitava, l'essere costretto ad assistere al suo ufficio anche nei giorni festivi, le difficoltà che incontrava per l'esercizio delle pratiche di pietà, gli rendevano penosa la vita. Occupatissimo anche tutta la settimana, qualora gli fosse avvenuto di avere qualche mezz'ora di libertà, recavasi al Santuario della Consolata, per supplicare la dolcissima sua madre perchè presto gli fosse concesso di ritirarsi dai pericoli del mondo.

                E la Madonna ascoltò i fervidi suoi voti. Una Domenica a sera, nella quale era più mesto del solito, prese que' viali che fiancheggiano il corso vicino all'Oratorio. A un certo punto venne al suo orecchio, un alto, giulivo e confuso gridare di giovanetti. Si fermò un istante innanzi alla Chiesa di S. Francesco di Sales, chinò la testa profondamente commosso e disse piangendo: - Oh quanto debbono essere felici quei giovani! - In quel mentre domandò ad una persona che passava per colà, quale casa [766] fosse quella da cui partiva tanta festa: e gli fu risposto: - L'Oratorio di D. Bosco. - Egli senz'altro vi si fece condurre, si presentò a D. Bosco, aperse all'uomo di Dio tutto il suo cuore, e gli palesò che le strettezze della sua famiglia non gli permettevano di pagare la pensione nel Seminario. Fu accettato, dopo qualche tempo entrò a far parte de' felici abitanti dell'Ospizio e passati alcuni mesi espresse il desiderio di consacrarsi interamente e per tutta la sua vita all'opera dell'Oratorio.

                D. Bosco che lo conobbe per giovane di virtù, d'ingegno e di scienza, non solo gli condonò l'intera pensione, ma a carico della casa gli provvide quanto era necessario pel vestito, libri ed altro.

                Enrico Bonetti fu un vero tesoro per l'Oratorio, venne ordinato sacerdote, ed egli raccontava sempre pieno di gratitudine la misericordia usatagli dalla Madonna.

                Un altro giovanotto della stessa età del suddetto Enrico, appartenente ad altra provincia, un giorno manifestava ad un sacerdote confidente la sua propensione ad ascriversi a qualche Ordine ovvero Congregazione religiosa, ma soggiungeva che per un motivo o per un altro non ne trovava una che gli andasse a genio.

                - Ebbene, gli rispose quel sacerdote; la Madonna ti ama tanto, che se non troverai un Ordine o Congregazione che ti piaccia, ne inventerà una per te, che sia di tuo gradimento. Vedrai quello che io ti dico.-

                Un giorno di festa quel giovane, che era sinceramente desideroso di sapere qual fosse la volontà di Dio intorno al suo avvenire, andava a recitare il santo Rosario davanti all'altare della Madonna nella chiesa del suo villaggio. Chiedeva a Maria SS. che gli desse lume per conoscere la sua vocazione. [767]

                Ritiratosi a riposo, sull'alba, non essendo ancora ben svegliato, mentre suonava la campana dell'alba, sentì una voce distinta che gli diceva all'orecchio: - Va a L... e troverai D. Bosco. - Il giovane si destò, ma con quell'annunzio ben scolpito nella mente. Egli aveva sentito parlare di D. Bosco più di una volta; un giorno era andato a Torino per chiedergli consiglio senza incontrarlo, lo conosceva per fondatore dell'Oratorio, ma nulla sapeva della Pia Società di S. Francesco di Sales. Non aveva conoscenza di amici di D. Bosco dalle sue parti; pareagli più facile da vedere nei suoi paesi il Papa che D. Bosco, tanto erano fuori di mano.

                Egli andò tosto a confidare quello strano fenomeno di voce udita, a tre suoi buoni amici, i quali gli dissero - Il paese di L... è distante un'ora sola di qui e puoi facilmente levarti questa fantasia.

                Il giovane acconsentì recandosi il giorno dopo a L... accompagnato da uno di quei tre amici.

                Non conoscendo il parroco volse i suoi primi passi alla casa di un vecchio cappellano che era stato maestro comunale in sua patria. Ricevuto con grande cordialità gli chiese se avesse notizie di D. Bosco. Il cappellano rispose che no, ma l'arciprete essere in attinenza col fondatore dell'Oratorio di Torino. Fu allora a visitare il parroco e avendogli detto come a Torino non avesse egli trovato D. Bosco in casa, con sua estrema meraviglia sentissi annunziare: - D. Bosco sarà qui fra otto giorni.

                Pieno di gioia ritornava al paese, quando incontrati i due amici, che gli venivano incontro, ridendo per la supposta sua disilusione, questi ancor lontani: - Ebbene, gli gridarono, D. Bosco viene? - E il giovane trionfando rispose a una voce con quegli che avealo accompagnato: [768]

                - Viene, viene! - Il fatto mise poi il colmo ai loro stupori. Appena giunse D. Bosco, il giovane gli si presentò. Il servo di Dio fissatolo in volto, lo interrogò: - Come ti chiami? - Il giovane gli disse il suo nome.

                - Qual è la tua patria? - e gli fu detta.

                Successe un breve colloquio e quindi concluse: - Vieni adunque con me a Torino.

                E il giovane senz'altro lo seguì. Si noti che nè allora nè poi egli svelò ad altri quella voce misteriosa, che aveva udita mentre suonava la campana del mattino. E giunto all'Oratorio vi trovò quella Congregazione, che la Madonna avea preparata anche per lui secondo le sue inclinazioni, e vi dimora felice.

                Varii giovanetti ricevettero un gran conforto e stimolo a far bene da certe fantasie grandemente consolanti, che senza aver nesso con idee prima concepite, all'improvviso si spiegarono innanzi a loro.

                Un giovanetto di grande ingegno e memoria, andava alle scuole pubbliche. Con difficoltà assogettavasi alla disciplina ed era negligente nell'adempimento dei propri doveri. Una sera suo padre parlando con alcuni amici dei portamenti del figlio poco voglioso di studiare, di sue strettezze finanziarie che non permettevangli di fargli dare in qualche collegio una completa educazione ed istruzione, quelli gli parlarono di un certo prete che aveva aperto un ospizio in Valdocco ove con poca spesa gli alunni facevano buona riuscita. Il padre opponeva loro che il figlio non si sarebbe accomodato a tale decisione; ma questi saltò su a dire: - Papà, mettetemi in quel luogo e vedrete che ci starò.-

                Il giovanetto però dopo aver riflettuto alla sua promessa e impressionato dalla perdita imminente della sua [769] libertà, stando rinchiuso fra quattro mura, andò a dormire. Ma nella notte ei fece un sogno. Gli parve di essere in un cortile tenendo delle carte in mano, e di vedere molti giovani che applaudivano un prete che stava sul poggiuolo di una casa; ed egli salire le scale e andar a baciare la mano a quel prete.

                Dopo qualche mese entrava nell'Oratorio avendo dimenticato pienamente il sogno, e si adattava con qualche difficoltà alla vita di Collegio. Non aveva ancor visto Don Bosco, il quale era partito da Torino e doveva star fuori più settimane. Un giorno chiamato dal maestro in iscuola, nel tempo della ricreazione ebbe da lui un fascio di carte da recare ad uno dei superiori. Mentre scendeva le scale ode vivi e prolungati applausi e corre nel cortile, applaudendo e gridando esso pure: evviva! D. Bosco ritornato dal suo viaggio era sul poggiuolo. Avveravasi il sogno. Lo stesso cortile, la stessa folla di giovani, la stessa casa, lo stesso sacerdote che gli era apparso; ed egli colle carte in mano. Ricordossi allora di tutte le particolarità del sogno e volendo che fosse interamente avverato, salì sul poggiuolo e baciò la mano a D. Bosco. Fu questo bacio come una protesta di perpetua figliale affezione, come egli stesso nella sua tarda età, raccontandoci il sogno, ci affermava grandemente commosso.

                Un altro fatto di simile genere appartiene a questi tempi. Così ci scrisse quegli stesso che ne provò grande consolazione. “Poteva io avere circa un dieci anni. Da più giorni ero preoccupato dal pensiero di quello che avrei dovuto fare nella mia vita. Dormendo io vidi un prete che stava sulla porta di un magnifico giardino. Mi accosto al cancello ed il prete mi piglia per un braccio e mi fa dolce invito ad entrare: - Sii savio, mi disse: qui [770] passerai la tua vita. - A me fece tanta impressione quel sogno, che per più dì, ricordo, vissi raccolto, divoto e più assiduo alla Chiesa. Trascorsero anni parecchi e ho tuttavia presente al pensiero tale scena. Quando venni poi all'Oratorio, io vidi in colui che mi accolse paternamente il prete del sogno e intesi ben presto essere il giardino la nostra Pia Società”.

                Saranno queste semplici fantasie, che si producevano nella mente dei giovani nati e vissuti in provincie diverse e cospiranti a loro indicare una stessa via, che doveva condurli al conseguimento della loro vocazione? Essi tali non le credettero e confortati da que' ricordi, ricevute le sacre ordinazioni, perseverano risoluti da anni ed anni, nel lavorare in mezzo alla gioventù loro affidata dallo stesso D. Bosco.

                Compagno di questi fu Rollini Giuseppe venuto nell'Oratorio per continuare i suoi studi di pittura nell'Accademia Albertina, e che ebbe poi la fortuna di ornare col suo pennello le cappelle e la cupola della chiesa di Maria SS. Ausiliatrice.

                Con Rollini prendeva pur stanza nell'Ospizio il 6 novembre 1860 Pietro Racca di Volvera in età di 17 anni. Portava con sè quella semplicità propria di chi ha passati i primi anni in campagna e veniva alcune volte motteggiato per i suoi modi da qualche condiscepolo certamente meno virtuoso di lui. Ma non fu mai che il giovine Racca movesse lamento; che anzi tutto soffriva; e la costante ilarità del suo volto ben dimostrava come egli non solo non sentisse alcun risentimento contro i derisori, ma li amasse, ad essi proferendosi in ogni cosa che potesse loro tornare gradita. Egli però aveva sortito da natura mediocre ingegno e memoria poco felice; e non avendo bene [771] appreso dal suo maestro al paese i primi elementi della lingua latina, avveniva non di rado che alla scuola non sapesse la lezione, quantunque vi si fosse applicato per molto tempo. Egli ne era dolente, perchè tale difetto poteva impedirgli di proseguire gli studii intrapresi e di giungere al sacerdozio. Perciò egli pregava e ricorreva spesso alla Madonna della quale era tenerissimo, perchè l'aiutasse. Nè fu vana la sua preghiera.

                Difatti un mattino mentre nella scuola si attendeva il Professore e gli scolari recitavano le loro lezioni, ecco entrare Racca più allegro del solito, sicchè pareva essergli successo qualche cosa di lieto. Interrogato da un compagno qual fosse la causa della sua gioia, si pose con tutta semplicità a raccontargli come nella notte precedente gli fosse apparsa la Madonna e gli avesse concesso il dono della memoria. A queste parole alcuni lo ammirarono, altri risero come se tenesse per vero ciò che era puro sogno ed effetto di immaginazione. Non si offese il giovine, nè replicò; e chiamato alla cattedra dal Professore Francesia Giovanni, recitò la lezione, e la seppe ottimamente con stupore di tutta la scolaresca. D'allora in poi non ebbe a lamentarsi di provare difficoltà nell'imparare le lezioni assegnate; anzi incominciò a segnalarsi tra i compagni per felice ritentiva e più che ordinaria. Questo improvviso suo mutamento crediamo non debba ascriversi ad altro che ad una grazia singolare, di cui volle favorirlo la Madonna, la cui divozione non tralasciava d'infondere e di raccomandare caldamente a tutti quelli che lo praticavano. Tanto più che quel dono perseverò per tutto il tempo della sua vita, come lo provano i posteriori studii cui d'allora in poi si applicò indefessamente e con buon esito; e ne fanno testimonianza quanti ebbero occasione [772] di conoscerlo da vicino e fra gli altri il Professore Don Garino Giovanni.

                Di altre grazie meravigliose della Madonna a giovanetti, che invocavano il suo aiuto materno, avremo occasione di parlarne più e più volte; ed ora ricondurremo il lettore al principio dell'anno scolastico 1860-61.

                I chierici il 3 novembre si presentavano all'esame in Seminario. Erano ventidue e dall'elenco dei voti consta che due ebbero egregie, sedici optime, tre fere optime, un solo bene. I maestri regolari dei giovani vennero giudicati fra gli ottimi, segno che gli studi letterari non avevano recato danno agli studi teologici; e si accinsero a principiare le scuole. Il Regolamento della casa, non ancor stampato, venne letto con solennità di apparato agli alunni, presenti tutti i superiori con D. Bosco. Nelle singole classi poi l'ora della prima lezione era consacrata ad esporre una specie di prolusione sull'importanza degli studi, sui mezzi per fare vantaggiosi e duraturi progressi, sulla necessità e la gloria di una morale condotta, sull'obbedienza per corrispondere alle cure degli insegnanti, non dimenticando i punti principali cioè la salute eterna dell'anima, l'affetto alla Chiesa, l'obbedienza al Papa, e la vocazione allo stato ecclesiastico. Qualunque argomento trattassero parlavano pieni dello spirito di Don Bosco. E di lui facevano sempre degna commemorazione. Il Ch. Anfossi sul conchiudere esclamava innanzi ai suoi discepoli di seconda ginnasiale; - Voi, o giovani, siete radunati per buona vostra ventura nell'Arca di preservazione. In questa casa il Signore vi preparò un padre, un suo servo a vostro custode. Col lume divino egli vi ritrarrà dal male, dall'abisso della perdizione; colla sua santità egli vi farà innamorare di Dio e della immacolata [773] sua Madre, egli vi renderà angioli in terra degni del trionfo che vi attende in cielo. O voi fortunati! Ma a questa benedizione deve concorrere la vostra risoluta volontà.

                Con queste parole egli riassumeva l'opinione di tutti quelli dell'Oratorio, sulle virtù di Don Bosco, il quale metteva sotto gli occhi dei giovani un conciso programma sul modo di impiegare con merito e con frutto l'anno scolastico.

                Le pagelle destinate per render conto alle famiglie i voti trimestrali meritati dai loro figli, e che da lui erano sottoscritte recavano in fronte due versicoli della Sacra Scrittura. Dalla parte destra si leggeva: - Initium sapientiae timor Domini: Il principio di ogni sapienza è il timor del Signore (Salmo 110). - E dall'altra parte: - Quae in juventute tua non congregasti, quomodo in senectute tua invenies?” Ciò che non hai raccolto in gioventù come potrai goderlo nella vecchiaia? (Eccl. XXXV, 5).

                Due avvertimenti dava D. Bosco anche ai Chierici perchè si conservasse lo spirito buono nella Casa. Il primo s'esponeva con questa sentenza di S. Vincenzo de' Paoli: Una comunità che osserva con esattezza il silenzio nei tempi stabiliti, è certamente fedele a tutte le altre sue costituzioni; se invece in quella ognuno parla a suo talento, d'ordinario non si osservano nè regole, nè ordine.

                Il secondo lo ripeteva raccomandando l'assistenza dei giovani: - Non avendo speciale occupazione fate ogni giorno in tempo di ricreazione il giro delle scale e dei corridoi, e avrete il merito come se aveste salvata un'anima.

 

 

CAPO LVII. Suppliche per sussidii ai Ministri degli Interni e dello Guerra: risposte - La moltiplicazione dei pani - Una guarigione meravigliosa - Annunzio della morte futura di un gran personaggio politico - D. Bosco predice l'avvenire ad alcuni alunni.

 

                Sul finire dell'ottobre D. Bosco si rivolgeva per ottenere sussidii al Ministero dell'Interno, il quale gli faceva rispondere in questi termini.

 

Torino, addì I novembre 1860.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO. - Divis. 5° N. 3435.

 

                È pervenuta a questo Ministero la pregiata lettera del Sacerdote Sig. D. Giovanni Bosco, tendente ad ottenere un sussidio a favore della Pia Casa dal medesimo diretta, detta Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco.

                Il sottoscritto è ben dolente di dovergli significare che i limiti posti al bilancio di questo Ministero per l'esercizio dell'anno corrente, non permettono, come sarebbe pur desiderio, di assecondare la fatta richiesta, il cui scopo non ha bisogno di parole per farne encomio. Tuttavia si pregia lo scrivente di prevenire fin d'ora il benemerito Signore D. Giovanni Bosco che alla fine dell'anno, verificandosi nel detto bilancio un qualche avanzo, su quello potrà essere decretato un assegno a favore della mentovata [775] Pia Casa, da ripetersi ancora per qualche anno avvenire, ove si avveri un risparmio sulle somme stanziate alla relativa categoria.

 

Pel Ministro

Il Segretario C. SALINO.

 

                Un'altra sua domanda era presentata al Ministro della Guerra, Fanti Cav. Manfredo luogotenente generale.

 

                               Eccellenza,

 

                Il Sac. Bosco Giovanni Direttore dell'Istituto di S. Francesco di Sales in Valdocco, ricorre rispettosamente all'Eccellenza Vostra per ottenere un sussidio di vestiario pei poveri giovanetti in questa casa ricoverati. Sono essi in numero di circa quattrocento e trovansi bisognosi di tutto, ma specialmente di ripararsi dal freddo nell'entrante invernale stagione.

                Qualunque oggetto di vestiario, coperte, lenzuola, camicie, tuniche, giubbetti, calzoni, scarpe, comunque siano logore e rotte, sono accolte colla massima gratitudine. Ogni cencio cucito con un altro serve tra noi a riparare dal freddo un povero giovane.

                Con questo favore V. E. porgerebbe anche aiuto ad alcuni giovani da questo Ministero inviati a questa casa, ed il ricorrente accetterebbe di buon grado altri giovani, ogni qualvolta gli venissero dall'Eccellenza Vostra raccomandati.

                Con pienezza di gratitudine e di speranza si professa

 

Umile ricorrente

1860. Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Il Ministro acconsentiva alla sua domanda.

 

                MINISTERO DELLA GUERRA.

Torino, addì 5 dicembre 1860.

 

                Direzione generale dell'Amministrazione militare N. 7818.

                Questo Ministero, penetrato dalla domanda da Lei avanzata perchè Le fosse somministrato sussidio di vestiario da provvedere [776] i poveri costi ricoverati, ha dato le opportune disposizioni al Magazzino delle merci, perchè Le vengano rilasciati gli effetti a margine segnati.

                Può Ella quindi darsi carico pel ritiro dei medesimi rilasciandone al sig. Direttore del Magazzino suddetto analoga ricevuta.

 

Pel Ministro

INCISA.

 

                Pantaloni di panno usati 304

                Farsetti di molettone 100

                Camicie di cotone 107

                Paja mezze calze lana 1000

                Paja scarpe 150

                Coperte lana fuori d'uso 140

                Coperte bigie usate 40] La ricevuta, con attestazione di riconoscenza, è firmata dal Sac. Alasonatti Prefetto.

                Ma oltre le vestimenta, era necessario provvedere il pane, che però giammai mancava ai giovani, perchè Dio li soccorreva anche in modo prodigioso.

                Il giovane Dalmazzo Francesco di anni 15 nativo di Cavour aveva fatti i suoi studii nel Collegio di Pinerolo e in quest'anno era stato promosso alla classe di Rettorica. “Quivi, egli stesso ci narrò, avendo letto i fascicoli delle Letture Cattoliche scritte da D. Bosco, domandai chi fosse questo prete e mi fu risposto da varie persone che era un Santo Sacerdote, il quale aveva fondato in Torino un ospizio per giovanetti. Io allora risolsi di lasciare il Collegio dove mi trovava per aggregarmi tra i figli di lui. Entrato come alunno nell'Oratorio il 22 ottobre del 1860, udii che da tutti i miei compagni si parlava di D. Bosco come di un santo e di lui si narravano fatti straordinarii e miracolosi. Tra gli altri il Ch. Ruffino Domenico mi raccontava come [777] D. Bosco avesse risuscitato un morto, giovane esterno dell'Oratorio festivo, per confessarlo; moltiplicate le sacre particole e le castagne; e come i giovani dell'Oratorio andati una volta alla Madonna di Campagna, condotti da lui, le campane al suo arrivo si muovessero a suonare senza opera d'uomo ecc. Ciò mi fece sempre più persuaso della santità di D. Bosco. Aggiungerò che questo concetto andò crescendo in me a misura che io lo avvicinava ed era spettatore delle sue virtù, e delle cose straordinarie che Dio operava per mezzo di lui. Basti il seguente fatto.

                Da pochi giorni era entrato nell'Oratorio, ma assuefatto in casa mia ad un vivere delicato, non poteva adattarmi al vitto troppo modesto della mensa comune ed alle abitudini dell'Istituto. Quindi scrissi a mia madre che venisse a ritirarmi, perchè voleva assolutamente ritornare a casa. Il mattino destinato per la partenza, desideravo prima di andarmene confessarmi ancora una volta da D. Bosco. Andai in coro ove egli confessava in mezzo ad una accolta di giovani, che lo circondavano da ogni parte. La meditazione si faceva in que' tempi prima di messa che soleva celebrarla D. Alasonatti. Dopo la S. Messa a ciascuno dei giovani veniva distribuito per colazione una pagnottella.

                Mentre io aspettava il turno per confessarmi, e in chiesa si leggevano i punti della meditazione, ecco giungere due garzoni, destinati alla distribuzione del pane, i quali dissero a D. Bosco: - Non si può dare la colazione ai giovani, perchè non abbiamo pane in casa.

                - E con questo? rispose D. Bosco: che cosa ci debbo fare io? Andate dal signor Magra nostro panettiere e fatevi dare l'occorrente.

                - Il sig. Magra non ci vuol più dare il pane. Non ne ha più mandato da ieri e non vuol più portarne e protesta che [778] se non vien pagato, non darà più nulla. Ed è uomo che promette e mantiene.

                - Ci penseremo, provvederemo, rispose D. Bosco.

                Io ascoltai questo dialogo fatto sottovoce e non so come venni preso da un certo presentimento di poter vedere cose straordinarie. I due giovani della cucina si ritirarono. Intanto venuta la mia volta io aveva incominciata la mia confessione. La messa era già all'elevazione ed uno dei due giovani sopraddetti, ritornò a D. Bosco ripetendogli: -La messa è già inoltrata che cosa daremo da mangiare ai giovani ?

                - Ma!.... Seccature che siete!.... Lasciatemi confessare e poi vedremo, disse D. Bosco, - E poi soggiunse: - Andate a cercare nella dispensa tutto quello che vi è, raccogliete anche quello che può essere sparso ne' refettorii.

                L'altro se ne andò ed io continuai la mia confessione, non dandomi grande fastidio che mi potesse mancare la colazione, poichè dopo pochi istanti intendeva partire per Cavour. Io aveva appena finito di confessarmi, quando ritornò per la terza volta il medesimo individuo, dicendo nuovamente a D. Bosco: - La messa è sul finire, e non c'è pane. Abbiamo raccolto tutto e sono poche le pagnottelle e non sufficienti al bisogno. - E sollecitava D. Bosco, che quietamente continuava a confessare, perchè volesse dare ordini in proposito. D. Bosco gli fece cenno che non s'inquietasse, e poi soggiunse: - Mettete le pagnotte che ancora rimangono nel canestro e a momenti verrò io stesso a distribuirle. Infatti confessato il fanciullo che stavagli inginocchiato al fianco, si alzò e avvicinossi alla porta per la quale i giovani uscivano dalla Chiesa nel cortile, e che aprivasi dopo l'altare della Madonna. Qui solevasi distribuire la colazione e innanzi alla soglia stava già il canestro [779] del pane. Io allora riandando nella mente i fatti miracolosi uditi sul conto di D. Bosco, e preso dalla curiosità, lo precedetti per andarmi a collocare in luogo conveniente da potere veder bene e considerare ogni cosa a mio agio. Uscendo incontrai la madre mia sulla porta, la quale invitata con lettera a portarsi prontamente in Torino, era venuta a prendermi per ricondurmi a casa: - Vieni, Francesco, mi disse.

                Io le feci segno di ritirarsi un momento, e soggiunsi:

                - Mamma; prima voglio vedere una cosa e poi vengo subito. - E la mamma si ritirò sotto i portici. - Io presi una pagnotta pel primo e intanto guardai nel cesto e vidi che conteneva una quindicina di pani od una ventina al più. Quindi mi collocai inosservato proprio dietro a D. Bosco, in luogo eminente, cioè sopra il gradino con tanto di occhi aperti. D. Bosco intanto si era accinto a fare la distribuzione del pane. I giovani gli sfilavano d'innanzi, contenti di riceverlo da lui e gli baciavano la mano, mentre a ciascheduno egli diceva una parola o dispensava un sorriso.

                Tutti gli alunni, circa quattrocento ricevettero il loro pane. Finita quella distribuzione io volli di bel nuovo esaminare la cesta del pane e con mia grande ammirazione, constatai essere rimasta nel canestro la stessa quantità di pane, quanta ve ne era prima, senza che fosse stato recato altro pane o mutato il cesto. Io restai sbalordito, e corsi diffilato presso a mia madre, la quale replicava: - Vieni! - Ed io senz'altro le risposi: - Non vengo più; non voglio più andar via; resto qui. Perdonatemi d'avervi recato, questo disturbo facendovi venire a Torino. - Quindi le raccontai quello che avevo veduto cogli stessi miei occhi, dicendole: - Non è possibile che io abbandoni una casa così benedetta da Dio ed un santo uomo come D. Bosco.

                E fu questa la sola cagione che mi indusse a restare [780] nell'Oratorio ed in seguito ad aggregarmi tra i suoi figliuoli”.

                Di un altra meraviglia fu testimonio il giovane Dalmazzo.

                Il 10 novembre 1861 accadeva nell'Oratorio una guarigione, della quale scrisse un esteso ragguaglio il Cavaliere Oreglia di Santo Stefano.

                “Erano poco più delle sei dopo mezzo dì, quando in tutta fretta una persona addetta al servizio della casa, venne ad avvertirmi che un giovane artigiano, di nome Davico Modesto, di professione calzolaio, era stato sopraffatto da repentino malore ed agitandosi e dibattendosi seduto sul letto, portatovi dai suoi compagni, non potevasi ottenere che si spogliasse e si coricasse. Mi recai tosto al letto del giovane e a dire il vero fui non poco sorpreso dalla stranezza dei sintomi che vedevo prodotti dal male. Perocchè ora erano grida sforzate ed intempestive, ora guaiti e lamentazioni prolungate, ora voci sconnesse e parole insignificanti che uscivano dal suo labbro, accompagnate da non pochi contorcimenti della persona, coi quali faceva resistenza ai circostanti che lo custodivano. Parve che per qualche istanti il male gli desse tregua, poichè invitandolo a coricarsi, si lasciò spogliare, sempre però lamentando un freddo straordinario, che sentiva ai fianchi e particolarmente alle estremità delle gambe. Coricatolo in un altro letto ben riscaldato e copertolo a più doppi, anzi postogli a poca distanza dai piedi uno scaldaletto, continuava pur tuttavia a lagnarsi ed a gridare quasi per incuria lo si lasciasse agghiacciare. Ma ben presto ricominciò e crebbe il suo vaneggiamento che più sempre crescendo, sfogava particolarmente con voci deliranti, mentre faceva varii tentativi per slanciarsi fuori del letto. Intanto il polso ci notava un grave sfinimento. Dagli astanti si andava studiando quale potesse essere il suo [781] male; altri il voleva prodotto dal non avere il giovane preso alcun cibo nella giornata, giudicando quindi che fossero convulsioni nervose; altri lo definiva effetto di vermini, incomodo solito della gioventù; chi supponeva una febbre maligna, chi un trasporto di sangue al capo. Io confesso che non ne capivo, e non saprei dire adesso quale fosse il suo male. L'infermo continuava a lagnarsi di grandissimo freddo, anche dopo che era passato ad una straordinaria e precipitosa traspirazione, e trovavasi tutto molle di sudore. Intanto chiedeva sempre con grande insistenza che gli si desse a bere acqua fredda, per togliersi un imbroglio che diceva sentirsi ora nello stomaco, ora nella gola. Ma i rimedi somministratigli a nulla giovavano. Erano trascorse due ore ed il malato continuava a peggiorare. Tutta la casa era commossa per questo accidente. Si credette allora cosa prudente nominargli il Superiore dell'Oratorio, quasi per rammentargli dolcemente il suo confessore e ciò ebbe il suo buono effetto, perchè Davico, appena udito il nome di D. Bosco, insistette anche in mezzo ai suoi continui dolori e lamenti perchè lo si chiamasse. Io intanto temendo della sua vita corsi in chiesa per avvertire qualche sacerdote che tenesse pronto l'olio santo; e mentre avvisavo D. Alasonatti, D. Bosco entrava in porteria verso le 8 di sera, ritornando dalla città. D. Alasonatti gli disse: - Se vuol vedere Davico ancor vivo, corra perchè è un miracolo se a quest'ora non è spirato. - D. Bosco sorrise e rispose: -Oh! no; Davico non parte ancora; non gli ho firmato il passaporto. - D. Bosco seguito da me, si recò allora presso l'infermo. In quella stanza tutti ì superiori e alcuni giovani stavano pregando. Sembrava che Davico avesse già il rantolo dell'agonia. D. Bosco si avvicina al letto, osserva per un istante il giovane in volto, vede la gravità del suo stato, e [782] poi gli parla all'orecchio sottovoce, sicchè nessuno intese. Quindi invita gli astanti a recitare un Pater, Ave e Gloria a Savio Domenico. Ognuno si pone in ginocchio. D. Bosco stende le mani sull'ammalato e lo benedice. Il giovane che allora allora spasimava ed era in delirio, subito siede sul letto, guarda all'intorno, quasi fosse rinvenuto da un lungo sonno, e tutto pace e gaiezza, esclamò: - Son guarito! E voltosi a D. Bosco gli chiese: - E ora che cosa debbo fare?

                - Levarti immediatamente e venir con me a cena! - rispose D. Bosco. D. Alasonatti voleva aiutarlo a vestire ma gli disse D. Bosco: - No, se vuol essere guarito, si alzi da per sè .

                I presenti gli fecero osservare come quel lasciare il letto, fosse pericoloso per la traspirazione ancora eccessiva.

                - Non importa, replica D. Bosco; alzati Davico: Savio Domenico non fa le grazie a metà; alzati e vieni meco a cena.-

                A queste parole di D. Bosco ognuno capì che egli col parlare sommessamente all'orecchio di Davico, altro non aveva inteso, che esortarlo a chiedere a Savio Domenico la sua guarigione. Io volevo aiutarlo a ripararsi bene dall'aria fredda, ma D. Bosco mi invitò a seguirlo, dicendo: - Lo lasci far da sè, che è capace a vestirsi.-

                Per maggior meraviglia, appena Davico scese dal letto, rigettò dallo stomaco ogni rimedio che eragli stato dato, cosicchè non si può ascrivere tale guarigione ad altro che all'intercessione del santo giovane Savio Domenico.

                Vestito che fu, tutti allegri, e benedicendo il Signore, scendemmo con lui in cortile dove gli alunni che avevano udito il caso erano accorsi per vederlo. Egli portava ancora in capo la bianca berretta da notte e discorreva e rideva [783] cogli altri. Entrato in refettorio si assise accanto a D. Bosco e cenò con buon appetito e poi ritornò a coricarsi. Il domani si alzò cogli altri ed è sano come prima. Deo gratias!” La relazione è firmata: Cav. Federico Oreglia di S. Stefano - Ch. Domenico Ruffino.

                Anche Dalmazzo Francesco, di questa guarigione improvvisa fece ampia testimonianza: e lo stesso Davico Modesto, divenuto sacerdote, e negli ultimi anni di sua vita, ci confermava questo racconto, attribuendo la conservazione della sua vita alla fede viva di D. Bosco.

                Tali fatti attiravano su D. Bosco la continua, riverente, ma sagace curiosità ed attenzione di tutti gli alunni, specie di quelli entrati nell'Oratorio da poco tempo; e non pochi mettevano in iscritto l'impressione in loro prodotta dalle cose più notevoli che scorgevano operarsi da lui. Lo stesso Dalmazzo Francesco sunominato era presente ad una solenne predizione che in questo mese aveva enunciata il servo di Dio.

                L'11 ottobre il Conte Camillo dì Cavour Presidente del Ministero aveva dichiarato nel Parlamento: - La nostra stella è di fare che la città eterna, sulla quale venti secoli hanno accumulato ogni genere di gloria diventi la splendida capitale del Regno italico. - D. Bosco vedeva con dolore che la rivoluzione non era ancor soddisfatta se non giungeva a togliere al Papa l'ultimo lembo dei suoi dominii, e poco tempo dopo una sera, non facendo alcuna illusione, disse che nell'anno venturo 1861 doveva morire un gran personaggío, un famoso diplomatico di morte inesplicabile, impreveduta; e che se ne sarebbe parlato in tutta l'Europa, come di un fatto gravissimo.

                Gli alunni cercarono indovinare chi fosse mai quel personaggio. Facevansi varii nomi e persino quello dell'Imperatore [784] di Francia che aveva il mondo nelle sue mani. Ma gli indicati erano in buona età ed umanamente parlando, potevano ancor vivere degli anni assai. Più volte D. Bosco fu interrogato, ma egli mantenne sempre un rigoroso segreto. Si capiva però in confuso che D. Bosco aveva parlato per incutere un salutare timore dei castighi di Dio.

                Nessuno pensava al Conte il quale benchè robusto e in età di 51 anno sul fine del 1860, incominciava a soffrire accessi sanguigni, che lo facevano talvolta uscire di sè e parlare a sproposito. Spossato dalle agitazioni politiche, dalle dure fatiche sopportate per la causa nazionale, era in preda ad un timore gravissimo per l'estrema difficoltà di dominare la rivoluzione da lui scatenata. Corse perfino voce che volesse abbandonare il ministero, ma riavutosi interamente, continuò a reggere le sorti dello Stato, usando ed abusando del suo potere.

                Dell'esito di questa predizione i più antichi della casa ne erano convinti.

                La Cronaca di D. Ruffino continua: “1 novembre. D. Bosco dopo cena era in reffettorio. Stavano intorno a lui Jarach, Costanzo, il Ch. Cagliero, Suttil ed altri. Tutti gli domandavano che cosa sarebbe stato di loro in avvenire. D. Bosco rispose: - Due di voi diventeranno molto cattivi e mi daranno grandi dispiaceri; altri saranno secolari, ma buoni cristiani; altri buoni preti. - E girando così la mano in alto sulle loro teste: - E uno di voi sarà Vescovo”.

 

 

CAPO LVIII. Note della Cronaca di D. Ruffino - Una reliquia di Savio Domenico guarisce gli occhi infermi d'un chierico - Consiglio agli artigiani di parlare italiano: la Madonna nelle sue novene toglie la zizzania dall'Oratorio: La morte viene quando meno si aspetta, e l'Angelo Custode - D. Bosco consola una famiglia affitta per la morte repentina del suo capo - La novena dell'Immacolata - Lo spirito di D. Bosco nel predicare e confessare in qualunque circostanza - Lettere al Teol. Appendino per una missione a Saluggia - Un ammonimento a chi trattava con poco riguardo i missionarii - Conferenza ai chierici sulla vocazione ed esortazione ad essere perseveranti in essa.

 

                Siccome gli argomenti che dobbiamo trattare in questo capo e nel seguente sono alquanto disparati, noi per ridurli ad una certa unità, seguiremo le note colle rispettive date, di alcuni fatti o parole di D. Bosco dei mesi di novembre e dicembre, come stanno nella cronaca di D. Ruffino. Aggiungeremo osservazioni spiegative, circostanze che furono ommesse a qualche avvenimento, parlate ai giovani, o relazione esposta da testimoni dei quali non si può dubitare. [786] Incominciamo coll'esporre una prova novella della protezione che Savio Domenico, accordava a que' suoi antichi compagni dell'Oratorio, che lo invocavano con fiducia. Il Sacerdote Salesiano Garino Prof. Giovanni scriveva, firmandola, la seguente relazione, che ci venne confermata dallo stesso D. Bosco.

                “Era l'anno 1860 ed io mi trovava affetto da un grave mal d'occhi e tale che più non poteva attendere allo studio. Al par di me soffrivano mal d'occhi alcuni miei compagni, i quali si misero in mano di valenti dottori, da cui vennero curati. Io pure avrei dovuto mettermi nelle mani dei medici, ma non seppi decidermi, sentendo dai miei compagni quanto in tali cure dovevano soffrire. Allora palesai il mio male a Don Bosco, il quale mi disse che la madre di Don Rua, la quale stava nell'Oratorio, conservava qualche pezza di seta nera con cui Savio Domenico soleva coprirsi gli occhi, quando li aveva infermi. Tosto chiesi alla detta signora se aveva tale pezza di seta, ed avutala andai a mettermi sul letto per riposare alquanto, mentre i miei compagni erano a scuola. Mi gettai così come era, sul letto come per dormire, ma prima mi posi ben applicata ad ambedue gli occhi la pezza di seta nera avuta dalla signora Rua. Contro ogni mia speranza presi subito sonno, e dormii saporitamente per circa due ore, cioè sinchè fui desto dalla campanella che indicava il fine della scuola. Appena svegliato mi levo la pezza di seta nera dagli occhi, e quindi me li lavo con acqua fresca. Da quel punto mi trovai guarito completamente e cogli occhi così sani, come nulla avessi dovuto soffrire. Tale grazia ottenuta così improvvisamente, io l'attribuii e l'attribuisco tuttora unicamente all'intercessione di Savio Domenico da me in tale circostanza invocato”.

                Ciò premesso veniamo alla Cronaca. [787] “27 novembre. - D. Bosco consigliò a tutti i giovani, anche artisti, di usare parlando, la lingua italiana. Intanto disse: - Siamo sul principiare la novena dell'Immacolata. Ogni novena è fatale nell'Oratorio per qualcheduno. È il tempo nel quale la Madonna fa la' cerna tra la zizzania e il grano ed allontana gli ostinati nel male. Ricordiamoci intanto che la morte viene quando meno ce lo aspettiamo. In Torino una Signora mentre sedeva al fuoco, intrattenendosi in piacevole conversazione co' suoi parenti, la fiamma si appiccò alla sua veste e per quanto si facessero sforzi per smorzarla non si potè  riuscire. L'infelice moriva in brevi istanti”.

                Non di rado egli narrava di queste morti improvvise, dimostrando la necessità di star preparati. Nello stesso tempo raccomandava una gran divozione all'Angelo Custode, perchè amando egli coloro che sono a lui affidati, spesso o con presentimenti interni, o con sogni o visioni, suole avvertirli della loro fine imminente. E raccontava di un giovanetto che avendo per rossore taciuto un peccato grave in confessione, nella notte seguente il suo Angelo Custode con una terribile visione gli aveva fatto conoscere che se egli non confessava quel peccato, il paradiso non era più per lui e se ne andrebbe eternamente perduto. Il giovane risvegliatosi corse tutto confuso ai piedi dei confessore, dichiarò quello che prima aveva taciuto, e pochi giorni dopo una morte repentina gli apriva le porte dell'eternità.

                D. Bosco però aggiungeva che la morte repentina non deve temersi da chi vive abitualmente in grazia di Dio; nè aver ragione di troppa ansietà chi avesse così perduto un parente od un amico che fu buon cristiano, e non potè  ricevere gli ultimi Sacramenti. Quindi ricordando l'ineffabile misericordia e bontà del Signore, sapeva arrecare consolazione alla famiglia di tale defunto. [788] Essendo morto quasi all'improvviso il conte M..., benefattore dell'Oratorio, i suoi figli addoloratissimi per tanta perdita, mandarono per averne conforto a chiamare Don Bosco, che veramente trovò la famiglia nella più grande desolazione. Appena entrato nella camera mortuaria, si vide tutti i parenti del defunto gettarglisi piangendo ai piedi, ed egli si contentò di dire: - E la vostra fede dov'è andata? - Per comprendere la forza di quelle parole, bisogna sapere che la vita del defunto era stata una continua preparazione alla morte, poichè egli faceva la Comunione quotidiana e si confessava ogni otto giorni. Immediatamente pertanto la calma prese luogo in quei cuori angustiati e la rassegnazione subentrò ai sentimenti disperati.

                “Il 28 novembre, scrive D. Ruffino, D. Bosco incominciava ad annunziare i fioretti per la novena di Maria SS. Immacolata. Furono li stessi già dati nel 1857; ma fra questi il primo raccomandava di far bene il segno di Santa Croce”.

                “La domenica 2 dicembre, mancando alla sera il Teologo Borel, cui è affidata la solita istruzione ai giovani nella chiesa, D. Bosco salì il pulpito ed improvvisò una commoventissima predica sulla necessità di darsi a Dio da giovani e svolse brevemente questi tre punti: che cioè aspettando, vi è pericolo che manchi il tempo, la volontà, o la grazia”.

                Egli era pronto in ogni momento, a predicare, a parlare all'improvviso in qualche radunanza, a tener conferenza a membri della Pia Società quasi sempre alle nove e mezzo di sera. Ma non la sola necessità constringevalo, nè la regolarità delle sacre funzioni, sibbene un attuale ardente affetto al Signore, pel quale il suo cuore non cessava di battere un istante. Ne dava prova colla facilità che aveva nel parlare di Lui in ogni circostanza anche per nulla opportuna. Basti il dire che accadde sovente, e in tutto il [789] tempo della sua vita, che i Sacerdoti della Casa, massime i superiori, andassero, non potendo in altro tempo a confessarsi da lui, nelle ore in cui stava occupato nella corrispondenza, o nel trattare di gravi negozi temporali, o dopo aver date lunghissime e noiose udienze, D. Bosco ascoltatane la confessione, suggeriva al penitente tali pensieri e con tale unzione che non avrebbe potuto fare di più se fosse ritornato allora allora dall'altare. “Ogni suo parlare era di Dio, affermava a noi D. Piscetta. Non mi sono mai accostato a lui che non abbia parlato del Signore e delle cose divine. E la stessa cosa mi assicurano, essere loro accaduto, molti de' miei confratelli. Per questa sua intima unione con Dio ei lavorava vivendo pienamente abbandonato alla bontà del suo Creatore e non lo distoglievano dalla costanza delle sue eroiche fatiche neppure una stanchezza opprimente e i suoi incomodi”. “Anzi, narra la cronaca, il 9 novembre, ci diceva: - Sono quindici anni che non ho recitato neppure una giaculatoria per la mia sanità corporale, che non ho presa alcuna medicina, che non sono mai stato un giorno a letto”.

                Infatti in questi giorni, benchè infermiccio, aveva preso impegno di andare a predicare in Saluggia, atteso con vivo desiderio dal prevosto D. Giovanni Fontana. Avvicinandosi però il momento di mantener la parola cadde in tale prostrazione di forze da non poter reggere al viaggio. Cercò allora qualche Sacerdote che accettasse di fare la sua parte e si rivolse al Teol. Appendini in Villastellone.

 

                               Carissimo sig. Teologo,

 

                Vediamo se può cavarmi da un imbroglio.

                Io dovrei andare a dettare gli Esercizi Spirituali a Saluggia (fare una meditazione al giorno) il giorno dell'Immacolata [790] Concezione; ma un'incomodo di salute m'impedisce di poter andare. Potrebbe Ella supplirmi? Buon paese, buon Parroco; e le scrivo col consiglio del Canonico Anglesio. Se mi scrive prontamente mi fa un vero favore e sarò più tranquillo.

                Tommasino sta bene e fa optime.

                Il Signore l'accompagni e mi creda sempre tutto suo

                Torino, 30 novembre 1860.

0bbl.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco.

 

                Nell'Oratorio dovettero compiacersi di questa risoluzione di D. Bosco, poichè allontanandosi egli da loro, specialmente nell'inverno rimanevano in apprensione per la sua sanità. Il freddo della stagione, e altri inevitabili inconvenienti, rendevano più gravi le fatiche del pulpito e del confessionale. Tanto più che egli di nulla si lamentava, nulla pretendeva benchè talora sempre faceto sapesse dare un avviso, quando una trascuranza di attenzione era volontaria e offendeva la carità.

                La Cronaca ci narra un episodio accaduto in questi anni. “D. Bosco nel mese di dicembre andava a predicare la missione in un villaggio sugli Appennini. Lunga e malagevole era stata la via, e giunse alla Canonica contrafatto dalla stanchezza e tutto inzuppato pel sudore e per la neve. Il Parroco era in chiesa, e la sua sorella fece a D. Bosco poco liete accoglienze e non gli offerse nè un po' di vino nè una scodella di brodo caldo. D. Bosco fece finta di non badare a quella scortesia; ma venuta la sera e sedendo dopo cena al fuoco per scaldarsi col parroco e colla sorella, incominciò a raccontare fatti che in parte movevano le risa e in parte colpivano la fantasia. Quella buona donna benchè di malo umore, era tutta orecchi, ed egli venne quindi a parlare delle missioni che aveva dettate in molti paesi [791] e accennava come fossero state castigate la fantesche che o per malignità, o per avarizia, o per antipatia avevano negato ai predicatori ciò che era necessario. A questa antifona la sorella del parroco abbassava gli occhi e diventava pensierosa. D. Bosco proseguiva dicendo che più di una volta coliche o altri mali violenti assalirono tali persone; e quella permalosa era divenuta pallida e tremava come se avesse la febbre. Venne l'ora di andare a dormire, e tutti si ritirarono nella propria camera, quand'ecco ad una certa ora della notte si odono grida strazianti nella stanza della sorella del parroco. Accorre la fantesca e trova quella poverina smaniante per non poter più reggere dai dolori: appena spuntò l'alba volle che senza indugio D. Bosco andasse a benedirla. E i suoi dolori cessarono, ma da quell'istante, prese a trattare lui e gli altri missionarii, che sopravvennero in suo aiuto, con tali premure e tanta generosità, che non potevasi desiderare di più”.

                “Il 3 dicembre, continua la Cronaca, D. Bosco radunò i chierici e tenne loro un breve ragionamento sulla vocazione e sul modo specialmente di dare segni di vocazione, cioè nel parlare, nel camminare, nell'assiduità e contegno in chiesa, nell'umiltà, carità e castità.

                Altra volta li aveva esortati alla perseveranza nella Pia Società e, svolti alcuni argomenti, esponeva il seguente fatto. Il famoso Liffardo, nato da nobile famiglia e fattosi religioso, per esercizio di umiltà gli fu dai superiori comandato di occuparsi negli uffizii più bassi del convento. Per alcuni anni Liffardo tenne questo posto dando un grande esempio di virtù. Ed ecco un giorno il maligno spirito lo tentò di superbia, rappresentandogli il vitupero che tornava alla sua illustre condizione, per essere egli addetto a così vil mestiere. La tentazione divenne tanto gagliarda, che il misero [792] monaco già risolvevasi a deporre l'abito religioso e a fuggir dal chiostro. Senonchè mentre tali pensieri l'agitavano, di notte tempo gli comparve il suo angelo custode in forma umana e gli disse: - Vieni e seguimi! - Ubbidì Liffardo e fu condotto ai sepolcri. Al primo avvanzarsi per quegli ambulacri paurosi, alla vista di quegli scheletri, alla puzza di quel fracidume, egli ne fu talmente preso da orrore, che chiese all'angelo la grazia di potersi ritirare. La celeste guida lo costrinse ad andare alquanto più oltre; poscia con voce autorevole voltosi a lui, rimproverandolo della sua incostanza: - Tu pure, gli disse, fra poco sarai un brulicame di vermi, un mucchio di cenere. Vedi dunque se ti può tornar conto di dar luogo alla superbia, voltando a Dio le spalle, per non voler tollerare un atto di umiliazione con cui puoi comprarti una corona di gloria eterna.-

                A tali rimproveri Liffardo si pose a piangere, domandò perdono del suo fallo e promise che sarebbe più fedele alla sua vocazione. L'angelo intanto ricondottolo nella sua stanza disparve, rimanendo quegli fermo ne' suoi sinceri proponimenti sino alla morte”.

 

 

CAPO LIX. Avviso ai giovani di non prendersi per mano - Cooperatori di D. Bosco nello scrivere e tradurre libri - Letture Cattoliche: BIOGRAFIA DEL SACERDOTE GIUSEPPE CAFASSO ESPOSTA IN DUE RAGIONAMENTI FUNEBRI - Studio della geografia dei paesi infedeli per zelo di convertirli - Rappresentazione drammatica - D. Bosco va a Saluggia: predica e confessa - Predizione e avveramento della morte di un chierico e di un giovanetto - Apparizione di un'anima del Purgatorio ad un principe incredulo - Lettera di un buon chierico da Giaveno - Fioretti per la novena del Santo Natale - Parlata di D. Bosco: intercessione di Savio Domenico: due alunni moriranno fra qualche mese: un nostro defunto ha bisogno di preghiere - Mons. Ghilardi predica nell'Oratorio - Stima dei Vescovi per D. Bosco Strenne di D. Bosco ai chierici: chiede ai giovani che ciascuno dia a lui per strenna una Comunione - Augurii ai benefattori - Risultati dell'educazione ricevuta dai giovani nell'Oratorio di Valdocco.

 

                Don Ruffino nella cronaca continuava ad esporre ciò che accadeva di più notevole.

                “Il 4 dicembre alla sera dopo le orazioni Don Bosco proibì ai giovani di toccarsi la mano, eccettuato il caso di una lunga assenza. Questa proibizione l'aveva già fatta due altre volte. [794]

                In questi giorni Turchi lavora per rispondere al programma scolastico: nozioni di antichità Romane. D. Rua si occupa per la Storia, D. Savio per la geografia”.

                Eziandio le persone estranee alla casa, ma conoscenti e d'ingegno che si avvicinavano a D. Bosco, erano da lui incaricate di qualche lavoro a gloria di Dio. Signori e signore lo coadiuvarono nella traduzione di opere sue o di altri in varie lingue. Ciò risulta pure dalla presente.

                Molto Reverendo Signore,

                Finalmente Le invio il libro che V. S. R. mi aveva lasciato da tradurre. Molto prima d'ora avrei voluto compiere il mio dovere, ma le tante disgrazie che mi hanno colpita in quest'anno mi hanno impedito d'occuparmene; spero ch'Ella conoscendo le mie circostanze, mi avrà perdonato questo prolungato ritardo.

                Se mi crederà capace di servirla in qualche altra cosa, mi comandi, chè mi reputerò sempre assai fortunata di servirla.

                Intanto preghi il buon Dio per me e mi creda sempre

                Della S. V. R.

                4 Dicembre 1860.

Um.ma e Dev.ma serva

CAROLINA GLORIA.

 

                Anche il venerando e dotto sacerdote Frassinetti Giuseppe, esimio suo collaboratore per le Letture Cattoliche, preparava l'edizione di due preziose operette: La gemma delle fanciulle cristiane, ossia la santa verginità, e: La missione delle fanciulle, racconti contemporanei.

                D. Bosco alla sua volta aveva ristampato il fascicolo, del suo elogio funebre di D. Cafasso letto nella chiesa dell'Oratorio; aggiungendovi quello da lui esposto nella chiesa di San Francesco d'Assisi. Era destinato per le Letture Cattoliche di novembre e dicembre e portava il titolo: Biografia del Sacerdote [795] Giuseppe Cafasso esposta in due ragionamenti funebri dal Sacerdote Bosco Giovanni. Gli argomenti della seconda orazione erano così divisi: - Principii del Sacerdote Cafasso. - Il Convitto ecclesiastico di S. Francesco. - Sue fatiche apostoliche nelle carceri. - Cose meravigliose di Don Cafasso. - Segreti di D. Cafasso per far molto bene. - Sua preziosa morte.

                In questi lavori, oltre la continua corrispondenza, non badava a stanchezza fisica o mentale. Una sera, afferma la Cronaca, dopo aver finito di scrivere, ad ora tardissima, si alzò dalla sedia, in preda ad una specie d'illusione, cagionata dal sangue alla testa. Alzati gli occhi sembrogli di vedere un chierico nell'angolo della stanza: - Chi sei? gli intimò. Nessuna risposta. - Parla, rispondi? - sempre silenzio.

                Egli allora si avanza e lo afferra….. Era il porta mantello col cappello sopra.

                Un altro studio avealo seriamente preoccupato in quest’anno. Col soccorso della storia delle missioni cattoliche, egli andava considerando le regioni che vivevano ancora nell'idolatria, e un giorno era uscito col Ch. Bonetti in queste parole: - Mi piacerebbe molto aver de' sacerdoti da mandare a portar la luce della fede a tanta povera gente tuttora barbara e selvaggia. - E questa brama egli manifestava soventissimo, fin dai primordi della sua Congregazione; e se avesse avuti dei mezzi avrebbe tosto iniziate quelle sacre Missioni.

                Riprendiamo la Cronaca.

                “Il 6 dicembre giovedì all'Oratorio ci fu teatro. Si recitò la commedia: Baldini. Vi assistette D. Bosco col Professore D. Picco Matteo”.

                A quando a quando D. Bosco rallegrava e distraeva i suoi alunni colle rappresentazioni drammatiche. D. Carlo [796] Gilardi Rosminiano, che aveva sempre amato il nostro Oratorio, lasciava scritte per esso due belle commedie: Il Passatore e il Gianetto, e la seconda fu recitata moltissime volte, perchè meritamente preferita dai giovani spettatori.

                Due giorni dopo, la festa dell'Immacolata Concezione riempiva di gioia l'Oratorio, e D. Bosco, sentendo alquanto ristorate le sue forze, decise di recarsi a Saluggia, ove con nuove istanze invitavalo il buon Prevosto. Vi giungeva poco prima che avesse termine quella missione. D. Cerruti Francesco che ve lo accompagnò così scrisse:

                “Nel dicembre del 1860 essendosi recato D. Bosco per due giorni a Saluggia in tempo che si dettavano gli esercizii spirituali, fu accolto con tanto giubilo dal popolo, che ancor molto tempo dopo ragionandosi di quegli esercizii, non potevasi non parlare di D. Bosco e del suo modo di predicare. - Rapiva chiunque, dicevasi, la grande amabilità e dolcezza colla quale confessava, accostando il capo del penitente al proprio petto, con singolare amorevolezza. Noi, attestano alcuni, facevamo il possibile per sbrigarci dai nostri affari, per correre al paese ad osservare in lui quell'aria di paradiso, che innamorava e la somma affabilità di modi, colla quale trattava chiunque gli si avvicinasse. Basti il dire che nei due soli giorni che egli passò in Saluggia, non fece quasi altro che confessare mattino e sera; tanti andavan da lui come tratti da una forza irresistibile; e molti vi furono che da varii anni non si erano più confessati”.

                In quel tempo due avvenimenti straordinarii avevano commosso gli alunni dell'Oratorio, che non dimenticavano le parole di D. Bosco.

                Abbiamo già sopra raccontato come nel mese di aprile D. Bosco annunciasse decisa l'andata in paradiso del chierico Luigi Castellano; e come nel luglio mentre questi era [797] infermo e disperato dai medici si recasse a benedirlo e lo guarisse. Ora il Ch. Ruffino narra nella sua cronaca del mese di Novembre: “In questi giorni morì in casa sua in Torino il Chierico Luigi Castellano”. E aggiunge: “Il 25 novembre D. Bosco annunzia che tra breve tempo deve morire un giovane. E poi: “Il 13 dicembre muore nell'Oratorio il giovane Racca Giovanni da Marene in età di anni 12, dopo otto giorni di letto e di malattia. Si era coricato per un semplice raffreddore.

                Ben di raro D. Bosco faceva notare ai giovani l'avveramento di tali predizioni, ma si contentava di raccomandare alle preghiere della Comunità le anime di que' cari defunti, provando quanto siano accette al Signore. In questa occasione ebbe a raccontare un bel fatto, che aveagli scritto in lingua francese la Duchessa di Laval-Montmorency, che noi riportiamo tradotto.

 

                “A Roma in un salone ove si radunavano a conversazione signori stranieri, i discorsi vennero ad aggirarsi sopra fenomeni di ordine spirituale: la doppia vista, i sogni profetici, le apparizioni dei defunti ecc.

                Ciascuno aveva la sua storia da raccontare; e la più interessante fu senza dubbio quella della contessa R.... polacca. Eccola tale e quale la raccontò.

                Sul principio del secolo XVII viveva in Polonia un Principe Lubomirski dell'antica ed illustre famiglia di questo nome. Gran signore, possessore di un'immensa fortuna, con paggi e una nobile corte per lui solo, la sua influenza estendevasi molto lungi e il suo nome era sulla bocca di tutti. Disgraziatamente gli mancava la fede. Tutti i suoi studii erano stati diretti contro la religione de' suoi padri, e all'epoca nella quale accadde il fatto che io racconterò, negava l'immortalità dell'anima con uno scritto destinato per la stampa. Questo formava la sua occupazione prediletta, impiegandovi tutte le sottigliezze dei sofismi più studiati per sostenere il suo paradosso, tutte le forze del suo genio [798] per distruggere una verità, che è la gloria e la consolazione dell'umana natura.

                Una bella sera d'estate stanco del suo lavoro, volle respirare aria libera. Due paggi lo seguivano. Ad una certa distanza dal suo castello, fece loro segno di aspettarlo e colmato s'inoltrò nella campagna. Nello svolto di un sentiero s'imbattè in una donna che piangeva, camminando dietro ad un piccolo carro tirato da un cavallo.

                - Mia buona donna, le disse, qual male v'incolse che piangete così desolatamente?

                - Signore, gli rispose quella, ho ben motivo di piangere. Questo carro porta alla sepoltura il mio povero marito, il quale era il mio solo appoggio e tutta la mia consolazione in questo mondo.

                Tocco da compassione il principe, mise le mano nella sua saccoccia e ne tirò fuori in copia monete d'oro, che regalò alla povera vedova: - Prendete, buona donna, prendete queste; e usando una frase comune che gli venne in bocca, aggiunse senza riflettere: - fate dire delle messe per il defunto.

                Qualche giorno dopo, essendo egli alla sera nel suo gabinetto di lavoro, alza gli occhi e vede innanzi a sè un uomo; non si era accorto che fosse entrato: -Olà! - gridò. Accorsero i servi dalla stanza vicina. - Perchè avete introdotto qui un uomo senza annunziarlo?

                - Chi mai, o Principe? Non è entrato alcuno; voi siete solo. - Infatti quell'uomo era scomparso.

                - Sarà, soggiunse Lubomirski, un'illusione de' miei occhi. I servi si ritirarono; ma un istante dopo lo stesso individuo è di bel nuovo davanti a lui. -Olà! - replicò il principe per la seconda volta. Ma scomparsa immediata dell'uomo; sbalordimento dei servitori che non sanno darsi ragione dell'allucinazione del padrone, se non attribuendola ad un riscaldamento di cervello cagionato dall'eccesso del lavoro. Quello spirito forte non credeva di essere un visionario e aveva rossore di sembrar tale.

                Mentre rifletteva a quella inesplicabile apparizione, questa si presentò a lui per la terza volta e siccome egli faceva atto di chiamar gente, - Non chiamare alcuno, gli disse il personaggio misterioso: ciò che ti ho da dire, non deve essere inteso che da [799] te solo: io sono il marito di quella povera vedova, alla quale tu hai donato il mezzo con che far dire delle messe per il riposo dell'anima mia. Grazie a questo soccorso io sono in paradiso, e in ricompensa della tua carità, ottenni dal Signore, di venirti a dire da parte sua che l'anima è immortale.

                A queste parole il principe preso il suo manoscritto lo stracciò in due parti, e sinceramente convertito, divenne un ardente difensore della fede, un luminare della Polonia per le sue virtù e per i dotti suoi scritti, fino a meritarsi il soprannome di Salomone del nord. Il manoscritto blasfemo stracciato per metà è conservato gelosamente dalla famiglia Lubomirski”.

 

                Il giorno 16 D. Bosco riceveva una lettera da Giaveno che gli faceva conoscere da quale spirito fosse animato uno dei chierici da lui posti a lavorare nel piccolo Seminario.

 

                               M.to Rev.do Signore. - Padre in Cristo Carissimo,

 

                Vivere e morire tutto per Gesù e Maria. Ecco l'unico mio desiderio, e fine per cui sono dirette tutte le mie azioni e preghiere. Vivere e morire nel servizio del Signore, provvedendo così all'eterna mia salute, ed ove il possa a quella de' miei fratelli, senza alcun risparmio di fatica e lavoro. Se per lo passato ebbi bisogno di conoscere e fare la volontà del Signore, mi è ora e mi sarà sempre di stretta necessità; e questa direzione che sempre e solo in lei trovai, con vive istanze la supplico a continuarmela.

                Nella novella Società di S. Francesco di Sales esistente in questa casa dell'Oratorio sembra che trovi pace e riposo il mio cuore. Ne ho già lette e meditate le regole ed a tutte mi sottometto, e spero di osservarle coll'aiuto del Signore. Ecco le suppliche di un figlio affezionato, che implora di essere ammesso ed annoverato tra i fratelli di detta Società se Ella crede bene, e se pure son degno di tanto favore. Degno pe' miei meriti nol sono certamente, e tale mi conosco, ma posso esserlo per sua grande bontà e carità. Non ricusi adunque di esaudire le preghiere di chi fa un sacrifizio al Signore di tutto se stesso, offrendolo per mezzo suo nell'atto che consegna la sua volontà nelle sue mani. [800] Debbo dunque sperare che fra non molto la Società di San Francesco di Sales avrà un nuovo confratello, zelante per la propria e per l'altrui salute, il servo dei servi? Comandi, o padre, e sarò pronto a' suoi cenni. Mi dica che cosa io debba fare e come io abbia a regolarmi, che già fin d'ora tutto io dipendo da Lei.

                Colla fiducia che sarà esaudita la mia dimanda, umilmente Le porgo i miei rispetti, e nell'atto che Le bacio la mano, con sensi della più alta stima ad affetto mi professo

                Giaveno, li 15 Dicembre 1860.

Suo Ubb.mo figlio in G. C.

BOGGERO GIOVANNI.

 

                Questa lettera e molte altre simili che sul finire dell'anno gli scrivevano gli amati suoi chierici, consolavano D. Bosco mentre egli, con fioretto da lui dato per ogni giorno della novena, disponeva i suoi figli alla commovente solennità del Santo Natale.

 

                “1° Ubbidienza pronta in ogni cosa, piacevole o non piacevole.

                2° Umiltà: negli abiti, nei capelli, nel discorrere, nell'ubbidire, nelle cose spiacevoli.

                3° Carità: sopportare i difetti altrui e procurare di non offendere alcuno.

                4° Carità: consolare gli afflitti, prestar servizio e far del bene a chi si può; del male a nessuno.

                5° Carità: avvisare i negligenti, correggere con bontà. chi dicesse o proponesse cose cattive.

                6° Carità: perdonare ai nemici e dar loro buoni consigli, se si presenta l'occasione.

                7° Fuga di chi parla male.

                8° Fuga dell'ozio e diligenza nell'adempimento dei proprii doveri. [801]

                9° Confessione come se fosse l'ultima della vita.

                Giorno della festa - Devota Comunione con promessa di frequentarla”.

 

                Scrive D. Ruffino: “La vigilia del Santo Natale, Don Bosco narrava ai giovani il seguente fatto. La nipote del parroco di Saluggia testificò che da molti anni era tormentata da grave male di denti, i quali le erano caduti, rimanendo le gengive sempre aperte. Si raccomandò a Savio Domenico ed in breve si stagnò il sangue che usciva dalle gengive e cessò ogni dolore. - Quindi disse cosa di grave importanza: - Vi sono tra di noi alunni, che fra pochi mesi non vi saranno più... Ve n'è uno... e costui non ci pensa. Noi procureremo di fargli un po' di fardello prima che se ne vada. Vi dirò ancora che Castellano è in paradiso, ma Racca ha molto bisogno delle nostre preghiere”.

                Abbiamo osservato nelle tavole necrologiche dell'Oratorio e trovammo che nel mese di aprile 1861 morirono due giovani, ed uno di questi quasi repentinamente.

                Come si festeggiasse la nascita di Gesù bambino lo scrisse D. Bosco alla Contessa di Camburzano che svernava a Nizza di mare.

 

                               Benemerita Signora,

 

                Ho ricevuto la venerata di Lei lettera piena di cristiani sentimenti, che per me servono ad infondere fede e coraggio nel povero animo mio ed in quello de' miei giovanetti.

                Ho pregato e ho fatto pregare secondo la intenzione del signor Marchese Massoni. La sua deliberazione è buona in sè; ma accompagnata da spinosissime circostanze. Faccia così: esamini se egli conosce in ciò il bene dell'anima, e la gloria di Dio. Se gli pare di sì, compia il divisamento; se di no, ne sospenda l'esecuzione. [802] Noi abbiamo fatto la nostra festa di Natale con grande consolazione. A mezzanotte furono celebrate tre messe, la prima cantata da un centinaio dei nostri giovanetti. Fu pure fatta la santa Comunione dei giovani interni ed esterni in numero di oltre seicento. La funzione compievasi alle due.

                Gesù ricco di grazie ricolmi de' suoi doni Lei e il Sig. Conte Vittorio e tutta la famiglia ed amici, mentre con pienezza di stima mi professo

                Di V. S. B.

                Torino, 26 Dicembre 1860.

Obb.mo Servitore

Sac. GIOVANNI BOSCO.

 

                “Il 28 dicembre, dice la cronaca, dopo pranzo venne inaspettato all'Oratorio Mons. Ghilardi, Vescovo di Mondovì. Si offerse a predicare e a dare la benedizione. La sua predica si aggirò sull'utilità e sulla preziosità della fede. Dedusse la preziosità dalla rarità, considerando gli ottocento milioni di uomini che non l'hanno, in confronto dei soli duecento milioni che la posseggono fra i quali abbiamo la fortuna di essere annoverati. Promise di venire giovedì a dirci la Santa Messa”.

                Sovente venivano Vescovi o Prelati nell'Oratorio a celebrare la messa della Comunità invitati da D. Bosco. Oltre a quelli che abbiamo già nominati nel corso delle nostre Memorie, D. Garino Giovanni ricorda il Teologo Ighina Andrea Canonico nella Cattedrale di Mondovì, Mons. Oreglia di S. Stefano, ora Cardinale, di passaggio in Torino mentre andava internunzio all'Aia in Olanda, e Mons. Sola Giovanni Pietro Vescovo di Nizza Marittima. Avevano in gran concetto le virtù del Servo di Dio. Testificò il Can. Anfossi: “Io ancora chierico fui mandato da D. Bosco per missioni particolari da parecchi Vescovi. In quelle occasioni io stesso [803] rimaneva meravigliato delle espressioni di grande stima che udiva, riguardanti la santità e le opere del servo di Dio. Ricordo Mons. d'Angermes Arcivescovo di Vercelli, che mi accolse con particolari dimostrazioni d'affetto, non rifinendo di parlare di D. Bosco alla presenza di parecchi Canonici, per il gran bene che faceva alla gioventù e principalmente nel moltiplicare le vocazioni ecclesiastiche. Monsignor Losanna Vescovo di Biella, mio insigne benefattore, aveva incominciato a stimare grandemente D. Bosco fino dai primordi della sua Istituzione e conosceva a fondo il bene che egli faceva alla gioventù abbandonata cogli oratorii festivi. Ed ogni qualvolta Monsignore veniva a Torino, o invitava D. Bosco presso di sè, od egli stesso veniva all'Oratorio ad intrattenersi con lui. Tralascio di riferire altre testimonianze di venerazione che furono date a D. Bosco da molti altri Vescovi di cui io sono stato testimonio”.

                Riprendiamo la Cronaca. D. Bosco sul finir dell'anno dava a voce o in scritto le sue strenne al chierici e a qualche giovane de' più adulti. Ci fu dato di ritrovarne alcune in lingua latina:

                Pone finem in voluntate peccandi et invenies Mariam. - Frustra quaerit qui cum Maria invenire non quaerit. - Plus Maria desiderat facere tibi bonum, et largiri gratiam, quam tu accipere concupiscas. - Scire et cognoscere le Virgo Dei Para est via immortalitatis: narrare virtutes tuas est via salutis. “D. Bosco, scrisse D. Ruffino, diede a me questa strenna il 29 dicembre: Adiuva me in lucro animarum; ed io diedi a lui tutta la chiave del mio cuore con aria totale confidenza in lui.

                Il 30 dicembre D. Bosco domandò a tutti i giovani che dessero a lui per strenna una comunione ciascuno, fatta secondo la sua intenzione”. [804] Nè si dimenticava degli augurii pel buon capo d'anno ai benefattori, nello scrivere ai quali lavorava per un mese intero. Ci resta una di tali lettere indirizzata al Signor Conte Pio Galleani d'Agliano.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                I Sacerdoti, Chierici e giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales augurano all'insigne loro benefattore il Sig. Conte Pio d'Agliano buon fine e buon capo d'anno e pregano il Signore a voler spandere copiose celesti benedizioni sopra di lui e sopra tutta la venerata famiglia.

                Con sentimenti della più sincera gratitudine a nome di tutti si professa rispettosamente

                Torino, ultimo del 1860.

Obbl. Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Il 31 dicembre il numero dei giovani esistenti nella casa ascendeva a circa 470. Il campo di D. Bosco si estendeva biondeggiando sempre di nuove spighe; ed egli, non facendo menzione di quelli che intraprendevano la carriera ecclesiastica, colle parole seguenti notava i risultati ottenuti da lui fra i giovani nei primi anni, fino al 1860.

                “Per riconoscere i risultati ottenuti da queste scuole, oratorii o da questo ricovero bisogna dividere in tre classi gli allievi: discoli, dissipati, buoni. I buoni si conservano e progrediscono nel bene in modo meraviglioso. I dissipati, cioè quelli abituati già a girovagare e a lavorar poco, si riducono anche a buona riuscita coll'arte, coll'assistenza e coll'occupazione. I discoli poi danno molto da fare. Se si può ad essi far prendere un po' di gusto al lavoro per lo più sono guadagnati. Coi mezzi accennati si ottennero alcuni risultati che si possono esprimere così: [805]

                1° Che non diventano peggiori.

                2° Molti si riducono a far senno, quindi a guadagnarsi il pane onestamente.

                3° Quelli stessi che sotto la vigilanza si manifestano insensibili, col tempo lasciano che i buoni principii acquistati giungano più tardi a produrre il loro effetto.

                Per la qual cosa in ogni anno si è riusciti di collocare più centinaia di giovanetti presso a buoni padroni da cui appresero un mestiere. Molti si restituirono alle loro famiglie da cui erano fuggiti, ed ora si mostrano più docili ed ubbidienti. Non pochi poi furono collocati a servire in oneste famiglie.

                L'uscita e l'entrata dei giovani nella casa di quest'Oratorio è circa di 300 all'anno. Parecchi di essi sono accolti nella musica della guardia nazionale, o nella musica militare; altri continuano il mestiere appreso nello stabilimento: in numero anche ragguardevole si danno all'insegnamento, e subiti i loro regolari esami rimangono qui in casa o vanno in qualità di maestri nei paesi dove sono richiesti”.

 

 

CAPO LX. Il Galantuomo - Spiegazione delle profezie stampate l’anno scorso su questo almanacco - Accenno sugli avvenimenti futuri - Predizioni della Monaca di Taggia.

 

                L’ultimo lavoro di Speirani per D. Bosco in questo anno fu l'almanacco che portava il titolo: - Il Galantuomo, almanacco Piemontese-Lombardo per l'anno 1861. Importante era la prefazione.

                Il Galantuomo al suoi amici. Le profezie dell'anno scorso 1860.

                Voi, o cari amici, nel decorso del 1860 stavate attenti se le mie profezie avevano il loro compimento, forse per darmi il nome di buono o cattivo almanacco. Anzi parecchi di voi mi hanno con impazienza dimandati schiarimenti in proposito. E voi aveste ragione; perciocchè dicendo una parola, un galantuomo dev'essere sicuro di mantenerla. Ora io credo di soddisfarvi tutti, dando qui un cenno sul modo con cui si compirono le profezie dell'anno scorso, aggiungendo poi alcune cose riguardanti ai fatti del 1861.

                Debbo solo notare le parole con cui l'altro anno, annunziava tali profezie, vale a dire che dovevano cominciare in questo anno, 1860, avendo poi il perfetto loro avveramento negli anni consecutivi. Ciò posto, eccomi a voi.

                L'anno scorso dicevo: in questo anno avremo un'altra guerra, la quale se non farà spargere tanto sangue, come quella del 1859, manderà però maggior numero di anime all'inferno. Le vicende [807] compiutesi nel 1860 sono un letterale e tristo avveramento di tali parole.

                Avremo due malattie terribili, di cui vedrete i terribili effetti: queste due malattie sono l'indifferentismo nelle cose di religione e il progresso del Protestantesimo. Chi considera a qual punto sia giunto il disprezzo verso le cose di religione, verso i sacri ministri, verso i Vescovi, verso i Cardinali, verso il Papa, confesserà certamente che gli effetti di queste due malattie sono terribilissimi.

                Due cospicui personaggi scompariranno dalla faccia del mondo politico: questi due personaggi sono il gran Duca di Toscana e il Duca di Modena, i quali per la annessione fatta nel mese di marzo dei loro Stati al Piemonte, sono considerati come non più esistenti nel mondo politico.

                Molti padri e madri piangeranno i disgusti dati dai loro figliuoli, e piangeranno le discordie cagionale in famiglia. Risposta. - Trentamila e più di volontarii andati con Garibaldi, il richiamo sotto le armi di tutti quelli che sono dai venti ai trenta anni, due leve militari fatte in due mesi, parlano da sè e mi dispensano da ulteriore spiegazione.

                Vedrete il vino a miglior prezzo, ma il pane più caro. Risposta. - Il vino cioè il sangue umano sarà sparso a buon mercato; alcuni dicono che si avvicinano a centomila gli Italiani morti o feriti in campo di battaglia; costoro morendo fanno venire caro il pane che è il corpo umano; perchè ora gli uomini sono ormai più ricercati sia pel servizio militare, sia per altri lavori della vita. La spesa per un supplente militare costa quattro volte più di quanto costava, quando le cose pubbliche erano nello stato normale.

                Parecchi paesi saranno desolati dalla grandine. Risposta. - Oltre ai molti guasti fatti in più luoghi dalla grandine, avvi il famoso temporale che devastò le campagne in modo spaventoso da Moncalieri fino a Casale; un altro da Milano fino a Brescia.

                Un paese sarà rovinato dal terremoto, altri desolati dal gelo e dalla siccità.

                Questo è per l'anno venturo.

                Non pensatevi però che questa sia l'intera spiegazione delle mie profezie; ma a me non conviene fare altri commenti. Forse [808] taluno riderà e delle profezie e della spiegazione delle medesime; ed io sono contento che il mio almanacco abbia servito a far ridere un mio amico. Per me però vi dico che tanto le profezie, quanto la spiegazione, son un motivo di pianto.

 

Presentimenti sull'anno 1861.

 

                Non mi conviene dire molte cose sull'anno 1861. Quanto dirò sarà breve, ma chiaro e positivo. Nel decorso di quest'anno ci saranno avvenimenti tali, che il mondo sarà stupefatto. Ma i buoni si consoleranno, perchè dopo una spaventevole catastrofe di fatti, si cesserà dallo spargimento di sangue e comincerà l'era della pace. I malevoli poi alla vista di avvenimenti inaspettati, e così contrarii alle mire umane, rimarranno sbalorditi, saranno costretti a confessare: digitus Dei est hic; quivi è il dito di Dio. A queste parole voi, o cari amici, vorreste farmi molte domande, ed io di leggieri comprendo quali possano essere: ma io ho un lucchetto che mi chiude la bocca e mi fa tacere.

                Per darvi tuttavia una qualche soddisfazione ed appagare il vostro gran desiderio dì sapere le cose future, vi esporrò qui le famose predizioni della Monaca di Taggia. Io le trascrivo come esistevano e furono stampate nell'anno 1849.

 

Predizioni di Suor Rosa Colomba Asdente

Monaca Domenicana di Taggia,

 

                (Ivi morta nel monastero di Santa Catterina lì 6 giugno 1847. Estratto della relazione che venne depositata nella curia vescovile di Ventimiglia, e copiata sopra un fedele esemplare in febbraio 1850).

                Questa buona religiosa nel corso di sua lunga vita seppe si bene nascondere la sua virtù sotto l'apparenza d'una semi - pazzia, che da essa non traspariva alcun che di straordinario. Vedevasi la sua esattezza nello adempimento di tutti i doveri, il suo spirito di orazione, le sue lacrime, le sue mortificazioni; ma perchè accompagnava molte delle suddette opere con alquante stranezze, non se ne facea caso e serviva quasi di trastullo alle altre religiose.

                Vivendo ancora monsignor Maggioli, predisse al P. Angelo Dania, Domenicano, che egli sarebbe stato fatto Vescovo d'Albenga [809] e che farebbe risaltare l'innocenza di certo canonico Cairaschi, ingiustamente accusato. Il che è avvenuto pienamente, ed il P. Dania, divenuto Vescovo, ne fece attestato in presenza delle monache, come riferisce Suor Rosa Luigia, che trovavasi allora presente, e molte altre suore attestano di aver sentito raccontare il fatto dalle più anziane.

                Predisse adunque che a Gregorio XVI doveva succedere un Papa Pio di nome, di natura e di costumi; il quale avrebbe dovuto perdere il trono, ma che però l'avrebbe riacquistato per mezzo di Napoleone. Tale predizione venne attestata con giuramento da molte persone che la udirono ripetere più volte, ed in ispecie dall'avvocato Filippo Ghu di Taggia, procuratore del monastero, il quale bene spesso scherzando diceva a Suor Rosa: - Ebbene presto vedremo risuscitare Napoleone? - Voi, essa rispondea, non sapete nulla: eppure vedrete il Papa rimesso da Napoleone in trono. Vedete quella stella? - ripeteva spesso alle monache indicando l'espero, - essa mi rammenta la splendente croce che il Papa per gratitudine darà a Napoleone, dopo che l'avrà ristabilito nel suo diritto.

                Monsignor Dealbertis, già vescovo di Ventimiglia, quando Pio IX fuggì da Roma, scrisse che avrebbe creduto alle profezie di Suor Rosa, quando avesse veduto il Papa rimesso in trono da Napoleone.

                “Povero Luigi Filippo! (ripeteva sovente). Esso fuggirà dalla Francia ed andrà a morire esule in Inghilterra. Usciranno molte bandiere tricolori colla bandiera del Papa, e costringeranno li sacerdoti a benedirle; questo sarà il segnale della guerra che succederà poco dopo; il re di Piemonte Carlo Alberto, accorrerà il primo a combattere e sarà vinto e costretto a fuggire in esilio; morirà ai confini della Spagna; a cui succederà il giovine suo figliuolo primogenito ecc. ecc.”

                E dopo aver detto più sopra; parlando di Napoleone: “Il regno di Napoleone durerà poco” essa prosegue: “Si solleverà una grande persecuzione contro la Chiesa, la quale sarà opera degli stessi suoi figli; uscirà un persecutore (che chiamava anticristo, e diceva essere già nato); questi s'intitolerà il redentore d'Italia, a cui si uniranno molti settari, che perseguiteranno la Chiesa con false massime e con la forza, e saranno di malizia così sopraffina, che inganneranno anche molti dei buoni con la loro astuzia”.

                Diceva inoltre: “Il Sommo Pontefice verrà spogliato del [810] dominio temporale, e chiamato solamente Vescovo di Roma. Questo avverrà in Italia, dove vi saranno molti martiri durante una guerra sanguinosissima mossa alla religione.”

                E parlando poi localmente di Taggia, soggiunse: “Tutte le religiose non persevereranno; ma quelle che resteranno ferme, saranno crocifisse sul monte Oliveto (sito così chiamato nel recinto del Chiostro) insieme con molte altre persone che si rifugieranno nel monastero. I confessori di Cristo in questi frangenti saranno confortati da pii e dotti sacerdoti, singolarmente dell'ordine di San Domenico”.

                Parlando quindi in generale, di nuovo dice: “Alcuni vescovi defezioneranno dalla fede, ma molti altri resteranno fermi e soffriranno assai per la Chiesa; e l'Inghilterra ritornerà all'unità”.

                Diceva parimenti più sopra, che “i Russi saranno ammoniti dal Pontefice e diverranno più umani verso i cattolici (difatto Gregorio XVI diè un solenne ammonimento all'imperatore Nicolò, rimproverandolo di sua persecuzione contro dei cattolici, la quale d'allora in poi mitigò d'assai) e che in fine i Turchi verranno alla fede.” (Quattro milioni e mezzo di Bulgari, che sono sudditi turchi vennero alla fede cattolica nel novembre di quest'anno 1860).

                Predicava pure frequentemente (così la relazione) che: “non solo ai religiosi, ma anche ai buoni secolari saranno confiscati i beni; che molti nobili saranno incarcerati, e dominerà uno spirito di vertigine democratica; vi sarà grande sconvolgimento in Europa, e non ritornerà la pace finchè  sia restituito il fiore bianco ossia il giglio dei discendenti di San Luigi sul trono di Francia; il che succederà. La Chiesa purgata nelle persecuzioni, risorgerà più bella: verranno diminuiti di numero i fedeli, ma saranno più fervorosi di prima”.

                Aggiungeva che “i Russi ed i Prussiani verranno a portare la guerra in Italia; che ridurranno le chiese in iscuderie; e saranno alloggiati i cavalli nella nuova chiesa del monastero di Taggia”. Di questa se ne cominciava allora la fabbricazione; ed in proposito di questa chiesa, ella, per li summentovati motivi, non volle mai dare il suo voto favorevole: e quando la religiosa famiglia decise di costruirla, essa disse: che non sarebbe mai andata in quella a sentire la messa; il che si verificò, essendo morta pochi giorni prima che la medesima venisse benedetta. [811] Nella suddetta relazione si legge: “diceva che la persecuzione comincierà colla soppressione dei Gesuiti, i quali risorgeranno un'altra volta, e saranno di nuovo soppressi per non mai più risorgere; che infine, eccitata una fiera tempesta contro la Chiesa, non vi saranno più che due ordini religiosi, cioè i Cappuccini ed i Domenicani insieme cogli Ospitalieri, i quali alloggeranno i pellegrini, che verranno a visitare i martiri uccisi in Italia nel tempo della persecuzione”.

                E verso il fine si legge: la guerra che prediceva futura l'annunziava con espressioni molto energiche, dicendo: che succederà una grande confusione di genti contro genti, con istrepiti d'armi e di tamburi; aggiungeva soprastare grandi mali all'Italia, che spesso compiangeva indicando che le sue parole riguardavano specialmente questa nazione; che l'Austria, la Russia e la Prussia si sarebbero collegate contro i ribelli e che quest'ultima si sottometterebbe alla Chiesa.

                Annunziando la sua morte diceva: “che essa sarebbe prima divenuta consunta e quasi trasparente, a guisa di uno scheletro, e che sarebbe morta nell'atto che i frati domenicani farebbero la processione del SS. Sacramento nella domenica fra l'ottava del Corpus Domini”. Il che si avverò minutamente.

                Diceva spesso piangendo, che molti peccati inondavano la terra, e mali spaventosi sovrastano all'Italia; che non poteva stare allegra e di buon animo; che se le religiose avessero penetrato quello che essa sapeva, sarebbero state egualmenti dolenti”.

                Si sa da altre persone informate di tutte le sue predizioni[24] che diceva sovente, che nella persecuzione contro la Chiesa (di cui sopra) i preti e i frati sarebbero stati squartati come buoi[25] e che molto sangue di costoro avrebbero bagnato la terra specialmente d'Italia.

 

 

CAPO LXI. 1861 -Suo principio - Numero degli ascritti alla Pia Società -Buona condotta dei giovani - Sante industrie - Cacciatori e pescatori di anime - Il buon esempio di D. Bosco - Il sogno delle coscienze: D. Cafasso, Silvio Pellico e il Conte Cays: i conti in cifre presentati dai giovani: spettacolo doloroso: una splendida mensa: la strenna generale - Riflessioni intorno al sogno.

 

                Gli ascritti alla Pia Società di S. Francesco di Sales sul principio dell'anno 1861 erano 26 ai quali si era aggiunto il Cav. Oreglia Federico di Santo Stefano. Fra questi i sacerdoti erano quattro. Due preti e altri chierici di varie diocesi erano nell'Oratorio, ma non appartenevano alla Congregazione. Questo anno spuntava sotto buoni auspici per gli alunni di D. Bosco. Così scrisse D. Bonetti Giovanni nei suoi Cinque lustri dell'Oratorio Salesiano.

                “Frequentatissimi erano gli Oratorii festivi nei tre punti principali della città, gremito di giovani il nostro Ospizio in Valdocco, e la pietà e moralità fiorente. Eranvi poi dei giovanetti, artigiani e studenti, cotanto virtuosi, che ritraevano la vita di Domenico Savio, e rinnovavano presso di noi le opere meravigliose ed anche soprannaturali di quell'angelico nostro compagno ed amico. I giovani si amavano come altrettanti fratelli; non risse erano tra loro, non discordie, non dissapori; ma tutti formavano [813] come un cuor solo ed un'anima sola, per amare Iddio e consolare D. Bosco.

                Era sì grande in tutti l'impegno di tenere una buona condotta morale e religiosa, che alla fine della settimana, quando leggevansi pubblicamente i voti da ognuno riportati dai proprii maestri ed assistenti, accadeva raramente di udire un nove, poichè tutti meritavano dieci, vale a dire niuno dava motivo al più lieve lamento nè per la pietà, nè per lo studio, nè per la scuola, nè pel dormitorio, nè per la ricreazione, e via dicendo. Il nove, ossia il suffragio indicante una condotta solamente quasi ottima, era in tanta disistima, che quando un giovane allievo, più per leggerezza che per cattiveria, lo aveva ricevuto, ne piangeva dirottamente, e per ordinario nol riceveva più in tutto l'anno.

                A questa emulazione e a questo invidiabile stato di cose, influirono, è vero, varii fatti straordinarii, dei quali parlerà il biografo di D. Bosco, ma vi ebbero pure gran parte lo zelo e le industrie sue e dei suoi aiutanti. Generalmente dopo pranzo e dopo cena D. Bosco trovavasi in ricreazione tra noi. Ora in piedi ed ora seduto sopra una tavola od anche sul nudo terreno, circondato sempre da larga corona di giovani, egli ci deliziava raccontandoci fatti ameni ed esempi edificanti. Talvolta volgeva una parola di incoraggiamento a questo, che ne sapeva abbisognare, tal'altra ne diceva in confidenza una nell'orecchio a quello; onde mutandosi ogni ora intorno a lui i giovani, e succedendosi gli uni agli altri nel piacere di stargli vicini, avveniva che tutti o quasi tutti in pochi giorni ricevevano, come pulcini dall'amorevole chioccia, una imbeccata, che loro dava o conservava la vita. Altre fiate faceva chiamare a sè o andava egli stesso in cerca di taluno, che conosceva più o meno bisognoso di essere scosso al bene o allontanato dal male, e a quattr'occhi e con una bontà inarrivabile, dicevagli alcune parole, che nell'animo suo facevano più effetto che non una muta di spirituali esercizi.

                E siccome dopo le orazioni della sera e finito il breve sermoncino, i giovani si pressavano a lui d'intorno per augurargli la buona notte od esporgli un dubbio e chiedergli un consiglio, così egli coglieva premurosamente il destro, e diceva a questo e a quell'altro una parola confidenziale, che veniva custodita come un tesoro e praticata con molta fedeltà. Queste ed altre [814] consimili industrie Don Bosco avevale introdotte fin dai primi anni dell'Oratorio, ma esperimentando i salutari effetti che producevano, prese ad usarle in quell'anno con più frequenza, e perciò con immenso nostro vantaggio.

                Don Alasonatti prefetto della casa e nostro secondo padre, non avendo come D. Bosco il dono della parola, attendeva in altra guisa al benessere dei giovani. Egli invigilava che non si introducessero abusi tra noi, toglieva sopra di sè l'uffizio di fare rimproveri o minacce, ed anche d'imporre lievi castighi, e con ciò suppliva all'efficacia dei mezzi più blandi e di persuasione, quando questi con alcuni indocili e caparbi non riuscivano ad ottenere l'intento. Egli per altro esercitava questa parte di disciplina con tanta carità, calma e discrezione, da farsi temere, ma non odiare, perchè all'amaro mesceva il dolce, alla fortezza univa la mansuetudine, al giudizio e al castigo sposava la misericordia e la benevolenza. Anzitutto esaminava attentamente e prudentemente la cosa, faceva discorrere il colpevole, e dove occorreva l'avviso non usava il rimprovero, e quando questo bastava non veniva nè alla minaccia, nè al castigo, seguendo fedelmente la regola data da Dio medesimo con queste parole: Pro mensura peccati erit et plagarum modus: “La quantità del castigo sarà secondo la misura della colpa.” In tutti i casi poi egli dava sempre a divedere che non operava per astio, ma per amore, non per capriccio e risentimento, ma per dovere e pel desiderio di giovare al colpevole.

                Ma alla condotta e savia educazone dei giovani lavoravano pure in ricreazione altri ausiliari di Don Bosco; e questi erano i chierici, i maestri, i capi d'arte, gli assistenti, e non pochi allievi che battevano le orme di Domenico Savio, facendosi come lui cacciatori e pescatori d'anime. Divisi qua e colà essi prendevano parte e facevansi l'anima di tutti i divertimenti, e ciò con tanta premura e attività da disgradarne i più avidi di trastulli. Chi non conosceva la pia intenzione e la nobile mira di quei giovani e chierici, li avrebbe detti dissipati ed ignari del proprio decoro; ma era ben altrimenti.

                Essi promuovevano la ricreazione e l'accaloravano per darvi importanza e allettarvi anche gli inerti, a fine di scuoterli dalla malinconia, e per tal modo sviluppare la vita fisica e morale; si [815] facevano capi dei giuochi per dominarli ad esserne come gli arbitri, onde nei casi di contestazione accordarsi vicendevolmente per impedire tra i giovani contese, diverbi e risse, e perciò la offesa di Dio; passavano poi ore ed ore in questo esercizio e spesso con loro grande sacrifizio ed abnegazione, ma lieti di potere in quel mezzo conoscere meglio i giovani, la loro indole, i loro difetti, e cogliere l'opportunità di volgere loro una parola di salute.

                Mentre gli uni attendevano in questo modo ai divertimenti comuni, altri sparpagliavansi nel cortile, adocchiavano questo o quell'altro giovane che stava da solo, lo invitavano a trastullarsi o a passeggiare con essi, e questo sempre col lodevole intento di promuovere la onesta allegria, e per avere la propizia occasione di porgere un buon consiglio ed invogliare allo studio, al lavoro, alla pietà. Dopo di essersi ricreato alquanto con quel dato fanciullo o studente o artigiano, dopo di aver discorso con lui, come si dice, del vento e della pioggia, il buon chierico usciva in bel modo a fargli una interrogazione, che lo riguardasse più da vicino, e gli dimandava per esempio: - Hai tu ancora i tuoi genitori e procuri tu di consolarli colla tua buona condotta e di pregare per loro? - Che voto hai riportato la settimana scorsa? - Da quanto tempo è che non sei più andato a confessarti? - Avrei bisogno di ottenere una grazia dal Signore; vorresti tu venire domani con me a confessarti e a fare la santa Comunione, secondo la mia intenzione? - Vuoi tu che andiamo a trovare D. Bosco? Vieni e ci faremo dire una parola nell'orecchio; - e cosi via dicendo.

                Alla stessa meta avevano l'occhio i maestri nelle scuole e gli assistenti e capi di dormitorio e laboratorio. Ognuno procurava di guidare i proprii allievi al compimento dei doveri, al buon ordine, al lavoro, allo studio, alla virtù, più coll'amore che col timore, più per provvedere all'anima che non al corpo, più in vista del cielo che non alla terra. Inspirati all'esempio ed alle parole di D. Bosco, desiderio e sollecitudine di tutti si era di cercare, promuovere e cogliere tutte le possibili occasioni per conservare e condurre a Dio i giovani dell'Oratorio e salvare le loro anime. Una delle massime più fedelmente praticate era di far passare Iddio nel cuore dei giovani non solo per la porta [816] della chiesa, ma della scuola o dell'officina. E questo essi s'industriavano di conseguire, ma con tanta prudenza e moderazione, che i giovani quasi non se ne avvedevano, ma ben sentivano e provavano che era cosa molto più soave essere pii e virtuosi, che non indevoti e malvagi. Riguardavano poi l'Oratorio come la loro casa diletta, ed amavano i superiori come gli amici dell'anima.

 

                Ma sopratutto era per loro una spinta efficacissima al bene, l'esempio che dava D. Bosco. Egli tutti precedeva nell'adempimento dei suoi doveri, nella pratica de' consigli evangelici e nel zelare la gloria di Dio in tutto, sicchè poteva dire con sincerità al Signore: Zelus domus tuae comedit me. D. Dalmazzo Francesco così scrisse di lui: “Noto un apprezzamento fatto da molti de' miei confratelli e da me stesso, che colla frequenza e famigliarità intima del servo di Dio, al contrario di quello che avviene ordinariamente cogli altri uomini, si scorgeva sempre in lui qualche nuova virtù, o qualche cosa in generale da ammirare, a cui prima non si poneva mente. Nel periodo di circa trent'anni in cui l'ho avvicinato debbo ingenuamente confessare che non solo non ho trovato mai in lui cosa da biasimarsi, ma anzi dovetti in ogni tempo ammirare la pratica di ogni virtù cristiana in modo tale, che fui costretto a persuadermi de visu et auditu essere vero quanto la fama diceva di lui: È un santo”.

                Con tutto ciò non è spiegabile il fiorire e il mantenersi vive tante virtù nella casa ammirabile di D. Bosco, se i soli mezzi ordinarii, che suggerisce la Religione e una sana pedagogia fossero stati messi in opera. Vi era ben altro di più meraviglioso che suppliva all'insufficienza umana, poichè Dio solo è scrutatore dei cuori e vede talvolta il male ove gli uomini credono di veder la perfezione. Nel primo libro dei Re al Capo XVI versicolo 7 leggiamo queste parole del [817] Signore a Samuele riguardo ad Eliab: “Non badare al suo volto, nè alla statura grande di lui: io non giudico secondo quel che apparisce allo sguardo dell'uomo; perchè l'uomo vede le cose che dan negli occhi, ma il Signore mira il cuore”. Ed è perciò che la sua bontà si manifestava in modo straordinario in proporzione dell'ardente zelo del suo servo fedele nel procurare la salute delle anime. A questa divina bontà alludeva D. Bonetti accennando a fatti straordinarii, che sarebbero stati raccontati dal biografo di Don Bosco.

                Il primo fatto di quest'anno noi lo ricaviamo dalla Cronaca di D. Ruffino e dalle memorie di D. Bonetti.

 

                Nelle tre notti che procedettero l'ultimo giorno del 1860, D. Bosco fece tre sogni, come egli li chiama, ma che noi con tutta sicurezza, per ciò che abbiamo veduto, sentito, provato, possiamo appellare celesti visioni. Era lo stesso sogno tre volte ripetuto, ma sempre con circostanze diverse. Ecco in breve come il nostro buon padre lo raccontò nell'ultima sera dell'anno 1860 a tutti i giovani radunati. Così egli parlò:

                Mi trovai per tre notti consecutive in una campagna a Rivalta con D. Cafasso, con Silvio Pellico e con il Conte Cays. La prima notte la passammo discorrendo sopra certi punti di Religione riguardanti specialmente i tempi che corrono. La seconda si passò in conferenze morali in cui si fecero e si sciolsero casi di coscienza, spettanti specialmente la direzione della gioventù. Veduto che già per due notti di seguito faceva un tal sogno, deliberai di raccontarlo ai miei cari figliuoli, se ancora avessi sognato le stesse cose per la terza volta. Ed ecco che la notte del 30 al 31 dicembre mi trovai nuovamente nello stesso luogo cogli stessi personaggi. Lasciato da parte ogni altro discorso, mi venne alla mente che alla sera del giorno seguente, che era l'ultima dell'anno, secondo l'uso, doveva dare la strenna ossia i ricordi ai miei cari figliuoli. Perciò mi rivolsi a D. Cafasso e gli domandai:

                Voi che siete mio così grande amico, datemi voi stesso una strenna per i miei figli. [818] Egli mi rispose: - Oh, adagio; se volete che io vi dia la strenna, andate e dite prima ai vostri giovani che preparino e aggiustino i loro conti. - Noi eravamo in una gran sala in mezzo alla quale stava un tavolo. D. Cafasso, Silvio Pellico, il Conte Cays andarono a sedersi a quella tavola. Io intanto per obbedire a D. Cafasso uscii da quel salone ed andai a chiamare i giovani i quali erano fuori, facendo ciascuno addizioni sopra una pagina che tenevano fra le mani. I giovani entravano ad uno per uno tenendo in mano la loro cartella, nella quale vi erano molti numeri da addizionare e si presentavano ai tre sullodati personaggi e loro consegnavano la propria cartella. Quei signori ricevutala vi facevano l'addizione, e, se era ben fornita e con chiarezza di numeri, la restituivano a ciascheduno; la sdegnavano, respingendola, se le cifre erano imbrogliate. I primi erano quelli che avevano i conti aggiustati, i secondi erano quelli che li aveveno disordinati. Non pochi erano tra questi ultimi. Quelli che ricevevano la loro cartella aggiustata uscivano dalla sala tutti contenti e andavansi a ricreare nel cortile; gli altri invece uscivano tutti mesti e angustiati. La folla de' giovani stava aspettando il suo turno fuori della soglia, tutti colla cartella in mano. Lungo tempo durò questa funzione, ma finalmente nessuno più si presentò. Sembrava che tutti i giovani fossero passati, quando D. Bosco vedendo alcuni che stavano aspettando e non entravano, chiese a D. Cafasso: Ma costoro che cosa fanno? - Costoro rispose D. Cafasso, hanno la cartella vuota di numeri, quindi non si può far l'addizione; perchè qui si tratta di sommare insieme quello che già si possiede, quello che si è fatto. Perciò vadano quei giovani a riempire la loro cartella di cifre, e poi vengano e si potrà fare l'addizione. - In questo modo fu terminata quella gran quantità di conti.

                Allora io coi tre nominati personaggi uscimmo da quella sala nel cortile, e vidi un numero di giovani, coloro i cui cartelli erano stati trovati pieni di cifre e in ordine, che correvano, saltavano, si ricreavano con un piacere straordinario. Erano tutti contenti come tanti principi. Non potete immaginarvi il gaudio che io provava per la loro allegrezza.

                Ma vi era un certo numero di giovani che non si ricreavano, ma stavano osservando gli altri. Costoro non erano molto allegri. Fra questi ultimi, poi, gli uni avevano una benda agli occhi [819] altri una nebbia, altri il capo attorniato da una nube oscura; alcuni mettevano fumo dal capo, alcuni altri avevano il cuore pieno di terra, altri lo avevano vuoto delle cose di Dio. Io li vidi e li conobbi molto bene e li ho ancora così presenti alla mente, che potrei nominarli uno per uno dal primo all'ultimo.

                Intanto io mi accorsi che dal cortile mancavano molti dei miei giovani e dissi fra me dopo aver riflesso: - Dove sono coloro che avevano la cartella tutta bianca, perchè vuota di cifre? Guardo di qua, guardo di là e finalmente volsi l'occhio verso un angolo del cortile ed oh! spettacolo miserando! Ne vedo uno coricato per terra, pallido come la morte. Poi altri seduti sopra un basso e lurido scanno, altri sdraiati sopra uno sconcio pagliariccio, altri sopra il nudo suolo, altri sopra le pietre che ivi si trovavano. Erano tutti coloro che non avevano i loro conti aggiustati. Giacevano gravemente infermi, chi nella lingua, chi negli orecchi, chi negli occhi. Lingua, orecchi ed occhi brulicavano di vermi che li rodevano. Uno aveva la lingua tutta marcia, l'altro aveva la bocca piena di fango, e un altro metteva un fetore pestifero fuori dalla gola. Varie erano le malattie di altri infelici. Chi aveva il cuore tarlato, e chi guasto e già corrotto; chi aveva una piaga e chi un'altra. Ve n'era persino uno tutto rosicchiato. Era quello un vero ospedale.

                A simile vista io rimasi sbalordito, non potendomi persuadere di quanto vedeva; ed: - Oh! che cosa è questo? esclamai dolorosamente. E mi avvicinai ad uno di quelli infelici e gli domandai:

                Ma sei tu proprio N. N.?

                - Sì, mi rispose, son proprio desso.

                - Ma come va che sei in questo stato, così malconcio?

                - Che vuole? farina del mio sacco! Veda! Questo è il frutto de' miei disordini.

                Mi avvicinai ad un secondo e ne ebbi la stessa risposta. Questo spettacolo mi passava il cuore come un'acutissima spina, la quale però mi fu addolcita dalla vista di ciò che sono per raccontare.

                Intanto col cuore vivamente commosso mi volsi a D. Cafasso, e gli domandai supplichevolmente: - A qual rimedio debbo appigliarmi per far guarire questi miei poveri giovani?

                - Voi lo sapete al par di me quello che si debba fare; mi rispose D. Cafasso; non avete bisogno che io ve lo dica. Pensateci! Ingegnatevi! [820]

                - Dia almeno la strenna ai sani; replicai con slancio di umile, ma confidente preghiera.

                D. Cafasso allora mi fa cenno di seguirlo e avvicinatosi al palazzo dal quale eravamo usciti, aperse un uscio. Ed ecco innanzi a me affacciarsi una sala magnifica, tutta ornata d'oro, d'argento e di ogni più prezioso addobbo, illuminata da migliaia di lampade, da ogni punto della quale usciva una luce, che il mio sguardo non poteva quasi reggere a tali splendori. Stendevasi a vista d'occhio in lunghezza e larghezza. In mezzo a questa sala regale eravi un'ampia tavola tutta carica di confetture di ogni specie. Vi erano amaretti quasi grossi come le munizioni da soldato, biscottini alti quasi un piede e mezzo, sicchè un solo avrebbe bastato a saziare un giovane. Ciò veduto io mi slanciai subito per correre a chiamare i giovani, invitandoli a venire attorno a quella tavola e per contemplare il magnifico spettacolo di quella sala. Ma D. Cafasso mi fermò subito gridando: - Adagio! Non tutti possono mangiare di quei biscotti e di que' amaretti. Chiamate solamente quelli che hanno i loro conti aggiustati.-

                Così feci, e in un istante quella sala fu piena di giovani. Allora io mi accinsi a rompere e a distribuire quei biscotti e quegli amaretti che erano di una grande bellezza. Ma D. Cafasso mi si oppose: e, - Adagio, D. Bosco, mi disse, adagio! Non tutti quelli che son qui possono gustare di questi confetti; non tutti ne sono degni. - E mi disse e mi indicò chi fossero gli indegni. Fra questi enumerò in primo luogo quelli che erano piagati, che non si trovavano nè anco in quella sala cogli altri, perchè non avevano i conti aggiustati; quindi mi indicò quelli pure, i quali sebbene avessero i loro conti in regola, avevano però o la nebbia agli occhi o il cuore pieno di terra, o vuoto delle cose del cielo.

                Ma io tosto con aria supplichevole gli dissi: - D. Cafasso! lasciate un po' che io ne dia anche a questi ultimi: sono essi pure miei cari figliuoli; tanto più che vi ha qui l'abbondanza e non c'è pericolo che ne manchi.

                - No, no, continuò a dire: solo quelli che hanno la bocca sana ne possono gustare; gli altri no: non gustano questi confetti: non son fatti per queste dolcezze; perchè siccome hanno la bocca guasta e piena di amarezza, le cose dolci fan loro schifo e non possono mangiarne. - [821] Mi acquetai e intanto mi posi a distribuire quei biscotti e quelli amaretti solo a coloro, che mi erano stati indicati. Serviti che furono tutti lautamente una prima volta, ripresi da capo la distribuzione e a tutti ne diedi nuovamente una dose abbondante. Io vi assicuro che mi compiaceva nel vedere i giovani mangiare con tanto gusto. Sul loro volto era dipinta la gioia; non parevano più i giovani dell'Oratorio tanto erano trasfigurati.

                Coloro che nella sala erano rimasti senza dolci, stavano in un angolo di essa melanconici e confusi. Preso di somma compassione mi volsi nuovamente a D. Cafasso e gli chiesi ripetutamente che permettesse fossero distribuiti i dolci eziandio a costoro, perchè potessero gustarne.

                - No, no; replicò D. Cafasso; costoro non possono mangiarne; fateli guarire e poi allora anch'essi ne mangieranno. - Io guardava quei poveretti. Guardava eziandio quei molti, rimasti fuori così malconci, ai quali eziandio nulla si era dato. Li riconobbi tutti e mi avvidi che alcuni di essi avevano per maggior sventura il cuore tarlato.

                Replicai quindi a D. Cafasso: - Ma mi dica adunque; qual rimedio debbo adoperare; mi dica cosa debbo fare per guarire quei miei figliuoli?

                Di bel nuovo mi rispose: - Pensateci, ingegnatevi, voi lo sapete!

                Allora lo pregai che mi volesse dare la strenna promessa per i miei giovani.

                - Ebbene! rispose; ve la dico! E postosi come uomo che si dispone a partire, per ben tre volte con voce ogni volta più alta, gridò: - State attento! State attento! State attento! - Così dicendo egli co' suoi compagni disparve e dileguossi eziandio tutto il sogno. Allora fui desto come adesso che vi parlo e mi trovai seduto sul letto colle spalle fredde come il ghiaccio.

                Questo fu il mio sogno; ora ciascuno lo interpreti come vuole, ma sappia sempre dargli il peso che si merita un sogno. Però se c'è qualche cosa che possa essere utile alle nostre anime, accettiamola. Non vorrei tuttavia che alcuno andasse a raccontare questo sogno fuori di casa.

                lo l'ho narrato a voi, perchè siete miei figliuoli, ma non voglio che lo diciate ad altri. Intanto io vi posso assicurare che ho [822] presente ancora ciascheduno di voi, come vi ho visti nel sogno, so dire chi era ammalato e chi no, chi mangiava e chi non mangiava. Ora non voglio mettermi qui a dire in pubblico lo stato di ciascheduno, ma mi riserbo a dirlo a tutti in particolare. La strenna che io do in generale a tutti quelli dell'Oratorio si è: frequente e sincera confessione, frequente e divota Comunione.

 

                Tre riflessioni noi faremo su questo sogno. La prima colle parole dello stesso D. Ruffino: “D. Bosco dei suoi sogni non racconta che il compendio e solamente ciò che riguarda ai giovani. Se avesse voluto o potuto raccontarli per intero si avrebbe un volume ogni sogno. Tutte le volte che si potè  interrogarlo pacatamente, si ebbero tante nuove idee e particolarità di fatti, da duplicare o triplicare la materia. Ma anche non interrogato, in molte circostanze lasciavasi sfuggire parole che indicavano aver egli conosciute molte cose  dell'avvenire, sovente però in modo oscura delle quali o non poteva o non sapeva dare spiegazione”.

                D. Ruffino scrisse questa pagina sotto la data del 30 gennaio 1861 e perciò si arguisce che molti altri sogni avesse già prima narrati D. Bosco, dei quali o si perdettero i documenti, o almeno che quelli, da noi appena accennati nei volumi precedenti, fossero da lui stati svolti con molta ampiezza di spettacoli, pensieri e ammonimenti. Del resto noi dobbiamo pienamente aderire alle sue asserzioni, perchè più di cento volte noi dopo avere ascoltato questi racconti di D. Bosco, siamo venuti alle stesse conclusioni.

                La seconda riflessione viene esposta da D. Rua sulla veracità delle cognizioni che D. Bosco acquistava da tali sogni sullo stato di coscienza dei suoi giovani. “Forse qualcuno, egli scrisse, potrebbe supporre che D. Bosco nel manifestare la condotta dei giovani e altre cose occulte potesse servirsi di rivelazioni avute dai giovani stessi o dagli [823] assistenti. Io però posso asserire con tutta certezza, che giammai in tanti anni che vissi con lui, nè io, nè alcuno dei miei compagni potemmo giammai accorgersi di tale cosa. D'altra parte essendo noi allora giovani, ed in mezzo ai giovani, con tutta facilità dopo breve tempo, avremmo potuto scoprire che egli faceva uso di rivelazioni ricevute, da qualcuno della casa; giacchè í giovani difficilmente sanno conservare il segreto. Ed era tanto comune fra noi la persuasione che D. Bosco ci leggesse i peccati in fronte, che quando alcuno commetteva qualche fallo cercava di evitarne l'incontro, finchè  non si fosse confessato; e tanto, più ciò accadeva dopo il racconto di un sogno. Tale persuasione nasceva negli alunni nel vedere specialmente come andandosi a confessare da lui, anche essendogli affatto sconosciuti, egli loro trovava e metteva sott'occhio colpe a cui non avevano badato, o che cercavano di nascondere.

                “Finalmente osserverò, come oltre lo stato delle coscienze Bosco annunziava nei sogni cose, le quali naturalmente non si potevano conoscere con mezzi umani ad esempio la predizione di varie morti e di altri futuri eventi. E a misura che avanzandomi in età vo considerando questi fatti e rivelazioni di D. Bosco tanto più mi convinco, che egli era dotato dal Signore dello spirito di profezia.

                La terza riflessione, ed è nostra, da questo sogno si ricava come D. Cafasso fosse giudice della religione e della moralità, Silvio Pellico della diligenza dei doveri scolastici e professionali, il Conte Cays dell'obbedienza e disciplina; nei dolci ci pare scorgere il cibo di quelli, che sono incipienti nel servizio del Signore; negli amaretti quello di coloro che già sono in via di maggior perfezione. Ma di tutti ben si può dire col Salmista: “Ei li ha nutriti di ottimo frumento e li ha saziati del miele che usciva dal sasso”. (Salmo LXXX).

 

 

CAPO LXII. Lotte spirituali - D. Bosco spiega in Privato a ciascun giovane la sua parte nel sogno - Strenne - Confessioni aggiustale - Giovani mesti e giovani lieti e santi - Morte imminente scongiurata - Confessioni generali degli artigiani - Si chiede la causa di quelle dolorose scoperte fatte dopo le Comunioni di Natale - D. Bosco dà in pubblico spiegazione del sogno - Perchè D. Bosco ritardò di alcuni giorni la narrazione del sogno - La grazia e la gloria di Dio - Una domanda sulla natura del sogno - Una Vocazione - D. Bosco e le coscienze de' giovani lontani - Felicità di chi si è confessato bene - Lettere di D. Bosco: un libro per un nobile giovinetto e un vestito per un neofito - Letture Cattoliche Indirizzo agli associati ed ai corrispondenti di queste letture.

 

                Non è senza un profondo sentimento di stupore che ammireremo gli effetti prodotti negli alunni di D. Bosco per mesi e mesi dal sogno sovra descritto. D. Bonetti e D. Ruffino ne tennero memoria sulle loro rispettive cronache, sicchè uno completa con sufficiente ampiezza il racconto dell'altro. Essi ci danno un'idea di quanto allora accadde nell'Oratorio nel campo delle cose spirituali; le lotte continue tra la virtù e il vizio, [825] tra lo spirito di Dio e quello delle tenebre; l'alterno succedersi per le anime di vittorie e di sconfitte, di cadute e di risurrezioni; e l'opera del sacerdote ardente di zelo, che sostenuto da un lume e da una divina energia, in mezzo a queste formidabile e misteriose battaglie, infonde coraggio e forza a chi virilmente combatte, ristora la sorte dei vinti, respinge l'ostinato nemico.

                Ma il mirabile campo oltramondano di tali avvenimenti apparirà sempre più vasto col succedersi in questo anno di altri sogni, di altri fatti riguardanti non solo le spirituali battaglie degli individui, ma di più le indicate vocazioni di questi alla Pia Società ed allo stato Ecclesiastico; e nei tempi avvenire i casi della loro vita, lo svolgimento della Congregazione e altre meraviglie che riferiremo tra poco. Le due sopradette cronache ci serviranno di scorta, conservandovi la loro forma di diario, sicchè si veda che noi ci atteniamo strettamente alla verità.

                Entriamo adunque in argomento.

                Bonetti. - “I gennaio 1861. - D. Bosco non poteva più staccarsi i giovani di dosso. Uno voleva che gli dicesse se era fra gli ammalati, l'altro se il proprio cuore era pieno di terra, un terzo se i suoi conti fossero stati aggiustati e se si fosse trovato nel numero di coloro, che mangiavano i biscottini e gli amaretti. Egli qual padre amoroso, che desiderava di appagar tutti, passò quasi l'intero giorno a soddisfare coloro che uno dopo l'altro andavangli a chiedere confidentemente in un orecchio lo stato dell'anima propria. Ed egli narrava loro il posto che tenevano nel sogno e dava eziandio la solita strenna in particolare. La strenna del Ch Bonetti Giovanni fu la seguente: Quaere animas, et dabis animam tuam Domino.

                Quanto bene abbia prodotto questo sogno fra i giovani [826] non si può dire. Basti il sapere che alcuni di loro i quali non poterono essere richiamati a buoni sentimenti, nè dai santi esempi de' compagni, nè dai salutevoli avvisi e consigli dei superiori, nè anche dalle prediche di parecchi esercizi spirituali, a questo punto non poterono più resistere; e tutti andavano a gara nel fare la loro confessione generale dallo stesso D. Bosco, il quale era pieno di gioia nel vedere come il Signore favorisse in tal modo i suoi cari figliuoli. In questa circostanza, spinto dal desiderio che tutti i giovanetti facessero profitto di quel favore del cielo, ci disse tali cose da non lasciar più luogo a dubitare, che quel sogno misterioso fosse uno di quelli, che il Signore di quando in quando manda alle anime sue elette”.

                Bonetti. - “10 gennaio. - In questo giorno un altro fatto venne sempre più a convincere i giovani che, con quel sogno strepitoso, il Signore aveva rivelate a D. Bosco le coscienze de' suoi figliuoli. Ecco una splendida prova. Un giovane aveva già parecchie volte taciuto un peccato in confessione. In questi giorni di salute, tormentandolo sempre più lo stato miserabile di sua coscienza, determinò di fare una confessione generale e andò a farla dal Sig. D. Picco, il quale appunto in quei giorni incominciava a venire all'Oratorio, per aiutare D. Bosco nelle confessioni dei giovani. Dissegli e confessogli tutta la sua vita passata, ma, giunto a quel peccato, già parecchie volte taciuto, non osò più andare avanti e nuovamente lo tacque. Questa mattina, scendendo D. Bosco di camera per andare in sagrestia, incontrò su per le scale quel povero giovane, e così gli disse:

                - Quando verrai a fare la tua confessione generale?

                - L'ho già fatta, rispose.

                - Oh! sta un po' cheto! [827]

                - Sì, sì! L'ho fatta solamente ieri l'altro dal Sig. Don Picco.

                - No, no! Hai fatta nessuna confessione generale. Dimmi un poco: perchè hai taciuto quel tale peccato così e così?

                A tali parole quel povero giovane abbassò la testa, gli vennero le lacrime agli occhi; poi si mise a piangere dirottamente e subito portossi in sagrestia e fece la sua confessione nel modo il più consolante”.

                Il Chierico Giovanni Cagliero, che era stato presente al racconto del sogno ed era l'amico di tutti gli alunni, avendolo interrogato, quegli a lui rivelò, quantunque un po' a malincuore, quanto D. Bosco gli aveva detto. Il servo di Dio Rulla a nessuno svelava di ciò conosceva e sapeva dai sogni in particolare; ma dalle confidenze reciproche di alcuni giovani consolati dalla sua carità, ne veniva sempre più in chiaro essere Dio che parlava per bocca sua.

                Ruffino. - “11 gennaio. - Molti giovani sono soprapensiero, mesti e turbati; parecchi si preparano a fare una confessione generale. Moltissimi desiderano di parlare a Don Bosco il quale dice a tutti cose importantissime dell'interno di loro coscienza. Ve ne sono alcuni che io vidi piangere, come se loro fosse stata manifestata una qualche grave sciagura. Altri sono lieti per aver udita una parola rassicurante.

                Un chierico, che io ben concosco, gli domandò lo stato in cui si trovava e D. Bosco glielo espose così: - Fa coraggio; procura di distaccare il tuo cuore dalle cose mondane. Apri bene gli occhi per allontanare le tenebre dalla tua mente e conoscere la vera pietà lontana dalla gloria propria. Procura col farmaco della confessione di rimuovere ogni cosa, che possa ancora guastarlo. Ravviva [828] bene la tua fede, la quale è l'occhio della pietà per bene conoscerla ed animarti ad essa. Ecco: questo era il tuo stato.

                Un gran bene vi è sempre nell'Oratorio e D. Bosco disse in mezzo ad un crocchio numeroso in tempo di ricreazione: - Vi sono dei giovani nella casa, che superano Savio Domenico nella pietà. Uno specialmente, poco conosciuto, sa dirmi dopo la santa Messa le distrazioni ed i pensieri che io ebbi durante quella”.

                Bonetti e Ruffino. - “12 gennaio. - D. Bosco questa mattina, chiamò un giovane in sua camera e gli disse così: - Io vidi la scorsa notte la morte che andava minacciosa verso di te. Quando fu al tuo fianco stava in procinto di vibrarti un colpo colla tremenda sua falce. Io ciò vedendo corsi subito ad arrestare il suo braccio; ma essa rivoltasi verso di me, disse: - Lasciami. Costui è indegno di vivere? Perchè tollerare che stia al mondo uno, il quale non corrisponde alle tue cure e abusa così delle grazie del Signore, - Ma io la scongiurai a risparmiarti e ti lasciò.

                Quel poveretto udito il sogno, tanto ne rimase colpito e commosso che tra le lagrime ed i singulti, fece subito la sua confessione e moltissime promesse.

                D. Bosco la sera di questo stesso giorno raccontò il sogno e il fatto a tutta la comunità, non dicendo però che fosse egli che avesse fatto quel sogno e non indicando che riguardasse qualcuno dell'Oratorio. La cosa sarebbe rimasta segreta se il giovane C.... Bartolomeo, appena disceso D. Bosco dalla cattedra, non si fosse avvicinato al Chierico Bonetti e in tutta confidenza gli avesse detto, D. Bosco essere quegli che aveva fatto il sogno, sè essere quel tale chiamato da D. Bosco al mattino; e concluse candidamente che dopo la prima comunione non si era più confessato bene; ma ora ogni suo conto con Dio essere aggiustato”. [829] Ruffino. “13 gennaio, Domenica. - Una gran parte degli artigiani, specialmente i legatori di libri, andarono a fare la loro confessione generale, senza che alcuno a ciò li eccitasse.

                Un alunno incontrato D. Bosco nel cortile gli domandava: - Mi dica un po': come va che essendoci quasi tutti confessati il giorno di Natale, vossiginoria vide nel sogno tanti in sì deplorevole stato? - Mi domandi cosa, gli rispose D. Bosco, che io non posso dire; io lo so: e in quanto a questo neppure sono legato, ma in pubblico non posso dirlo: lo dirò in privato a chiunque venga a domandarmi; molte cose però non posso dirle neppure in privato”.

                Bonetti e Ruffino. - “Il giorno 13. -D. Bosco disse dopo le orazioni: -Al punto in cui si trovavano le cose, io mi credo obbligato di parlare e togliere il velo al signore. Vi aveva detto che questo sogno straordinario mi avvenne tre notti consecutive. La prima volta sognai, essendo il 28 dicembre, e il sogno si ripetè nella notte del 29 e del 30. Nella prima notte si trattarono punti e questioni di teologia riguardanti il tempo presente, ossia le cose del giorno, ed ebbi molti lumi.

                “La seconda notte molte questioni di morale pure riguardanti il tempo presente, intorno ai varii casi di coscienza dei giovani dell'Oratorio.

                La terza notte furono casi pratici, coi quali conobbi l'interno morale di ciaschedun giovane in particolare. Nel primo, giorno io non voleva dare retta, poichè il Signore ce lo proibisce nella Sacra Scrittura. Ma in questi giorni scorsi, dopo aver fatte parecchie esperienze, dopo aver presi diversi giovani a parte, e aver detto loro le cose tali e quali le aveva viste nel sogno, e che essi mi assicurarono essere proprio così, allora io non potei più dubitare, che questa [830] sia una grazia straordinaria, che il Signore concede a tutti i figli dell'Oratorio. Io perciò mi trovo in obbligo di dirvi che il Signore vi chiama e vi fa sentire la sua voce, e guai a coloro che vi resistono.

                D. Cafasso adunque fece andare tutti in una sala e a tutti diede la loro pagina. Alcuni avevano l'intero conto aggiustato. Altri avevano i numeri, ma vi era ancor da fare un'addizione. - E la pagina la presero tutti? - No: perchè molti erano fuori, chi coricati su pagliericci, chi seduti sopra scanni, chi per terra e nel fango: alcuni tutti coperti di ferite e di piaghe che facevano ribrezzo.

                Quelli che presero la loro cartella uscirono poi a fare la ricreazione; ma neppure la facevano tutti; perchè molti di essi avevano gli occhi attorniati da una nebbia, altri gli occhi bendati, altri il cuore tutto tarlato.

                Quelli che avevano la cartella aggiustata sono quelli che hanno la loro coscienza in ordine.

                Quelli che avevano la loro cartella ma non compita, sono quelli, la cui coscienza è aggiustata, ma ci manca ancora l'addizione almeno dell'ultima confessione.

                Quelli che avevano gli occhi avvolti nella nebbia o bendati, sono quelli animati dallo spirito di superbia e d'amor proprio. Quelli che erano sdraiati io saprei nominarli ad uno ad uno e dire il perchè erano sui pagliericci o sugli scanni o per terra. Vidi l'interno dei cuori. Molti lo avevano ripieno di cose belle: di rose, di gigli, di violette fragrantissime. Questi fiori indicavano le varie virtù. Ma gli altri!... Il cuore tarlato significava quelli che nutrono odii, rancori, invidie, antipatie, ecc. ecc.

                Alcuni avevano il cuore pieno di vipere, indizio dei molteplici peccati mortali. Altri lo avevano pieni di terra e sono quei che hanno il cuore attaccato alle cose terrene, alle cose [831] sensuali. Molti poi avevano il cuore vuoto e sono quelli che si trovano bensì in grazia di Dio e non sono attaccati alle cose terrene e sensuali, ma non procurano colle pratiche di pietà di riempirlo di timore di Dio. Vivono sbadatamente, e se non cadranno al primo laccio che loro tenderà il demonio, tuttavia a poco a poco diverranno cattivi.

                Coloro pertanto che non hanno, ancora le cose dell'anima aggiustate, deh! non aspettino oltre ad aggiustarle: vengano pure: mi promettano solamente di non negarmi cosa alcuna che io loro dimanderò; poi, se essi non sapranno dire, dirò io per loro. Io mi trovo in istato di dire a ciascuno il passato, il presente ed anche un po' del futuro. Io vi dico in questo punto certe cose che non dovrei dire! Oh cari giovani! Inorridisco al pensiero! Vi assicuro che io non avrei mai creduto che nella nostra casa vi fossero tanti giovani che avessero le cose della loro coscienza così disordinate, così male aggiustate: no, io non l'avrei creduto mai!

                Quanti vi erano di quei piagati distesi per terra! Io ve lo assicuro, che passai notti e giorni terribili. Lodo coloro che pensarono già ad aggiustare la loro coscienza; ma molti altri ancora non ci pensano. - Dicendo queste parole, con voce commossa, grosse lagrime gli cadevano dagli occhi. Dopo breve pausa, augurò la buona notte. Non pochi dei giovani piangevano pure. Queste parole ottennero l'effetto desiderato”.

                Ruffino. - “15 gennaio. -Gli artigiani continuano a fare la confessione generale.

                Oggi da alcuni si rivolse a D. Bosco questa interrogazione: - Come va che avendo fatto il primo sogno circa a Natale, aspettò a raccontarcelo?

                - Dirò quello che ho già detto; io feci quel sogno, ma per una parte non voleva darvi retta; per l'altra parte lo [832] vedeva troppo importante, e perciò esaminai ben bene la cosa. Poi chiamai un giovane che aveva veduto nel sogno dei più sconciamente piagati e gli dissi: - Tu stai così e così di coscienza; secondo le piaghe che gli avevo vedute. E l'altro rispose che veramente era tale il suo stato. Ne chiamai un altro e trovai la stessa esattezza di risposte, concordante con le cose da me viste. In un terzo ancora da me esaminato vidi verificarsi il mio sogno. Allora non potei più dubitare. In quel sogno io conobbi lo stato di coscienza di tutti i giovani, il loro stato presente e molto anche del futuro.

                D. Bosco disse eziandio ad alcuni pochi: Io ebbi maggiori cognizioni sulla teologia, in quelle tre notti, che non in tutto il tempo che studiai in Seminario”.

                Ruffino. - “16 gennaio. - D. Bosco dopo pranzo fu interrogato dai chierici del suo parere intorno alle opinioni teologiche delle varie scuole di morale ed ai sistemi dell'efficacia della grazia; e rispose: - Io studiai molto tali questioni, ma il mio sistema è quello che ridonda a maggior gloria di Dio. Che importa a me, di avere un sistema stretto o largo ?... Purchè mandi le anime al paradiso!...

                Infatti ogni qual volta D. Bosco viene a parlare di qualche cosa da farsi, sua norma è sempre l'esaminare se in questa vi è la maggior gloria di Dio. Quando vi è questa, egli non guarda nè a fatica, nè a spesa: tutto ciò è niente, ma sempre pur che vi sia la maggior gloria di Dio. Sovente D. Bosco ci raccomanda di fare ogni nostro possibile per impedire qualche male morale. - Trattandosi dell'offesa di Dio, egli dice, non si guardi a nulla, purchè si impedisca.

                D. Bosco fu anche interrogato da D. Rua: - È egli veramente un sogno quello che ci ha raccontato?

                - Nol saprei neanch'io precisamente. Il fatto sta che [833] quando fu terminato io mi trovava seduto sul letto avendo ben freddo. -E sorrideva.

                Ma che non fossero semplici sogni le narrazioni di D. Bosco, lo dimostrano gli effetti. Quando Dalmazzo Francesco venne nell'Oratorio, D. Bosco gli chiese: - Che cosa vorrai tu fare quando abbia compiuti i tuoi studi?

                - Il farmacista o qualche cosa di simile, rispose il giovanetto.

                - Non ti piace farti prete?

                - No.

                - Eppure io ti voglio far prete.

                Dalmazzo guardò D. Bosco sorridendo, e disse:

                - Oh! non ci riuscirà.

                Ed ora sono già passati tre buoni mesi dell'anno scolastico, e Dalmazzo è uno dei più attaccati a D. Bosco, cui sovente dice: - Se lei sarà contento io mi farò prete”.

                Ruffino. - “26 gennaio. - Pare che D. Bosco nel sogno abbia visti altri giovani che attualmente non sono nell'Oratorio. Essendosi avvicinati a lui alcuni de' suoi confidenti, egli ricordando varii giovani, che una volta erano nella casa, ed ora menano una vita cattiva, esclamò: - Oh se potessi loro parlare, io credo che sentendosi palesare così chiaramente il loro interno si arrenderebbero! Per es. Ard… io non l'ho mai conosciuto e ciò non ostante potrei manifestargli tutta la sua coscienza. - Ciò detto tacque, e dopo essere stato alquanto pensoso, continuò: - Se alla sera io potessi vedere come al mattino, confesserei un numero triplo di giovani; al mattino mentre ne confesso uno, ne ho molti avanti a me, che attendono il loro turno, e già tutti confessati, benchè non mi abbiano ancora parlato.” - [834] A ciò si deve unire la bontà colla quale accoglieva i penitenti. Un giovane andò a confessarsi. Terminato che ebbe, disse: - Avrei ancora una cosa.

                - Quale?

                - Vorrei che mi permettesse di baciarle i piedi.

                Non fa bisogno, baciami solo la mano, come a sacerdote.

                Il giovane si mise a piangere dirottamente dicendo: - Felice me, se per lo passato avessi aperti gli occhi, come questa sera. Ed è ella che me li aprì. - E se ne andò singhiozzando. Quando poi fu calmo ritornò a conferire con D. Bosco riguardo alle cose dell'anima sua”.

                In questi giorni egli anche interessavasi dei giovani non appartenenti all'Oratorio, come era suo costume, e perciò aveva scritto alla Marchesa Fassati.

 

                               Benemerita Signora,

 

                Giovedì a sera ho dimenticato di parlare con Lei e col Sig. Marchese di due cose: 1° Di pregarla a cercare un libro di divozione per le pratiche quotidiane di chiesa, ma che sia in lingua inglese; la dimanda è fatta dal figlio della Contessa Bosco.

                2° La seconda cosa riguarda al giovine neofito Landon Domenico. Egli dovrebbe partire dimani per andare a Biella in qualità di assistente in un ospizio di giovani: così è inteso con Monsignor Losana. Ma egli ha bisogno di qualche poco di vestimenta; e a tale bisogno lo raccomanderei alla carità del padrino e della madrina. Una sola parola detta al chierico Turchi mi basta per risposta.

                Il Signore Le doni buona giornata e benedica tutta la venerata famiglia mentre con pienezza di stima mi professo

                D i V. S. B.

                Torino, Epifania del 1861.

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI. [835]

                Ricevuta la risposta comunicavala al nobile giovane Ottavio Bosco di Ruffino.

 

                               Carissimo Ottavio,

 

                La Signora Marchesa Fassati non ha potuto trovare un libro di Chiesa in Inglese come desiderava. Mentre si adopera per ricercarlo, mi dà la pratica di amar Gesù Cristo di S. Alfonso; ella mi dice essere eccellente traduzione e con buona lingua.

                Caro Ottavio: coraggio; sta attento ai cattivi compagni e fuggili; cerca i buoni e imitali. Il tesoro più grande è la grazia di Dio: la prima ricchezza il santo timor di Dio.

                Prega per me: saluta Maman e tua sorella da parte mia: ed abbimi sempre quale con affetto mi professo di te

                Torino, 9 del 1861.

Car.mo affmo Amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                A pari passo colle cure pei giovani procedeva il lavoro per le Letture Cattoliche. Pel mese di gennaio era uscito dai tipi di Paravia il fascicolo: I figli virtuosi per Luigi Friedel. Sono semplici e affettuose scene di famiglia.

                Sul principio di questo libretto leggevasi il seguente indirizzo:

 

AGLI ASSOCIATI E CORRISPONDENTI DELLE LETTURE

CATTOLICHE.

 

                Trovandoci ormai al compimento dell'anno VIII di nostre popolari pubblicazioni sentiamo il bisogno di rivolgere alcune parole ai nostri Associati ed ai benemeriti signori Corrispondenti. Agli uni ed agli altri prima di tutto mandiamo vivi ringraziamenti. Ai primi di averci assistiti coi loro obolo onde rendere minore il sacrificio, e meno dure le povere nostre fatiche in quest'opera di economia sociale e cattolica. Ai secondi per aver con noi operato per la propagazione e diffusione delle medesime, e per averne diviso con noi il peso ed i disturbi. Noi non possiamo altro che cordialmente ringraziarli; il premio di loro cooperazione speriamo [836] venga loro dato abbondante da Dio, essendo la causa di lui e del prossimo, che abbiamo concordamente trattato e trattiamo.

                Sono infatti oltre due milioni di fascicoli contenenti principii e letture morali e cattoliche che nel corso di otto anni noi abbiamo posto nelle mani, specialmente del popolo che è la parte della società più interessante per la semplicità di costumi, e pel suo attaccamento alla Religione Cattolica.

                Speriamo che le nostre fatiche, i nostri sacrifizi non siano stati inutili, che anzi abbiano fatto del bene ed impedito qualche male.

                Nessuno ignora come i nemici del Cattolicismo e della società medesima siansi adoperati, e con ogni mezzo, a spargere stampe immorali, anticattoliche, fatte a bella posta per guastare i cuori e corrompere l'intelletto; e per quanto ci consta, i libri ed opuscoli che sonosi pubblicati e sparsi negli scorsi due lustri in Italia sommano ad Oltre 30 milioni, senza calcolare quelli che ci vennero dall'estero e le effemeridi d'ogni specie e colore! Ora se non vi fosse stato un antidoto in questi tempi in cui, si può dire, vi ha mania di leggere, Dio sa qual terribile peste non avrebbe guastata la società, specialmente nei villaggi.

                Pertanto non crediamo di aver fatto abbastanza, che anzi ogni giorno più dobbiamo convincerci della imperiosa necessità di raddoppiare li sforzi ed i sacrifizii per fare argine all'immoralità che s'avanza qual gigante tra noi. Per questo motivo facciamo un nuovo appello a tutti i buoni, e primieramente agli Associati ed ai Signori Corrispondenti, affinchè  essi pure raddoppino il loro zelo, e procurino che siano le Letture Cattoliche conosciute in tutti i villaggi e da tutti.

                Ad ottenere questa maggiore diffusione noi abbiamo divisato di sottoporci a nuovo sacrificio, sperando di venire compensati ed aiutati dai Signori Corrispondenti, perciò abbiamo stabilito di non variare il prezzo di associazione, sebbene ci sia stata notevolmente accresciuta la spesa della stampa .....

                Preghiamo caldamente i signori Corrispondenti a volere per tempo e prima della fine del mese di febbraio farei conoscere il numero preciso dei loro associati per nostra norma, sia pella stampa dei fascicoli, sia per la pronta spedizione.

                Avvertiamo altresì che abbiamo preso le opportune disposizioni col Tipografo, affinchè  in avvenire i fascicoli siano stampati [837] per tempo, e spediti prima del 20 di ogni mese, e così sarà tolto ogni ritardo.

                Finalmente annunciamo che abbiamo fatto scelta per l'anno venturo di operette sia originali, che tradotte da lingue straniere, le quali, speriamo, torneranno gradite agli Associati, poichè mentre presentano il dilettevole sono abbondanti di utili istruzioni.

                Pel mese di febbraio si pubblicava da Paravia l'operetta del Beato Leonardo da Porto Maurizio: Il tesoro nascosto, ovvero pregi ed eccellenza della santa Messa con un modo pratico e divoto per ascoltarla con frutto. Il Beato prova il suo asserto con molti esempi, e ripete con insistenza: Non lasciatevi mai uscire di bocca la scandalosa proposizione: una Messa di più, una Messa di meno poco importa.

                Pel marzo la Tipografia di Luigi Ferrando preparava: la vita del Santo inarlire Toscio Cecilio Cipriano Vescovo di Cartagine raccontata al popolo dal Sacerdote Re. Da questa vita si deduce come sul finire del terzo secolo dell'era cristiana, nella Chiesa si credesse tutto ciò che si crede oggigiorno e in specie l'Unità della Chiesa, la supremazia del Papa, le indulgenze, la S. Messa, il Purgatorio.

                Quest'anno 1860 le Letture Cattoliche pervengono in Sardegna: Alghero, Cagliari, Iglesias.

 

 

CAPO LXIII. Si tiene Capitolo per l'accettazione di un socio - Testamentino: D. Bosco dà qualche spiegazione sulla profezia della fine del mondo; annunzi  a una grande carestia e mortalità - Riflessioni sulle profezie bibliche - Progetti per ampliare L'Oratorio - La festa di S. Francesco di Sales - D. Bosco  predica gli esercizi nel Seminario di Bergamo: effetti della sua parola: vede ciò che accade nell'Oratorio: in mezzo ai Seminaristi - Lettera che ricorda questi esercizi - Ritorno di D. Bosco a Torino: scioglie li accalappiati dal demonio - Come fa D. Bosco per vedere le cose lontane: lavorar molto è suo dovere - Continuano le conseguenze del sogno - D. Bosco annunzia che dirà ad ogni allievo qualche cosa sopra il suo avvenire e sui nemici dai quali deve guardarsi - Meravigliose confessioni - La confidenza in Savio Domenico e la benedizione di D. Bosco guariscono un infermo - Come D. Bosco accetti le lodi e i biasimi - Tre furberie spirituali - Capitolo e accettazione di un nuovo socio.

 

                Il 23 gennaio, festa dello sposalizio di Maria Vergine con S. Giuseppe, D. Bosco accondiscendeva alla domanda rimessagli sul finire dell'anno passato dal suo chierico Boggiero, addetto al piccolo Seminario di Giaveno. Leggiamo nei verbali del Capitolo: [839] L'anno del Signore 1861 li ventitrè gennaio, il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales si radunò per l'accettazione del chierico Boggero Giovanni di Cambiano figlio di Michele. Premessa  l'invocazione allo Spirito Santo, fecesi dal Capitolo la votazione, la quale fu a pieni voti in favore di detto chierico Boggero Giovanni. Pertanto fu ammesso alla pratica delle Regole della Società.

 

                Grande era il gaudio di D. Bosco in queste accettazioni. Oltre la buona ed esemplare condotta dei suoi chierici, vedeva in loro un grande impegno nello studio della Filosofia e della Teologia, sicchè poteva prevedere che sarebbero riusciti valenti ministri del Signore. Ed egli eccitavagli a fornirsi di nuove cognizioni di ermeneutica sacra, continuando l'usanza del così detto Testamentino. Tutte le settimane, come abbiamo già narrato, dava loro da studiare a memoria alcuni versicoli del Nuovo Testamento e radunandoli poi al giovedì, dopo la recita, talvolta commentava egli stesso brevemente ciò che si era studiato.

                “Il 31 gennaio, scrive D. Ruffino, in occasione di questa recita, D. Bosco commentò alcuni versicoli di S. Luca al capo ventuno: Surget gens contra gentem, et regnum adversus regnum. Et terraemotus magni erunt per loca, et pestilentiae et fames, terroresque de coelo, et signa magna erunt. Sed ante haec omnia injicient vobis manus suas, etc. Quindi dopo aver parlato della fine del mondo diceva: - Se si dovesse prestar fede a certe rivelazioni e profezie parebbe che tale avvenimento possa accadere sul finire di questo secolo. Si potrebbe dire che molti dei segni predetti già vi siano. Le guerre si succedono in ogni parte del mondo, gens contra gentem, il fratello contro il fratello, la Chiesa oppressa, i sacerdoti perseguitati, imprigionati, uccisi, i sacrilegi vandalicamente e legalmente commessi ecc. ecc. Anche San Gregorio Papa da molti indizi argomentava, che a' suoi [840] tempi non fosse lontana la venuta sulla terra del Salvatore per giudicare tutte le nazioni. Non indovinò questo gran santo, non indovineranno gli altri. È un segreto che Dio ha riserbato per sè . Tuttavia si deve tener conto di tali segni, poichè il succedersi di tanti spaventosi sconvolgimenti e di tante miserie non è altro che un triste e lento preludio dell'inevitabile catastrofe finale, e un ricordo continuo del gran giorno delle giustizie di Dio.

                E poi aggiungeva: - Riguardo al pestilentiae et fames noi avremo non so se quest'anno, o l'anno venturo, oppure se da qui a due o tre anni una carestia ed una mortalità. Questa mortalità io giudico che non sia solamente quella della guerra attuale, ma una pestilenza o colera, cosicchè vi sarà gente che domanderà pane e non potrà averne; e vi sarà pane, ma non vi sarà gente per mangiarlo”.

                D. Bosco alludeva certamente a qualche rivelazione, se così vuole essere chiamato tale presagio, poichè ne' varii sogni fa spesse volte cenno di peste, fame e guerra, ma senza determinare il tempo quantunque sembra che debbano essere contemporanee.

                E poichè noi da qui innanzi ci incontreremo in non poche descrizioni che D. Bosco fece sugli avvenimenti futuri, crediamo opportuno, per norma dei lettori, di presentar loro alcune osservazioni, che fa il Vigouroux tratte dai santi Padri nel suo Manuale Biblico, volume Il, parte III Capitolo I, articolo I, numero 899 sui vaticini dei Profeti dell'Antico Testamento. Queste si potrebbero adattare al caso nostro, se però il giudizio di chi solo ha la podestà di riconoscere nei servi di Dio l'ispirazione sovrannaturale, non dissentirà dalla nostra opinione.

                Dice adunque l'autore citato: “Le profezie sono spesso avviluppate da oscurità; il che proviene da molte cause: [841]

                l° Una delle principali è la nostra ignoranza .....

                2°Una parte dell'oscurità delle profezie proviene dalle profezie stesse, poichè è intrinseco alla lor natura il non essere del tutto chiare e precise, come quelle che predicono avvenimenti non ancora compiutisi; che perciò non possono far conoscere se non in modo generale, senza indicare un gran numero di circostanze accessorie; cosicchè ci danno dell'avvenire uno schizzo, non un quadro finito. Per conseguenza necessaria, sono alquanto vaghe, di forme e contorni indecisi e quasi avvolti in una specie di nube. A quella guisa che varii antichi fatti ci riescono oscuri, perchè non ne conosciamo che pochi lineamenti ad es. la storia di Lamech nel quarto capo della Genesi; così gli avvenimenti futuri predetti dai profeti sono ai nostri occhi indistinti, perchè non ne vediamo che pochissimi tratti.

                3° Un'altra cagione dell'oscurità delle profezie è la mancanza di distinzione dei tempi nelle predizioni del futuro. Esse sono come quadri senza prospettiva. Spesso Dio rivelava contemporaneamente ai profeti avvenimenti diversi, che dovevano compiersi in diverse epoche, e nondimeno li mostrava loro sovra uno stesso disegno, qual che si fosse la data loro assegnata, confusi insieme i più prossimi coi più remoti, come la rovina di Gerusalemme e la fine del mondo, ad es. in S. Matteo al Capo ventiquattro. Perciò stesso è difficilissimo distrigarli”.

                Ritorniamo ai nostri racconti. Si era nella novena di S. Francesco di Sales, la cui festa nell'Oratorio solevasi celebrare la domenica seguente al giorno 29. Quindi il giorno 1° di febbraio, D. Bosco, dopo di aver raccomandato al santo suo Patrono un disegno di ampliamento dell'Oratorio, faceva domanda al sindaco di Torino per occupare parte della strada comunale che andava alla fucina delle [842] canne e per chiudere la via della Giardiniera. E il 15 febbraio il Sindaco gli rinviava la domanda, munita del parere degli uffici d'arte, affinchè D. Bosco concertasse il progetto cogli altri proprietari interessati.

                Alla sera del 1° febbraio D. Bosco aveva parlato ai giovani dopo le orazioni, ed ecco il sunto del suo sermoncino.

                Domenica faremo una bella festa. Oltre la mondezza del corpo conviene che ci sia la mondezza dell'anima. È vero che tutti avete i conti aggiustati, poichè da un mese in qua non si fa altro che confessare; confessioni generali o particolari di ogni maniera; tuttavia desidero che tutti i giovani del mondo, ma specialmente quei dell'Oratorio acquistino l'indulgenza plenaria. Dissi che tutti avete i conti aggiustati ma non è vero, ce ne sono ancora alcuni che fanno i sordi e resistono alla voce del Signore. Loro non basta sentirla, ma ci vuole qualche cosa d'altro per commuoverli. Però questo numero che fa resistenza è così piccolo che appena giunge al numero plurale. Ma sono ben sfortunati coloro i quali non si approfittano di tante grazie ed occasioni straordinarie a vantaggio della loro anima. Io per mia parte acquistai più scienza in quelle tre notti sopradette che non in tutto il corso della mia vita. Anche que' disgraziati ascoltino adunque l'avviso del Signore e se essi tarderanno ancora ad ordinare le loro coscienze io stesso li chiamerò poi in mia camera”. Così la cronaca di D. Bonetti e di D. Ruffino.

                Il 3 febbraio si celebrò la festa di S. Francesco di Sales, L'Armonia così ne parla nel N. del giorno 6.

                “Domenica passata abbiamo assistito ad una tenera ed edificante funzione. Erano i figli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, fondato da quel zelantissimo apostolo, da quel padre dei giovani, che è D. Bosco, i quali celebravano [843] la festa del loro Patrono. E la celebrarono con esercizii di pietà, coll'accostarsi ai santi Sacramenti, con funzioni solennissime, con un commovente discorso detto dal canonico, Galletti, e con un trattenimento musicale e una teatrale rappresentazione. A' numerosi Torinesi concorsi a prendere parte a quelle funzioni i figli di S. Francesco di Sales provarono la verità di quella sentenza di S. Paolo: È buona a tutto la pietà, avente le promesse della vita di adesso e della futura”.

                Il 4 febbraio lunedì, D. Bosco partiva da Torino e andava a dettare gli esercizi spirituali nel Seminario di Bergamo invitato da Mons. Speranza. Fu destinato ad accompagnarlo dalla camera al pulpito il Ch. Locatelli che poi fu Vicario di S. Alessandro, succursale della Cattedrale; ed egli ci narrò gli effetti della semplice ed impareggiabile eloquenza di D. Bosco e come ci troncasse a metà la predica sull'inferno per la commozione che impedivagli la parola, e i singhiozzi che non poteva comprimere. Fu enorme l'impressione che produsse sugli uditori.

                “In questi giorni, scrissero Bonetti e Ruffino, accadde un fatto il quale ci persuade sempre più che D. Bosco vede le cose lontane. Il mercoledì verso le sei di sera egli scriveva una lettera a D. Alasonatti nella quale si contenevano le seguenti righe. - Ieri martedì il demonio fece un gran guadagno fra i giovani dell'Oratorio e temo che oggi faccia ancora il resto. - Mentre scriveva vide che nell'Oratorio i due giovani Jarach e Parigi si erano messi in quello stesso tempo a scrivergli un biglietto e poi osservò eziandio che si correvano dietro l'un l'altro nel cortile. D. Bosco concluse la sua lettera mandando i suoi saluti a Jarach e a Parigi.

                Alla sera trovandosi a cena coi superiori del Seminario, avendo egli voglia di ridere e far ridere, disse loro: [844] Questa sera mentre io scriveva a casa, ho veduto nell'Oratorio due miei giovani che mi scrivevano essi pure una lettera.

                - 0h! E come ciò può essere possibile? esclamarono ridendo que' Superiori.

                - Domani vedranno se sarà vero o no!

                All'indomani, giovedì, giorno in cui D. Alasonatti riceveva la lettera, trovandosi nel Seminario di Bergamo tutti a pranzo, ecco che il servo porta la posta per D. Bosco.

                - Ecco, dicono, una lettera per D. Bosco che viene da Torino!

                D. Bosco l'apre e cava fuori dalla busta due biglietti scritti da Jarach e da Parigi. Allora quei superiori si guardarono l'un l'altro pieni di meraviglia e D. Bosco rideva del loro stupore.

                In quella stessa sera D. Alasonatti leggeva in pubblico nel parlatorio quella lettera di D. Bosco che cagionò negli alunni una dolorosa sorpresa. Eppure D. Bosco annunziava un fatto vero.

                Intanto a Bergamo si proseguivano gli esercizii. Don Bosco colle sue dolci maniere trasse a sè il cuore di tutti i chierici, non solo per la forza della sua predicazione, ma per la famigliarità colla quale lì trattava; col trovarsi in mezzo a loro in tempo di ricreazione, cogli scherzi moderati coi quali li rallegrava, col narrare qualche fatto sedendosi per terra in cortile, mentre tutti i giovani gli facevano corona essi pure seduti. Il Rettore del Seminario borbottava, vedendo quelle maniere, che secondo lui parevano contrarie alla gravità sacerdotale, ed esclamava sottovoce: - Mi pare che non vada, mi pare che non vada! - Ma quei giovani se li avessero lasciati partire sarebbero venuti tutti seco lui nell'Oratorio. [845]

                Non è a dire il frutto che operò”.

                Di questi esercizii si fa memoria in una lettera che qui trascriviamo.

 

                               Molto Rev. Signore,

 

                Ben contento di poter portare anch'io il mio piccolo tributo di stima e di grato affetto alla s. m. di D. Bosco, Le narro cosa, che forse non riuscirà inutile a chi avrà l'alta fortuna di scriverne la vita.

                L'anno 1861, fu il veneratissimo D. Bosco a dettare i Spirituali Esercizi ai Chierici del Seminario Vescovile di Bergamo, fra i quali ero io pure.

                Ora, in una delle sue prediche ci disse presso a poco così: “In una certa occasione potei domandare a Maria Santissima la grazia di avere presso di me in Paradiso parecchie migliaia di giovani (mi sembra dicesse anche il numero delle migliaia ma non lo ricordo), e la Madonna SS. me ne fece promessa. Se anche voi altri desiderate appartenere a tal numero, io son ben lieto di ascrivervi, a patto che ogni giorno per tutto il tempo di vostra vita recitiate un'Ave Maria, e quella possibilmente nel tempo che ascolterete la S. Messa, anzi nel momento della Consacrazione”.

                Non so qual conto facessero gli altri di questa proposta, io per parte mia l'accolsi con giubilo, stante l'altissima stima, che in quei giorni mi aveva inspirato di sè D. Bosco, e non tralasciai neppur un giorno, che mi ricordi, di recitare l'Ave Maria secondo la detta intenzione. Ma col passar degli anni mi venne un dubbio, che feci sciogliere a D. Bosco istesso; ed ecco il modo.

                La sera del giorno 3 Gennaio 1882, trovandomi a Torino diretto a Chieri per entrare nel Noviziato della Compagnia di Gesù, chiesi ed ottenni di poter parlare a D. Bosco. Mi accolse con grande bontà, ed avendogli io detto che stava per entrare nel Noviziato della Compagnia, disse: - Oh! quanto ne godo! Quando sento che alcuno entra nella Compagnia di Gesù, ne provo tanto piacere come se entrasse fra i miei Salesiani.

                Quindi gli dissi: - Se mi permette vorrei domandarle schiarimenti sopra una cosa, che mi sta molto a cuore. Dica, si ricorda [846] di quando venne nel Seminario di Bergamo a dettarci gli Esercizi Spirituali? - Sì, mi ricordo. - Le sovviene d'averci parlato d'una grazia domandata alla Madonna ecc. - e gli ricordai le sue parole, il patto ecc. - Sì, mi ricordo - Ebbene: io quell'Ave Maria l'ho sempre recitata; la reciterò sempre... ma... V. S. ci ha parlato di migliaia di Giovani; io sono già fuori di questa categoria... e quindi temo di non appartenere al numero fortunato....

                E D. Bosco con grande sicurezza: - Continui a recitare quell'Ave Maria e ci troveremo insieme in Paradiso. - Quindi, ricevuta la Santa Benedizione e baciatagli con affetto la mano, partii pieno di consolazione e di dolce speranza d'aver proprio un giorno a trovarmi in Paradiso con Lui.

                Se V. S. crede che questo possa riuscire di qualche gloria a Dio e di qualche onore alla s. m. di D. Bosco, sappia che io son prontissimo a confermarne la sostanza anche col giuramento.

                Lomello, 4 Marzo 1891.

Umilissimo Dev.mo Servo

V. STEFANO SCAINI S. I.

 

                “Il 9 febbraio 1861, notò D. Bonetti, D. Bosco giungeva a casa da Bergamo. Era aspettato con ansietà da alcuni e con grande allegrezza da tutti gli altri. Essendo sabato D. Bosco si fece premura di avvisare quei giovani che erano stati guadagnati dal demonio. Disse all'indomani che alcuni di costoro erano già andati a trovarlo; alcuni li avrebbe mandati a chiamare; che altri poi lo fuggivano appena lo vedevano. Avendo lungo il giorno incontrati taluni di questi diceva loro: - Ma!! E come è andata? - I poveretti appena udita questa interrogazione si mettevano a piangere e andavano, a confessarsi.

                “10 febbraio, Domenica. - Questa sera trovandoci 4, o 5 di noi in camera di D. Bosco, mentre la comunità era al teatro, io (D. Bonetti) gli domandai come facesse a vedere le cose lontane, ed egli ci disse: Ecco! Pare che ci sia [847] un filo telegrafico, che parta dal mio capo. Per stabilire la comunicazione basta che io porti il mio pensiero in quel punto che io voglio, e subito io veggo quello che colà si trova. Per es. adesso io sono qui in mia camera: ebbene! Se io voglio, veggo un giovane sotto i portici.

                - Ma questo non si può capire: - gli dicemmo noi.

                Ed egli. - Ah! Perchè voi non sapete la mia furberia, non sapete la ginnastica ed il giuoco dei bussolotti. - E con queste parole se la sbrigava, con farci rompere in una risata. Dandoci quindi uno sguardo dal quale sfavillava la più tenera compiacenza e stringendoci a lui, ci disse: Ah! Voi fortunati, perchè siete ancora giovani e avete ancora tempo a fare belle cose per il Signore, avete ancora tempo a farvi tanti meriti pel paradiso; invece io, (e lo diceva commosso) sono già vecchio e presto dovrò andarmene alla tomba, presentarmi al Signore colle mani vuote.

                Allora un di noi, osservò: - Non dica questo; lei lavora giorno e notte, non ha momento di requie e perciò non può dire che abbia le mani vuote.

                Ed egli: - Eh! Sì! ma quello che io fo lo debbo fare per dovere: sono prete, e sebbene io dessi la vita, nondimeno non farci che il puro dovere.

                Gli si replicò: - Se è così, allora è meglio non farsi prete.

                - Oh adagio! E quando il Signore fa sentire che vuole così? Non si può resistere e bisogna obbedire. Del resto mi consolo col pensiero, che il Signore è ricco di misericordia e che quando compariremo innanzi a lui e gli potremo dire fecimus quod jussisti, egli non potrà fare a meno che rivolgerci quelle care parole: Euge, serve bone et fidelis, quia super pauca fuisti fidelis, super multa le conslituam; intra in gaudium Domini lui. [848]

                “17 febbraio. - Oggi, Domenica, D. Bosco disse: Questa volta il demonio fa banca rotta nel nostro Oratorio: possiamo dire che è pienamente sconfitto. È vero che è un nemico che non si dà per vinto: verrà di nuovo ad assalirci, ci prenderà alla spicciolata uno per uno, epperò bisogna che ciascuno stia all'erta; ma per ora ha da noi ricevuto una battosta che forse non avrà mai presa la simile da una comunità. Vi dico schiettamente che l'effetto di quel sogno è un tal fatto che non si legge nella storia: è inaudito! In faccia al mondo è una stoltezza, ma in faccia a Dio, vi assicuro, che non si potrebbe desiderare di più. L'Oratorio per sussistere che sussista, forse non avrà mai più un fatto consimile! Deo gratias!

                Allora noi lo invitammo a scrivere il sogno ed egli ci rispose: - Eh, no! Non posso per due motivi. Il primo perchè sonvi cose che non posso scriverle, sia riguardo a me, sia riguardo a certe persone. Il secondo perchè tuttavia molte cose non si comprenderebbero. Quello che farò si è di scrivere le questioni di Teologia delle prime due notti; lascierò di nominare i fatti pratici e darò le teorie. Riguardo poi a quello che avvenne nella terza notte, certo io non lo scriverò, ma ciò che si può scrivere, e che sarà di maggior gloria di Dio, lo dirò a qualcuno in particolare.

                Quindi ci raccontò un fatto succedutogli lo stesso giorno. Eccolo: -Vi era ancora un giovane, il quale non voleva fare la confessione generale, dicendo che non osava. Io lo mandai a chiamare, facendogli dire ad un tempo che se non voleva confessarsi da me, tuttavia venisse che avevo qualche cosa da dirgli pel bene della sua anima. Ancora resistette; ma un caritatevole amico me lo condusse con belle maniere. Giunto in mia camera, fattosi largo fra quelli che [849] stavano lì attorniandomi per confessarsi, mi domandò: - Che cosa vuole?

                - Chi sei tu? gli domandai.

                - Sono N. N.

                - Ah sei N. N.! Bene, senti: siccome tu dici che non vuoi confessarti da me, così ti dirò solamente quello che tu devi confessare; poi io sono contentissimo che tu vada a confessarti da un altro. Perciò, vedi, ripiglia la tua confessione da quella tal epoca, così, e così; confessa questa e quella tal cosa; questo e quel tal peccato; e gli dissi tutto. - Ciò udendo questo povero giovane rimase come fuori di sè: - Ahi no, esclamò, io mi confesso subito da lei e non voglio andare a raccontare queste cose ad un altro.

                - Se così è, gli dissi, ebbene per ora va; verrai poi domani a sera: adesso come vedi ho molto da fare, perchè è sabato e non abbiamo tempo. Domani a sera dalle cinque alle otto verrai qui in mia camera ed aggiusteremo i conti. - Così fece; questa sera è venuto e andò via contento che era un piacere a vederlo”.

                Questo fatto D. Bosco lo raccontò solo a tre o quattro e non in pubblico.

                D. Bosco parlò eziandio a tutti i giovani dopo le orazioni della sera: - Finora vi dissi tante cose spettanti la vita passata; adesso avrò qualche cosa da dire a tutti, in particolare, riguardo la vita avvenire; e riguardo ai nemici da cui ciascuno deve guardarsi. Se queste cose che si fanno e si dicono nella nostra casa, le quali però sono certamente singolari e che devono stare tra di noi, qualcuno del mondo le sapesse, le giudicherebbe favole. Ma noi abbiamo per massima che sempre, quando una cosa volge a bene delle anime, egli è certo che viene da Dio e non può venire dal demonio. [850]

                Ho una notizia singolare da darvi ed è che il demonio ebbe la peggio in questa casa, e se continueremo di questo passo sarà costretto a fare bancarotta completa”.

                Notiamo un fatto avvenuto mille volte nell'Oratorio. I giovani andando a confessarsi da D. Bosco o perchè non fossero ben preparati in quanto all'esame, o perchè avessero bisogno di essere incoraggiati a palesar qualche cosa, che loro faceva rossore, o pure per essere di coscienza imbrogliata, e anche solamente per far più presto, inginocchiatisi presso di lui, invece d'incominciare la loro accusa dicevano a D. Bosco: - Dica Lei! - E D. Bosco manifestava a ciascuno ciò che aveva fatto, senza dire una cosa di più o di meno, con una esattezza meravigliosa. Di ciò abbiamo centinaia di sinceri testimoni, fra gli altri D. Davico e D. Belmonte. Certe volte D. Bosco scendendo in sagrestia la trovava zeppa di giovani che si volevano confessare. Dava un'occhiata attorno e poi diceva ad uno:

                - Va a fare la Comunione; - e così successivamente a molti altri faceva cenno che andassero pure.

                Egli conosceva essere candide le loro coscienze e i giovani andavano contenti, fermamente persuasi che D. Bosco leggesse nei loro cuori. Accadde più volte a noi di uscire dalla sagrestia per celebrare la Santa Messa e a stento traversarla per i giovani che vi stavano inginocchiati. Ritornati dall'altare, la sagrestia era deserta e D. Bosco solo che preparavasi a celebrare.

                Non di rado confessando gli accadeva un altro fatto singolare. In mezzo alla folla dei giovani scorgeva uno, inginocchiato lontano in un angolo, e senza badare agli altri, faceva cenno a costui, che meravigliato a quel invito alzavasi, si avanzava in mezzo ai compagni che gli facevano largo, e andava dove era D. Bosco, confessandosi [851] pel primo. A chi fece attenta osservazione e godeva la confidenza dei c compagni, risultò che in questi casi vi era qualche irresolutezza di ritornare in grazia di Dio”.

                Ma non solo dava D. Bosco ai suoi giovani la sanità spirituale, ma talvolta eziandio la corporale.

                Il giovane Rebuffo, nel 1861, racconta Ruffino, era male in salute da circa un anno. Da un mese tormentavalo forte dolore di capo, di stomaco e di fegato, perciò dovette lasciare la scuola. Finalmente, più che mai afflitto, fu consigliato da un suo amico a scrivere una lettera a D. Bosco. Si dispose a scriverla, ma non fu capace di combinare insieme due righe. Dovette perciò raccomandarsi all'amico che ne lo aveva consigliato e pregarlo a scrivergliela. Così si fece. La lettera era concepita in questi termini.

 

                               Rev.mo Signore,

 

                Aggravato dal mio male che pare mi aumenti in ragione dei rimedii applicatimi, corrucciato ancora più pel lungo interrompimento de' miei studi sono costretto a manifestarle i miei sentimenti.

                Io sono persuaso che se Ella vuole può fare sì, che io guarisca all'istante; abbia dunque pietà di me, e mi consoli almeno, se di tanto son degno, giacchè io vedo da qualche tempo in Lei, qualche pensiero misterioso su di me. Non mi faccia più misteri, mi palesi senza enigmi quello che Ella pensa di me ed allora sarò tranquillo.

                Mi perdoni, caro padre, se oso parlare in questo modo, ma questo linguaggio me lo ispirò Ella stessa e perciò spero vorrà esaudirmi.

 

                “Passarono due giorni e D. Bosco lo chiama in camera, lo confessa, lo esorta alla confidenza in Savio Domenico e gli dà la sua benedizione. Il male però non cessava, ma più fortemente che mai gli doleva il capo. Allora D. Bosco [852] gli disse: - Domani andrai alla scuola ed a pranzo cogli altri, e poi farai una novena in onore di Savio Domenico.

                “Rebuffo esce dalla camera di D. Bosco; ma che? Appena è fuori si sente cessare ogni male, la sua testa è libera, il suo stomaco s'accorge che è rinforzato, svanisce ogni dolore. Fece pertanto ciò che gli disse D. Bosco ed è tuttora sano ed allegro”.

                Alle note di D. Ruffino succedono quelle di D. Bonetti. “D. Bosco ringraziava il Signore di tanti favori dei quali facevalo strumento per i suoi alunni, ma siccome certi doni evidentemente sovranaturali che in lui splendevano e più le sue virtù gli procacciavano grande stima presso i giovanetti e presso gli estranei, egli spesse volte diceva: - Io sono indifferente alle lodi ed ai biasimi; perchè se mi lodano, dicon quello che io dovrei essere; se mi biasimano, dicono quello che sono.

                Il 18 febbraio incominciavano negli oratorii festivi i catechismi della quaresima, e il 22 ei dava per fioretto alla Comunità di parlare italiano fino a Pasqua, lamentandosi che più non si parlasse la nostra bella lingua, come egli credeva.

                25 febbraio. - D. Bosco promise di insegnarci tutte le sere una furberia.

                1° furberia. Quale è il maggior mezzo e più sicuro, per non cadere mai più in peccato? - È mettere in pratica tutti gli avvisi del confessore.

                26 febbraio. - 2° furberia. Quale è il tempo più propizio in cui domandando grazie al Signore siamo più sicuri di ottenerle? - È il tempo dell'elevazione dell'Ostia e del calice. Perciò era sempre intenzione di D. Bosco che in questo tempo tacesse il canto, le orazioni a voce alta, e l'organo stesso zitto se fosse possibile. [853]

                27 febbraio. - 3° furberia. Quale è il migliore, il più semplice, il più facile modo di assistere alla S. Messa? - È il modo proposto dal Beato Leonardo, di dividere cioè la santa Messa in tre parti, ossia in tre “P” Il primo rosso, il secondo nero, il terzo bianco. - Cioè il “P” rosso che è la passione di Gesù Cristo e meditarla fino all'elevazione. Il nero cioè i peccati; fare memoria e dolerci dei nostri peccati passati, che furon la causa della passione del nostro divin Salvatore; e questo fino alla Comunione. Il “P” bianco che sarebbe il proponimento, cioè di fare proposito dì non peccare mai più in avvenire; e ciò andrà fino alla fine della Messa”.

 

                Questa sera, 27, si radunò il Capitolo della Società di San Francesco di Sales e fece l'accettazione del Sac. D. Rocchietti Giuseppe del fu Pietro di Torino. L'accettazione secondo il solito fu sottomessa ai voti che furono tutti favorevoli. Quindi, come nuovo socio, fu ammesso alla pratica delle regole della Società.

 

                D. Rocchietti erasi restituito nell'Oratorio sembrandogli di aver guadagnato alquanto di sanità.

 

 

CAPO LXIV. D. Bosco Predice il futuro ai giovani e che egli vicino a morire andrà a Roma con dieci alunni - Vescovi imprigionati, sacerdoti uccisi, conventi aboliti - Vittorio Emanuele Proclamato Re d'Italia con Roma capitale - Lettera di D. Bosco al Papa: previsioni su Roma - Annunzia tre spine per L'Oratorio - Da Fossano avvisa D. Alasonatti che nell'Oratorio le cose non vanno bene - Non può recarsi a predicare in Susa - Svela a ciascun giovane quali siano i suoi nemici - Propone ad alcuni di entrare in Congregazione - Morte di un primo allievo secondo la predizione - Letture Cattoliche - Articolo dell'Armonia - Un appello ai Cattolici - Commissione per raccogliere i fatti ed i detti di D. Bosco.

 

                Don Bosco aveva promesso ai giovani, che avrebbe annunciato l'avvenire a quelli che ne lo richiedessero. Molte cose sarebbero da dirsi su questo argomento, ma ci limitiamo semplicemente a tre, avvenute in questi giorni, per non accumulare troppa materia.

                Al Ch. Turchi Giovanni diceva: - Vedi, se stai con me non mancherai di nulla e non avrai che a fare l'obbedienza: se invece lasci l'Oratorio avrai a provare gravi dispiaceri. - E dandogli qualche avviso che gli servisse per regola di condotta aggiunse: - Tu che avrai poi a girare il mondo....... [855]

                E dopo la morte di D. Bosco lo stesso D. Turchi, nostro buon amico, raccontandoci quella predizione ci assicurava: - In quanto a girare il mondo dimorai a Bologna e a Roma, passai del tempo in Francia, in Austria, in Baviera, in Inghilterra e in Iscozia. In quanto a dispiaceri, lasciato l'Oratorio, ne ho avuto di assai gravi. - Così ei ci raccontava, non prevedendo ciò che ancora gli rimaneva da soffrire. Essendo laureato in belle lettere, era stato istitutore per più anni presso nobili famiglie, professore di Rettorica in varii Seminarii, Rettore in un Collegio, ma infine, per varie circostanze, fu costretto a chiedere l'ufficio di cappellano alla Consolata, e, caduto infermo, ritirarsi nella piccola Casa della Divina Provvidenza.

                Aggiunge la cronaca di D. Ruffino. - 10 febbraio.

                D. Bosco disse oggi al giovane Dalmazzo Francesco: Tu vivrai 49 anni, vestirai l'abito da chierico e starai nell'Oratorio. Dopo la morte di D. Bosco sarai fatto canonico”. (Nacque il 18 luglio 1845 e morì il 10 marzo 1895 Rettore del Seminario di Catanzaro).

                Qualche settimana dopo D. Bosco vaticinava di se stesso in modo sorprendente. Leggiamo nelle carte di D. Ruffino: “D. Bosco disse: Allorchè i tempi saranno tranquilli e la Chiesa sarà libera, io andrò a Roma con dieci giovani, poi canterò il Nunc dimittis!

                - Starà poi a Roma?

                - Oh no! Ritornerò! - Questo lo disse a pochi”.

                Questa profezia avveravasi con gran precisione, allorchè andò a Roma per la consacrazione del suo tempio dedicato al Sacro Cuore di Gesù, come a suo tempo dimostreremo. Nel 1887 ben poteano dirsi tranquilli i tempi, libera la Chiesa, a petto delle oppressioni del 1861. Infatti Monsignor Gallo Vescovo d'Avellino, arrestato a Napoli il 24 [856] di febbraio 1861, era tradotto violentemente in Torino, dopo un lungo e disastroso viaggio parte per mare e parte per terra. Qui venne condotto alla Missione a tener compagnia al Cardinale De Angelis ove ambedue stettero reclusi fino al 1866. La loro presenza nelle proprie diocesi dava ombra al Governo.

                Tristissimi que' giorni per la Chiesa. Più di settanta Vescovi rimossi dalle loro sedi o incarcerati. Preti senza numero gettati in prigione, sessantaquattro di questi e ventidue frati fucilati. Il Commissario Pepoli nel dicembre dell'anno 1860 aveva aboliti gli ordini religiosi e confiscati i beni ecclesiastici nell'Umbria, imitato nelle Marche dal Commissario Valerio. Nel regno di Napoli Mancini, nel febbraio del 1861, incominciava la stessa distruzione. Fu estesa ad esso la legge del 1855 colle sue eccezioni; e furono aboliti 721 conventi, dispersi circa 12.900 tra religiosi e monache e confiscati i beni di 104 chiese collegiate. Per allora andava immune la Sicilia, perchè colà si temeva una terribile resistenza popolare. Non basta: in data 31 marzo 1861 il ministero toglieva tutti i cimiteri alla giurisdizione dell'Autorità Ecclesiastica.

                Torino frattanto il 17 marzo era imbandierata e tutta in festa, musiche, baldorie. I patrioti smaniavano in un delirio di gioia. Vittorio Emanuele II era stato proclamato Re d'Italia; e Cavour il 25 dichiarava nella Camera dei Deputati e nel Senato: “Roma dev'essere la capitale del l'Italia, perchè l'Italia senza Roma non si può comprendere”.

                La Cronaca di D. Ruffino prosegue: “D. Bosco scrisse a Pio IX, ma non gli diede notizie guari consolanti; anzi gli fece sapere che sarà una grazia speciale della Madonna se non dovrà abbandonare Roma.

                Il 7 marzo D. Bosco fece sapere al Ch. Vaschetti in Giaveno: [857]

                - Una terribile burrasca si prepara per l'Oratorio - E disse poi che le spine per cui dovremo passare sono due “M” ed un “R” cioè Malattie, Moralità e Rivalità.

                Il 14 marzo D. Bosco da Fossano, ove andò per motivi di salute, scrisse a D. Alasonatti, dicendogli: - Gli affari di casa nostra non vanno bene, specialmente per alcuni giovani il cui nome incomincia per “F”. Dica al Sig. Cav. Oreglia, a D. Rua e a Turchi ecc. ecc. che ci toccherà camminare un poco sulle spine, ma dopo raccoglieremo fragrantissime rose”.

                D. Bosco scriveva eziandio al Canonico Rosaz, che lo aveva invitato a Susa per fare una predica.

 

                               Car.mo Signor Canonico,

 

                Un po' di pazienza fa bene a tutti. Sono incomodato nello stomaco e non posso predicare: mi sono allontanato qualche giorno da Torino, ma non basta. Se giudica bene io troverà un altro pel discorso della Salita Infanzia. Se può provvedere costì faccia in nomine Domini.

                Fiat per ora e mi comandi altre volte, forse andrò; ma non per predicare.

                Il Signore ci conservi tutti nella sua santa grazia e mi creda tutto suo

                Fossano, 15 marzo 1861.

                Del Regno d'Italia anno I giorno 2.

Aff.mo Amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Di ritorno da Fossano, “D. Bosco, notò D. Ruffino, è occupato in tutte le ricreazioni nel dire in un orecchio a ciaschedun giovane quali siano i suoi proprii nemici. A me disse: I tuoi nemici saranno i cattivi consiglieri.

                D. Bosco tagliò la testa, come egli dice, a Costamagna [858] e a quattro altri, cioè fece loro la proposta di entrare in Congregazione.

                7 aprile. - Nell'Oratorio passò all'altra vita il giovane di 11 anni Quaranta Lorenzo di Vernante”. D. Bosco la vigilia di Natale aveva annunziato che fra pochi mesi alcuni fra i suoi alunni non sarebbero più; e si avverava il primo “M” cioè malattie come aveva predetto al Ch. Vaschetti. Dopo pochi giorni un altro giovane doveva discendere nella tomba.

                Intanto pel mese di aprile, Paravia aveva stampato il fascicolo per le Letture Cattoliche: Esempi edificanti proposti alla gioventù. - Fiori di lingua.

                Sono 100 racconti, specialmente per gli studenti, che espongono ogni circostanza della vita nella quale può trovarsi un giovanetto ed ogni racconto è seguito da una breve e opportuna riflessione per regola di condotta. Gli esempi erano tratti dal Bartoli, dal Segneri, dal Belcari, dal Cavalca, vita de' Santi Padri, dal Passavanti, dal Cesari.

                D. Bosco spiega il motivo pel quale presenta ai giovani questo libro. “È difficile ridurre un pomo fracido alla primiera maturità: sarà dunque più facile seminare quei grani ch'egli ha nel seno, i quali a suo tempo daran poi frutto stagionato e salubre. Con ciò s'intende che non vi è altra maniera di sperare la riforma della società, che applicandosi ad allevar bene la gioventù, la quale poi arrecava un miglioramento universale nei popoli”.

                La prefazione dell'opuscolo era in questi termini.

 

AI NOSTRI LETTORI.

 

                Sebbene sia scopo delle Letture Cattoliche di pubblicare operette di stile semplice e dirette specialmente alla classe meno erudita del popolo; tuttavia ci parve cosa utile stampare una serie [859] di fatti curiosi, edificanti, i quali mentre possono tornare utili ad ogni condizione di persone, siano in modo particolare diretti alla gioventù. Tali esempi furono ricavati da autori classici che fanno testo di lingua nella nostra italiana favella; affinchè i giovani studiosi oltre l'utilità morale trovino eziandio un modello di lingua, di frasi, di periodi, da potersi con sicurezza seguire anche nell'uso scientifico e letterario.

                Così noi proveremo duplice consolazione; quella di promuovere il bene di nostra santa cattolica religione, che è l'oggetto costante di nostra sollecitudine, e cooperare a far conoscere almeno in parte quegli scrittori il cui ingegno e le cui opere saranno mai sempre l'ammirazione ed il pascolo di chi ama la bella nostra lingua italiana.

                Il Signore vi benedica tutti e vivete sempre felici.

 

                L'Armonia del 5 aprile, venerdì, raccomandava le

 

LETTURE CATTOLICHE - ANNO IX.

 

                Con vera soddisfazione annunziamo ai nostri lettori che continua la pubblicazione delle Letture Cattoliche. Le persone che ne sono alla Direzione, le vive raccomandazioni fatte dal regnante Pio IX e in generale da tutti i Vescovi, valgono più d'ogni discorso ad incoraggiare i veri cattolici a favorire tale pubblicazione. Ciò che rende in modo particolare pregevoli questi libretti è la loro popolarità congiunta colla purezza di lingua e chiarezza di sentimenti, che con facilità si comprendono da ogni classe di persone. Non si parla di politica. Si espone la verità cattolica in forma di dialoghi e di ameni racconti, lasciando da parte quei fatti e quei nomi che potessero indicare spirito di partito. Il tenue prezzo dimostra che si cerca il bene e non il lucro .....

 

                Pel mese di maggio la Tipografia di Luigi Ferrando stampava il fascicolo: La Chiesa per.Mons. Segur con appendice di cose diverse.

                In appendice si spiega chi è il Papa e perchè abbia il [860] poter temporale e che l'essere obbediente al Romano Pontefice è cosa necessaria per salvarsi.

                Davasi inoltre questo prudente avviso ai lettori: “Pensa che coloro che possono tenere discorsi avversi al Papa ed al suo potere temporale forse non sono altro che ingannati o ignoranti, e non già pervertiti. Quindi se altro non puoi fare, prega per loro che Dio li illumini e riconoscano la verità e la giustizia.

                Imita la celeste carità del Santo Pontefice Pio IX, il quale, mentre è costretto a colpire di scomunica maggiore gl'invasori del patrimonio di S. Pietro, prega ardentemente per loro, ed invita tutta la Chiesa a pregare, per raccoglierli di nuovo ravveduti e pentiti nell'ovile di Cristo, e stringerli al paterno suo cuore. Così sia di loro e degli uomini tutti”.

                Il fascicolo terminava colla seguente pagina.

 

UN APPELLO AI CATTOLICI.

 

                Non è più un mistero, che si fa la guerra al Capo della Chiesa Cattolica per distruggere, se fosse possibile, la stessa Chiesa e protestantizzare l'Italia. È questo predicato senza velo in mille libercoli, opuscoli, fogli volanti, e perfino negli almanacchi, nei quali spacciansi i più grossolani errori degli acattolici, come se fossero verità del Vangelo; e si versa a piene mani lo scherno, lo sprezzo, il ludibrio sul Romano Pontefice, alle vecchie calunnie aggiungendo la sfrontatezza di spacciarle come nuovo trovato, e ciò per renderlo spregevole, e quindi abbandonato da tutti. In tal guerra, che è guerra di Dio e nostra, ogni uomo è soldato; tutti dunque i veri cattolici si uniscano alla difesa del Romano Pontificato, ossia della Cattolica Religione, e si stringano a santa unione di spirito ai patti seguenti:

                1. Di aver sempre del Romano Pontefice una stima somma ed un profondo rispetto, abborrendo sempre gli errori che si spargono sulla sua qualità di Capo della Chiesa,chè sono eresie;

                2. Di parlar sempre di lui con sommo rispetto, rampognando [861] anche severamente chi ne sparli in presenza nostra, e confutando, per quanto ognuno può, gli errori e le calunnie che venissero spacciate contro di lui;

                3. Di rigettar lungi da sè gli infami scritti che si pubblicano contro il Papa, la sua autorità e giurisdizione, distruggendoli, confutandoli, contrapponendo loro e diffondendo buone scritture, anche con sacrifizio di denaro;

                4. Di non intervenir mai a quelle teatrali rappresentazioni dove si inette in ridicolo e si scredita. Religione, Papa, Cardinali, Vescovi, preti e religiosi;

                5. Di esortar altri ad unirsi a quest'associazione, e, quando si potesse intraprendere la pubblicazione di qualche stampa veramente cattolica, contribuirne alle spese ed alla diffusione;

                6. Di alleviare con la pia opera del Denaro di S. Pietro la necessità in cui ora si trova il S. Padre per lo spogliamento fattogli del patrimonio temporale, che la Divina Provvidenza gli assegnò per la sua indipendenza;

                7. Di pregar ogni giorno per la Chiesa, pel Romano Pontefice dicendo un Pater, Ave e Gloria e le parole: Credo Sanctam Catholicam Catholicam Ecclesiam per farne un atto di fede nella Divinità della Chiesa, di cui il Papa è Capo visibile e tiene le veci di Gesù Cristo.

                Italiani! Voi siete eminentemente cattolici; dichiaratevi tali anche in questo supremo momento, e sia la vostra più gloriosa divisa: Cattolici col Papa.

 

                Mentre D. Bosco indefessamente lavorava, gli amanti suoi figli si erano raccolti in certo numero nel 1861, per registrare i fatti e le parole più rimarchevoli del loro carissimo Superiore per trasmetterle ai posteri. Negli anni antecedenti, più giovani e chierici, specialmente Ruffino e Bonetti, avevano conservate memorie abbastanza prolisse di quanto videro ed udirono ma ora si volevano esaminare e vagliare i loro scritti. Nello stesso tempo si desiderava continuare quell'opera così preziosa ed utile. In una preliminare radunanza D. Ruffino raccolse e mise in carta le loro intenzioni. [862]

                “Le doti grandi e luminose che risplendono in Don Bosco, i fatti straordinarii che avvennero a lui e tuttodì ammiriamo, il suo modo singolare di condurre i giovanetti per le vie ardue della virtù, i grandi disegni che egli mostra di rivolgere in capo intorno all'avvenire, ci rivelano in lui qualche cosa di sovrannaturale e ci fanno presagire giorni più gloriosi e per lui e per l'Oratorio. Tutto ciò impone a noi uno stretto dovere di gratitudine, un obbligo di impedire, che nulla di quello che si appartiene a Don Bosco cada in oblio, e di fare quanto è in nostro potere per conservarne memoria, affinchè risplenda un dì qual luminosa face ad illuminare tutto il mondo a pro della gioventù. Questo è lo scopo della Commissione da noi stabilitasi. Essa è composta dei seguenti membri: D. Alasonatti, Don Rua, D. Savio, D. Turchi, il Cav. Oreglia di S. Stefano Federico, Ch. Cagliero, Ch. Francesia prof., Ch. Durando professore, Ch. Cerruti, prof., Ch. Anfossi prof., Chierico Provera prof., Ch. Bonetti, Ch. Ghivarello, Ch. Ruffino.

                Nella prima seduta si stabilirono tre, perchè fossero principali raccoglitori dei fatti: cioè i chierici Ghivarello, Bonetti e Ruffino.

                Nella seconda seduta tenutasi il 3 di marzo, assenti Cagliero, Anfossi, Durando, si votò pel presidente, vice presidente, e segretario della Commissione. Furono eletti 1° Don Rua, 2° D. Turchi, 3° Ruffino. In questa seduta si lessero alcune cose già scritte, cioè il sogno di D. Bosco del 28 dicembre; tutti convennero sui punti essenziali e si prese consiglio di cercare schiarimenti, intorno ad alcune cose accidentali. Si sciolse la seduta e si convocò la terza pel 10 aprile - Firmato: Sac. Rua Michele.

                10 aprile. - La seduta incomincia alle 2 pomerid. presenti 8 membri. Fu letto il verbale della seduta precedente [863] ed approvato. Si lessero alcuni paragrafi di parecchie cose accadute allì 3 gennaio e 10 febbraio, cioè la profezia in occasione della recita del Testamentino, la guarigione di Rebuffo, le furberie insegnate da D. Bosco. Il tutto fu approvato. La seduta è chiusa e viene fissata la quarta pel sabato prossimo dopo la cena.

                8 aprile. Aperta la seduta alle 2 e mezzo pom. presenti 13 membri si lesse la prima parte del sogno 3, 4, 5 aprile e fu approvata con alcune correzioni ed aggiunte fattevi. Si determinò di raccomandarsi al Teol. Borel per avere notizie di D. Bosco riguardo ai primordi dell'Oratorio.

                1° maggio. Incomincia la seduta ad un ora e mezzo con otto membri. D. Turchi, raccoglitore delle antichità, lesse il fatto delle lune e del cane il che fu approvato. Alle due si scioglie la seduta.

                7 maggio. Si apre la seduta ad un ora e mezzo presenti sette membri: si lesse metà del sogno delli 2 maggio e fu approvato”.

                In altre sedute la Commissione continuò ad ascoltar la lettura della seconda metà del sogno delli 2 maggio, correggendo ed approvando; e proseguì ad esaminare la cronaca di D. Turchi Giovanni, molto limitata e che abbiamo fatta nostra nei volumi anteriori a questo, con quella di Don Bonetti e quella di D. Ruffino. Noi possiamo adunque essere certi della verità di quanto ci tramandarono questi testimoni degni per se stessi d'ogni fede. Altri sottentrarono nel corso degli anni, a continuare il loro lavoro con eguale affetto a D. Bosco ed alla verità, sicchè senza timore di essere smentiti noi parlando di D. Bosco potremo usare la frase degli storici sacri: Nonne haec scripta sunt in libro sermonum dierum... ?

 

 

CAPO LXV. Sogno: Una passeggiata dei giovani al Paradiso - Una collina incantevole - Un altipiano - Laghi: sangue, acqua, fuoco, bestie feroci - Uno stretto passaggio - Si ritorna indietro: un'immensa pianura - Spettacolo ributtante - Un giardino ingannatore - Turbe allegre che vanno alla perdizione - Si ripiglia la salita: lo stretto passaggio; un ponte di legno - Difficile ascesa alla montagna - Un luogo di pena - Presso la vetta: canti celesti - I giovani scoraggiati e stanchi si fermano a mezza via o discendono - Sforzi di D. Bosco per farli risalire - Spiegazioni e osservazioni - D. Bosco racconta il sogno al Card. De Angelis.

 

                Passiamo a narrare un altro bel sogno ch'ebbe Don Bosco nelle notti del 3, 4, 5 aprile 1861. “Varie circostanze, scrisse D. Bonetti, che in quello si ammirano, convinceranno abbastanza il lettore essere uno di que' sogni che il Signore si compiace a quando a quando di mandare a suoi servi fedeli”. Egli e D. Ruffino lo descrissero minutamente, come noi lo esponiamo.

                D. Bosco nella sera del 7 aprile, dopo le orazioni, salì in cattedra per indirizzare qualche buona parola ai suoi giovanetti e cominciò così: - Ho qualche cosa a dirvi molto curiosa. Vi voglio raccontare un sogno. Egli è un sogno e perciò non è una [865] realtà. Di ciò vi avviso acciocchè non gli diate maggior valore di quello che si merita. Prima di narrarvelo debbo premettere qualche osservazione. Io a voi dico tutto, come desidero che voi diciate tutto a me. Per voi non ho segreti; ma quello che si dice qui non sia propagato di fuori; sia detto e rimanga solo fra noi. Non che sia reo di peccato chi lo raccontasse a persone estranee, ma è meglio che non varchi le soglie di questa casa. Parlatene pure fra di voi, ridete, scherzate su ciò che sono per dirvi, finchè vi pare e vi piace; ed anche ma solo con quelle poche persone, le quali potrete capire che dalla vostra confidenza saranno per ricavarne alcun bene; e alle quali crederete sia conveniente farla. Il sogno è diviso in tre parti: fu fatto in tre notti consecutive e perciò stasera ve ne conterò una parte e le altre due parti nelle sere seguenti. Ciò che mi produsse molta meraviglia si è che io ripresi il sogno, nella seconda e nella terza notte, da quel punto stesso nel quale lo avevo interrotto la notte antecedente nel risvegliarmi.

 

PARTE PRIMA.

 

                I sogni si fanno dormendo e perciò io dormiva. Alcuni giorni prima mi ero recato fuori di Torino, passando vicino alle colline di Moncalieri. La vista di queste colline già alquanto verdeggianti, mi rimase impressa; e quindi può darsi che nelle notti seguenti dormendo, l'idea di quello spettacolo delizioso venisse di bel nuovo ad affacciarsi alla mia mente, e, lavorando la fantasia nascesse vaghezza di fare una passeggiata. Fatto sta che io sognando, divisai di fare una passeggiata. Parevami di essere in mezzo ai miei giovani in una pianura; innanzi ai miei occhi si elevava un alto e vasto colle. Eravamo tutti fermi, quando ad un tratto feci ai giovani la proposta: - Andiamo a fare una bella passeggiata?

                - Andiamo!

                - Ma dove?

                Ci siamo guardati in faccia, abbiamo pensato, e poi per non so quale stranezza alcuno incominciò a dire: - Andiamo in paradiso?

                - Sì, si! andiamo in paradiso: - gridarono gli uni.

                - Sì, sì! andiamo a fare una bella passeggiata in paradiso!

                replicarono gli altri. [866]

                - Bene, benissimo! andiamo; gridarono tutti d'accordo.

                Eravamo in una pianura e messici in via, dopo qualche tratto di cammino, ecco che ci trovammo ai piedi della collina. Abbiamo incominciato ad andar su per i sentieri di questa. Ma quale spettacolo veramente ammirabile! Quanto il nostro sguardo poteva stendersi, il pendio di quella lunga collina era tutto coperto di piante di ogni specie, tenere e basse, robuste e alte, queste però non più grosse di un braccio. Vi erano piante di pere, di mele, di ciliege, di susine, di vite ecc. ecc. Ma quello che è singolare, sovra una medesima pianta si vedevano fiori che incominciavano a sbocciare, e fiori pienamente formati con vaghi colori: frutti piccoli e verdeggianti e frutti grossi e maturi: dimodochè sopra ciascuna di quelle piante vi era quanto di bello ha la primavera, l'estate, l'autunno. Le frutta erano in tanta quantità, che pareva le piante non potessero sostenerle.

                I giovani venivano da me e mi domandavano curiosamente spiegazione di questo, perchè non sapevano rendersi ragione di simile miracolo. Io mi ricordo che, per appagarli in qualche modo, dava loro cotesta risposta: - Ecco! Il paradiso non è come la nostra terra, dove si cangiano le temperature e le stagioni. Qui non vi sono cangiamenti; la temperatura è sempre uguale, mitissima, adatta per la vegetazione di ogni pianta. Quindi raccoglie in se stesso e nel medesimo tempo, tutto il bello e tutto il buono delle varie stagioni dell'anno.

                Noi restavamo estatici osservando quell'incantevole giardino. Spirava un'aria dolce dolce; nell'atmosfera regnava una calma, un tepore, una soavità di profumi, che ci penetrava tutti e ci persuadeva essere desso confacente ed ogni sorta di frutta. I giovani qua prendevano un pomo, là un pero, ora una ciliegia, ora un grappolo d'uva: e così tutti insieme salimmo lentamente quella collina. Quando giungemmo alla sommità ci credevamo di essere in paradiso; ma invece ne eravamo ben lungi. Da quella vetta, al di là di una grande spianata, in mezzo ad un vasto altipiano, si vedeva un'altissima montagna che toccava le nubi. Su per questa saliva arrampicandosi con stento, ma con grande alacrità, molta gente e sulla cima vi era CHI invitava quei che salivano e faceva loro coraggio. Vedevamo eziandio altri che discendevano dalla sommità fino al basso e venivano ad aiutare coloro, che erano [867] troppo affaticati nel progredire fra quelle rapide balze. Quelli che finalmente giungevano alla meta erano ricevuti con gran festa e giubilo. Tutti noi ci siamo accorti che là stava il paradiso e scendendo verso l'altipiano movemmo alla volta di quella montagna per vedere e salire anche noi. Già avevamo percorso buon tratto di via: molti giovani correndo, per giungere più presto, precedevano di lungo tratto la moltitudine dei compagni.

                Ma che? Prima di arrivare alle falde della montagna, vi era in quell'altipiano un gran lago pieno di sangue e di una estensione come dall'Oratorio a Piazza Castello. Intorno alle rive di questo giacevano tronconi di mani, di piedi, di braccia, di gambe cranii spaccati, corpi squartati ed altre membra lacerate. Miserando spettacolo d'orrore! Sembrava che in questi luoghi fosse stata combattuta una sanguinosissima battaglia! Quei giovani, che correndo arrivarono i primi si arrestarono inorriditi. Io che mi trovavo ancor lontano e di nulla mi ero accorto, osservando i loro gesti di stupore e come più non camminassero e fossero profondamente melanconici, gridai: - Che cosa vuol dire questa tristezza? Che cosa c'è? Andate avanti!

                - Sì? Andare avanti? Venga, venga a vedere - Mi rispondevano essi. Affrettai i passi e vidi !! Tutti gli altri giovani sopraggiunti, che pochi istanti prima erano così allegri, diventarono tutti silenziosi e melanconici. Io ritto sulle spiagge del lago misterioso osservava: ma non si poteva passar oltre. In faccia, sulle rive opposte, leggevasi scritto a grandi caratteri: Per sanguinem.

                I giovani si domandarono a vicenda: - Che cosa é? Che cosa vuol dire questo spettacolo?

                Allora ho interrogato UNO, che ora non mi ricordo più chi fosse, il quale ci disse: - Ecco qui vi è il sangue versato da coloro e sono tanti e tanti, che già toccarono la sommità del monte e andarono in paradiso. Questo sangue è quello dei martiri! Qui vi è il sangue di Gesù Cristo dal quale furono bagnati i corpi di coloro che furono uccisi in testimonio della fede. Nessuno può andare in paradiso senza passare per questo sangue e senza esserne asperso. Questo sangue è quello che difende la S. Montagna, figura della Chiesa Cattolica. Chiunque tenterà di assalirla, rimarrà affogato. E appunto tutte queste mani e piedi troncati, quei teschi sfracellati, quelle membra a pezzi, di cui vedete seminate queste rive, [868] sono avanzi miserabili di tutti i nemici, che vollero combattere la Chiesa. Tutti furono fatti a pezzi! Tutti perirono in questo lago! - Quel giovane misterioso nel corso del suo parlare aveva nominati molti martiri, fra i quali enumerò pure i soldati del Papa, caduti sul campo di battaglia per la difesa del dominio temporale.

                Ciò detto additandoci alla nostra destra, verso oriente, in fondo, un immenso vallone molto più grande, un quattro o cinque volte almeno del lago di sangue, soggiunse: - Vedete là quel vallone? Sappiate che laggiù si metterà il sangue di coloro, che per questa via avranno da salire su questo monte, il sangue dei giusti, di quei che morranno per la fede nei tempi futuri.

                Io faveva coraggio ai giovani, esterreffati per ciò che vedevano e ciò che loro veniva annunziato, dicendo: - che se dovessimo morir martiri il nostro sangue sarebbe messo in quel vallone: ma le nostre membra non sarebbero mai state gettate con quelle che là si trovavano.

                Intanto ci affrettammo a rimetterci in marcia e costeggiando quelle sponde, avevamo a sinistra la sommità della collina, per la quale eravamo venuti e alla destra il lago e la montagna. A un certo punto ove terminava il lago di sangue vi era un terreno sparso di querce, allori, palme e di altre piante. Noi ci mettemmo in questo per vedere se ci fosse possibile avvicinarci alla montagna. Ma ecco presentarcisi un altro spettacolo. Un secondo grande lago pieno d'acqua, con entrovi altre membra tronche e squartate. Sulla sponda stava scritto a caratteri cubitali: Per aquam.

                Di bel nuovo domandavamo: - Che é? che non é? Chi ci darà la spiegazione di quest'altro mistero?

                - In questo lago, UNO ci disse, c'è l'acqua uscita dal costato di Gesù Cristo, la quale benchè in piccola quantità, pure si è così aumentata, aumenta continuamente, ed aumenterà in futuro. Questa è l'acqua del Santo Battesimo nella quale furono lavati e purificati quelli che già salirono su questo monte, e dalla quale dovranno essere battezzati e purificati quelli, che ancora dovranno ascendere in avvenire. Da questa debbono essere bagnati tutti quelli che vogliono andare in paradiso. Vi si sale o per mezzo dell'innocenza o per mezzo della penitenza. Nessuno può salvarsi senza essere bagnato in quest'acqua.

                Quindi accennando a quella strage prosegui: - Quelle membra [869] di morti son di coloro che nel tempo presente assalirono la Chiesa.

                Intanto noi vedevamo molta gente, ed anche alcuni dei nostri giovani, che camminava sopra l'acqua con celerità straordinaria e con una leggerezza tale, che appena toccava l'acqua colla punta dei piedi senza bagnarsi, e si portava all'altra sponda.

                Noi eravamo attoniti per questo portento, ma ci fu detto: Costoro sono i giusti, poichè l'anima dei santi, allorchè è sciolta dalla prigione del corpo e anche il corpo quando è glorificato, non solo cammina leggermente e velocemente sopra l'acqua, ma vola sull'aria stessa.

                Tutti i giovani allora desiderarono di correre sulle acque di quel lago, come avevano fatto coloro che avevano visti. Quindi si volgevano a me quasi interrogandomi collo sguardo. Ma nessuno osava ed io diceva ad essi: - Per parte mia non oso; è una temerità supporci così giusti, da poter passare su queste acque senza cadervi dentro.

                Allora tutti esclamarono! - Se non osa lei tanto meno noi!  Continuammo ad andare ancora più avanti sempre girando attorno alla montagna ed eccoci ad un terzo lago, vasto come il primo, pieno di fuoco, con entrovi altre membra umane spezzate e tagliate. Si leggeva scritto sulla sponda opposta in un cartello: Per ignem. Mentre noi stavamo osservando quella pianura di fiamme: - Qui, ci disse quel tale, c'è il fuoco della carità di Dio e dei santi: le fiamme dell'amore, del desiderio per cui devono passare quelli che non sono passati pel sangue e per l'acqua. Questo è eziandio il fuoco con cui furono dai tiranni tormentati e consumati i corpi di tanti martiri. Molti sono quelli che dovettero passare per questa via per salire alla volta di quella montagna. Queste fiamme serviranno per abbruciare i loro nemici. - Per la terza volta noi vedevamo stritolati i nemici del Signore sul campo delle loro sconfitte!

                Ci affrettammo ad andare più avanti e al di là di questo lago, ve ne era un altro a guisa di grandissimo anfiteatro che presentava una vista ancor più terribile. Era pieno di bestie feroci, lupi, orsi, tigri, leoni, pantere, serpenti, cani, gatti e di tanti altri mostri che stavano colle fauci spalancate per divorar chiunque si avvicinasse. Vedevamo gente camminare sulle loro teste. Alcuni giovani si  [870] misero a correre e passeggiavano anch'essi senza paura sulla testa spaventosa di quelle bestie, senza essere menomamente lesi. Io voleva richiamarli e gridava a tutta forza: - No! Per carità! Arrestatevi! Non andate avanti! Non vedete che esse stanno là, aspettando per sbranarvi e per divorarvi? - Ma la mia voce non era udita e continuavano a camminare sui denti e sulle teste di quelli animali, come sopra il luogo più sicuro. Il solito interpetre allora mi disse: Queste bestie, sono i demonii, i pericoli e le trame del mondo; costoro che passano sopra di esse impunemente sono le anime giuste, sono gli innocenti. E non sai che sta scritto: Super aspidem ei basiliscum ambulabunt ei conculcabunt leonem et draconem? Di tali anime parlava Davidde. E nel Vangelo si legge: Ecce dedi vobis potestatem calcandi supra serpentes et scorpiones, et super omnem virtutem inimici: ti nihil vobis nocebit.

                Ci domandavamo: - Come dobbiamo fare per passare di là? Dovremo camminare anche noi su queste orribili teste?

                - Sì, sì! venga, andiamo! mi disse qualcuno.

                - Oh! io non me ne sento coraggio, risposi: è da presuntuoso supporci giusti da poter passare illesi sulle teste di questi mostri feroci. Andate voialtri se volete; io non ci vado.

                Ed i giovani ripeterono: - Oh! Se non si sente ella tanto coraggio, tanto meno ci sentiamo noi!

                Allontanatici dal lago delle bestie, abbiamo veduto un vasto terreno tutto gremito di gente. Ma di questi chi era o aveva apparenza di essere, senza naso, chi senza orecchie, chi aveva la testa tagliata: quale mancava di braccia, quale di gambe: questi era senza mani, quegli senza piedi. Agli uni mancava la lingua, agli altri erano stati svelti gli occhi. I giovani erano meravigliati nel vedere tutta questa gente così malconcia, quando UNO ci disse: - Sono gli amici di Dio: sono coloro che per salvarsi si mortificarono nei sensi, nelle orecchie, negli occhi, nella lingua e quindi hanno fatte molte opere buone. Molti hanno perdute quelle parti del corpo di cui son privi, per le grandi opere di penitenza, o lavorando per amore di Dio e del prossimo. Quelli della testa tagliata sono coloro che in modo particolare si consacrano al Signore.

                Mentre stavamo considerando queste cose, vedevamo molta gente, parte della quale aveva attraversato i laghi, salire la montagna e ci furono additati altri sulla cima che davano la mano [871] e facevano coraggio a chi saliva; e poi battevano le mani e dicevano: - Bravi! Bene! - Al rumore di questi applausi e di queste grida mi svegliai e mi accorsi che era nel mio letto. Questa è la prima parte del sogno, cioè la prima notte.

 

                La sera dell'8 aprile D. Bosco si presentò ai giovani bramosi di ascoltare la continuazione del sogno. Sulle prime rinnovò la proibizione di mettersi le mani addosso e vietò loro eziandio di muoversi dal posto nella sala di studio e di girare qua e là da una tavola all'altra. Aggiunse ancora: - Chi deve uscire dallo studio per qualsivoglia motivo domandi sempre licenza al capo della tavola. - I giovani erano impazienti e D. Bosco sorridendo, dato uno sguardo attorno, dopo breve pausa, proseguì:

 

PARTE SECONDA.

 

                Tenete bene a mente che vi era un gran lago da riempire ancora di sangue, in fondo ad un vallone vicino al primo lago. Adunque dopo aver visti tutti i varii spettacoli già descritti e terminato il giro di quel vasto altipiano, trovammo che eravi un posto libero per poter passare oltre e ci avanzammo, io e tutti i miei giovani per una valle, che alla sua estremità metteva in una gran piazza. Ci inoltrammo. La piazza era larga e spaziosa nel suo entrare, ma andava restringendosi a poco a poco, in modo che in fondo, vicino alla montagna, terminava in un sentiero fra due rupi, per cui appena poteva passare un uomo solo. Quella piazza era piena di gente contenta e felice che si divertiva; ma tutta tendeva a quello strettissimo passaggio che metteva al monte. Noi ci domandammo l'un l'altro: - Che sia quella la via del paradiso? - Intanto coloro che erano assembrati in quel luogo, uno per volta andavano a passare per quel sentiero e per inoltrarsi dovevano restringere bene e panni e membra, farsi piccoli e deporre, se l'avevano, il fagotto o qualsivoglia altra cosa. Ciò bastò per assicurarmi quella essere la via del paradiso e mi venne in mente che per andare in cielo bisogna non solo spogliarsi del peccato, ma lasciare indietro ogni pensiero, [872] ogni affetto terreno, secondo quello che dice l'Apostolo: Nil coinquinatum intrabit in ea. Noi per breve ora stavamo là a guardare. Ma quanto io fui stolto! Invece di tentare quel passaggio, abbiamo voluto tornare indietro per vedere che cosa ci fosse alle spalle di quella piazza. Avevamo vista altra molta gente in distanza ed eravamo spinti da viva curiosità di vedere che cosa facesse. Quindi ci mettemmo per una campagna amplissima il cui estremo confine non poteva essere raggiunto da occhio umano. Là ci siamo trovati in mezzo ad uno strano spettacolo. Vedemmo uomini ed eziandio molti dei nostri giovani aggiogati con varie specie d'animali. Vi erano dei giovani aggiogati con buoi. Pensava: - Che cosa vuol dire ciò? - Allora mi venne in testa che il bue è simbolo della pigrizia e pensai quelli essere i giovani pigri. Li conosceva, li vedeva proprio certi tali che erano inerti, lenti nell'adempimento dei loro doveri e diceva fra me stesso: - Sì! sta li! Ben ti sta: Non vuoi far mai niente ed ora sta pur li con quell'animale.

                Vidi poi altri aggiogati con asini. Quelli erano i testardi e così accoppiati portavano pesi o pascolavano cogli asini. Erano coloro che non volevan arrendersi nè ai consigli, nè ai comandi dei Superiori. Ne vidi altri aggiogati coi muli o coi cavalli e mi venne in mente quello che dice il Signore. Factus est sicut equus et mulus quibus non est intellectus. Erano coloro che non vogliono mai pensare alle cose dell'anima: disgraziati senza cervello!

                Vidi altri i quali pascolavano insieme coi porci: grutolavano nell'immondezza e nella terra come quegli animali schifosi, e come essi si avvoltolavano nel fango. Erano coloro che si pascolano solo di cose terrene, che vivono nelle brutte passioni, che stanno lontani dal Padre Celeste. Oh triste spettacolo! Allora mi venne pure in pensiero quello che dice il Vangelo del figliuol prodigo, che fu ridotto a questo stato luxuriose vivendo.

                Vidi poi in fine moltissima gente e giovani con gatti, cani, galli, conigli, ecc. ecc. ossia i ladri, gli scandalosi, i millantatori, i timidi per rispetto umano e via discorrendo. Da tutta questa varietà di scene ci siamo accorti che quella gran valle era il mondo. Osservai bene tutti quei giovani ad uno ad uno! Da quel posto ci siamo avanzati ancora un poco in un'altra parte eziandio spaziosissima di quell'immensa pianura. Il terreno andava in declivio ma insensibilmente, cosicchè discendevamo senza accorgersene. [873] Vedevamo ad una certa distanza che il terreno sembrava prendesse l'aspetto di un giardino e dicemmo: - Andiamo a vedere quello che c'è colà?

                - Andiamo!

                E incominciammo a trovare delle bellissime rose purpuree. - Oh le belle rosei oh le belle rose! - gridavano i giovani, e corsero a coglierle. Ma che? Appena le ebbero in mano sentivano che mandavano cattivo odore. Quelle rose tanto vaghe e rosseggianti fuori, dentro poi erano infracidite. I giovani rimasero mortificati. Vedemmo eziandio delle violette freschissime in apparenza, che ci sembrava spandessero buon odore. Ma accostatici a prenderne alcune per formare qualche mazzolino, ci accorgemmo che sotto erano esse pure tutte guaste e puzzolenti.

                Andavamo sempre avanti ed ecco ci siam trovati in mezzo ad incantevoli selvette di alberi, così carichi di frutti che era un piacere il vederli. Specialmente i pometi oh qual dilettevole apparenza avevano! Un giovane corse tosto e staccò dai rami una grossa pera che non poteva essere più bella e più matura, ma appena ci ebbe piantati dentro i denti, gettolla sdegnato lungi da sé. Era piena di terra e di sabbia con un gusto che muoveva il vomito.

                - Ma che cosa è mai questo? domandammo.

                Uno dei nostri giovani, e del quale so il nome, ci disse: Questo è tutto il bello e il buono che presenta il mondo? Tutto è apparenza, tutto è insipido!

                Mentre pensavamo dove ci conducesse il nostro sentiero ci accorgemmo finalmente che discendeva, benchè appena fosse sensibile quel declivio. Un giovanetto allora osservò: - Qui si discende; si va in giù; non andiamo bene!

                - Eh! andiamo a vedere - io risposi.

                Intanto compariva una moltitudine sterminata, che correva per quella strada sulla quale eravamo noi. Erano chi in vettura, chi a cavallo, e chi a piedi. Saltavano, scorazzavano, cantando, danzando colla musica e molti camminavano al suono dei tamburi. Facevasi una festa ed un tripudio indicibile. - Fermiamoci un poco, abbiamo detto: stiamo un poco ad osservare, prima di avviarci con questa gente.

                In quel mentre qualche giovane notò in mezzo a quella folla [874] alcuni, che accompagnavano e sembravano dirigere le singole brigate. Essi erano di bell'aspetto e ben vestiti e di maniere graziose, ma si vedeva che sotto il cappello avevano le corna. Quella gran pianura era adunque il mondo perverso e maligno. Est via quae videtur homini recta, et novissima ejus ducunt ad mortem[26]. A un tratto UNO ci disse: - Ecco come gli uomini vanno all'inferno, quasi senza accorgersene.

                Ciò udito e visto, subito chiamai quei giovani che mi precedevano, i quali si misero a correre verso di me gridando: - Noi non vogliamo andare per colà giù. - E continuando tutti sempre correndo a ricalcare la via già fatta, mi lasciarono solo.

                - Sì, avete ragione, io dissi quando li ebbi raggiunti; fuggiamo, e presto di qui, ritorniamo indietro, altrimenti senza che ce ne avvediamo discenderemo noi pure nell'inferno.

                E volevamo tornare a quella piazza dalla quale eravamo partiti e metterci finalmente anche noi per quel sentiero che conduceva alla montagna del paradiso. Ma qual fu la nostra sorpresa quando dopo lungo cammino, non vedemmo più la valle, per la quale si andava al paradiso, ma sibbene un prato e nient'altro. Ci volgevamo da una banda, ci volgevamo dall'altra, ma non riuscivamo ad orizzontarci.

                Chi diceva: - Abbiamo sbagliata la strada! - Chi gridava: - No, non abbiamo sbagliato; la strada è questa. - Mentre i varii giovani altercavano e ciascuno voleva sostenere la propria opinione, io mi svegliai.

                Questa è la seconda parte del sono fatto nella seconda notte. Ma prima di ritirarvi, udite ancora questo. Io non voglio che diate peso al mio sogno, ma ricordatevi che i piaceri, i quali menano alla perdizione non sono che apparenti, non hanno che la superficie del bello. Ricordatevi anche di prendervi guardia da quei vizii, che ci rendono così simili alle bestie, da farci meritevoli di essere aggiogati con esse; e specialmente da certi peccati, che ci rendono simili agli immondi animali. Oh quanto è disdicevole per una creatura ragionevole essere messo a paro co' buoi e cogli asini! Quanto più è disdicevole a chi fu creato ad [875] immagine e somiglianza di Dio, e fatto erede del paradiso, l'avvoltolarsi nel fango come porci con quei peccati che la S. Scrittura chiama: Luxuriose vivendo.

                lo non vi accennai che le circostanze principali del mio sogno e queste in breve, perché, a dirlo come fu, sarebbe cosa troppo lunga. Anzi, anche ieri sera non feci che un piccolo cenno di quanto ho veduto. Domani a sera vi racconterò la terza parte.

 

                Alla sera del sabato 9 aprile D. Bosco continuava le sue descrizioni.

 

PARTE TERZA.

 

                Non vorrei mai raccontarvi i miei sogni, anzi avantieri, appena ebbi incominciata la mia narrazione, mi sono pentito della mia promessa; ed avrei voluto non aver dato principio all'esposizione di ciò che voi desideravate sapere. Ma debbo dirlo: se taccio, se tengo per me il mio segreto soffro grandemente e raccontandolo ricevo da questo sfogo un grande sollievo, quindi proseguo.

                Prima però devo premettere che nelle sere precedenti, dovetti troncare molte cose, delle quali non era spediente farvi racconto, e tralasciarne anche altre, le quali si possono vedere cogli occhi, ma non si possono esprimere colle parole.

                Contemplate adunque passando, tutte quelle scene già dette, dopo aver visti i diversi luoghi, ed i modi con cui si va all'inferno, noi volevamo ad ogni costo andare in paradiso; ma gira di qua, gira di là ci disviammo sempre a vedere altre cose nuove. Finalmente indovinata la via giungemmo su quella piazza dove era radunata tanta gente che contendevasi di arrivare alla montagna; su quella piazza che pareva così grande, ma terminava in un sentiero piccolo piccolo tra le due alte rupi. Chi si metteva per questo, uscito appena dalla parte opposta, doveva passare un ponte alquanto lungo, strettissimo e senza ringhiera, sotto il quale si inabissava uno spaventoso precipizio. - Oh! Ecco là il luogo che mena al Paradiso, abbiamo detto; eccolo là; andiamoci! - E ci siamo incamminati alla volta di quello. Alcuni [876] giovani si misero subito a correre lasciandosi indietro i compagni. Io voleva che mi aspettassero, ma essi eransi incapricciati di giungere prima di noi. Giunti però al varco si fermarono spaventati e non osavano inoltrarsi. Io faceva loro coraggio, perchè passassero: - Avanti, avanti ! Che cosa fate?

                - Eh sì, mi rispondevano; venga lei a fare la prova! Fa caldo dover passare per un posto tanto stretto, ed attraverso quel ponte; se sbagliamo un passo, cadiamo in quell'acqua profonda incassata in questo abisso; e nessun più ci vede.

                Ma finalmente qualcuno si avanzò pel primo, un secondo gli tenne dietro e così tutti, uno dopo l'altro, siamo passati al di là e ci trovammo ai piedi della montagna. Ci provammo a salire ma non riuscivamo a trovare alcun sentiero. Andavamo attorno alle falde osservando, ma ci si opponevano mille difficoltà ed impedimenti. In un luogo vi erano sparsi macigni accatastati disordinatamente, in un altro una rupe da sormontare: qui un precipizio, un cespuglio spinoso ci impediva il passo. Ripida dappertutto la salita. Scabrosa adunque era la fatica alla quale andavamo incontro. Tuttavia non ci sgomentammo ed incominciammo ad arrampicarci con ardore. Dopo breve ora di faticosa ascesa, aiutandoci di mani e di piedi, e a vicenda talvolta soccorrendoci, gli ostacoli incominciarono a sparire e ad un certo punto trovammo un sentiero praticabile e potemmo salire più comodamente.

                Quand'ecco arrivammo ad un luogo ove in una parte di quel monte vedemmo molta gente, la quale pativa ma in un modo così orribile, così strano, che tutti restammo compresi di orrore e di compassione. Io non posso dirvi quello che vidi perchè vi farei troppa pena e non potreste resistere alla mia descrizione. Nulla dunque vi dirò e andrò avanti.

                Intanto vedevamo un gran numero di altra gente che saliva essa pure, sparsa su per i fianchi del monte e arrivata alla cima, veniva accolta da quelli che la aspettavano, fra grandi feste e prolungati applausi. Udivamo nello stesso tempo una musica veramente celeste, un canto di voci le più dolci e un intreccio di inni i più soavi. Ciò incoraggiavaci maggiormente a continuare su per quell'erta. Camminando io pensava fra me e diceva ai giovani: - Ma noi, che vogliamo andare in paradiso, siamo già morti? [877] Ho sempre sentito dire e so che bisogna prima passare al giudizio! E noi siamo già stati giudicati?

                - No, mi rispondevano; noi siamo ancora vivi: al giudizio non siamo ancora andati. - E ridevamo.

                -Comunque sia, ripigliai, o vivi o morti andiamo avanti per vedere ciò che sta lassù: poi qualche cosa sarà. - Ed accelerammo il passo.

                A forza di camminare finalmente giungemmo anche noi quasi alla cima della montagna. Quelli che erano di sopra già stavano pronti a farci delle gran feste ed accoglienze, quando mi volsi indietro per guardare se avessi con me tutti i giovani; ma con vivo dolore mi trovava quasi solo. Di tanti miei piccoli compagni non me ne restava che tre o quattro. - E gli altri? - domandai fermando il passo e non poco corrucciato.

                - Oh, mi dissero: si sono fermati chi qua e chi là; forse verranno.

                Io guardai all'ingiù e li vidi sparsi per la montagna che si erano fermati, chi a cercare delle lumache fra i sassi, chi a fare raccolta di alcuni fiori senza odore, chi a prendere frutti selvatici, chi a correre dietro alle farfalle, chi ad inseguire i grilli e chi a riposarsi seduto su qualche gerbido all'ombra di una pianta ecc. ecc. Io mi misi a gridare con quanta voce aveva in gola, mi sbracciava a far lor segni, li chiamava per nome ad uno ad uno, che venissero su presto, che non era quello il tempo da fermarci. Qualcheduno venne, dimodochè erano poi circa otto i giovani intorno a me: tutti gli altri non badavano alle mie chiamate, e non pensavano a venire in su, occupati in quelle loro bazzecole. Ma io non voleva assolutamente andare in paradiso accompagnato da così pochi giovani e perciò determinato di andare io stesso a prendere quei renitenti, dissi a coloro che erano con me: - Io ritorno indietro e vado giù a raccoglierli. Voialtri fermatevi qui.

                E così feci. Quanti ne incontra  va scendendo, tanti ne spingeva in su. A questi dava un avviso, a quello un rimprovero amorevole, ad un terzo una solenne sgridata; ad uno un pugno, ad un altro un urtone: -Andate su, per carità, mi affannavo a dire: non fermatevi per queste cose da nulla. - E così io venendo in giù, li aveva già avvertiti quasi tutti e mi trovavo sulle balze [878] del monte che avevamo salito con tanto stento. Quivi aveva fermati alcuni che stanchi per la fatica del salire e impauriti dell'altezza da raggiungere, ritornavano al basso. Allora mi rivolsi per ripigliare l'ascesa e ritornare dove erano i giovani. Ma che? Inciampai in una pietra e mi svegliai.

                Eccovi raccontato il sogno, ma desidero da voi due cose:

                Vi ripeto che non lo raccontiate fuori di casa a nessuna persona estranea, poichè se qualcuno del mondo sentisse queste cose ne riderebbe. Io ve le narro così per divertirvi: raccontatelo fra di voi finchè volete, ma intendo che non diate loro altro peso fuori di quello che ad un sogno si conviene. E poi un'altra cosa voglio dirvi; che cioè nessuno venga ad interrogarmi, se esso vi era o non vi era, chi vi fosse e chi no, che cosa faceva, o che cosa non faceva, se eravate fra i pochi ovvero fra i molti, qual posto avevate ecc ecc; perchè sarebbe un rinnovare la musica di quest'inverno. Ciò potrebbe essere per alcuni più svantaggioso che utile ed io non voglio intorbidare le coscienze.

                Vi dico solo che se il sogno non fosse stato un sogno, ma una realtà e veramente avessimo dovuto morire allora, fra tanti giovani che siamo qui, se ci incamminassimo verso il paradiso, pochissimi vi giungerebbero: fra settecento oppure ottocento e più non sarebbero forse che tre o quattro. Ma a momenti: non vi turbate, intendiamoci: vi spiego questa proposizione così azzardata: dico che non sarebbero che tre o quattro coloro, i quali andrebbero di volo al paradiso, senza passare qualche tempo tra le fiamme del purgatorio. Qualcuno forse vi resterà un minuto solo: altri forse un giorno, altri dei giorni e delle settimane: ma quasi tutti dovrebbero passarvi almeno per un poco. Volete sapere come si fa per evitare il purgatorio? Procurate di acquistare delle indulgenze quanto più potete. Se voi farete quelle pratiche, cui sono annesse, colle dovute disposizioni, se acquisterete un'indulgenza plenaria, andrete di volo al paradiso.

 

                D. Bosco di questo sogno non diede nessuna spiegazione personale e pratica a ciascuno degli alunni, e ben poche sopra i varii significati degli spettacoli da lui visti. E non era cosa facile. Si trattava, come poi ci riserviamo [879] di provare, di idee in quadri molteplici che ora succedevansi e ora apparivano simultanee, le quali rappresentavano l'Oratorio col suo presente e col suo futuro; tutti i giovani che attualmente erano nella casa e quelli che sarebbero venuti dopo, col loro ritratto morale e le lor sorti avvenire; la Pia Società Salesiana col suo accrescimento, le sue peripezie e le sue fortune; la Chiesa cattolica colle odiose persecuzioni preparate dai suoi nemici, e i trionfi che non le sarebbero mancati: e via via dicendo altri fatti generali o particolari.

                Con tali vastità, intrecci, e confusione di vedute, Don Bosco non poteva, non sapeva esporre per intero ciò che si era spiegato così vivamente innanzi alla sua fantasia; e di molte cose era convenienza e anche dovere che fossero taciute o palesate solo a persone prudenti per le quali poteva essere di conforto o di avviso tale segreto.

                Egli adunque esponendo ai giovani varii sogni dei quali a suo tempo avremo a parlare, sceglieva ciò che loro poteva essere di maggiore utilità, essendo tale l'intento di chi ispirava quelle misteriose rivelazioni. A quando a quando però Don Bosco, per ragione dell'impressione, profonda che ne aveva provato, ed anche per lo studio della scelta, accennava confusamente e di volo ad altri fatti, o cose, o idee talvolta direi incoerenti ed estranee al suo racconto, ma che svelavano essere molto di più ciò che taceva di quello che dicesse.

                Così egli aveva incominciato a fare in questi giorni, descrivendo la sua magnifica passeggiata, e noi cercheremo di brevemente spiegarla, sia con alcune parole di D. Bosco, sia con nostre varie riflessioni, le quali però rimettiamo all'esame dei lettori; e diremo:

                1° La collina che D. Bosco incontra sul principio del [880] suo cammino pare sia l'Oratorio. Su di essa ride una splendida giovanezza di vegetazione. Non vi sono alberi annosi di largo ed alto fusto. In ogni stagione vi si raccolgono fiori e frutti e così è o deve essere l'Oratorio. Questo come tutta l'opera di D. Bosco ha per sostegno la beneficenza, della quale dice l'Ecclesiastico al capo XI, essere dessa come un giardino benedetto da Dio che dà frutti preziosi, frutti d'immortalità, simile al paradiso terrestre ove fra gli altri era l'albero della vita.

                2° Chi saliva sulla montagna deve essere quell'uomo beato descritto nel salmo LXXXIII la cui fortezza è tutta nel Signore. Egli in questa terra, valle di lagrime, ascensiones in corde suo disposuit, risoluto di salire continuamente per giungere al tabernacolo dell'Altissimo ossia al cielo. E con esso altri molti. Ed il legislatore Gesù Cristo li benedirà, li ricolmerà di grazie celesti, andranno di virtù in virtù e giungeranno a veder Dio nella beata Sionne, e saranno eternamente felici.

                3° I laghi sembrano come il compendio della storia della Chiesa; quelle innumerabili membra spezzate presso le rive appartengono ai persecutori infedeli, agli eretici, ai scismatici e cattivi cristiani ribelli. Da certe parole del sogno s'intende come D. Bosco avesse visti gli avvenimenti presenti ed anche i futuri. “Ad alcuni pochi ed in privato, narra la cronaca, egli parlando di quel vallone vuoto al di là del lago di sangue, disse: - Quel vallone deve riempirsi specialmente col sangue dei sacerdoti e può essere anche molto presto.

                È andato D. Bosco, continua la cronaca, in questi giorni a visitare il Cardinale De Angelis. S. Eminenza gli disse: - Mi racconti qualche cosa da tenermi allegro.

                - Le racconterò un sogno. [881]

                - Volentieri, sentiamo.

                D. Bosco incominciò a narrargli ciò che sopra abbiamo descritto, però con maggiori particolarità e riflessioni; ma quando fu al lago di sangue il Cardinale si faceva serio e malinconico. Allora D. Bosco troncò il racconto, dicendo: - Fin qui!

                - Vada avanti! - gli disse il Cardinale.

                - Fin qui e basta - concluse D. Bosco: e prese a discorrere di fatti ameni”.

                4° La scena che rappresenta lo strettissimo passaggio fra due rupi, il ponticello di legno (che era la croce di Gesù Cristo), la sicurezza di passare oltre in chi è sorretto dalla fede, il pericolo di precipitare nell'avanzarsi senza retto fine, gli ostacoli di ogni genere per giungere ove il sentiero si fa agevole, tutto ciò, se per avventura non siamo in errore, ci indica le vocazioni religiose. Quelli che stavano sulla piazza dovevano essere giovanetti chiamati da Dio a servirlo nella Pia Società. Infatti si nota che la gente la quale aspettava per entrare in quella via che metteva al paradiso era contenta, felice e si divertiva. Ciò caratterizza almeno in gran parte una moltitudine che non era di adulti. Aggiungiamo che nel salire quel monte parte si era fermata, parte ritornava indietro. Non sarebbe il raffreddamento nel seguire la vocazione? D. Bosco diede a questa parte del sogno un significato che indirettamente poteva alludere alla vocazione, ma non credette bene parlarne.

                5° Sul fianco del monte, appena oltrepassati gli ostacoli che si accavallavano alle sue falde, D. Bosco aveva veduto gente che soffriva. “Alcuni lo interrogarono in privato, scrisse D. Bonetti, ed egli rispose: - Questo luogo, significava il purgatorio. Se avessi da fare una predica su questo argomento, non farei altro che descrivere quello [882] che vidi. Sono Cose che fanno paura. Dirò solo che, fra i varii generi di supplizi, vidi quelli che erano premuti da torchi, di sotto ai quali si vedevano sporgere le mani, i piedi, il capo; gli occhi loro schizzavano fuori dalle orbite. Erano slombati, stritolati, e mettevano un raccapriccio indescrivibile nel cuore di chi guardava”.

                Aggiungiamo un'ultima ed importante osservazione, la quale serve per questo sogno e per quelli molti, che descriveremo in avvenire. In questi sogni o visioni, per così chiamarle, entra quasi sempre in scena un personaggio misterioso, il quale fa da guida e da interprete a D. Bosco. Chi potrà mai essere?... Ecco la parte più sorprendente è più bella di questi sogni e che D. Bosco, raccontando, riteneva nel segreto del suo cuore.

 

 

CAPO LXVI. Una commedia latina del Palumbo - Perchè la morte del giovane Quaranta non fece impressione sugli alunni - Conseguenze del sogno dell'ultimo giorno dell'anno 1860 - I giovani tacciono facilmente in confessione - Coscienze svelale - Il Capitolo accetta nuovi socii Sermoncino! Come uno può divertirsi stando in peccato - Morte predetta e avvenuta di un altro allievo - Lavoro indefesso di D. Bosco - Sermoncino per quelli che stanno lontani da D. Bosco - Conferenza ai socii: Carità da praticarsi nel parlare coi forestieri, coi giovanetti e coi confratelli - I chierici protestano di voler stare sempre con D. Bosco: estranei che dal loro contegno li riconoscono come alunni dell'Oratorio - Non si riesce a ritrattare D. Bosco - Esercizii spirituali - Virtù di D. Bosco e stima che ne ha il clero - Giovani fortunati quelli che vissero con D. Bosco - Utilità Recita del miserere ogni sera -Risposta di D. Bosco ad un prete di Osimo ed ai parroci che gli chiedono consiglio - Sussidii del Ministero dell'Interno.

 

                Gli avvenimenti che da tre mesi si erano succeduti nell'Oratorio non gli avevano fatto perdere il suo aspetto abituale di tranquillità e di allegria. Le feste di chiesa, le ricreazioni animate, gli onesti sollazzi carnevaleschi, le ripetute rappresentazioni drammatiche [884] o altri svaghi si erano alternati con frequenza. I momentanei e salutari turbamenti d'un gran numero di alunni, per la riacquistata pace di coscienza, si erano mutati in viva gioia, che rendeva più gradevoli i passatempi. E Don Bosco ne procurava loro sempre dei nuovi. “Il giorno II del mese, così la cronaca di D. Ruffino, dopo studii e prove dirette con molta abilità dal chierico Giov. Batt. Francesia, gli studenti recitavano una commedia latina, opera del distinto Gesuita Palumbo. Di questa si conserva un ricordo, in una copia dell'invito al teatro scritto dallo stesso autore e fatto pervenire a quei benefattori che si dilettavano di classiche composizioni.

 

                Sacerdos Bosco Xaverio Provana Equiti a Collegno S. D.

 

                Latina prodit in scenam fabula, quam agent

                Qui domi a Sancto Francisco dictae scholas

                Celebrant. Minerval dicitur: nam ut possit

                Magistro discipulus Minerval solvere,

                Quod obligurnt, cum a patre acceperit,

                Furtum facere cum sociis inducit animum.

                Illam apud nos alumni agent, die

                Prima post decimam mensis; de prandio

                Secunda hora. At pauci spectatores erunt;

                Sed qui paucis placere student, illi optimis

                Placent. Deinde satis multi erunt si tu adsies

                Qui ex paucis es; fac igitur intersis. Vale.

 

                Augustae Taurinorum quarto idus Aprilis an. MDCCCLXI.

 

                La prudenza di D. Bosco adunque, non permetteva che le fantasie si sbrigliassero, con paurose e nocive apprensioni.

                In peso e misura egli non cessava di partecipare a chi ne aveva di bisogno la medicina per l'anima, ma con quella soavità che produce sempre del bene e mai del male. [885]

                “Il 12 aprile, continua la cronaca di Ruffino, D. Bosco si fermò a fare, come è solito, un po' di conversazione co' suoi amati chierici. Uno di costoro lo interrogò: - Come va che la morte di Quaranta non fece nessuna impressione nei giovani?

                Egli rispose: - Io nemmanco cercai di destarla questa impressione, perchè nella casa non ve ne era di bisogno. Ciò per varie ragioni. La prima è che vi sono varii giovanetti i quali se non sto in guardia ben bene, si lasciano rovinare dagli scrupoli. Se avessi voluto giovarmi di questa morte per fare impressione, si sarebbero messi i tappeti neri alla porta poi vestito il morto ed esposto nella camera, si sarebbe data la libertà a chiunque di andarlo a vedere, si sarebbero ripartitamente fatti recitare dalle varie classi gli uffici dei defunti in chiesa: ma siccome non ci fu alcuno che abbia domandato di fare preghiere speciali, così io credei bene di lasciare tutto.

                - Certo, che dopo quel sogno dell'ultimo giorno dell'anno, ogni altra predica era superflua, osservò un Chierico. Quel sogno fece molto bene nella casa.

                D. Bosco rivolgendo a costui la parola: - Oh sì! il sogno e le conseguenze di esso, perchè vi erano molte cose che io non poteva dire in pubblico, ma le applicava in privato. Spesse volte accadeva che mandava a chiamare qualche giovane ed egli non veniva. Finalmente m'imbatteva in lui e gli diceva: - Perchè non sei venuto ancora a trovarmi? Perchè vuoi tener quel tale (e lo indicava) serpente nel cuore? - Allora il ragazzo cambiava colore e poi singhiozzando mi diceva: Quando…. quando dovrò andare a fare la mia confessione?

                Un altro chierico si meravigliò della facilità colla quale non pochi sogliono tacere i peccati in confessione, anche [886] quando vi ha copia di confessori. - Non tutti i confessori, gli rispose D. Bosco, hanno abilità, esperienza e mezzi per scrutare le coscienze e scovare le volpi che rodono i cuori. Per es. per un tal prete è suo pane il confessare, ma non i giovani, sibbene gli adulti; perchè per confessare i giovani giova moltissimo avvicinarli, frequentarli, conoscerli bene, studiarne l'indole e quando vanno a confessarsi far noi ben molte volte l'esame per loro; saper mettere insieme costui ha dato causa della tale lagnanza, questo ha il tal difetto, questo ha il tal altro: perchè i giovani tacciono, oh sì! tacciono facilmente!! Sono due grandi bestie la vergogna e la paura di scapitarne nella stima del confessore.

                Sul principio dell'anno venne accettato nell'Oratorio un giovane e la prima volta che fu a parlarmi, disse: - Qui si fanno anche preti ?

                - Sì!

                - Io non mi voglio fare prete. Obbligano a farsi prete?

                - No, anzi questo si concede per grazia speciale, poichè bisogna che i giovani dieno ben chiari i segni di vocazione, del resto loro non si permette di vestir l'abito.

                - Basta; io vengo qui col patto che non mi facciano prete.

                - Sta sicuro che nessuno ti dirà di farti prete se non hai vocazione.

                - Ancorchè ne avessi la vocazione non voglio che mi facciano.

                Qualche tempo dopo si trattava di confessarsi e perciò voleva andare da qualche sacerdote sconosciuto, dai frati del Monte od almeno alla Consolata. D. Bosco gli disse: Io ti lascio andare volentieri, solo manderò qualcuno ad accompagnarti; ma con un patto!

                - Quale? [887]

                - Ti lascio andare, col patto che tu manifesti al confessore questa e quell'altra cosa. - E gliela indicai.

                Il giovane restò meravigliato al sentirsi manifestare i peccati, che egli non aveva mai confessato e disse: - Non c'è più bisogno che io mi vada a confessare altrove, essendo appunto questi que' peccati, che io non avevo in animo di confessare. - Al presente, che non siamo ancora a metà dell'anno, egli è dei più animati per farsi prete”.

                L'ultimo sogno intanto traeva alcuni alunni a chiedere di essere ascritti alla Pia Società come ricaviamo dal Verbale dei Capitoli.

 

                Li 16 aprile del 1861 il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales si radunò per l'accettazione de' seguenti membri. Reano Giuseppe di Foglizzo figlio di Filippo; Perucatti Giacinto di Giuseppe da Villa S. Secondo; Jarach Tommaso Luigi di Carlo Luigi; Fabre Alessandro da Caselle figlio di Luigi. Fatta la votazione i suddetti ottennero i pieni voti e furono ammessi alla pratica delle Regole.

 

                Ciò che animava questi giovani ad unirsi coi collaboratori dell'Opera degli Oratorii era null'altro, che il gran pensiero di salvare con molti meriti l'anima propria e di cooperare alla rigenerazione di tanta povera gioventù. E non poteva essere altrimenti perchè D. Bosco parlava sempre di anima. Il 17 aprile così diceva alla sera:

                - Carlo, re di Francia, assaltato da ogni parte dalle truppe Inglesi, lasciava ai suoi soldati il pensiero della guerra ed egli tranquillamente se ne stava nella sua reggia. Le battaglie succedevano rapidamente e sempre colla sconfitta delle sue armi. Molte provincie erano già in mano ai nemici. Il regno si poteva dire perduto. I generali mandarono pertanto al Re un distinto ufficiale, perchè lo scuotesse [888] dalla sua inerzia e, rappresentandogli l'estremo suo pericolo lo inducesse agli ultimi disperati provvedimenti per la difesa. L'ufficiale giunto al palazzo venne fermato alla porta ed ivi stette due o tre ore aspettando un'udienza. Il Re intanto ballava, giuocava, beveva allegramente. Finalmente l'ufficiale fu introdotto. Il Re lo accolse con gentilezza, ma invece di interrogarlo sulle sorti della guerra, prese a parlargli di caccie e di pranzi e finì coll'indicargli un tavolino ed invitarlo a giuocare alle carte con lui.

                L'ufficiale guardò meravigliato il suo Sovrano senza proferir parola, e stette in piedi immobile!

                - Avete inteso? replicò il Re. Che cosa pensate in questo momento?

                - Maestà, rispose l'ufficiale. Io sono sbalordito. Non ho mai veduto alcuno andare alla malora così allegramente come voi!

                O cari figliuoli; a quanti che hanno il peccato nel cuore e pure giuocano, ridono, mangiano, bevono, si divertono ed hanno l'inferno aperto sotto i piedi, si potrebbero ripetere queste parole!

                Nell'Oratorio la morte di un giovane veniva a mettere sull'avviso chi per caso ne avesse avuto bisogno.

                Scrisse Ruffino: “Prima dell'alba del giorno 21 aprile, domenica, festa del Patrocinio di S. Giuseppe alle ore tre e mezza morì il giovane Maffei Carlo di Buttigliera d'Asti in età di 19 anni, dopo 2 giorni di malattia per dolori alla spina dorsale cagionati da costipazione.

                Il 24 dicembre 1860 D. Bosco aveva annunziato: - Vi sono tra di noi alcuni che fra pochi mesi non vi saranno più. Ve n'è uno e costui non ci pensa. - E Maffei moriva improvvisamente. D. Bosco come aveva fatto alla morte del giovane Quaranta, non manifestò riflessioni inopportune, [889] non fece alcun cenno di predizioni avverate, e tutto passò tranquillamente senza angustie di spirito.

                Alcuni chierici però commossi per quel doppio funerale, vedendo D. Bosco sempre malaticcio, e temendo per la sua vita lo esortarono ad aversi cura della salute e perciò a non lavorar tanto. Uno fra gli altri per convincerlo gli disse: - Non sarebbe meglio che ella vivesse per es. un dieci anni di più, non lavorando tanto, aiutandoci solo coi consigli, piuttosto che logorarsi tutto nel lavorare e vivere di meno? -

                D. Bosco rispose: - Sì...e chi mi assicura che lavorando meno vivrei dieci anni di più? Oh no! Io voglio, finchè posso, impiegare tutte le mie forze a lavorare per la gloria di Dio e la salute delle anime. Non rovinarmi, no; ma solo fare quello che posso. -

                D. Bosco in questa sera stessa dopo aver raccomandati a tutti i giovani studenti ed artigiani i soliti suffragi per l'anima di Maffei, così parlava: - Ho una cosa da dire e non vorrei dirla: ma pure sono costretto ed è questa. Vi sono parecchi giovani i quali dal principio dell'anno dimorano qui nell'Oratorio ed io quasi non li conosco. Questo mi spiace. Nella casa vi sono i due estremi. Alcuni mi stanno sempre attorno: altri non solo non mi vengono intorno, ma al primo vedermi fuggono. Ciò mi affligge e volete sapere il perché? Domandate perchè un padre desidera vedere i suoi cari figliuoli: anzi per me c'è ancora di più dell'amore di padre: io voglio, io desidero ardentemente di salvare le vostre anime, e, perciò io desidero di vedere quei tali per poter dir loro una parola. Insomma volete che vi dica di più? Vi sono alcuni che hanno da aggiustare i conti dell'anima loro; ed io non posso averli. Li mando a chiamare e non vengono; bisognerà forse minacciarli [890]? Adunque io desidero che i giovani non mi stiano tanto attorno, anzi voglio che facciano sempre tutta intiera la ricreazione. Desidero solo che non mi fuggano quando li incontro. Che non accada più quello che spesso vedo succedere. Entro nel cortile, veggo un brulichio di giovanetti correre intorno a Me e poi non vedo quattro o cinque, che son quelli che io vorrei. Essi pure si muovono, ma per allontanarsi…. Ciò sia per detto. Avrei ancora da esporvi molte cose, ma non posso farlo qui in pubblico. Questo basti. Buona notte. -

                Quando i giovani furono ritirati nelle loro camerate si radunò la conferenza dei membri della Società di S. Francesco di Sales. Furono presentati all'assemblea quattro nuovi confratelli Reano, Perucatti G., Jarach, Fabre. D. Bosco parlò della carità verso il prossimo e specialmente verso i giovani. Riguardo al prossimo disse: - Si procuri che chiunque avrà da trattare con noi, vada via soddisfatto; che ogni volta che parleremo a qualcheduno sia un amico di più che ci acquistiamo; perchè noi dobbiamo cercare di accrescere il numero degli amici nostri e diminuire quello dei nemici, dovendo noi far del bene a tutti. Accoglieremo bene e sempre con dolcezza i forestieri, perchè essi pretendono questo, siano essi signori, o siano essi poveri; anzi coloro che si trovano in condizione inferiore pretendono ancor più degli altri di essere trattati con deferenza.

                Per riguardo ai giovani dobbiamo aver carità usando sempre dolcezza: che non si dica mai di nessuno di noi: il tale è rigoroso e severo. No! Questo non sia mai più il concetto che i giovani possano formarsi di qualcheduno fra noi. Se abbiamo da rimproverare qualcheduno prendiamolo in disparte, facciamogli vedere alle buone il suo male, il suo disonore, il suo danno, l'offesa di Dio; perché [891] facendo noi altrimenti, egli abbasserà il capo alle nostre dure parole, tremerà, ma cercherà sempre di fuggirci; sarà poco il profitto ottenuto con ammonimenti di simil fatta. Se coglieremo in flagrante qualche stordito, allora al più al più prendiamolo per un braccio e con animo risoluto diciamogli: - Vedi il male che fai: pensa a quello che meriteresti; se io ti conduco dal Superiore ed allora? ecc. ecc.

                Usiamo poi specialmente la carità anche fra di noi; quando uno ha da dire qualche cosa al compagno, si dica subito senza tema. Ma non si conservi il malumore in cuore. Sarà forse inopportuna quella parola; ma importa niente: si dica subito.

                La parola di D. Bosco era di un'attrattiva singolare per i chierici. Nell'uscire da quella stanza uno esclamava: E io starò sempre con D. Bosco! - Interrogava quindi qualche compagno - E tu?

                - Io pure! ripetevano gli altri”.

                Un giorno s'incontrarono per via coll'Abbate Vacchetta, il quale disse loro: - E perchè state laggiù in Valdocco con D. Bosco?

                - Perchè ci piace! risposero.

                L'impronta che dava loro l'educazione di D. Bosco gli facevano distinguere dagli altri chierici che non appartenevano all'Oratorio. Il Can. Ronzini Cesare un giorno scendeva pel corso Valdocco lungo l'ospedale di S. Luigi e visto dal lato opposto il Ch. Garino gli fe' cenno colla mano di avvicinarsi. Il Chierico si recò da lui: - Che cosa comanda signor Canonico?

                - Oh! niente: voleva sapere se Lei appartiene a Don Bosco.

                - Sissignore!

                - Sono contento di non essermi ingannato: perchè incontrando [892] un chierico dal suo aspetto gioviale, rispettoso, ingenuo, non ho mai sbagliato, giudicando che fosse di Don Bosco; e fermandolo e interrogandolo ebbi sempre risposta affermativa. - Il Canonico era un grande ammiratore di D. Bosco.

                Questi buoni chierici, specialmente i più anziani della casa, ne' mesi scorsi avevano fatte varie prove, ma invano per poter prendere il ritratto  a D. Bosco. La matita e il pennello sembrava che rifiutassero il loro ufficio. La fisionomia del buon padre rimaneva sempre alterata, irriconoscibile. Lo condussero al fotografo, ma questi non potè mai riuscire a ritrattarlo, benchè D. Bosco esteriormente non dimostrasse di non volere. Era un fatto ben strano. Un giorno parlandosi di ciò alla sua presenza, egli disse: - Se prendermi il ritratto fosse utile per la salute delle anime, allora sì: del resto non ve n'è di bisogno. - Così D. Ruffino, il quale prosegue colla cronaca “Le anime, ecco ciò che gli importava.

                Il 29 aprile, lunedì, incominciano gli esercizi spirituali alle ore tre pomeridiane dettati da D. Ciattino parroco di Maretto, che predica con modo dilettevole e sempre con volto ridente. Un giovane fece proponimento e lo osservò di non parlare in tutto il tempo degli esercizi: - Questi termineranno il giorno 2 maggio.

                D. Bosco prima degli esercizi mandò a chiamare dai loro paesi i giovani Ghivarello Francesco e Dalmazzo Giuseppe, affinchè venissero in casa a partecipare a questi giorni di ritiro spirituale. Vennero e non vollero più ritornare alle loro famiglie.

                La sera del 28 aprile D. Bosco disse ai giovani: Adesso incominciamo gli Esercizi per scacciare affatto il demonio di mezzo a noi. In generale il demonio non può [893] più stare con nessuno della casachè tutti lo scacciano. Tuttavia ve ne sono alcuni, ma pochi, dietro ai quali esso può nascondersi; non davanti, ma dietro alle loro spalle

                Nei due giorni d'esercizi D. Bosco confessò quasi sempre per circa 6 ore di seguito al dopo pranzo, e prima di pranzo tre o quattro ore circa.

                Nell'ultima predica del 1° maggio il predicatore benedì i giovani, avendo prima augurate le benedizioni di Dio al Re, Senatori, al Parlamento ecc. ecc., affinchè siano sempre forti in pace ed in guerra: ma quando cercò di prendere il crocifisso del pulpito per dare la benedizione di rito, non potè estrarlo. Allora fece un'apostrofe ai peccatori che ancora non si volevano convertire, causa per cui non poteva forse benedire esso l'assemblea. Li invitò, li supplicò a manifestarsi, che egli sarebbe disceso dal pulpito e sarebbe andato a gettarsi ai loro piedi, pregandoli in nome di Gesù Cristo a convertirsi. Finì col dire che costoro avevano ancor tempo a confessarsi, quella sera e il domani mattina. Tutto questo tratto oratorio fece ottima impressione. Il predicatore interrogato dopo privatamente, disse di avere a bella posta fatto le viste di non potere estrarre il crocifisso. Soggiunse d'avere altre volte adoperato simile stratagemma e di aver sempre fatta buona impressione sugli uditori”. Osserveremo a tale proposito, che diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum.

                “D. Ciattino parlò anche di D. Bosco, facendo rilevare ai giovani la grazia che Dio aveva loro impartito, mandandoli in educazione sotto di un uomo, che godeva fama di santità, ed osservava che sarebbe venuto tempo in cui i posteri avrebbero invidiato la loro sorte, per aver essi vissuto insieme con D. Bosco”.

                “La sua fama di santità, scrisse il Can. Anfossi, andò [894] sempre crescendo, col crescere ed ampliarsi delle sue opere. Ebbe origine dalla sua vita esemplarissima, dalle virtù da lui esercitate in grado eroico e dai doni speciali di cui lo si vedeva arricchito dal Signore. Quante volte ho veduto sacerdoti e personaggi di gran nome inginocchiarsi ai suoi piedi per averne  la benedizione”.

                E il Teol. Reviglio osservava: “Ogni qualvolta io mi recava da lui, sempre vi marcava qualche atto speciale di virtù e mi persuadeva che il giusto si perfeziona di giorno in giorno, sino a che ne riceve la celeste mercede”.

                E specialmente nell'umiltà che splendeva anche ne suoi minimi atti: “Il 4 maggio, lasciò scritto D. Ruffino, un cospicuo signore venne a parlare con D. Bosco, perchè accettasse nella casa un giovanetto. Nel suo discorso fece conoscere come egli credesse l'Oratorio essere stato fondato da un illustre Vescovo, al quale naturalmente Torino doveva professare riconoscenza per tanto benefizio. Quindi conchiuse d'essere venuto a raccomandare il suo protetto a D. Bosco, sperando che egli avrebbe le facoltà necessarie per accettar giovanetti. D. Bosco lo ascoltò con tutta pace, per nessun modo cercò di trarlo d'inganno e lo lasciò affatto nella sua persuasione. Pertanto trattò quell'affare come se realmente egli dovesse dipendere e rendere conto ad un suo Superiore. E quel personaggio partì soddisfatto e ammirato delle accoglienze avute da D. Bosco. Non a tutti l'amor proprio avrebbe permesso di tacere in simile circostanza; mentre noi in D. Bosco abbiamo visto esempi senza numero di tale virtù. E non era possibile che fosse altrimenti in un sacerdote preoccupato continuamente dal pensiero della morte e dell'eternità. Quando era coricato per addormentarsi recitava sempre il miserere”.

                Già in questi tempi la fama della sua santità era propagata [895] in tutta l'Italia come asserisce Villa Giovanni. “Nel 1862, egli scrive, trovandomi in Osimo soldato nel decimo reggimento di fanteria, fui testimonio di questa fama e udii parlare di D. Bosco come di un santo sacerdote, da un prete nipote del Vicario Generale. Fui anche interpellato da un altro buon giovane prete di colà, certo D. Salvatore, quale segreto avesse D. Bosco, per attirare così potentemente il cuore dei giovani; e lo stesso mi incaricò di domandarglielo. Io venuto poco dopo a Torino in licenza riferii a D. Bosco l'incarico avuto ed egli mi disse: - Io l'ignoro. Se quel buon prete ama Dio, riuscirà pure in ciò assai meglio di me”.

                Per tale stima i sacerdoti venivano sovente a chiedere' consiglio a D. Bosco per la direzione spirituale delle varie classi di persone; e specialmente i parroci che dovevano prendere o avevano preso da poco tempo possesso della parrocchia. Nel 1867 dava per norma di condotta ad uno di costoro: Aver cura de' fanciulli, degIi infermi e de' vecchi. D. Calandra era mandato dal Vescovo di Cuneo parroco a Boves, donde l'antecessore era stato costretto a fuggire dagli stessi parrocchiani. Monsignore aveva pianto nell'affidargli questa difficile missione. D. Calandra venne all'Oratorio per chiedere a D. Bosco come avrebbe dovuto regolarsi, e D. Bosco gli diede e spiegò il sovra esposto consiglio: - Fermare i fanciulli per via, accarezzarli, mandare un saluto per mezzo di essi ai parenti: chiamar col nome di padre e di madre i vecchi, salutarli per il primo, chiedere notizie della loro sanità; assiduità e interesse nel visitare gli infermi, procurare le cose più necessarie a chi fosse povero. - D. Calandra seguì i dettami di D. Bosco e subito divenne l'idolo dei suoi parrocchiani. Esso narrava nel 1888 che per chiesa, ospedale, asilo infantile, ricovero [896] dei vecchi i suoi fedeli gli avevano data in limosina la bella somma di 1.200.000.

                Grande era dunque la stima di santità e di sapienza che D. Bosco si era acquistata col suo zelo apostolico al cospetto della Società Cristiana; mentre il Ministro Miglietti riconosceva le sue benemerenze a vantaggio delle società civili.

               

                MINISTERO DELL'INTERNO

                N. 30901 del protocollo gen.

                N. 3664 della divisione

Torino, addì 27 aprile 1861.

 

                Da persona benefica essendo stata messa a disposizione di questo Ministero una somma da essere erogata a favore dei più bisognevoli Istituti Pii di questa Capitale, il sottoscritto ha creduto di dover comprendere nel riparto codesto Istituto per la somma di lire 400.

                Nel porgere tale partecipazione al Rev.do Sig. Direttore del Pio istituto, gli soggiunge ad un tempo che l'anzidetta somma gli verrà pagata a semplice richiesta alla cassa di questo Ministero.

 

Pel Ministro BORROMEO.

A Don Bosco.

 

 

CAPO LXVII. Il sogno della ruota - Un personaggio sconosciuto - Alberi di fico e un vigneto - Si avvicina la sera - Il fratello Giuseppe - Macchina con ruota a lente - Le coscienze; i buoni e i cattivi; gli incatenati; il lucchetto alle labbra; i scimioni sulle spalle; difficili conversioni -Nuovi alunni che Dio vuol donare a D. Bosco - Le vocazioni: i coltivatori della terra; il campo di spighe mature e i mietitori; meravigliose indicazioni - I primi cinque futuri decennii della Pia Società - Progressiva scomparsa dal mondo dei primi alunni Salesiani - I loro successori e nuovi innumerabili allievi - Umile conclusione del sogno.

 

                Il Cuore del saggio conosce il tempo (di operare) e la maniera di rispondere (per rendere ragione delle sue azioni). Per ogni cosa v'ha il suo tempo opportuno; ma è di grande afflizione per l'uomo il non sapere il passato e il non potere avere novella pel futuro: - Ecclesiaste VIII, 6, 7.

                Di tale conoscenza di Don Bosco e del non essere a lui nascoste le cose passate e le future che lo interessavano ce ne dà novella riprova la persuasione, che ispirò le cronache di D. Ruffino Domenico, di D. Bonetti Giovanni [898] e le memorie scritte da D. Giovanni Cagliero, da D. Cesare Chiala e da altri, tutti testimonii auriculari delle parole del servo di Dio. Con singolare accordo ci espongono un altro sogno da lui raccontato, nel quale ci vide il suo Oratorio di Valdocco e i frutti che produceva, la condizione degli alunni al cospetto di Dio; quelli che erano chiamati allo stato ecclesiastico, o allo stato religioso nella Pia Società, o a vivere nello stato laico; e l'avvenire della nascente Congregazione.

                Don Bosco adunque sognò nella notte precedente il 2 maggio, ed il sogno durò circa sei ore. Appena fu giorno si alzò del letto per iscrivere gli appunti principali e i nomi di alcuni fra i personaggi, che aveva visti passarglisi innanzi mentre dormiva. Per raccontarlo impiegò tre sere consecutive stando sul pulpitino sotto i portici dopo le orazioni. Il 2 maggio parlò per circa tre quarti d'ora. L'esordio, al solito di queste sue narrazioni apparve alquanto confuso e strano per le ragioni che abbiamo già altre volte esposte, e per quelle che presenteremo al giudizio dei nostri lettori.

                Così egli prese a parlare ai giovani dopo aver annunziato l'argomento.

 

                Questo sogno riguarda solo gli studenti. Moltissime cose da me viste non possono essere descritte, perchè non mi bastano nè la mente, nè le parole. Mi pareva di essere uscito dalla mia casa dei Becchi. Era avviato per un sentiero, il quale conduceva ad un paese vicino a Castelnuovo, detto Capriglio. Voleva recarmi ad un campo tutto sabbioso di nostra proprietà, in una valletta dietro alla casa, detta Valcappone, il cui raccolto basta appena a pagare le imposte. Ivi nella mia fanciullezza sono andato sovente a lavorare. Avevo già percorso un bel tratto di strada, quando vicino a quel campo incontrai un uomo sui quarant'anni, di statura ordinaria, con la barba lunga, ben fatta e bruno di faccia. Era vestito di un abito che scendeagli sino alle [899] ginocchia e stretto ai fianchi; in testa portava una specie di candido berretto. Stava in atto di aspettare qualcuno. Costui mi salutò famigliarmente, come se io fossi persona a lui nota da molto tempo, e mi domandò: - Dove vai?

                Arrestando il passo, gli risposi: - Eh! Vado a vedere un campo che abbiamo da queste parti. E tu cosa fai qui?

                - Non essere curioso, mi rispose; non hai bisogno di saperlo.

                - Benissimo. Ma intanto favorisci di dirmi il tuo nome e chi tu sia, poichè mi avvedo che tu mi conosci. Io però non ti conosco.

                - Non occorre che io ti dica il mio nome e le mie qualità. Vieni. Facciamoci compagnia.

                Mi rimisi in cammino con lui e dopo alcuni passi mi vidi innanzi un vasto campo coperto di alberi di fico. Il mio compagno mi disse: - Vedi i bei fichi che qui ci sono? Se ne vuoi, prendine pure e mangiane.

                Io risposi meravigliato: - Non vi furono mai fichi in questo campo.

                Ed egli: - E adesso ve ne sono: eccoli là.

                - Ma essi sono immaturi: non è ancora la stagione dei fichi.

                - Eppure guarda; ve ne sono già dei belli e ben maturi; se ne vuoi, fa presto perchè è tardi.

                Ma io non mi muoveva e l'amico instava: - Ma fa presto, non perdere tempo, perchè la sera è vicina.

                - Ma per qual motivo mi fai tanta fretta? Eh no! non ne voglio; mi piace il vederli, il regalarli, ma gustano poco al mio palato.

                - Se la cosa è così andiamo: ma ricordati quel che dice il Vangelo di S. Matteo, dove parla dei grandi avvenimenti che sovrastavano a Gerusalemme. Diceva Gesù Cristo ai suoi Apostoli. Ab arbore fici discite parabolam. Cum iam ramus ejus tener fuerit et folia nata, scitis quia prope est aestas. Ed ora tanto più è vicina se i fichi incominciano a maturare.

                Ci rimettemmo in via ed ecco comparire un altro campo messo tutto a viti. Lo sconosciuto tosto mi disse: - Vuoi dell'uva? Se non ti piacciono i fichi, vedi là quell'uva: prendine e mangiane.

                - Oh! dell'uva ne prenderemo a suo tempo nella vigna.

                - Ce n'è anche qui.

                - A suo tempo! gli risposi. [900]

                - Ma non vedi là tutta quell'uva matura ?

                - Possibile? a questa stagione ?

                - Ma fa presto! Si fa sera; non hai tempo da perdere.

                - E che premura c'è da far presto ? Purchè passi la giornata e mi trovi a casa in sulla sera.

                - Fa presto: dico fa presto, che tosto si fa notte.

                - Ah! Se si fa notte, ritornerà giorno.

                - Non è vero; non ritornerà più il giorno.

                - Ma come? Che cosa vuoi dire?

                - Che si avvicina la notte.

                - Ma di qual sera mi vai parlando? Vorrai dire che debbo proprio preparare il fagotto e partire? Che io debba presto andarmene alla mia eternità?

                - Si avvicina la notte: hai più poco tempo.

                - Ma dimmi almeno se sarà presto! Quando sarà?

                - Non voler essere tanto curioso. Non plus sapere quam oportet sapere.

                - Così diceva mia madre ai ficcanaso: pensai fra me stesso e risposi ad alta voce: Per ora non ho voglia di uva! -

                Intanto camminammo ancora avanti di conserva per breve tratto di via e siamo arrivati in capo al nostro podere, dove trovammo il mio fratello Giuseppe che caricava un carro. Egli avvicinandosi mi salutò: poi salutò il mio compagno, ma vedendo che quegli non rispondeva al saluto e non gli dava retta, mi domandò se fosse stato mio condiscepolo alle scuole. - No; non l'ho mai visto, risposi.

                Allora ei gli volse di nuovo la parola: - Di grazia, mi dica il suo nome; mi favorisca di una risposta: che io sappia con chi parlo. - Ma l'altro non gli badava. Mio fratello meravigliato si rivolse a me per interrogarmi.

                - Ma chi è costui?

                - Non lo so: non me lo volle dire! - Ambedue insistemmo ancora qualche poco per sapere donde venisse, ma l'altro sempre ripeteva: Non plus sapere quam oportet sapere.

                Intanto mio fratello si era allontanato e più non lo vidi, e quello sconosciuto rivoltosi a me, disse: - Vuoi vedere qualche cosa di singolare?

                - Vedrò volentieri, risposi. [901]

                - Vuoi vedere i tuoi ragazzi tali e quali sono al presente? Quali saranno in futuro ? E li vuoi tu contare ?

                - Oh sì, sì.

                - Vieni adunque.

 

I

 

                Allora egli trasse fuori, non so di dove, una grossa macchina, la quale non saprei descrivere, che aveva dentro una grande ruota e la piantò per terra. - Che cosa significa questa ruota? domandai.

                Mi fu risposto: - L'Eternità nelle mani di Dio! - E prese la manovella di quella ruota e la fece girare: quindi mi disse: - Prendi il manubrio e dà un giro.

                Così feci; e mi soggiunse: - Ora guarda là dentro. - Osservai la macchina e vidi esservi un gran vetro in figura di una lente, largo un metro e mezzo circa, che si trovava nel mezzo della macchina, fisso alla ruota. Intorno a questa lente stava scritto: Hic est oculus qui humilia respicit in coelo et in terra. Subito misi la faccia su quella lente. Guardai. Oh spettacolo! Vidi là entro tutti i giovani dell'Oratorio. - Ma come è possibile questo? diceva fra me. Fino adesso ho visto nessuno in questa regione ed ora vedo tutti i miei figli! Non si trovano essi tutti a Torino? - Guardai al disopra ed ai lati della macchina, ma fuori di quella lente niente vedeva. Alzai la faccia per fare le mie meraviglie con quell'amico, ma dopo qualche istante egli ordinommi di dare un secondo giro alla manovella e vidi una singolare e strana separazione dei giovani. I buoni divisi dai cattivi. I primi erano raggianti di gioia. I secondi, che però non erano molti, facevano compassione. Io li riconobbi tutti, ma come erano diversi da quelli che i compagni li credevano. Gli uni avevano la lingua bucata, altri gli occhi compassionevolmente stravolti, altri oppressi da male al capo per ulceri ributtanti, altri avevano il cuore roso dai vermi. Io più li guardava tanto più mi sentiva afflitto dicendo: - Ma è possibile che questi siano i miei figli ? Non capisco che cosa vogliano significare queste così strane infermità.

                A tali mie parole, colui che mi aveva condotto alla ruota, mi disse: -Ascolta me: la lingua forata significa i discorsi cattivi; gli occhi guerci coloro che interpretano e apprezzano stortamente [902] le grazie di Dio preferendo la terra al cielo; la testa ammalata è la noncuranza de' tuoi consigli, la soddisfazione de' proprii capricci; i vermi sono le malvagie passioni che rodono i cuori: vi sono anche dei sordi che non vogliono udire le tue parole per non metterle in pratica.

                Quindi mi fece un cenno ed io dato un terzo giro alla ruota applicai l'occhio alla lente dell'apparecchio. Vi erano quattro giovani legati con grosse catene. Li osservai attentamente e li conobbi tutti. Chiesi spiegazione allo sconosciuto, e mi rispose: - Lo puoi sapere facilmente: sono quelli che non ascoltano i tuoi consigli e, se non mutano costume, sono in pericolo di essere messi in prigione e di marcirvi pei loro delitti o gravi disobbedienze. - Voglio prendere nota del loro nome per non dimenticarlo, io dissi; ma l'amico rispose: -Non fa duopo; sono tutti notati: eccoli scritti in questo quaderno! -

                Mi accorsi allora di un libretto che egli teneva in mano. Mi comandò di dare un altro giro. Obbedii e mi posi nuovamente a guardare. Si vedevano sette altri giovani, i quali stavano tutti fieri, in contegno diffidente, con un lucchetto alla bocca che chiudeva le loro labbra. Tre di costoro si turavano eziandio le orecchie colle mani. Mi alzai nuovamente dal vetro: voleva estrarre il taccuino per notare colla matita i loro nomi, ma quell'uomo disse: - Non fa di bisogno; eccoli qui notati su questo quaderno, che non mi lascia mai. - E assolutamente non volle che scrivessi. Io stupito e addolorato per quella stranezza, domandai per qual motivo il lucchetto stringesse le labbra di quei tali. Egli mi rispose: - E non lo intendi? Questi sono coloro che tacciono.

                - Ma che cosa tacciono?

                - Tacciono! - Allora capii che ciò voleva significare per rispetto alla confessione. Sono coloro che, anche interrogati dal confessore, non rispondono, o rispondono evasivamente, o contro la verità. Rispondono no, quando è si.

                L'amico continuò: - Vedi quei tre che, oltre il lucchetto alla bocca, hanno le mani alle orecchie? quanto è deplorevole la loro condizione! Questi sono quei tali che non solo tacciono in confessione, ma non vogliono in nessuna maniera ascoltare gli avvisi, i consigli, i comandi del confessore. Essi sono quelli che udirono le tue parole, ma non le ascoltarono, non vi diedero [903] retta. Potrebbero metter giù quelle mani, ma non vogliono. Gli altri quattro ascoltarono le tue esortazioni, raccomandazioni, ma non ne approfittarono.

                - E come debbono fare per togliersi quel lucchetto?

                - Ejiciatur superbia e cordibus eorum.

                - Io avviserò tutti costoro, ma per quelli che hanno le mani alle orecchie ci è poca speranza.

                Quell'uomo diede poi a me un consiglio: cioè che quando si dicono due parole in pulpito, una sia intorno al far bene le confessioni. Promisi che avrei obbedito. Non voglio dire di regolarmi assolutamente così, perchè mi renderei noioso; ma farò il possibile per inculcare spesse e spesse volte questa massima necessaria. Infatti è più grande il numero di coloro che si dannano confessandosi, che di coloro che si dannano per non confessarsi, perchè anche i più cattivi qualche volta si confessano, ma moltissimi non si confessano bene.

                Quel personaggio misterioso mi fece dare un altro giro di ruota.

                Detto, fatto. Guardai e vidi tre altri giovani in un pauroso atteggiamento. Avevano ciascuno un grosso scimione sulle spalle. Osservava attentamente e vidi che i scimioni avevano le corna. Ciascuna di quelle orribili bestiacce colle zampe davanti stringeva un infelice al collo talmente stretto, che lo faceva venir rosso ed infiammato in volto, quasi schizzandogli fuori dalle orbite gli occhi iniettati di sangue; colle zampe di dietro lo serrava nelle coscie dimodocchè a stento poteva muoversi, e colla coda, che andava giù fino a terra, lo avvolgeva ancora attorno alle gambe, sicchè gli rendeva più difficile e quasi impossibile il camminare. Questo significava quei giovani che dopo gli esercizii sono in peccato mortale, specialmente d'impurità e d'immodestia, rei di materia grave contro il sesto comandamento. Il demonio li stringeva al collo non lasciandoli parlare quando dovrebbero: li faceva venir rossi in faccia al punto che perdono il cervello e non sanno più quel che si facciano, rimanendo poi legati da vergogna fatale, la quale invece di condurli a salute li conduce a perdizione; per le sue strette loro faceva schizzar gli occhi fuori dal capo, per cui non son capaci di vedere la loro miseria, e i mezzi per uscire da questo orribile stato, perchè trattenuti da una paurosa apprensione [904] e ripugnanza dei Sacramenti. Li tiene poi stretti alle coscie ed alle gambe, affinchè non possano più camminare, nè fare passo per mettersi sulla via del bene: tale essendo il predominio della passione per causa dell'abito, da far loro credere impossibile l'emendazione.

                Vi assicuro, o cari giovani, che io piansi a tale spettacolo. Avrei voluto gettarmi avanti per andare a liberare que' disgraziati, ma appena mi allontanava dalla lente più nulla vedeva. Volli allora notarmi il nome di questi tre, ma l'amico replicò: - Cosa inutile perchè sono scritti in questo libro che tengo in mano.

                Allora pieno il cuore di commozione indicibile, colle lagrime agli occhi, mi volsi al compagno e dissi: - Ma come? In tale stato questi poveri giovani, per i quali ho spese tante parole, ho usate tante cure in confessione e fuori di confessione? - E chiesi come dovessero fare quei giovani per gettar via dalle spalle così brutto mostro. Egli si mise a dire in fretta e borbottando: Labor, sudor, fervor.

                - Io non capisco: parla più chiaro.

                Di nuovo ripeté, ma sempre borbottando: - Labor, sudor, fervor.

                - È inutile: se tu parli così io non capisco.

                -Oh! tu vuoi burlarti di me.

                -Sia come si vuole, ma ripeto che io non capisco.

                -Già! tu sei uso alle grammatiche ed alle costruzione delle scuole: sta dunque attento. Labor, punto e virgola; Sudor, punto e virgola; Fervor, punto. Hai capito?

                - Ho capito materialmente le parole, ma conviene che tu me ne dia la spiegazione.

                - Labor in assiduis operibus; Sudor in poenitentiis continuis; Fervor in orationibus ferventibus et perseverantibus. Ma per costoro hai un bel sacrificarti: non riuscirai a guadagnarli, perchè non vogliono scuotere il giogo di satana del quale sono schiavi.

                Io intanto guardava e continuava a corrucciarmi pensando: - Ma come! Tutti questi adunque sono perduti? Possibile! Anche dopo gli esercizi spirituali... quei tali... dopo aver io fatto tanto per loro... dopo aver tanto lavorato... dopo tante prediche... dopo tanti consigli che loro ho dato... e tante promesse!... Averli tante volte avvisati... Non mi sarei mai aspettato simile disinganno.

                E non poteva darmi pace. [905] Allora il mio interprete prese a rimproverarmi: - Oh il superbo! Vedete il superbo! E chi sei tu dunque che pretendi di convertire perchè lavori? Perchè tu ami i tuoi giovani, pretendi di vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni? Credi tu forse di essere dappiù del nostro divin Salvatore nell'amare le anime, faticare e patire per esse? Credi tu che la tua parola debba essere più efficace di quella di Gesù Cristo? Predichi tu forse meglio di lui? Credi tu di aver usata più carità, maggior cura verso i tuoi giovani, di quella che abbia usata il Salvatore verso i suoi apostoli? Tu sai che vivevano con lui continuamente, erano ricolmi ad ogni istante di ogni sorta di suoi benefizi, udivano giorno e notte i suoi ammonimenti e i precetti della sua dottrina, vedevano le opere sue che essere dovevano un vivo stimolo per la santificazione dei loro costumi. Quanto non ha fatto e detto intorno a Giuda! Eppure Giuda lo tradì e morì impenitente. Sei tu forse dappiù degli apostoli? Ebbene: gli apostoli elessero sette diaconi: erano solo sette, scelti con ogni cura: eppure uno prevaricò! E tu fra cinquecento ti meravigli di questo piccol numero, che non corrisponde alle tue cure? Pretendi di riuscire a non averne alcuno cattivo, che sia perverso? Oh il superbo! - Ciò udito io tacqui, ma non senza sentirmi l'anima oppressa dal dolore.

                Del resto consolati, riprese quell'uomo, vedendomi tanto abbattuto: e mi fece dare un'altro giro alla ruota, ripigliando: - Ammira quanto è generoso Iddio! Guarda quante anime ti Vuol donare! Vedi là quel numero di giovani?

                Mi rimisi a guardare nella lente e vidi uno stuolo grandissimo di giovani che non aveva mai conosciuti in vita mia: - Sì, li vedo, risposi, ma non li conosco.

                - Ebbene costoro sono quelli che il Signore ti darà in compenso di quei quattordici che non corrispondono alle tue cure. Sappi che per ognuno di essi il Signore te ne darà cento.

                - Ah! povero me! io esclamava: ho già la casa piena! dove metterò io tutti questi giovani nuovi?

                - Non corrucciarti! Pel momento i posti ci sono. Più tardi Colui che te li manda, sa Egli dove li metterai. Egli stesso troverà i posti.

                - Ma, non è tanto il posto che mi dà fastidio: il più è il refettorio che mi dà seriamente da studiare. [906]

                - Lascia adesso le celie: il Signore provvederà.

                -Se è così, sono contentissimo; risposi tutto consolato.

                E osservando per lungo tempo e con viva compiacenza tutti que' giovani, di molti ne ritenni le fisionomie, in modo di poterli riconoscere, qualora li incontrassi.

                E così Don Bosco fini di parlare la sera del 2 maggio.

 

II

 

                La sera del 3 ripigliava il suo racconto. In quel cristallo aveva contemplato eziandio lo spettacolo della vocazione, che riguardava ciascuno de' suoi alunni. Fu conciso e vibrato nel dire. Non fece alcun nome,  e rimise ad altro tempo la narrazione delle domande da lui mosse alla sua guida e le spiegazioni udite, intorno a certi simboli o allegorie che gli erano passate innanzi agli occhi. Di questi nomi però ne raccolse parecchi il Ch. Ruffino, per le confidenze dei giovani stessi, avendo loro D. Bosco spiegato privatamente ciò, che di essi aveva veduto; e ce ne trasmise la nota. Questa fu scritta nel 1861.

                Noi intanto per maggior chiarezza di esposizione e per non essere costretti a troppe ripetizioni, faremo un sol tutto, introducendo nel racconto i nomi ommessi e le spiegazioni date; ma queste le più volte senza forma di dialogo. Tuttavia saremo esatti nel riportare alla lettera ciò che scrisse il cronista.

                D. Bosco adunque prese a dire:

                Quello sconosciuto era presso il suo apparecchio della ruota e della lente. Io mi era rallegrato nel vedere tanti giovanetti che sarebbero venuti con noi, quando mi fu detto:

                - Vuoi tu ancora vedere uno spettacolo dei più belli?

                - Vediamo pure!

                - Gira la ruota! - Girai, guardai nella lente e vidi tutti i miei giovani divisi in due numerose schiere, alquanto distanti una [907] dall'altra, sopra una stessa vasta regione. Da una parte scorgeva un terreno messo a legumi, erbaggi e prati, sulla sponda del quale vi erano alcuni filari di viti selvatiche. Quivi i giovani di una di quelle due schiere con le vanghe, le zappe, i picconi a due punte, i rastrelli, i badili lavoravano la terra. Erano sparsi in squadre che avevano i loro sovrastanti. Presiedeva il Cavaliere Oreglia di S. Stefano, il quale distribuiva strumenti agricoli di ogni sorta a quelli che zappavano; e faceva lavorare coloro che ne avevano poca voglia. Lontani, in fondo a quel terreno, vidi anche giovani che gettavano le sementi.

                La seconda schiera si trovava dall'altra parte in un esteso campo di grano coperto di spighe biondeggianti. Un lungo fosso serviva di confine tra questo e altri campi coltivati che da ogni lato si perdevano nell'estremo orizzonte. Que' giovani lavoravano a raccogliere la messe, ma non tutti facevano lo stesso lavoro. Molti mietevano e facevano grossi covoni; chi formava le biche, chi spigolava, chi guidava un carro, chi trebbiava, chi arrotava le falci, chi le affilava, chi le distribuiva, chi suonava la chitarra. Vi assicuro che era una bella scena di una varietà sorprendente.

                In quel campo, all'ombra di alberi annosi si vedevano tavole col cibo necessario per tutta quella gente; e più in là poco lontano un vasto e magnifico giardino recinto ed ombreggiato, ridente di ogni specie di aiuole di fiori.

                La separazione dei coltivatori della terra dai mietitori, indicava quelli che abbracciavano lo stato ecclesiastico e quelli che no. Io però non intendeva il mistero e rivoltomi alla mia guida: - Che cosa vuol dir questo? domandai: chi sono quei là che zappano?

                - Non sai ancora queste cose? Mi fu risposto; quelli che zappano sono coloro che lavorano solo per se stessi, cioè che non sono chiamati allo stato ecclesiastico, ma ad uno stato laicale. - E intesi subito che quelli che zappavano erano gli artigiani, pei quali, nel loro stato, basta che pensino a salvare l'anima propria, senza che abbiano obbligo speciale di adoperarsi alla salvezza di quella degli altri.

                - E coloro che mietono, che sono nell'altra parte del campo replicai: e conobbi senz'altro essere quelli che erano chiamati [908] allo stato ecclesiastico. Ed ora io so chi si deve far prete, e chi deve abbracciare altra carriera.

                lo contemplava con viva curiosità quel campo di grano. Provera distribuiva le falci ai mietitori e ciò indicava che egli avrebbe potuto divenire Rettore di Seminario o Direttore di Comunità religiosa o di casa di studio, o forse anche qualche cosa di più. È da notarsi che non tutti quelli che lavoravano prendevano la falce da lui, perchè coloro che gliela chiedevano erano quelli, che avrebbero fatto parte della nostra Congregazione. Gli altri la ricevevano da alcuni distributori, che non erano de' nostri e con ciò voleasi significare, che si sarebbero fatti preti, ma per dedicarsi al Sacro Ministero fuori dell'Oratorio. La falce è simbolo della parola di Dio.

                Non a tutti quelli che la volevano, Provera dava subito la falce. Alcuni erano da lui mandati a mangiar prima, chi un boccone, chi due bocconi, cioè quello della pietà e quello dello studio. Rossi Giacomo fu mandato a prenderne uno. Costoro si recavano nel boschetto ove era il chierico Durando che faceva molte cose e tra le altre preparava la tavola pei mietitori e dava loro da mangiare. Tale uffizio indicava quelli che sono destinati in modo speciale a promuovere la divozione verso il SS. Sacramento. Intanto Galliano Matteo si affaccendava a portar da bere ai mietitori.

                Costamagna 2° andò pure a prendere una falce ma fu da Provera mandato nel giardino a raccogliere due fiori. Lo stesso accadde a Quattroccolo. A Rebuffo venne indicato di raccogliere tre fiori con promessa che poi gli sarebbe stata messa in mano la falce. Eravi anche Olivero.

                Intanto tutti gli altri giovani si vedevano sparsi qua e là in mezzo alle spighe. Molti erano disposti in linea; alcuni avevano innanzi una porca larga, altri una meno larga. D. Ciattino parroco di Maretto mieteva con una falce ricevuta da Provera. D. Francesia e Vibert tagliavano il grano. Mietevano pure Perucatti Giacinto, Merlone, Momo, Garino, Iarach, i quali, cioè, avrebbero salvate le anime colla predicazione, se corrisponderanno alla loro vocazione. Chi tagliava più e chi meno. Bondioni mieteva da disperato, ma cosa violenta durerà? Altri davano con tutta forza la falce nel grano, ma non tagliavano mai niente. Vaschetti prese una falce e si mise a tagliare, tagliare, finchè uscì fuori del campo e [909] andò a lavorare altrove. Ad altri accadde lo stesso. Fra quelli che mietevano molti non avevano la falce affilata; ad altre falci mancava la punta. Alcuni l'avevano così guasta che, volendo tuttavia mietere, laceravano e guastavano ogni cosa.

                Ruffino Domenico mieteva ed eragli stata assegnata una porca larga molto; la sua falce tagliava bene: aveva solo questo difetto che le mancava la punta, simbolo dell'umiltà. Era il desiderio di tendere a più alto grado tra gli eguali. Egli andava da Cerruti Francesco per farla martellare. Infatti osservai Cerruti che martellava le falci, indizio che doveva mettere nei cuori scienza e pietà, alludendo che sarebbe divenuto un insegnante. Il martellare era l'ufficio di colui che si dà all'insegnamento del clero e Provera consegnava a lui le falci guaste. A D. Rocchietti e ad altri consegnava quelle che avevano bisogno di essere affilate, tale essendo la loro occupazione. L'ufficio di affilare era proprio di colui, il quale dirige il clero alla pietà. Si presentò Viale e andò a prendere una falce che non era affilata, ma Provera volle dargliene un'altra tagliente passata allora sulla coté. Vidi eziandio un fabbro ferraio, che doveva preparare i ferri agricoli e questi era Costanzo.

                Mentre ferveva tutto questo complicato lavoro, Fusero faceva i covoni, e ciò voleva dire conservare le coscienze in grazia di Dio: ma venendo anche più al particolare e prendendo i covoni non come immagini dei semplici fedeli, ma di quelli che sono destinati allo stato ecclesiastico, si capiva che avrebbe egli occupato un posto d'insegnante nell'istruzione de' chierici.

                Vi era chi aiutavalo a legare i covoni e ricordo aver veduti tra gli altri D. Turchi e Ghivarello. Ciò significa coloro che sono destinati ad aggiustare le coscienze, come sarebbe confessando; e specialmente per gli addetti o aspiranti allo stato ecclesiastico.

                Altri trasportavano i covoni sopra di un carro, il quale rappresentava la grazia di Dio. I peccatori convertiti debbono mettersi sopra di questo, ad incamminarsi per la retta via della salute, che ha per termine il cielo. Il carro si mosse quando fu colmo di covoni. Veniva tirato non da giovani, ma dai buoi simbolo di forza perseverante. Vi erano coloro che li conducevano. D. Rua precedeva il carro e lo guidava e ciò vuol dire che a lui toccherebbe [910] guidare le anime al cielo. D. Savio veniva dietro colla scopa raccogliendo le spiche e i covoni che cadevano.

                Sparsi pel campo si vedevano quelli che spigolavano, tra i quali Bonetti Giovanni e Bongiovanni Giuseppe, cioè quelli che raccoglievano i peccatori ostinati. Bonetti specialmente è chiamato dal Signore in modo particolare a cercare questi disgraziati sfuggiti dalla falce de' mietitori.

                Con Fusero anche Anfossi rizzava sul campo mucchi di covoni del grano segato, perchè fosse battuto a tempo opportuno: ciò forse era indizio di qualche cattedra. Altri come D. Alasonatti formavano le biche e sono quelli che amministrano i danari, vegliano per l'esecuzione delle regole, insegnano le orazioni e il canto delle laudi sacre, che insomma cooperano materialmente e moralmente a mettere le anime sulla strada del paradiso.

                Uno spazio di terra appariva spianato e accomodato per battervi le biade. D. Cagliero Giovanni, che prima era andato nel giardino a cogliere dei fiori e li aveva distribuiti ai compagni, col suo mazzolino in mano si recò in quell'aia a trebbiare il grano. Trebbiare il grano si riferisce a coloro che sono destinati da Dio ad occuparsi dell'istruzione del basso popolo.

                A distanza si vedevano parecchie nere fumate alzarsi verso il cielo. Era opera di quelli che raccoglievano il loglio e, usciti fuori dal confine del campo occupato dalle spighe, lo mettevano a mucchio e lo abbruciavano. Significava coloro che sono specialmente destinati a togliere i cattivi di mezzo ai buoni, indicando i direttori delle nostre case future. Fra questi si vedevano D. Cerruti Francesco, Tamietti Giovanni, Belmonte Domenico, Albera Paolo e altri che ora giovanetti studiano nelle prime classi ginnasiali.

                Tutte le scene sopra descritte si svolgevano ad un tempo e vidi tra quella moltitudine di giovani alcuni, i quali portavano una lucerna in mano per far lume anche in pieno mezzogiorno. Sono coloro che sarebbero stati di buon esempio agli altri operai del vangelo e con questo devono illuminare il clero. Fra essi era Albera Paolo il quale oltre avere la lucerna, suonava eziandio la chitarra; e ciò significa che mostrerà la via ai sacerdoti, e farà loro coraggio per andare avanti nella loro missione. Si alludeva a qualche alta carica che sarà da lui occupata nella Chiesa. [911] In mezzo però a tanto movimento non tutti i giovani che io vedeva, erano occupati in qualche lavoro. Uno di questi teneva una pistola in mano, cioè tendeva alla milizia; non si era però ancora deciso.

                Chi stava colla mano alla cintola osservando quelli che mietevano, e nello stesso tempo risoluti di non imitare il loro esempio; chi mostravasi indeciso, ma pesandogli la fatica, non sapeva se avesse anch'egli da risolversi alla mietitura; chi invece correva a por mano alla falce. Alcuni però là giunti, se ne stavano oziosi. Altri adoperavano la falce tenendola rivolta all'indietro e fra questi Molino. Sono coloro che fanno l'opposto di ciò che debbono fare. Vi erano di quelli, e ne contavo molti, che si allontanavano per andare a raccogliere lambrusche: cioè quelli che perdono il tempo in cose estranee al loro ministero.

                Mentre io contemplava ciò che andava accadendo nel campo di grano, vedeva l'altra schiera di giovani che zappavano, la quale presentava essa pure uno spettacolo singolare. La maggior parte di quei robusti lavorava con molto impegno, non mancavano però i negligenti. Chi maneggiava la zappa al contrario; altri dava il colpo sulle zolle, ma la zappa era sempre fuori di terra; ad alcuni ad ogni zappata sfuggiva il ferro dal manico. Il manico significa la retta intenzione.

                Quello che allora osservai si è che alcuni, i quali adesso sono artigiani, erano sul campo di biade che mietevano, ed altri che adesso studiano, erano là che zappavano. Tentai nuovamente di prender nota di ogni cosa; ma il mio interprete mostravami sempre il suo quaderno e mi impediva di scrivere.

                Nello stesso tempo vedeva moltissimi giovani che stavano là senza far nulla, non sapendo determinarsi, se dovessero mettersi a mietere o a zappare. I due Dalmazzo, Gariglio Primo, Monasterolo con molti altri guardavano ma risoluti di prendere una decisione.

                Continuando ad osservare distinsi di quelli che usciti di mezzo a coloro che zappavano, volevano andare a mietere. Uno corse nel campo di grano così sbadatamente da non pensare a procurarsi prima una falce. Arrossendo di quella stolta precipitazione ritornò indietro per chiederla. Colui che le distribuiva non voleva dargliela ed egli la pretendeva: - Non è ancor tempo, gli disse quel distributore. [912]

                - Si è tempo: la voglio.

                - No; va ancora a prendere due fiori in quel giardino.

                - Ah! esclamò alzando le spalle quel presuntuoso; vado a prenderne finchè vuole dei fiori.

                - No; due soli.

                Corse tosto, ma quando fu nel giardino pensò che non aveva domandato, quali fiori dovesse prendere; e si affrettò a rifare il sentiero: - Prenderai, gli fu risposto, il fiore della carità e il fiore dell'umiltà.

                - Li ho già.

                - Li avrai nella presunzione, ma in realtà non li hai.

                E quel giovane, rissava, si arrabbiava, saltava per la stizza che tutto agitavalo.

                - Non è più tempo adesso di andare sulle furie, gli disse il distributore, negandogli risolutamente la falce. E quegli si mordeva i pugni per la rabbia.

                Visto quest'ultimo spettacolo tolsi gli occhi per un istante da quella lente, per mezzo della quale tante cose aveva apprese, commosso eziandio delle applicazioni morali, che mi erano state suggerite dal mio amico. Volli ancora pregarlo che mi desse alcune spiegazioni, ed ci mi ripeté: - Il campo di grano significa la Chiesa: la messe il frutto riportato: la falce è simbolo dei mezzi per fare frutto e specialmente la parola di Dio: la falce senza filo mancanza di pietà, senza punta mancanza di umiltà: l'uscire dal campo mietendo, vuol dire abbandonare l'Oratorio e la Pia Società.

 

III

 

                La sera del 4 maggio D. Bosco veniva alla conclusione del sogno che nel primo quadro aveagli presentato l'Oratorio i suoi alunni in ispecie gli studenti; e nel secondo coloro che erano chiamati allo stato ecclesiastico. Siamo ora al terzo quadro nel quale in visioni successive apparivano quelli che in quest'anno 1861 erano ascritti alla Pia Società di S. Francesco di Sales col prodigioso ingrandimento di questa, e collo scomparire a Poco a poco dal mondo dei [913] primi Salesiani ai quali succedevano i continuatori dell'Opera loro.

                D. Bosco parlò:

 

                Dopo che con pieno mio agio ebbi considerata la scena della mietitura ricca di tante varietà, quel gentile sconosciuto mi comandò: - Ora dà colla ruota dieci giri: conta e poi guarda. -

                Mi posi a far girare la ruota e compiuto il decimo giro guardai. Ed ecco che vidi tutti i medesimi giovani, che io ricordava aver pochi giorni prima accarezzati ragazzi, comparire adulti, d'aspetto virile, gli uni colla barba lunga, altri coi capelli brizzolati.

                - Ma come va, domandai: l'altro giorno quel li era bambino e quasi lo si prendeva ancora in braccio! e adesso è già così grande?

                L'amico mi rispose: - È naturale, quanti giri hai numerati?

                - Dieci.

                - Ebbene; 61 e 71. Contano già tutti dieci anni di più.

                - Ah! Ho capito. - E osservai in fondo alla lente, panorami sconosciuti, case nuove che ci appartenevano e molti giovani alunni sotto la direzione de' miei cari figliuoli dell'Oratorio, già preti, maestri e direttori che li istruivano e poi li facevano divertire.

                - Dà di bel nuovo dieci giri, - mi disse quel personaggio - e andremo al 1881. Presi il manubrio e la ruota fece dieci altri giri. Guardai ed ecco io vidi più solo la metà dei giovani visti la prima volta, quasi tutti coi capelli grigi e alcuni un po' curvi.

                - E gli altri dove sono? - domandai.

                - Sono già passati, mi fu risposto, nel numero dei più.

                Questa così notevole diminuzione dei miei giovani mi cagionò vivo dispiacere, ma rimasi consolato dallo scorgere anche, come in un quadro immenso paesi nuovi e regioni sconosciute ed una moltitudine di ragazzi sotto la custodia e direzione di maestri nuovi dipendenti ancora dai miei antichi giovani, alcuni dei quali divenuti di età matura.

                Poi diedi altri dieci giri alla ruota, ed ecco che ne vidi [914] soltanto una quarta parte dei miei giovani visti pochi momenti prima più vecchi colla barba e coi capelli bianchi: - E tutti gli altri? chiesi.

                - Sono già nel numero dei più. Siamo nel 1891.

                Ed ecco succedere sotto i miei occhi un'altra scena commovente. I miei figli preti, logori dalle fatiche erano circondati da fanciulli, che io non aveva mai visti, e molti di pelle e di colore diverso da quello degli abitanti dei nostri paesi.

                Girai ancora dieci volte la ruota ed io vidi un terzo solo de' miei primi giovani, già cadenti vecchi, gobbi, sfigurati, macilenti, nei loro ultimi anni. Tra gli altri mi ricordo di aver visto D. Rua così vecchio e sparuto da non potersi più riconoscere tanto era cambiato.

                - E tutti gli altri? domandai.

                - Sono già nel numero dei più. Siamo al 1901.

                In molte case non riconobbi più nessuno de' nostri antichi; ma direttori e maestri da me mai veduti ed una moltitudine di giovani sempre più ingrossata, di case aumentate, di personali dirigenti mirabilmente accresciuti.

                - Ora continuò a dirmi il cortese interprete darai altri dieci giri e vedrai cose che ti consolano e cose che ti angustiano.

                Diedi altri dieci giri.

                - Ecco il 1911! esclamò quel misterioso amico. Ah! miei cari giovani! vidi case nuove, giovani nuovi, direttori e maestri con abiti e costumi nuovi.

                E de' miei dell'Oratorio di Torino? Cercai e cercai molto in mezzo a tanta moltitudine di giovani, e ne raffigurai solo più uno di voi altri incanutito e cadente per gli anni molti, il quale, circondato da bella corona di fanciulli, raccontava i principii del nostro Oratorio e loro ricordava e ripeteva le cose imparate da D. Bosco; e ne mostrava il ritratto che stava appeso alle pareti del loro parlatorio. E degli altri nostri vecchi allievi, superiori delle case, che aveva già visti invecchiati?...

                Dopo un nuovo cenno presi il manubrio e più volte girai. Non vidi che una vasta solitudine senza persona viva: - Oh! esclamai stupito, non vedo più nessuno de' miei! E dove dunque sono ora tutti i giovani che furono da me accolti, così allegri, vispi e robusti, e che attualmente si trovano con me all'Oratorio? [915]

                - Sono col numero dei più. Sappi che sono passati dieci anni per ogni decimo girar di ruota.

                Contai allora quante volte aveva fatto dare dieci giri alla ruota e ne risultò che erano trascorsi cinquantanni e che intorno al 1911 tutti gli attuali giovani dell'Oratorio sarebbero già morti.

                E ora vuoi ancor vedere qualche cosa di sorprendente?- mi disse quell'uomo benevolo.

                - Si: io risposi.

                - Dunque sta attento se ti piace vedere e sapere di più. Gira la ruota in senso contrario, contando altrettanti giri quanti ne hai dati prima.

                La ruota girò. - Ora guarda! Mi fu detto.

                Guardai; ed ecco io ebbi innanzi una quantità immensa di giovani tutti nuovi, di un'infinita varietà di costumi, paesi, fattezze e linguaggi, sicchè non ostante che io mi sforzassi quanto poteva, non mi fu dato distinguerne che una minima parte coi loro superiori, direttori, maestri, assistenti.

                - Mi sono costoro affatto ignoti, io dissi alla mia guida.

                - Eppure, mi fu risposto, sono tutti figli tuoi. Ascoltali parlano di te e de' tuoi antichi figli e loro superiori che ora non sono più da tempo; e ricordano gli insegnamenti avuti da te e da loro.

                Guardai ancora con attenzione; ma quando alzai la faccia dalla lente, la ruota si mise a girare da per se con tanta fretta e con tanto fragore, che io mi svegliai trovandomi sul letto stanco a morte.

                Adesso che vi ho raccontato tutte queste cose voi penserete: Chi sa! D. Bosco è un uomo straordinario, qualche cosa di grande, un santo sicuramente! Miei cari giovani! Per impedire stolti giudizi intorno a me, vi lascio tutti in piena libertà di credere o non credere queste cose, di dar loro più o meno importanza; solo raccomando di mettere niente in derisione, sia coi compagni, sia cogli estranei. Stimo bene però di dirvi che il Signore ha molti mezzi per manifestare agli uomini la sua volontà. Alcune volte si serve degli istrumenti più inetti ed indegni, come si servì dell'asina di Balaam facendola parlare: e di Balaam falso profeta che predisse molte cose riguardanti il Messia. Perciò lo stesso può accadere di me. Io vi dico adunque che non guardiate le mie [916] opere per regolare le vostre. Quel che voi dovete unicamente fare si è di badare a quello che dico, perchè questo, almeno lo spero, sarà sempre la volontà di Dio, e ridonderà a bene delle anime. Riguardo a quel che faccio non dite mai: l'ha fatto D. Bosco, dunque è bene: no. Osservate prima quello che faccio; se vedete che è buono imitatelo; se per caso mi vedeste a fare qualche cosa di male, prendetevi guardia dall'imitarlo: lasciatelo come malfatto.

 

 

CAPO LXVIII. Testimoni della narrazione del sogno e alcune prove dell'avveramento de' fatti predetti e della realtà delle cose vedute - D. Bosco palesa in privato, a quelli che glielo domandano, come li abbia visti nel sogno - Gli alunni interpellano D. Bosco in pubblico, perchè spieghi loro quale significato avessero le varie apparizioni nella lente - Due alunni fra i presenti saranno Vescovi - Alcuni artigiani messi a studiare - Il mese di Maria nell'Oratorio - D. Bosco insegna laudi sacre - Sanità cagionevole, ma lavoro incessante - Conferenza: Carità coll'obbedienza - Le sacre novene fatali ai cattivi.

 

                L’effetto che produsse nell'Oratorio il racconto del sogno noi lo chiederemo a quelli che erano presenti.

                Il Can. Giacinto Ballesio nella sua orazione: Vita intima di D. Giovanni Bosco, aggiungendo qualche particolarità omessa dalle cronache, anche ne' due sogni precedenti di quest'anno, scriveva: “D. Bosco era tutto per noi ed anche il brevissimo sonno gli era accorciato dal pensiero dei figli. Il poeta cantò che Sogna il guerrier le schiere; D. Bosco sognava i suoi figliuoli. Sebbene, che dico sogni o non piuttosto celesti visioni? Egli ce le raccontava come sogni, ma io e tutti eravamo persuasi doversi dire [918] piuttosto belle e buone visioni. Ricordo quella nella quale contemplò i 400 e più giovani dell'Oratorio, studenti ed operai in diversi atteggiamenti e foggie che rappresentavano lo stato morale di ciascuno. Il servo di Dio la raccontò in diverse sere dopo le orazioni con tanta vivacità di colori e tanta forza di espressione, che parve un tratto profetico. Chi era stato visto da lui risplendente di luce, chi coll'anima e il cuore ripieno di oro purissimo, chi in sembianze brutte e spaventevoli, chi sotto forma di animali diversi col cuore pieno di terra; ed altri circondati, avvicinati, od assaliti da diversi animali anch'essi simbolici rappresentanti le tentazioni, le occasioni pericolose e i peccati. Questo racconto esposto da D. Bosco con semplicità, gravità ed affetto paterno, come cosa a cui egli dava somma importanza, fece sopra di tutti la più grande e salutare impressione. Ciascuno uno dopo l'altro volle udire da lui la condizione in cui era stato veduto e ciascuno con sua grande meraviglia sentì e capì che D. Bosco aveva veduto proprio il giusto.

                Nell'Oratorio poi ne fu così grande il salutare effetto, nella condotta e nella vita dei giovani, quanto appena si sarebbe potuto sperare da una missione delle più fruttuose. In tutte queste cose straordinarie che appena io ho accennato, non si potrebbe dire, che si possano spiegare colla sua naturale accortezza, o con mezzi e cognizioni, che egli potesse avere dalle confidenze dei giovani o dalle relazioni de' suoi collaboratori. D. Bosco diceva ed operava queste meraviglie in tal circostanza, che a noi, sebbene non più fanciulli, non si rappresentava altra spiegazione ragionevole e plausibile se non quella dei doni straordinarii concessi a D. Bosco dal Signore. E per stare solamente al fatto ora ricordato del sogno o visione, come avrebbe potuto vedere e ricordare con tanta giustezza lo stato di ciascuno de' quattrocento [919] giovani, fra i quali i venuti di fresco all'Oratorio e altri che non si confessavano da lui, i quali udendo dal servo di Dio la viva e intima descrizione dell'anima loro, delle loro inclinazioni dei movimenti ed atti più nascosti, riconoscevano aver egli detta la verità?”

                Scrisse Mons. Cagliero: - “Io mi trovavo presente quando D. Bosco nel 1861 raccontò il sogno della ruota, nel quale aveva veduto l'avvenire della nascente Congregazione. Raccontava questi sogni perché, consigliatosi con D. Cafasso, questi gli aveva detto di andare pure avanti, tuta conscientia, nel dare loro importanza, giudicando egli che fossero que' sogni di maggior gloria di Dio e di bene alle anime. Questo giudizio D. Bosco ce l'aveva detto a noi suoi più intimi amici anni prima che morisse D. Cafasso.

                L'attenzione che prestavano i giovani alle sue parole, sorprendeva ed imponeva. Quindi D. Bosco con una memoria prodigiosa e con una straordinaria lucidezza di mente, interrogato a parte, sapeva dire il nome e l'ufficio, che avevano nel campo del grano moltissimi di noi e con la relativa spiegazione. Per raccontare questo sogno impiegò tre sere consecutive e fu per molto tempo oggetto di conversazione tra noi e il nostro caro padre e ci siamo persuasi che egli aveva avuto in questo sogno conoscenza chiara sull'avvenire dell'Oratorio e della Congregazione. In privato co' suoi più intimi si compiaceva ripetere la descrizione della messe biondeggiante nel campo misterioso, dei varii atteggiamenti dei mietitori e di quelli che distribuivano le falci. Ci assicurava intanto che la nostra Pia Società tanto osteggiata e perseguitata sarebbe stata contro ogni probabilità approvata e che contrariamente al parere di molti, anche fra i buoni è i prudenti, avrebbe sussistito, prospererebbe e prenderebbe grande incremento; cose tutte che io ho [920] sentite da miei compagni e udite ripetute volte dal servo di Dio”.

                In quanto ai tre che avevano il scimione sulle spalle, Don Dalmazzo Francesco così asseriva con giuramento: “Ricordo benissimo che D. Bosco parlando di costoro aggiungeva, che se desideravano sapere qualche cosa di più chiaro andassero da lui. Se ne presentarono più di cinquanta nel timore d'aver essi qualche cosa nascosta nella coscienza; ma D. Bosco rispose a ciascuno: - Non sei tu. - Incontrati poscia per caso quei tre in cortile in tempo diverso li avvertì del loro stato infelice. Tra questi uno era mio compagno di scuola e me lo disse confidenzialmente, maravigliandosi come D. Bosco potesse sapere queste cose. Del resto altre prove di scrutazione de' cuori le ebbi io stesso personalmente avendomi egli più volte rivelato il mio interno, senza che io dicessi parola. L'ebbi eziandio da parecchi altri miei compagni, i quali confessarono candidamente, che malgrado il loro silenzio, anche in confessione su materie gravi, Don Bosco aveva saputo manifestarle ad essi con precisione”.

                Per riguardo i quattro incatenati ebbimo notizia di uno di questi dal Teol. Borel. Recatosi egli nel 1866 ad esercitare il sacro ministero nelle carceri, veniva nell'Oratorio latore di una commissione a D,. Bosco per parte del giovane Bec....di…; il quale era stato condannato come disertore dalla milizia. Il prigioniero chiedeva a D. Bosco il Giovane Provveduto e gli mandava a dire: - Si ricorda di avermi lei detto come nel sogno della ruota, mi avesse veduto incatenato? Pur troppo io ero uno dei quattro; ma però le dico per consolarlo che mi trovo in prigione, non per delitto, ma sibbene perchè non reggendo alla durezza della vita militare son fuggito dai quartieri. - D. Bosco andò a visitarlo recandogli il libro che gli aveva domandato. [921] Ma oltre la prigionia D. Bosco avevagli predetto dopo quel sogno, altre peripezie. Finiti gli studii erasi congedato dal Servo di Dio, dicendogli come intendesse di entrare in qualche Congregazione religiosa. - Fermati con noi gli rispondeva D. Bosco, il quale aveva già cercato d'indurlo a far parte della famiglia dell'Oratorio; non allontanarti da me e qui avrai quello che desideri. - Ma il giovane era risoluto di andarsene.

                - Quando è così, concludeva D. Bosco, va pure. Ti farai Gesuita e ti manderanno via; entrerai fra i Cappuccini e non sarai perseverante; infine spinto dalla fame ritornerai dopo varie vicende a chiedere il pane dell'Oratorio.

                Ciò sembrava impossibile poichè il suo patrimonio era di circa 60.000 lire e la sua famiglia una fra le prime del paese. Eppure gli accadde alla lettera ciò che D. Bosco aveva predetto. Ascrittosi prima fra i Gesuiti e poi tra i Cappuccini, non potè addattarsi alle regole e dopo qualche tempo venne congedato. Sciupato tutto il suo patrimonio, dopo lungo tempio comparve all'Oratorio in estrema miseria. Vi fu accolto, vi stette un anno e poi uscì, perchè amante della vita randagia. Egli stesso raccontava minutamente la profezia avverata e viveva ancora nel 1901.

                Intanto i chierici e gli alunni fin dal 4 maggio avevano incominciato ad affollarsi intorno a D. Bosco per domandargli in quale parte del campo, gli avesse veduti; se fra quelli che zappavano, o fra quelli che mietevano; e che cosa essi facessero. Egli diede soddisfazione a tutti; e da noi molte delle risposte vennero già riferite nel corpo della narrazione del sogno. In non poche abbiamo potuto constatare il carattere di vera predizione.

                P. Bosco aveva visto il Chierico Molino starsene ozioso colla falce in mano, guardando gli altri a lavorare e poi [922] avvicinarsi al fosso che circondava il campo, saltarlo, gettar via il cappello e fuggire. Molino chiese a D. Bosco spiegazione della cosa ed ebbe per risposta: - Tu farai non cinque, ma sei anni di Teologia e poi deporrai l'abito ecclesiastico. - Molino fu stupito di simile risposta, che parvegli strana e ben lontana dalla verità: ma l'evento provò che D. Bosco aveva detto il vero. Questo giovane compièrealmente il corso non di cinque, ma di sei anni di Teologia, quattro all'Oratorio, altri due in Asti e dopo aver fatti gli esercizi spirituali per le ordinazioni, andato a S. Damiano di Asti sua patria per un giorno solo, come disse, al fine di sbrigare un suo negozio, depose l'abito clericale e più non ritornò.

                Il Ch. Vaschetti era stimato come una colonna del Collegio di Giaveno e tale era. Quando D. Bosco gli narrò di averlo visto uscire dal campo, saltando il fosso, egli rispose, quasi indispettito: - Lei ha davvero sognato! Infatti allora non pensava menomamente di dover abbandonare D. Bosco. Uscito poi realmente dall'Oratorio, poichè era libero, e venuto a far visita al servo di Dio, essendo già prete, questi gli rammentò la sua risposta pronta ma figliale.

                - Mi ricordo! È vero! rispose Vaschetti.

                E D. Bosco: - È qui nell'Oratorio che Dio ti chiamava: del resto spero che ti darà la sua grazia; ma avrai da combattere. - E Dio aiutò Vaschetti, il quale operò un gran bene come parroco.

                Il chierico Fagnano Giuseppe non voleva domandare a D. Bosco qual fosse la sua parte nel sogno, perchè sia per indole guardinga, sia per esser venuto da pochi mesi dal Seminario di Asti, provava una certa incredulità per quelle rivelazioni. Spinto però dai compagni si avvicinò a Don [923] Bosco, e gli chiese che cosa avesse visto di lui in quella lente. Ebbe per risposta: - Ti ho visto nel campo, ma così lontano, che appena ti poteva riconoscere. Tu lavoravi in mezzo ad uomini nudi.

                Il Ch. Fagnano non fece gran caso di quelle parole, ma le ricordò quando nel giorno di Maria Ausiliatrice era sopra una spiaggia dello stretto di Magellano, mangiando molluschi per due giorni, col bastimento in vista, che non poteva avvicinarsi per la tempesta. E vide gli uomini senza vesti nella Terra del Fuoco, ove piantava la croce e formava la sua missione.

                A D. Savio Angelo D. Bosco ripetè che avevalo scorto in lontanissime regioni.

                A Domenico Belmonte rispose: - Tu darai gloria a Dio colla musica. - E poi aggiunse una parola che istantaneamente fece al giovane molta impressione; ma allontanatosi un due passi, quella si cancellò intieramente dalla sua memoria, e per quanto pensasse poi, non potè mai più ricordarla. D. Bosco avealo anche visto nell'atto che conduceva un carro tirato da cinque muli. Il frutto delle sue fatiche doveva essere prodigioso. Maestro e assistente generale nel Collegio di Mirabello, Professore in quello di Alassio, prima Prefetto e poi Direttore a Borgo S. Martino, Direttore e Parroco in Sampierdarena, ovunque fu maestro di musica pel decoro delle sacre funzioni. Finalmente Prefetto della Pia Società e Direttore dell'Oratorio di Torino ebbe sempre e ovunque l'affezione le tutta la confidenza dei confratelli e dei giovani.

                “D. Bosco, leggiamo ancora nella cronaca, disse eziandio ad Avanzino l'ufficio che faceva nel sogno: quindi gli soggiunse: - Questo è volontà di Dio che tu faccia.

                Avanzino, che non palesò l'ufficio che pareva a lui destinato, [924] poichè non era disposto ad assoggettarvisi, confidava poscia con alcuni suoi intimi amici: - D. Bosco mi scoprì cose che io non palesai mai a persona del mondo.

                A Go.... disse pure D. Bosco: - Tu saresti chiamato allo stato ecclesiastico, ma ti mancano tre virtù: umiltà, carità, castità. - Aggiunse però che la falce non doveva prenderla da D. Provera.

                Il giovane Ferrari, che diceva di voler abbracciare lo stato ecclesiastico, non andò mai a chiedere quello che lo riguardava del sogno; anzi se ne burlava, quantunque stato da molti a ciò sollecitato. Finalmente si trovò in tal caso che non potè sfuggire D. Bosco, il quale gli narrò come l'avesse visto nel campo di grano e che a dispetto di coloro che lo volevano mandare a raccogliere ancora qualche fiore, si mise a tagliare forte, ma che giunto al fine si rivolse indietro e non trovò niente di fatto.

                - Che vuol dir ciò? domandò allora il giovane.

                - Ecco; vuol dire, rispose D. Bosco, che se tu non cangi metodo, cioè se seguiti a fare secondo il tuo capriccio, senza voler essere guidato, diventerai un prete spretato, o un frate sfratato”.

                Ma i giovani dell'Oratorio non si contentavano di notizie date a ciascuno in privato. Desideravano che si dessero loro più ampie spiegazioni del sogno in pubblico, si sciogliessero certe difficoltà, che non avevano comprese, che si appagasse pienamente una curiosità, che li teneva in una specie di fermento. Erano alunni disinvolti, d'ingegno, studiosi, i quali avrebbero messo in impaccio colle loro interrogazioni chiunque non fosse stato sicuro della verità da ciò che annunziava. Ma D. Bosco non temeva di essere preso in contraddizione e “alla sera del 4 maggio, narra la cronaca, parlò dando facoltà a ciascun allievo di fare interpellanze [925], poichè desiderava egli pure di poter spiegar loro quelle cose, riguardanti il sogno che non avessero capito bene.

                E la sera del 5 maggio molti domandarono spiegazioni. Chiesero: - In primo luogo che vuol dire la sera?

                Rispose D. Bosco: - Che la morte si avvicina: venit nox quando nemo potest operari, ha detto nostro Signore. Intesero come egli indicasse essere forse vicina la fine de' suoi giorni, e, dopo un istante di penoso silenzio, gli domandarono qual fosse il mezzo per allungargli la sera.

                - Due sono i mezzi, rispose D. Bosco. Il primo sarebbe che non facessi più di questi sogni, perchè essi mi rovinano straordinariamente nella sanità. Il secondo mezzo sarebbe che gli indurati nel male non costringessero in certo modo il Signore ad operare violentemente per far loro cacciar di dosso il peccato.

                - E i fichi e l'uva?

                - L'uva ed i fichi che parte sono maturi e parte non lo sono ancora, significa che alcuni fatti precedenti la sera si sono già compiuti; altri si compiranno. Questi fatti compiuti ve lo dirò a suo tempo. I fichi indicano specialmente grandi avvenimenti che non tarderanno ad arrivare nell'Oratorio. Avrei anche a questo riguardo molte cose a dirvi, ma non è conveniente che ve le dica adesso; ve le dirò poi. Vi aggiungerò che i fichi, presi come simboli dei giovani, possono significare due cose: o maturi per offerirsi a Dio nel sacro ministero, o maturi per offerirsi a Dio nell'eternità”.

                Noi osserveremo, se ci è lecito esporre una nostra idea, che tra i fichi doveva esservene di quelli amari al palato, ed è perciò che D. Bosco non ne volle cogliere quantunque scusasse con un pretesto il suo rifiuto. [926] Geremia narra una sua visione al capo XXIV in questi termini: “Vidi due panieri pieni di fichi posati davanti al tempio del Signore In uno erano ottimi fichi come sogliono essere i primaticci; e nell'altro paniere fichi pessimi da non potersi mangiare per essere guasti”. Il primo canestro rappresentava quelli che si erano pentiti delle colpe ai quali il Signore prometteva che avrebbe fatto misericordia. Il secondo coloro che impenitenti saranno sterminati da Dio, il quale protesta (XXIX, 17): “Li tratterò come fichi cattivi che non possono mangiarsi per essere guasti”. Che la valletta di Valcappone rappresentasse l'Oratorio ci pare indicato dall'aver avuto questo la prima origine in quel paese, dallo stesso carro del fratello Giuseppe che fu generoso benefattore di D. Bosco e dei suoi giovani, e dalla ruota colla lente che rappresentò quivi gli spettacoli già descritti.

                E gli alunni continuarono ad interrogarlo.

                Prosegue D. Ruffino.

                “E i scimioni sulle spalle dei giovani che cosa vogliono significare ?

                - Significano, rispose D. Bosco, il demonio della disonestà. Questo demonio quando vuole andare addosso a qualcuno, non si presenta davanti, ma assale alle spalle, cioè nasconde la bruttezza del peccato, non la lascia vedere, lo fa parer cosa da nulla. Questi scimioni li stringono al collo, soffocando la parola in bocca quando eglino vogliono confessarlo. Quelli infelici avevano gli occhi stralunati per indicare che chi è invaso da questo demone, più non vede le cose del cielo. Miei cari giovani, tenete a mente quelle tre parole: labor, sudor, fervor; e potrete riportare compiuta vittoria contro ogni demonio, che venga a tentarvi contro, la virtù della modestia. [927]

                E con qual mezzo si potrà togliere il lucchetto dalla bocca ?

                D. Bosco ripetè ciò che aveagli risposto quell'amico misterioso: Auferatur superbia de cordibus eorum.

                Gli mossero altre domande riguardanti al lavoro che ciascheduno degli alunni faceva, chiedendone la spiegazione.

                - Che cosa ci dirà ancora sul campo di grano?

                - Quei che lavoravano attorno al grano sono i chiamati allo stato Ecclesiastico, dimodochè io conosco chi si dovrà far prete e chi no. Non pensate però, che coloro i quali erano nel campo degli artisti fossero esclusi assolutamente dal mietere e così viceversa. Oh no! Vidi eziandio là alcuni artigiani a tagliare il grano cogli altri. Questi li conobbi e li metterò a studiare. Alcun altro andava per prendere una falce, ma chi la distribuiva non glie la voleva dare, perchè mancavagli ancora qualche virtù. Che se egli le acquista il Signore lo chiama assolutamente, purchè non si renda indegno della vocazione. Ma tanto chi lavorava zappando, quanto chi mieteva, faceva la volontà di Dio ed era nella via della salute.

                - Che cosa indicano i bocconi ed i fiori?

                - Vi erano di quelli che andavano nel campo e volevano mietere, ma Provera loro non voleva dare la falce, perchè non ancora abili a lavorare e diceva loro: - A te manca ancora un fiore. Ovvero; te ne mancano due. Tu devi ancora trangugiare due bocconi. - Questi fiori erano ora la virtù della carità, ora dell'umiltà, ora della purità. I bocconi per lo più erano o un boccone di studio, o un boccone di pietà. Ciò udito, quei giovani andavano a cogliere questi fiori, a trangugiare questi bocconi, e poi ritornavano e ricevevano la loro falce.

                Fu anche interrogato sopra le scene, che gli erano apparse [928] ad ogni dieci giri di ruota, che riguardavano principalmente lo svolgersi della Pia Società Salesiana. D. Bosco rispose: - Un lungo intervallo divideva ogni decimo girar di ruota, perchè io potessi ponderatamente esaminare ogni circostanza di quelle rappresentazioni. Fin dal principio dopo i primi giri contemplai la Congregazione formata, bene incamminata, ed un gran numero di confratelli e di giovani nelle varie case. Succedendosi i giri della ruota scorgeva sempre volta per volta variarsi gli spettacoli. Non si vedevano più molti che prima aveva visti; poi comparivano altri che non aveva ancor avvertiti; e coloro che si erano osservati giovani poi si vedevano vecchi. E il numero dei fanciulli cresceva sempre rapidamente e smisuratamente.

                Gli alunni ricordarono ancora come il personaggio del sogno gli avesse detto: vedrai cose che ti consolano e cose che ti angustiano. Perciò gli domandarono se ogni volta che la ruota aveva cessato di far dieci giri, se in ciascun decennio, avesse visti i suoi figliuoli sempre nella medesima posizione o condizione, nel medesimo ufficio, nella medesima condotta, se variavano in meglio oppure in peggio nelle successive vedute. D. Bosco non volle dirlo; tuttavia esclamò: - Fa pena e riempie l'anima di scoraggiamento, il veder le vicende in cui uno va soggetto nel corso della sua vita. Io vi assicuro: se da giovane avessi prevedute le vicende cui sono andato soggetto da alcuni anni in qua, mi sardi perduto d'animo.

                Gli alunni facevano anche le meraviglie per le Case ed Ospizii che D. Bosco aveva detto che un giorno avrebbe possedute, mentre al presente era sua proprietà il solo Ospizio di Valdocco. Ma il Servo di Dio ripeteva: - Vedrete, vedrete! - [929]

                “Così D. Bosco parlava famigliarmente a tutta la Comunità; varie cose però, riserbando per i suoi chierici. Egli infatti disse loro che fra i giovani i quali erano nel campo di grano, ne aveva visti due che sarebbero divenuti Vescovi. Questa notizia in un attimo si sparse nell'Oratorio. Gli alunni ne fecero un gran discorrere e cercando di indovinare, poichè D. Bosco non aveva voluto palesar altro, passarono in rivista tutti i loro compagni chierici. Quindi si accordarono nel dire che forse il primo Vescovo sarebbe stato il Ch. Giovanni Cagliero; e sospettarono che il secondo sarebbe stato Albera Paolo. Queste voci corsero nella Casa per lungo tempo”. Fin qui D. Ruffino. Ma noi possiamo aggiungere che nessuno pensò allo studente di ginnasio Costamagna Giacomo lontano le mille miglia dal sospettare che a lui il Signore riserbasse una mitra.

                D. Bosco intanto, continua la cronaca, diceva che avrebbe messo a studiare alcuni artigiani che aveva visti mietere, o raccogliere le spighe nel Campo, ed infatti fin da quel giorno, che aveva raccontato il sogno, invitava Craverio ad intraprendere la carriera degli studi. Costui che non desiderava altro, volentieri si preparò per entrare nel ginnasio. La stessa proposta fece a Tamone di Giaveno, calzolaio: - Perchè gli disse: ti vidi a mietere, ma nol facevi con molta buona voglia. - Un terzo artigiano, ora legatore di libri, il quale nel sogno  mieteva ebbe pure l'invito. D. Bosco non palesò ancora il suo nome.

                Il quarto fu un allievo, stato accolto nella casa come artigiano faceva il sarto. D. Bosco avealo visto estirpare dal campo le erbe nocive. Il giovane stesso aveva confidato al Ch. Ruffino, come per l'addietro la sua condotta non fosse stata irreprensibile; ma in breve tempo dimostrò tale spirito di pietà da essere proposto come modello; e si videro in [930] lui atti di virtù, specialmente di umiltà, che non sono da dimenticarsi. Messo allo studio accadde per ben due volte che per scambio di nome, essendovi un altro giovane che porta un nome simile al suo, nel voto settimanale dello studio per errore del capo sala ricevette un bene ed un fere optime. Quando accadono di questi sbagli si è quasi sempre visto i giovani eziandio i migliori reclamare contro l'ingiustizia involontaria; e se non fanno lagnanze cercano almeno far riconoscere la loro innocenza, e procurano in qualche modo di farsi togliere quel voto.

                Ma il nostro giovanetto senza scomporsi per nulla, a coloro che facevano le meraviglie, poichè vedevasi chiaro lo sbaglio e lo spingevano a reclamare, non diceva altro se non che: - Me lo meritai!- e nulla fece per ottenere che fosse scancellato quel voto, pronto eziandio a sopportare la privazione del premio promesso a coloro, che lungo l'anno avessero meritato e ottenuto un optime tutte le settimane”.

                Intanto il mese di maggio incominciato così felicemente, attraeva le anime verso le cose celesti. Il giovane Parigi che fu poi un santo prete, parlandosi un giorno nella scuola del paradiso, restò così assorto nel pensiero di questo, che i compagni dovettero toccarlo e scuoterlo, perchè badasse alla lezione”. E D. Bosco studiavasi d'infondere nei suoi alunni una divozione tenera e soda verso Maria Santissima ed insegnava loro ad amarla qual madre amorevole, ed onorarla ed invocarla quale regina potente.

 

                “Mi piace, scrisse D. Bonetti nel capo LI de' Cinque Lustri di Storia dell'Oratorio Salesiano, di accennare qui le pratiche principali, pubbliche e private, che avevano luogo tra noi in detto mese, tanto caro ai divoti di Maria. Ogni sera, radunati nella chiesa di S. Francesco di Sales, cantavasi una lode alla Vergine; [931] indi facevasi la lettura del giorno nel libretto appositamente composto e stampato da D. Bosco; poscia impartivasi la benedizione col SS. Sacramento. Al mattino poi il tribunale di penitenza era assiepato da giovani ansiosi di riconciliarsi con Dio, e la Mensa degli Angeli così frequentata, che la Comunione pareva quotidianamente generale. Nel corso delle varie ricreazioni del giorno, tu vedevi un continuo affollarsi di giovanetti in chiesa dinanzi all'altare della Madonna; e non pochi di essi sacrificavano buona parte dei loro trastulli, stando a pregare o a leggere qualche libro, che trattava delle glorie di Lei. I chierici poi ed i giovani più abili, fattasi una raccolta di belli esempi, ne andavano raccontando almeno uno per giorno ora a questo, ora a quell'altro crocchio di compagni, ingegnandosi di far conoscere le prerogative, le virtù e le misericordie della gran Madre di Dio, accrescere il numero dei suoi figli, e accenderli del suo celeste amore.

                Dopo cena e prima delle orazioni, raccolti nel cortile o sotto il porticato, molti si ricreavano cantando lodi a Maria, gareggiando così nell'inneggiare a colei, che dopo Dio occupava in quel mese la nostra mente e il nostro cuore. In tutti poi e studenti e artigiani era una mirabile gara di tenere una condotta ottima in ogni punto, per avere la consolazione ed il vanto di presentare all'Augusta Regina del Cielo, nella fine del mese, una corona intrecciata di dieci.

                Come se queste pratiche ancor non bastassero a dar pieno sfogo alla pietà dei giovani verso la dolcissima lor Madre, ogni dormitorio aveva ancora un altarino, sopra cui campeggiava una sua graziosa immagine, circondata di fiori, di lampade e di candelieri.

                I giovinetti si assumevano l'incarico di sopperire alle spese occorrenti, se artigiani donando una parte della mancia, che loro toccava alla fine di ogni settima, se studenti offrendo danaro od altri oggetti di cui potevano disporre. Alla sera poi, e dopo le orazioni comuni, in ogni dormitorio, prima che i giovani si mettessero a letto, il chierico assistente li raccoglieva dinanzi all'altarino, e alternativamente con essi recitava 7 Ave Maria in memoria delle sette allegrezze o dei sette dolori della Vergine; dopo ciò ognuno, come se avesse dato un figliale saluto e chiesta la benedizione alla propria Madre, se ne andava lietamente a riposo. Nei giorni festivi e nella chiusura del mese un chierico, precedentemente [932] incaricato, vi teneva eziandio un discorsetto ad onore di Maria, facendo così in una camera le prime prove di predicatore, sotto gli auspizi di Colei, che è chiamata meritamente Regina degli Apostoli, Regina Apostolorum.

                Il Signore benedisse queste industrie e questi mezzi di carità e di religione, e li coronò di frutti salutari. Per vero dire non mi ricordo che la pietà e la moralità fiorisse tra di noi meglio che in allora; che i giovani artigiani fossero più attivi e più amanti del lavoro, gli studenti più affezionati ai loro doveri scolastici, e che i maestri ed assistenti fossero più amorevolmente assecondati nelle loro fatiche. Onde è che si ebbe una prova lucidissima che la Religione è fondamento e mezzo efficacissimo di savia educazione; che la carità, lo zelo e le belle maniere di chi dirige ed ammaestra, riescono sempre a guadagnare la mente ed il cuore dei giovanetti, ad allontanarli dal vizio, ad innamorarli della virtù, a renderli buoni cristiani e savii cittadini; e che nel formare gli animi al bene il metodo preventivo è da preferirsi al repressivo. Quell'anno fu, per così dire, l'età dell'oro pel nostro Oratorio, e meritamente i successori di D. Bosco possono fare ardenti voti che essa ritorni e si estenda a tutti i suoi istituti presenti e futuri.

 

                La bontà dei giovani, continua la cronaca, era merito di D. Bosco, ma le sue forze erano illanguidite e il suo stomaco affranto. Tuttavia il 7 maggio alla sera insegnò ai giovani il modo di cantar bene la lode: Noi siam figli di Maria! Esso la cantò per intero e poi fece ripetere da tutti quel canto.

                Chiesto dagli alunni della sua sanità rispose: - Se io avessi dovuto dar consiglio a chi si fosse trovato nella mia condizione di sanità, lo avrei fatto mettere a letto, esortandolo ad abbandonarsi nelle mani dei medici; ma io non lo volli fare, perchè forse i medici mi avrebbero applicati rimedii sui rimedii, avrebbero operato salassi, costringendomi al riposo: tanto più che si tratta di trasporto [933] di sangue allo stomaco, del qual male i medici fanno grandissimo caso.

                Quando poi i giovani si furono ritirati nelle loro camerate egli disse ai preti e chierici che lo accompagnarono alla stanza: - Io non penso mai che la morte possa troncare i miei disegni, ma faccio ogni cosa come se fosse l'ultima di mia vita. Incomincierò qualche impresa, forse non avrò tempo di condurla a termine, ma non importa; farò quanto potrò, fosse pure quello l'ultimo de' miei giorni. Lavoro sempre come se dovessi vivere ancora per lunghi anni.

                La domenica 12 maggio dopo le funzioni di chiesa verso le 6 pomeridiane si tenne la conferenza di S. Francesco di Sales. D. Bosco parlò così: - Nell'ultima conferenza abbiamo trattato della carità, ma di quella che è comune con tutte le persone del mondo; cioè di farci degli amici e di diminuire il numero dei nemici. Ma noi dobbiamo praticarne un'altra di gran lunga superiore. Noi dobbiamo imitare il Divin Salvatore che coepit facere et docere.- prima facere, prima praticare la carità per noi medesimi per la salute nostra, vincere noi stessi, vincere la nostra superbia. Vi sarà qualche regola che dispiace; qualche ufficio o altra cosa che ci ripugna; non lasciamoci scoraggiare, vinciamo quella disposizione contraria dell'animo nostro per amore di N. S. Gesù Cristo e del premio che ci è preparato.... Così facendo ne viene poi la vera obbedienza. Questo è il perno di tutta la vita religiosa: Qui vult venire post me abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me. Rinnegare la nostra volontà, portare la croce quotidie come dice S. Luca, e seguire il Salvatore. -

                Dopo la conferenza i chierici strettisi intorno a Don Bosco, gli domandarono premurosamente notizie della sua sanità. Ei rispose: - Mi era proposto di fare questo fioretto; [934] di levarmi cioè al primo tocco di campanello e poi lavorare sino alle 6,45, ma non potei ancora farlo. Volli incominciare venerdì (10); pareva che mi sentissi già bene; mi alzai all'ora stabilita, ma poi mi sentii male agli occhi e non potei lavorare niente. Il giorno dopo fu lo stesso; il terzo dì dovetti stare a letto sino ad ora tarda.

                Dopo le orazioni della sera D. Bosco salì la piccola cattedra. In que' giorni erano stati congedati dall'Oratorio o ne erano usciti spontaneamente alcuni giovani che non dimostravano volontà di migliorare la loro condotta. Don Bosco parlò: - Le novene e i tridui sono sempre funesti per qualche allievo. Non mi ricordo di aver mai passata una sola novena, senza che alcuno non sia partito dalla casa. Ora siamo appena alla metà della novena di Pentecoste e già quattro se ne andarono. D. Rua! Sapresti dirmene il motivo?

                D. Rua rispose in pubblico: - Io credo sia questo: Nelle novene noi facciamo preghiere particolari, le quali tendono al bene della casa, ed il Signore le esaudisce col fare che i più discoli se ne vadano; dimodochè le novene per la casa sono come purganti.

                - Bene; replicò D. Bosco. Il Signore ci usa dei tratti speciali di grazia. Egli già mise la sua santa mano e segnò a dito quelli che già partirono; la mise eziandio sopra alcun altro che ancora è nella Casa. Io feci loro sentire la voce del Signore; dissi: Volete rientrare in voi stessi e fare senno? Ma essi non la vollero ascoltare e sgraziati loro. Noi intanto domani faremo questo fioretto: di pensare come abbiamo per lo passato corrisposto alle grazie del Signore e come vorremo corrispondere per l'avvenire.

 

 

CAPO LXIX. Terzo ampliamento della fabbrica dell'Ospizio - Parole di D. Bosco nella sera del 15 maggio - Tristi presentimenti - Tre Ave  Maria recitate nel dormitorio di San Luigi - Caduta del fulmine - Rovine e protezione del cielo - Una celia singolare - Ringraziamenti - Complimento del Can. Anglesio Insulti e menzogne giornalistiche - La caduta di un voltone - Sogno grazioso: Importanza di un ospedale per l'Oratorio - Le iscrizioni sotto il nuovo Portico volto a levante.

 

                Don Bosco aveva risoluto di ampliare il suo Ospizio e aveva designati i lavori da eseguirsi. La piazzetta di casa Filippi, fiancheggiata dalle due ali già descritte, doveva essere incorporata in quel edifizio con un grosso muro, il quale avrebbe sostenuti due piani alti come quelli conservati della casa vecchia: e un terzo piano, cioè un salone destinato per lo studio lungo 35 metri e largo 8; e qualche altra stanza. Il braccio dell'Oratorio a Levante, parallelo alla chiesa di S. Francesco di Sales, sarebbe stato raddoppiato in larghezza con portici a levante, camerata al secondo piano, una camera per Don Bosco al terzo, avente due finestre una al sud, e l'altra all'est, e attiguo un vasto stanzone per la biblioteca; e in ultimo soffitte abitabili. L'antica stanza del Servo di Dio diverrebbe [936] saletta d'aspetto per i visitatori. Il nuovo portico doveva mettere ad un gran scalone, che avrebbe occupato lo spazio fra le due case (Pinardi e Filippi) pel quale scendere nei sotterranei o cantine e salire alla biblioteca, alle camere ed allo studio.

                D. Bosco aveva stabilito questo suo progetto col capo mastro Carlo Buzzetti, e il 15 maggio fra le due parti venne stretto il contratto per queste costruzioni. Buzzetti doveva accingersi subito all'opera.

                Ma era destino che sul principio di ogni ingrandimento della casa, dovessero accadere gravi disgrazie. Pareva che la buona condotta di tanti giovani e lo zelo dei Superiori pel loro benessere religioso e morale, fossero intollerabili all'inferno, il quale perciò, permettendolo Iddio, tentava di prenderne aspra vendetta. E così accadde anche questa volta come siamo per dire. La nostra narrazione è desunta con esattezza dagli scritti di D. Bonetti Giovanni, di Don Ruffino Domenico, di Reano Giuseppe, di Enria Pietro e di altri testimoni.

                Era la sera del 15 maggio. “D. Bosco, scrisse Enria Pietro, prima di mandarci a dormire ci disse: - Pregate e tenetevi sempre preparati alla morte, che può venire da un momento all'altro. Vedete: tutti i giorni succedono disgrazie; chi cade da grande altezza, chi è aggredito da assassini, chi muore annegato, chi per sincope e chi resta colpito dal fulmine.... e chi in altra maniera; ma se siamo preparati, non dobbiamo aver paura della morte comunque avvenga. - Sembrava che D. Bosco presagisse qualche male, e fece recitare in quella sera tre Ave Maria, affinchè non avvenissero disgrazie nella notte”.

                I giovani salirono alle loro camerate. Nel dormitorio intitolato da S. Luigi, all'ultimo piano del fabbricato volto [937] a nord-est e a mezzogiorno e corrispondente in parte alla sottostante camera di D. Bosco, praticavasi, come negli altri, il mese di Maria. Era occupato da una sessantina di giovani artigiani ed il Ch. Bonetti Giovanni vi era assistente. Prima di coricarsi tutti si inginocchiarono dinanzi ad un altarino ornato di lumi e di fiori e dopo aver recitate secondo il solito 7 Ave Maria, in onore dei sette dolori della Santissima Vergine, il Ch. Bonetti, mosso, non sappiamo da quale sentimento, invitò i giovani ad aggiungerne tre altre, e disse: - Recitiamo ancora tre Ave Maria, affinchè la beata Vergine ci liberi da ogni disgrazia. - I giovani, come sorpresi da tale novità, le recitarono di gran cuore con lui; indi andarono a letto.

                D. Bosco in quella sera non sapeva determinarsi ad andare a riposo. Salì le scale con evidente svogliatezza e quando fu in camera cominciò a scrivere. Ma non potendo reggere a quel lavoro per il male d'occhi, e ripugnandogli coricarsi, pensieroso passeggiò per la camera, finchè circa alle 11 si pose a letto. Si era appena addormentato e gli pareva sentirsi tirar per i capelli in modo da sembrar quasi che glieli strappassero. Sognava d'avere molte bestiaccie intorno alla testa che lo mordevano. Egli s'industriava colla mano per liberarsi da quelle strette, ma non gli era possibile.

                Poco dopo la mezzanotte e quando tutta la Comunità era immersa nel primo sonno, si solleva un gran temporale, e prende a guizzare il lampo e a rumoreggiare il tuono spaventosamente. Rossi Giuseppe era compagno di camera con Giuseppe Reano in una delle stanze presso quella di D. Bosco, dalla quale li divideva una piccola biblioteca. Rossi, che alle 12 e mezzo non aveva ancora potuto chiudere occhio, svegliò Reano, dicendogli: - Senti?…- Reano gli rispose: - Hai troppa paura: dormi, dormi tranquillo. [938]

                - E si voltò sull'altro fianco, prendendo di bel nuovo, sonno.

                Ma trascorso appena un quarto d'ora si fece udire vicinissimo un formidabile rimbombo, che scosse dalle fondamenta la casa, la quale nello stesso tempo apparve come in mezzo alle fiamme. Poi tutto ritornò nelle tenebre e ne successe un sepolcrale silenzio, che durò poco più di un minuto. Ad un tratto si udì suonare il campanello nella camera di D. Bosco. Reano e Rossi esclamarono: - Ohimé! qualche disgrazia. - E vestitisi in fretta e alla meglio, acceso un lume, corsero ansiosi e tremanti.

                Il povero D. Bosco in quel mentre passava un brutto momento. Il fulmine penetrava nel camino che scendeva nella sua camera, rompeva il muro, smuoveva la colonna del franklin, gettava a terra lo scaffale dei libri, rovesciava il tavolo e con esso quanto eravi sopra; e l'elettricità si appigliava al suo letto di ferro fuso, lo sollevava dal suolo più di un metro e lo trasportava verso il lato opposto, circondandolo di abbagliantissima luce.

                Dopo alcuni minuti secondi ogni luce si spense e il letto battendo sopra un inginocchiatoio, piombò con tale impeto, che di rimbalzo D. Bosco ne fu gettato sul pavimento. Egli per alcuni istanti stette come fuori di sensi. A bella prima gli sembrò di essere sprofondato col suo letto nella sottostante sala di studio. Sedutosi per terra stanco per la commozione provata, toccando attorno, brancicava pietre, mattoni e calcinaccio. Alzatosi in piedi andò tentoni tastando qua e là, per conoscere ove egli si trovasse, con animo trepidante di precipitare in una buca o di rovesciarsi addosso qualche muro cadente. Come Dio volle, dopo alcuni passi ei toccò un quadretto e la piletta dell'acqua santa, che pendevano dal muro in capo del letto; si accertò allora [939] di essere ancora in sua camera, e posta mano alla cordicella che scendeva da un lato, diede quella forte scampanellata che fece accorrere Reano e Rossi. D. Bosco, avviluppatosi in alcune coltri per ripararsi dall'aria fredda, e sedutosi sul letto, stava aspettando. Intanto col pensiero era corso a' suoi amati giovani, che dormivano nel piano superiore e li raccomandò alla Beata Vergine.

                Giunsero Rossi e Reano abbattuti dal timore che Don Bosco ne avesse avuto danno, ma quando furono vicini al letto egli li guardò sorridendo e disse loro con tutta tranquillità e placidezza: - Guardate che cosa vi è in mezzo alla camera. - Ivi egli aveva udito un gran rumore e ne voleva sapere la causa. E Roano vide cinque o sei mattoni neri per la fuliggine caduti con impeto strano giù dal camino. Allora fatto egli ai due giovani breve cenno di ciò che gli era accaduto, aggiunse colla solita giovialità: Malcreato di un fulmine! Senza chiamar permesso entra in mia camera, mette tutto sossopra, getta il letto da una parte e me dall'altra. Bisogna farlo stare a tavola di punizione. Neh Rossi? Oggi non gli darai la pietanza! -

                Mentre queste cose succedevano nella stanza di D. Bosco nel sovrastante camerone degli artigiani vi era un maggiore e più doloroso disordine. Il fulmine, caduto sul frontone a mezzogiorno del dormitorio aveva gettati nel cortile due fumaioli. Fu in parte danneggiato il tetto; sicchè in alcuni punti si vedeva il cielo; e tegole, mattoni e calcinaccio caddero sopra i letti. Descrivere la comune costernazione è impossibile. Chi piange, chi geme, chi invoca la Madonna, chi chiama D. Bosco, chi fugge, chi cade; pareva il finimondo.

                Al fragore ed allo schiamazzo il Ch. Bonetti Giovanni balza di letto atterrito, ed acceso il lume, che erasi spento, [940] incominciò a passare da un letto all'altro per recare i primi soccorsi. Ma vedendo alcuni giovani coperti di macerie ed uno fra gli altri per nome Giulio Perroncini che pareva morto, inviò tosto il giovane artigiano Giacomo Ballario ad avvisare D. Bosco del caso sinistro ed ad invocarne l'assistenza e l'aiuto.

                E D. Bosco? Così dice di lui Reano Giuseppe nel suo manoscritto lasciato a D. Bonetti. “D. Bosco non aveva ancor finito di parlare con me e con Rossi, quando si ode battere furiosamente alla porta. Apro e mi si presenta il giovane Ballario, che per l'affanno appena poteva parlare: - Reano, mi disse, per carità avvisi tosto D. Bosco e venga presto nella nostra camera; è caduto il fulmine il soffitto è precipitato sopra i giovani e una buona parte son morti.

                D. Bosco avendo udito in confuso le riferite parole, mi chiamò nuovamente, e mi interrogò che cosa fosse successo. Saputa la cosa: -Oh mio Dio! esclamò egli con un'espressione che schiantava il cuore; ma voi voleste così, o Signore, e io adoro i vostri decreti! - E poi ordinò: - Va subito a vedere, ritorna immediatamente, e rendimi informato. - Io corro di sopra e appena metto il piede nella camerata sento un odore di zolfo intollerabile; avanzandomi odo strida di voci, gemiti e pianti. La camerata era lunghissima con due file di letti. Or bene, più di due terzi del soffitto era crollato. Inoltrandomi verso il fondo del dormitorio trovai di peggio; alcuni giovani mandavano sangue dal volto; alcuni storditi dalla scossa elettrica sembravano imbecilli, il giovane Modesto Davico aveva la faccia come abbronzata. Un calzolaio, distinto suonatore di tromba, per nome Giovanni Vairolati, fuori dei sensi era sostenuto sul letto, e spruzzato di acqua da [941] due compagni che tentavano inutilmente di farlo rinvenire; egli pareva moribondo. Altri non ostante il gran tafferuglio, non muovevansi e sembravano morti.

                Allora tornai da D. Bosco per renderlo consapevole di ciò che aveva veduto, ed egli che in quel frattempo aveva già potuto vestirsi, con una tranquillità che mi sorprese, si avviò immediatamente al luogo del disastro.

                Saliva le scale quando un giovane gli venne incontro e gli disse: -È caduto il fulmine e una trentina di giovani sono morti.

                - Va ad osservare meglio, gli rispose D. Bosco.

                Dopo un'istante lo stesso giovane ritornò in fretta: - I morti sono solamente sette od otto.

                - Ritorna a vedere replicò D. Bosco. - Ed entrò in dormitorio con volto imperturbato, sorridendo e facendo animo a tutti: - Non abbiate paura, disse; abbiamo in cielo un buon Padre ed una buona Madre che vegliano a nostra difesa”.

                Al vederlo i giovani respirarono come se fosse entrato un angelo consolatore. Quelli che erano già alzati corsero dintorno a lui. Egli si fece al letto di coloro che parevano più malconci e tosto si accorse che il male non era come dapprima gli avevano annunziato. Si trattava solo di scalfiture e stordimenti. Quindi mandò subito a pigliare acqua ed aceto e di propria mano lavò le ferite e lividure dei colpiti. Accostatosi poscia al giovane Vairolati, tuttora immobile lo chiamò due o tre volte ad alta voce e il poveretto, che fino allora non aveva ancora aperto gli occhi, nè formulata una sillaba, li schiuse, diede un lungo respiro, e con voce stentata sì, ma abbastanza intelligibile, disse: Oh! D. Bosco! - Poco dopo egli rinveniva affatto e si univa ai compagni. [942] D. Bosco passò infine al giovane Perroncini, che rimaneva tuttavia immobile nel suo letto. Era timore di tutti che egli fosse fulminato, e niuno perciò aveva sino allora osato di scuoterlo, forse temendo di dover constatare che ci fosse cadavere. Fatto accostare più dappresso il lume, D. Bosco esaminò e vide che il povero giovane era ferito alla faccia, e che una piccola scheggia di canna, mescolata colle macerie del caduto soffitto, eragli penetrata nella guancia, e spuntavagli fuori presso la palpebra inferiore dell'occhio destro. Provò di estrarnela colla punta delle dita, ma non riuscì a pigliarla; domandò allora un paio di forbici, e con queste, usate a guisa di pinzette, ne la cavò. A quest'atto il creduto morto si scosse, e immaginando di essere molestato da un compagno, diede un pugno a D. Bosco, gridando in dialetto piemontese: - Cattivaccio! Lasciami dormire! - La gioia di cui gli astanti andarono ricolmi all'udire questa voce e questa espressione, è più facile a pensare che a descrivere; tutti e D. Bosco con loro diedero in uno scroscio di risa, pel piacere che provavano nell'essere assicurati appieno, che in tanto disastro non vi era vittima alcuna.

                Il lavoro per medicare i giovani durò circa un'ora e quando Don Bosco fu accertato che la vita di tutti erane salva, sfogò un affettuoso Deo gratias e disse: - Ringraziamo di cuore il Signore e la sua SS. Madre! Siamo stati preservati da un gran pericolo! Guai se prendeva fuoco la casa! Chi avrebbe potuto salvarsi? - E innanzi all'altarino della camera si recitarono le litanie di Maria SS.

                Ciò fatto quantunque fossero appena suonate le due, i giovani di quel dormitorio non vollero più rimettersi a letto e scesero con D. Bosco in chiesa. Rimase il solo Don Alasonatti per finir di curare, chi ne aveva ancor di bisogno [943] e disporre poi i necessari provvedimenti. Intanto tutti quei artigiani si confessarono, assistettero alla S. Messa celebrata da D. Rua e fecero la Santa Comunione. Alle cinque del mattino, al segno della levata comune i compagni delle altre camerate si meravigliarono di vedere tanti giovani in cortile; e si affrettarono a discendere. - Avete sentito nulla stanotte? - dicevan gli artigiani agli studenti, - Che cosa è avvenuto ? - risposero questi. Nei loro dormitorii e nelle celle avevano tutti tranquillamente dormito. E gli artigiani raccontavano le vicende e le emozioni provate in quella notte; e andavano ripetendo: - È proprio la Madonna da noi pregata ieri sera che ci ha salvati.

                D. Bosco finiva intanto di confessare gli ultimi artigiani ed ecco sopravenire gli studenti, sicchè puossi dire che vi fu una comunione generale, celebrando verso le sette la messa lo stesso D. Bosco. - Fu uno spettacolo commovente, - ci disse il Can. Anfossi.

                Rientrato in sua camera il servo di Dio, i chierici andarono a visitarlo per assicurarsi che non avesse sofferto e li ricevette paternamente col solito sorriso sulle labbra: - È la terza volta, disse loro, che il fulmine si dà la briga di molestarmi. Le prime due volte ho sofferto alquanto, perchè durante un dato tempo non poteva leggere o scrivere a lungo, senza sentirmi assalito da un importuno assopimento, del quale però guarii, facendo gite a quanto forzate. Ma la scossa di questa notte temo che sarà molto più perniciosa alla mia sanità. Eppure glielo detto al fulmine quando scoppiò: - Almeno un po' più di garbo! -E poi soggiunse: - Questa è una grazia delle più grandi, che la SS. Vergine Maria ci abbia ottenute dal Signore.

                Di ciò ne ebbe prova evidente poco dopo, salendo ad esaminare i guasti della notte. La volta del dormitorio era [944] di assi coperta con uno strato di canne legate con fili di ferro, inchiodate, e intonacate di calcina. Ora il fulmine serpeggiando lungo i suddetti fili li aveva consumati, e la maggior parte delle stoie incalcinate erano cadute in varii luoghi e in larghi lastroni senza far grave male a nessuno. Gli stessi benefattori e gli amici che vennero lungo il giorno a visitare quel guasto, dicevano che secondo ogni probabilità il fulmine avrebbe dovuto fare un macello dei giovani; ed andavano via magnificando la bontà di Dio e della Vergine.

                Dopo il pranzo D. Bosco era nel cortile sotto il portico circondato dai chierici e dagli studenti e narrando il fatto e attribuendolo al demonio, ripeteva, celiando: - Quel grossiere non conosce le regole di buona educazione ed è molto villano: dà dei crolloni da slogar le ossa. In fatto poi di musica è uno stupido; non sa fare la battuta e ignora l'armonia: batte fuor di tempo e fa un fracasso della malora, da rompere le orecchie persino a quei che dormono.

                Dello stesso parere fu il Can. Anglesio il quale si rallegrò con D. Bosco per la caduta del fulmine, dicendogli: - Patente avuta dal diavolo di essergli nemico. Essere quel fatto a lui, più gradito, che se D. Bosco avesse ricevuto qualche segnalato favore o fortuna dagli uomini.

                E in quei dì alcuni giornali malevoli, annunziando la caduta del fulmine sopra la Casa di D. Bosco, si compiacevano di spandere ai quattro venti che vi erano stati dei morti. La Gazzetta del Popolo, gli scrittori della quale il l'8 maggio avevano con una lettera avvertito D. Boscochè si guardasse bene dal continuare a dar tanto scandalo colle sue opinioni retrograde, e che procurasse di essere più Italiano, mal celando l'astio che nutriva verso l'Oratorio, per non averlo potuto far chiudere l'anno innanzi, col solito [945] suo gergo sconvenevole ed empio, nel N. 139, lunedì 20 Maggio 1861, pubblicava queste maligne e menzognere parole:

                “Nella notte da lunedì a martedì scorso il fulmine cadeva, indovinate un po' dove? Proprio su quel vivaio d'infelici, che il teologo Bosco (il moderno Loriquet famoso per la sua storia d'Italia tutta viscere per l'Austria) raccoglie dalle campagne ed istruisce secondo i suoi principii per popolare il paese di baciapile.

                Uno di quelli infelici allievi periva, altri rimanevano feriti. Se si fosse trattato di un collegio liberale, i preti avrebbero esclamato: “Ecco il dito di Dio”.

                “Avendo un po' più di rispetto per quel dito, noi non gli daremo mai il torto di un omicidio”.

                “A questo proposito, scrive D. Bonetti, notiamo solo di passaggio che la liberale Gazzetta pubblicava queste linee e in Torino e sei giorni dopo il fatto accaduto, cioè, dove e quando aveva avuto cento occasioni di conoscere appieno la verità. Ma per certi giornali la bugia è loro vita, e la bestemmia e calunnia è loro mestiere e guadagno. In quanto poi agli insulti, onde allora coperse l'Oratorio, ora colle prove lampanti dinanzi agli occhi del mondo, siamo in grado di risponderle che quelli baciapile e infelici di D. Bosco, istruiti in un arte o mestiere od avviati allo studio, menano oggidì vita onorata in mezzo alla società, e lieti tutti dell'avuta educazione, quali distinti industriali, quali avvocati, quali professori, quali graduati nell'esercito, quali sacerdoti esemplari, sono utili a se stessi ed ai loro fratelli; anzi non pochi di loro generosi e prodighi dei proprii agi e persin della vita, penetrarono già nella Patagonia, portando la luce della religione e i benefizi della civiltà a tribù barbare e selvagge, facendosi così veraci benefattori della povera umanità. Noteremo ancora che un certo numero ottenne le più [946] alte dignità nella Chiesa, nella magistratura, e nel Governo dello Stato. Abbiamo quindi molte ragioni di credere che il dito di Dio in quella notte e in appresso sia stato con noi, ed invitiamo la Gazzetta ad avergli davvero un po' più di rispetto ammirandone gli alti portenti”.

                La domenica di Pentecoste 19 maggio, dopo il vespro e la predica, si cantava un solenne Te Deum al quale prendevano parte i giovani interni ed esterni dell'Oratorio e molti benefattori. Ma ciò non bastava per i protetti da Maria SS. La caduta del fulmine aveva eccitato in alcuni dei Superiori dell'Oratorio il desiderio che D. Bosco facesse mettere sulla casa un parafulmine e gliene fecero parola: - Sì, rispose egli, e vi collocheremo una statua della Madonna. Maria ci parò così bene dal fulmine, che noi commetterremmo una ingratitudine, se confidassimo e ricorressimo ad altri che a Lei.

                Ma la sua protezione mostrossi visibilissima in quest'anno un'altra volta. Carlo Buzzetti dava mano alle nuove costruzioni a lui affidate e spingeva i lavori con tanta alacrità, che nel mese di novembre l'opera era compiuta. Si doveva ancora ordinare il sotterraneo destinato a cantina, quando rovinò in gran parte una larga volta di questa presso lo scalone. Era di pieno giorno e vi lavoravano quattro muratori a togliere l'armatura. Uno rimase sospeso in aria su di un travicello, sul quale avanzandosi a cavalcione, potè giungere al vano dì una finestra. Un altro si trovava in un angolo sul quale un pezzo di volta non si staccò. Il terzo fu salvato da una trave che gli cadde quasi sopra, ma che restando appoggiata al muro gli servì di riparo. Il quarto fu preso sotto le rovine e rimase sepolto. Al rombo prodotto da quel conquasso si accorse da ogni parte. Temevasi che il quarto muratore fosse schiacciato e morto sotto il [947] peso dei rottami. Con gran trepidazione si incominciò a rimuoverli. Grazia singolare di Maria! fu estratto senza alcuna ferita grave. Le poche contusioni in breve guarirono e la sua sanità non ebbe nocumento.

                D. Bosco pure, saputa la cosa, si era affrettato ad accorrere, ci significò Anfossi, ma incontrandosi con Buzzetti, che già veniva a riferirgli non esservi accaduta nessuna disgrazia, sorridendo, al suo solito, disse: - Il demonio ha voluto ancora mettere la sua coda; ma avanti e niente paura.

                Qualche notte dopo questa rovina D. Bosco fece un sogno che gliene ricordò un altro fatto nel 1856, quando erano cadute le volte del secondo corpo di fabbrica. Gli era sembrato di essere in camera sua pensoso per quella catastrofe, e vide entrare il Can. Gastaldi, il quale gli disse: - Non si affligga se le è caduta una casa.

                D. Bosco lo fissò in volto, meravigliato di quella parola, e il Canonico per un istante guardò lui; e poscia replicò: -Non s'affligga per una casa che è caduta; ne sorgeranno due: una per i sarti e una per gli ammalati.

                D. Bosco si ricordò sempre di questo sogno e di questa promessa, persuaso che col tempo sorgerà, attigua all'attuale Oratorio una casa ospedale, grande o piccola non importa, ma provvista di tutto il necessario che dovrà servire per i salesiani e per i giovanetti infermi.

                D. Bosco negli anni passati e nel corso degli anni seguenti si lamentava che la necessità o gravi convenienze lo costringessero a mandare una parte de' suoi ammalati ai pubblici ospedali. Sorvegliavano gli Amministratori, i Direttori, i medici, le suore ed anche il cappellano; ma purtroppo l'immoralità, l'irreligione di certi infermi è causa di scandalo.

                Basti un fatto. Il giovanetto Enria moriva nel 1886 nell'ospedale di S, Giovanni. Gli infermi che erano nei letti [948] intorno al suo, con frizzi, con discorsi disonesti avevano incominciato a tentarlo, ma egli che temeva il Signore, non diede loro retta e solo rispose: - So nulla di ciò che dite! - Qui fu uno scoppio di risa di quei malvagi. Avendo egli chiesti i Sacramenti incominciarono nuovi scherni; ma egli: - Io non disturbo voi e voi non dovete disturbar me: ciascuno pensi a se stesso.

                Ricevuti i conforti della religione con molta pietà, incominciava ad entrare nell'agonia; e allora i suoi vicini, bestemmiando il Signore, andavano ripetendogli: - Hai invocato il Signore, sei stato buono ed ecco come egli ti esaudisce! Muori, muori! anche tu come tutti gli altri, sotto terra a marcire! A che cosa ti ha giovato aver mandato a chiamare il prete?

                Il giovanetto non rispose. Ma sentendosi mancare, disse all'infermiere: - Chiamatemi qualcheduno, che mi reciti le preghiere: avvisate mio fratello; (che era al servizio di quell'Ospedale) io muoio! -E siccome nessuno gli suggeriva qualche preghiera e il fratello tardava a venire, strinse il crocifisso e prese a recitare il De profundis. Prima che finisse il salmo era spirato.

                D. Bosco adunque giudicava doversi costrurre un edifizio apposito per gl'infermi dell'Oratorio e della Pia Società, ma il suo desiderio non potè essere soddisfatto e affidava l'effettuazione del suo intero progetto alla divina Provvidenza. Ultimata la nuova fabbrica, sotto il nuovo portico volto a levante, D. Bosco fece stampare sul muro le seguenti iscrizioni:

 

                I. Tu es petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam. Matt. Cap. XVI, 18.” [949]

                Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non avran forza contro di lei.

 

                II. Viam aquilae in coelo, viam colubri super petram, viam navis in medio maris, et viam viri in adolescentia. Prov. Cap. XXX, 19.

                La traccia dell'aquila nell'aria, la traccia di un serpente sulla pietra, la traccia di una nave in mezzo al mare, così la traccia dell'uomo nell'adolescenza.

 

                III. Nemo adolescentiam tuam contemnat: sed exemplum esto fidelium, in verbo, in conversatione, in charitate, in fide, in castitate. I. ad Tim. Cap. IV, 12.

                Nessuno disprezzi la tua giovinezza; ma sii tu il modello dei fedeli nel parlare, nel conversare, nella carità, nella fede, nella castità.

 

                IV. Ossa ejus implebuntur vitiis adolescentiae ejus et cum eo in pulvere dormient. Job. Cap. XX. II.

                Le ossa di lui saranno imbevute de' vizii di sua giovinezza, i quali giaceranno con lui nella polvere.

 

                V. Bonum est viro, cum portaverit jugum ab adolescentia sua. Jer. Thren. Cap. 111, 27.

                Buona cosa è per l'uomo l'aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza.

 

                VI. Confiteberis vivens, vivus et sanus confiteberis et laudabis Deum et gloriaberis in miserationibus illius. Eccl. Cap. XVII, 27.

                Vivo darai a Lui laude, vivo e sano darai laude e onore a Dio e ti glorierai di sue misericordie.

 

                VII. -Et baptizabantur ab eo in Jordane, confitentes peccata sua. Matt. Cap. 111, 6.

                Ed erano battezzati da lui nel Giordano, confessando i loro peccati.

 

 

CAPO LXX. Infermità nell'Oratorio - Mirabili guarigioni dal male agli occhi - Vocazione non corrisposta - Si fa il ritratto a D. Bosco: varii incidenti - Sogno: i due pini - Due promesse per frutto del mese di Maria - Accettazione di nuovi socii nella Pia Società - La Pioggia promessa e preghiere per la preservazione della grandine - Letture Cattoliche - Replica della commedia latina - Una prima messa - La Chiusa del mese di Maria ed una confessione ben falla.

 

                Le conseguenze della caduta del fulmine, gli avvenimenti che accompagnarono la costruzione del nuovo edifizio, ci hanno alquanto sviati da quell'ordine che ci siamo prefisso, e che segue la serie dei fatti secondo la loro sucessione. Ed ora ritorneremo in carreggiata.

                Le malattie annunziate da D. Bosco il 7 marzo di quest'anno succedevansi nell'Oratorio. Due di queste, come abbiamo già raccontato erano state mortali e “il 17 maggio, notò D. Ruffino, recavasi il santo Viatico a certo Pavesi ridotto ormai agli estremi. Questo giovane però, essendo molto robusto, potè riaversi e dopo lunga convalescenza guariva perfettamente. [951]

                Ma ecco sul finir di maggio comparire nella casa un noioso male d'occhi, del quale nel giugno vennero afflitti molti giovani, continuando la maligna influenza anche nel mese di luglio. D. Bosco studiossi allora di preparare egli stesso una medicina, per la quale in tre giorni era certa la guarigione. Ma l'essenziale di questo rimedio stava nel modo di usarlo. Alla sera l'infermo doveva bagnarsene gli occhi, dicendo: - Santa Maria, pregate per me!

                Cosa mirabile! Sul principio che D. Bosco prese a far adoperare questo suo farmaco, alcune volte suggeriva al giovane di dire con figliale confidenza: - Santa Maria, pregate per me, e subito. - Ed ecco all'istante si vedevano gli occhi dell'ammalato lagrimare fuor di misura; ed in meno di un quarto d'ora erano puliti e risanati. Ora però (ai primi di luglio) non suggerisce che si chieda la guarigione subitanea e generalmente in tre giorni gli infermi restano liberi. Di questo fatto sono anch'io testimonio e D. Bosco mi confermò la cosa; ed era per tutti evidente che la celeste Madre provvedeva alla sanità corporale de' suoi figli”.

                Lo stesso D. Bosco era soggetto a continui e non leggeri incomodi e gli si aggiunse il male agli occhi. Egli però per questo non volle usare del medicamento che suggeriva agli altri, poichè accettava quel fastidio dalla mano di Dio come esercizio di penitenza, rimettendosi al suo beneplacito.

                Di questa sua infermità ne abbiamo, anche riprova dalle sue stesse parole riferite dalla Cronaca: “D. Bosco una sera di giugno diceva ai chierici: - Io era nella mia camera e pel male agli occhi non poteva lavorare, onde restai addormentato. Intanto mi parve di vedere innanzi a me un chierico, il quale mi disse: - Io voglio deporre la veste clericale. [952]

                Io gli risposi: - Questo voleva già dirtelo io stesso; tuttavia prima di farlo prega il Signore affinchè ti manifesti la sua volontà.

                Mi parve che il chierico uscisse di mia camera e intanto mi riscossi da quel sopore. Questo chierico non è di coloro che furono nella casa, ma è uno di quei che vi sono.

                Il chierico intese benissimo quell'avviso che lo riguardava, e incominciò con serietà a pensare a suoi casi”.

                Riferimmo più sopra come i chierici avessero cercato in mille guise a far prendere il ritratto a D. Bosco, ma inutilmente. Ora leggiamo in D. Ruffino. “Oggi 19 maggio, giorno di Pentecoste, Serra Francesco, figlio dell'Oratorio, pigliò il ritratto a D. Bosco per mezzo dell'apparato Daquerotipo. Primieramente lo ritrattò da solo, e poi coi giovani Jarach, Costanzo, Fabre, Bracco e Albera e in ultimo con 50 e più alunni. Due giorni dopo lo ritrasse ancora in atto di confessare: i penitenti più vicini erano Reano, Albera e Viale; molti altri stavano più indietro in atto di prepararsi.

                D. Bosco non aveva acconsentito se non dopo molte e moltissime istanze di Serra.

                Tali ritratti però furono esclusivamente destinati per l'Oratorio e D. Bosco non volle che fossero riprodotti. Bellisio li copiò colla matita”.

                Ma questo fatto era stato accompagnato da certe particolarità  che lo resero ameno, sorprendente e diedero materia di ragionamento e di ricreazione ai giovani.

                Lasciò scritto D. Bonetti: “Mi si affermò che, malgrado ogni istanza, D. Bosco non voleva scendere di camera per tal fine. Laonde un giovane anziano della casa, il Chierico Cagliero Giovanni, si inginocchiò a' suoi piedi, pregandolo a nome di tutti i giovani a far loro questo piacere,chè sarebbe stato per noi un rammarico grande, venendo egli [953] a mancare, non averne il ritratto. Prima però che si mettesse in posa, D. Bosco, rivolto a Serra, così gli disse: - Sappi che sono tre o quattro volte che io dietro le molte istanze anzi preghiere di alcune famiglie di Torino, mi sono lasciato indurre a farmi prendere il ritratto; ma nessuno finora riuscì. Ultimamente sono andato con alcuni giovani dal miglior litografo di Torino, il Sig. Dubois. Fece quanto seppe l'artista, si provarono i suoi garzoni, ma fu un tentativo inutile. Erano tutti fuori di sè e dicevano che a loro non era mai accaduto un fatto simile. Io rideva e diceva: - Vedano se vogliono prendere il mio ritratto vadano a fare una buona confessione, poi vengano e me lo potranno prendere. -Eglino credevano che dicessi questo per facezia e ridevano, ma intanto dopo aver passato più di un'ora in esperimenti, furono costretti a lasciarmi venir via senza avermi potuto ritrattare. Ora lo stesso io dirò a te: se sei in grazia di Dio, bene; va pure avanti; altrimenti lascia pure tutto perchè perderemo solamente il tempo.

                Serra si mette all'opera e lo ritratta una volta, ma non riuscì molto bene, glielo prese una seconda volta e una terza volta e il lavoro riuscì ottimamente. Allora tutti i giovani si misero a gridare: - Serra è in grazia di Dio! Serra è in grazia di Dio!

                Quando si prese il ritratto a D. Bosco in mezzo ad un gran numero di giovani egli disse: - Coloro che non hanno la coscienza ben pulita non si mettano innanzi all'obbiettivo; riusciranno brutti!”

                Così D. Bosco anche faceziando aveva di mira di imprimer bene bene nella mente de' suoi giovani, quale sventura sia l'essere in disgrazia di Dio, che rende l'anima, pur in corpo fornito di belle doti esterne, brutta, deforme.

                “Intanto, scrisse D. Ruffino, ei ci raccontò in poche [954] parole il seguente sogno: - Mi pareva di trovarmi, disse, a Castelnuovo in mezzo ai prati con alcuni giovani e stavamo là aspettando alcuna cosa da offrire per la festa onomastica di Pio IX; quand'ecco noi vedemmo in aria venire dalla parte di Buttigliera un gran pino. La sua grossezza eguagliava quella di due isole di Torino insieme unite ed era di un'altezza straordinaria.

                Egli veniva orizzontalmente verso di noi; poi si rizzò, verticalmente, oscillò, e parve che fosse per piombarci addosso. Spaventati noi volemmo fuggire e facevamo gran segni di croce, allorchè un vento soppraggiunto impetuosamente lo sciolse in un temporale, con lampi, tuoni, fulmini e grandine.

                Poco dopo ecco un altro pino di grossezza minore del primo avanzarsi dalla parte stessa. Egli venne fin sopra noi; poi sempre orizzontalmente si vedea discendere. Noi fuggimmo per tema di essere schiacciati e facevamo segni di croce. Il pino discese fin presso terra, ma se ne stava ancora sospeso in aria; solo i rami incominciavano a toccare il suolo. Mentre eravamo così ad osservarlo ecco un venticello che lo discioglie in pioggia. Noi non sapevamo il significato di quel fenomeno e stavamo domandandoci a vicenda: - Che cosa vorrà dire?

                Quando uno (che io so ancora chi é) disse: - Haec est pluvia quam dabit Deus tempore suo.

                Un altro poi (che non so più chi fosse) soggiunse:

                Hic est pinus ad ornandum locum habilitationis meae. - Mi citò il luogo della Sacra Scrittura, ove si legge questo versicolo, ma più non lo ricordo.

                Io credo che quel primo pino significasse le persecuzioni, le tempeste che cadono sopra coloro che sono fedeli alla Chiesa. [955] Il secondo significa la Chiesa stessa che sarà una pioggia benefica e feconda per quei che le si serberanno fedeli. - Così D. Bosco”.

                Ei non aggiunse, a quello che ci consta, altre spiegazioni, e noi non indagheremo se il sogno non accenni per caso a qualche altro senso. Limitiamoci pertanto ad un confronto. Il pino colossale il cui tronco non ha meno di 100 metri di diametro che sollevasi ritto nel mezzo della terra non ha riscontro coll'albero visto da Nabuchodonosor e descritto dal profeta Daniele la cui altezza toccava il cielo e ricco di rami verdeggianti sì da parere in lontananza simile ad una foresta? Non è simbolo di potenza stragrande, di superba sfida e ribellione contro Dio, e minaccia di sterminio a suoi servi? Questo però scompare dalla terra colpito dall'ira del Signore: un vento ardente impetuoso fa seccare, i suoi rami, lo avvolge la tempesta, e si dilegua divorato dal fuoco.

                Il secondo pino esso pure alto e robusto, ma di grandezza inferiore al primo, rappresentava forse non tanto la Chiesa in generale, quanto una qualche parte eletta di essa come sarebbe una congregazione religiosa per es. la Pia Società di S. Francesco di Sales. Ciò sembra indicare il luogo ove appare quello spettacolo; lo stare il pino orizzontalmente e non verticalmente simbolo della necessaria umiltà; il versicolo 13 del Capo sessanta d'Isaia: Gloria Libani ad le veniet, abies et buxus et pinus simul, ad ornandum locum sanctificazionis meae; et locum pedum meorum glorificabo.

                Ricchi adunque di fatti sorprendenti succedevansi i giorni del mese di maggio e il sogno della ruota svegliava nel cuori nuove decisioni e vocazioni. “Perciò il giorno 20 Don Bosco scrive D. Ruffino, disse dopo le orazioni della sera: - Gradirci molto che ciascuno dei giovani per frutto del mese di Maria prendesse la risoluzione di promettere due [956] cose: una a Dio e l'altra a me, scrivendo queste promesse su di un bigliettino col proprio nome e consegnandomelo. Io farò lo stesso: prometterò una cosa a Dio, e ve la dirò: ne prometterò eziandio una a voi: ad alcuni la dirò in particolare, ad altri in generale. Ciò che vi dico non è un comando chi non lo vuol fare non è obbligato, ma se lo fate procurerete a me un grande piacere”.

                E andava crescendo il numero di coloro che generosamente si prestarono per alcuni anni a cooperare con Don Bosco al bene dell'Oratorio e della gioventù. Leggiamo nei verbali del Capitolo.

 

                - Il 21 maggio 1861, nella camera di D. Bosco si radunò il Capitolo per l'accettazione di due membri: D. Ciattino Giovanni di Portacomarro, parroco di Maretto nella Diocesi d'Asti già stato proposto nella seduta del 12 maggio e Tresso Antonio di Francesco di Front. D. Ciattino ebbe i pieni voti; fu però accettato come terziario (che oggi giorno chiameremo cooperatore), non potendo subito presentarsi nella Società. Tresso ebbe solo un voto negativo.

                Li 3 giugno 1861 radunatosi il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales dopo l'invocazione e breve preghiera allo Spirito Santo si fece l'accettazione dei tre seguenti membri: Costanzo R. di Busca figlio di Giuseppe, Parigi Domenico di Chieri figlio di Ottavio, Rebuffo Francesco di Genova del fu Giacomo. I due primi, Costanzo e Parigi, ottennero i pieni voti; il terzo, Rebuffo, ebbe un voto negativo. Perciò furono tutti ammessi alla pratica delle regole.

                Parigi contava sedici anni, gli altri due quindici.

                Lo stesso giorno che il santo prete D. Ciattino era accettato nella Pia Società, si trovava nell'Oratorio l'amico suo il Teologo Barbero, parroco di Villa San Secondo. Egli diceva a D. Bosco: - Vi è siccità nelle nostre campagne. Abbiamo bisogno che ella faccia piovere un poco. [957]

                - Vada a casa, rispose D. Bosco, faccia fare una novena; al mattino si reciti qualche preghiera, si presti qualche atto d'ossequio e di adorazione al SS. Sacramento; alla sera raduni la gente a qualche pratica di pietà in onore di Maria SS. Inviti il popolo e dica così: - Facciamo questa novena: voglio che facciamo fare un fiasco a D. Bosco che ha promessa la pioggia. - Ciò lo dica ridendo; ma dica poi sul serio che almeno per questa novena non commettano peccati.

                - Oh come fare ad ottener questo? Come fare a conoscere se la gente ha osservato il suo consiglio? Sembrerà che questo sia un sotterfugio: Saranno 200 che si astengono dal peccato; e per alcuni dovranno poi soffrirne tutti?

                - Pure il commettere peccato è un rigettare apertamente il beneficio, è un negare di averlo ricevuto.

                - Ebbene farò quel che mi dice; ma se poi non pioverà, almeno lei verrà a dirci per cagione di chi non ha piovuto.

                - Si, si verrò io a fiutare e troverò i peccatori.

                La novena si incominciò appena il parroco fu di ritorno al paese, che l'aperse con un discorso intorno a quanto avevagli detto D. Bosco. La pioggia cadeva prima che la novena fosse finita.

                D. Bosco nell'autunno doveva recarsi coi giovani a Villa San Secondo”.

                Così attesta Ruffino, il quale aggiunge: “D. Bosco, qualche giorno prima della venuta di D. Barbero, aveva raccomandato ad un suo amico, che andava alla borgata dei Becchi: - Dite a quegli abitanti che preghino di cuore Maria, che si radunino tutte le sere a recitare il Rosario, altrimenti avranno e presto un gran guasto dalla tempesta”.

                E i borghigiani pregarono la Vergine conoscendo a prova l'importanza di simili avvisi, mentre D. Bosco incominciava [958] a rendere popolare il titolo di quella che fu detta la sua Madonna. Nell'almanacco del Galantuomo pel 1860 aveva notato per la prima volta: - 24 maggio: B. V. Ausiliatrice. E in quello del 1861 per lo stesso giorno: La Santissima Vergine col titolo ben meritato: Ausiliatrice dei Cristiani, Auxilium Christianorum!

                A questo modo le Letture Cattoliche, le quali erano destinate a celebrare le glorie e le grazie di Maria SS. aiuto dei Cristiani, ebbero il vanto di prevenire tutti gli almanacchi popolari nell'indicare senza più smettere, ai loro associati (e lettori, il giorno fisso, per tale solenne ricorrenza. Pel mese di giugno, portavano il fascicolo stampato da Paravia: Vittorina ed Eugenia, ovvero la cortesia e la carità. In questo semplice racconto si dimostra come la cortesia, verso tutti, senza eccezione, debba essere una conseguenza della carità nelle azioni esterne, agli uomini raccomandata e prescritta dallo Spirito Santo nelle Divine Scritture. In fine si leggono alcuni aneddoti sulla vita di Fio IX.

                Intanto con una rappresentazione drammatica e feste religiose si rallegravano gli ultimi giorni di maggio. “Il 23 maggio, continua a narrare D. Ruffino, si recitava per la seconda volta la commedia latina intitolata Minerval con un altro invito scritto dal Padre Palumbo. che venne spedito ai benefattori.

 

Sacerdos Bosco Equiti ampl. Xaverio Provana in Domino S.

 

                Minerval quod placuit, refertur denuo

                Multorum oratu. Dabitur mensis hujus

                Die vigesima tertia, a prandio,

                Ad aedem Sancti Francisci nomine dictam,

                Secunda hora. Schedula haec erit tibi tessera,

                Quam ostendes, ut fiat spectandi copia. [959]

                Quum expectarem paucos, venére plurimi:

                Nunc plurimos expecto: ne faxis sient

                Pauci. Si primum interfuisti, pervelim

                Te iterum adesse: hinc tibi placuisse fabulam

                Intelligam. Sin abfuisti, te rogo

                Ut nunc saltem adsies, Te ergo expecto

                Vale.

                Augustae Taurinorum XIII Calendas Junii anno MDCCCLXI.

 

                “Il 26 maggio D. Turchi Giovanni celebrò la prima messa che fu cantata in musica. Dopo il pranzo ci fu lettura di qualche componimento e l'offerta di un mazzo di fiori al nuovo sacerdote. Cantati i vespri e terminate le altre funzioni sul far della sera, vi furono musiche, ovazioni, fuochi d'artifizio e palloni volanti.

                La chiusura solenne del mese di Maria, recò pure le sue Consolazioni. Il giovane Bo……. raccontò ad un suo amico prete uno di quei fatti ormai quotidiani nell'Oratorio, avvenuto a lui stesso e il prete lo riferiva al Ch. Ruffino.

                D. Bosco aveva preso a parte quel giovanotto e gli domandava: - Sei andato a confessarti?

                - Sissignore: dal tale sacerdote.

                - Ti ha data l'assoluzione?

                - Sì!

                - Possibile? Non può essere che tu l'abbia ricevuta. - Sì, me l'ha data. Perchè mi fa questa domanda? - Perchè non hai confessato tutto.

                - Io ho confessato tutto.

                - E se io ti dico di no?

                - Vuol saperlo meglio di me?

                - Io non voglio saperlo meglio di te, ma so che non hai confessato tutto: per es. questa e quell'altra cosa non è vero che non l'hai confessata? [960]

                - Oh io non oso confessare quelle cose. - E se ne partì brontolando: - D. Bosco sa sempre tutto.

                D. Bosco però non lo perdette d'occhio e un giorno presolo di bel nuovo a parte, gli disse: - Orsù, voglio aggiustare la tua coscienza.

                - Ma io non oso confessarmi da lei!

                - Ed io non voglio che tu ti confessi; confesserò io a te i tuoi peccati, senza che tu abbia da parlare. - E così fece egli mise innanzi con ogni particolarità tutto ciò che non aveva mai confessato. Il giovane non ebbe che da dire un si per essere assolto e, come D. Bosco ebbe terminato, fu così contento quel poveretto, quanto non era mai stato in vita sua; ed ora è uno degli alunni più allegri e gioviali”.

 

 

CAPO LXXI. La festa dell'Unità d'Italia - Le Autorità civili cessano d'intervenire alla processione del Corpus Domini - I giovani dell'Oratorio alla processione della Cattedrale - Morte e sepoltura del Conte di Cavour - Parole di D. Bosco: un giovane non farà più un secondo esercizio di Buona Morte: annunzio della morte di Cavour: minaccia a quelli che non vogliono convertirsi - Un demonio sulle spalle di chi tace il peccato in confessione - Conversazione famigliare di D. Bosco: santi giovanetti: un globo misterioso: Gesù Crocifisso: la Madonna: morte prevista di un parroco: sventura di un privilegialo da Dio, il quale cade in superbia: moltiplicazione delle ostie. - D. Bosco raccomanda in pubblico preghiere speciali per i Peccatori - Sogno: il fazzoletto prezioso e la virtù della purità - Accoglienze affettuose ad un apostata - Risposta dell'Arcivescovo di Firenze a D. Bosco che lo avvisa intorno alle insidie dei protestanti.

 

                La processione del Corpus Domini in Torino era stata sempre splendida e maestosa, anche per l'intervento del Re, de' Ministri, de' Senatori, dei Deputati, e di tutte le altre dignità civili e militari. In quest'anno però le Autorità del Regno cessavano dal rendere tale doveroso omaggio al SS. Sacramento, ed eccone il [962] pretesto. La festa della concessione dello Statuto, che solevasi celebrare nella seconda domenica di maggio, veniva quest'anno trasportata per legge nella prima domenica di giugno. Il clero cattolico, il quale colle religiose cerimonie aveva sempre preso parte a quelle esultanze, in quest'anno nella immensa maggioranza, rifiutavasi a prestare in simile occasione il suo sacro ministero. Infatti la nuova festa era istituita per commemorare solennemente l'unità italiana, e non poteva essere gradita al Papa, vittima di tante vessazioni.

                Il Governo pertanto volendo vendicarsi di questo rifiuto, a metà di maggio il Conte Camillo di Cavour, presidente del Ministero, diramava una circolare colla quale proibiva alle Autorità dello Stato di intervenire all'annuale processione del SS. Sacramento. Nello stesso tempo il Conte che aveva appena oltrepassati i cinquant'anni, di salute robustissima, e che, riavutosi da certi incomodi, pareva dovesse vivere una vita ancor lunga, promoveva a tutto potere la festa dell'Unità Nazionale, che celebravasi la prima volta. Egli siccome principale promotore e fattore di questa unità, stava per riceverne i primi onori, riscuotendo dalla bassa e dall'alta democrazia i più rumorosi applausi.

                Ma Iddio nei suoi consigli disponeva altrimenti.

                Cavour dopo una tempestosa seduta nella Camera dei Deputati, ove più volte venne assalito con mordaci e violenti parole, la sera del 29 maggio, vigilia della festa del Corpus Domini, rientrato nel suo palazzo, colpito da sincope, cadeva improvvisamente come morto. Trasportato in letto gli si fecero molti salassi e pareva che si riavesse.

                Il domani più non si udirono le musiche delle milizie che andassero a schierarsi nelle piazze e nelle strade, tacquero le salve delle artiglierie, e non comparvero le splendide uniformi della Corte, nè il Sovrano, nè gli altri uffiziali [963] a portare le aste del baldacchino. “Usciva la processione, scrisse il Can. Ballesio, colla sola pompa Ecclesiastica, ma al posto dei Senatori e dei Deputati procedevano in fila dietro il SS. Sacramento centinaia di giovani dell'Oratorio. D. Bosco aveva ottenuto di mandarvi i suoi figli preparati da lui, volendo che franchi ed a visiera alzata praticassero la religione. La gente vedendo quello sfilar di giovanetti invece dei magnati, al mirarli pii e raccolti, all'udirne il canto dolce e devoto, maravigliava ed era edificata. Iddio benedisse a quella pietà, a quell'esempio. E noi ebbimo per successori a corteggiare Gesù Cristo nel SS. Sacramento l'aristocrazia e le Società Cattoliche Torinesi”.

                Il 2 di giugno Domenica, mentre in tutte le parti del regno, si festeggiava civilmente l'Unità nazionale, Cavour gemeva nel suo letto tra acerbi dolori e si aggravava a morte per un secondo e più violento colpo apoplettico.

                “D. Bosco il giorno 3, scrisse D. Ruffino, avendo già fatto pregare i suoi alunni per il Ministro morente, disse a tutti: - Giovedì faremo l'esercizio di buona morte. Desidero che si faccia bene, perchè vi è uno il quale non lo farà più un'altra volta.

                Il 6 giugno, giovedì, ottava del Corpus Domini, anniversario del miracolo del SS. Sacramento avvenuto in Torino nel 1453, e nella stessa ora del gran portento, il Conte di Cavour passava all'eternità. Quale coincidenza! Aveva messo il piede sul più alto gradino della scala sociale, quando all'improvviso dalla mano dell'Onnipotente fu precipitato nella tomba. Erano appena sei mesi che egli aveva interrogato la Camera dicendo: - Sapete voi che cosa accadrà in Europa dentro sei mesi? - E Cavour intendeva promettere che dentro sei mesi egli sarebbe andato al possesso di Roma. E dentro quel tempo egli era scomparso [964] dal mondo, e senza riparare in alcun modo alle offese recate alla religione.

                In questo giorno nell'Oratorio coll'esercizio di buona morte erasi fatta la Comunione generale. D. Bosco alla sera annunziava la morte di Cavour alla comunità, ed osservò: - È ben da compiangere il nobile Conte di non aver trovato ne' suoi estremi momenti un verace amico dell'anima sua. Confortiamoci però nella speranza, che per intercessione di S. Francesco di Sales, da cui egli per parte di madre discendeva, ed era ancora parente, Dio gli abbia toccato il cuore in tempo e usatagli misericordia”.

                I giovani intanto ricordavano la predizione fatta da D. Bosco sul finire dell'anno 1860, e fu ed è ancora oggigiorno persuasione di quanti l'udirono, aver egli preveduta quella morte.

                Alla sera del giorno 7 il suo cadavere doveva portarsi alla sepoltura con splendidissimo accompagnamento; ma il cielo si oscurò, cadde un rovescio di pioggia, sicchè contro ogni previsione il funebre convoglio venne disturbato. E la camera, il senato, la magistratura, l'esercito ed il municipio che eransi rifiutati ad accompagnare Gesù Cristo in Sacramento, dovettero con quel tempaccio andare in processione dietro un feretro.

                D. Bosco nella sera stessa accennò alla preziosità dell'anima e disse alla comunità: - Vi sono alcuni i quali non ostante tutti gli sforzi che si sono già fatti per condurli sulla buona via, non vogliono convertirsi. Aspetterò ancora un poco e poi sarò costretto a palesarli qui in pubblico. - E ciò equivaleva all'essere allontanati dalla casa quando fossero di pericolo ai compagni. Era questa la seconda spina annunziata da D. Bosco il 7 marzo di quest'anno e indicata colla lettera “M” cioè moralità. [965] Ora diremo che uno dei sopraddetti, il quale ben di rado si accostava ai Sacramenti, un sabato sera sull'imbrunire, si presentò a D. Bosco nel coro della Chiesa per confessarsi. La sedia cogli inginocchiatoi era appoggiata alle spalle dell'altare e di fronte si ergeva la cattedra, dalla quale alla Domenica s'intonavano i vespri. Faceva corona al confessionale un certo numero di alunni, che, preparandosi aspettavano il loro turno. D. Bosco, appena ebbe innanzi quel giovane, vide chiaramente lo stato infelice dell'anima sua, e dopo che ebbe ascoltato ciò che volle dirgli, gli domandò:

                - Hai più nulla a dire?

                E l'altro: - Più nulla!

                - Eppure potrebbe darsi che avessi ancora qualche cosa. Pensa un po' meglio!

                - Non ho più niente! replicò il giovane. - D. Bosco prese allora ad insistere: - Presto, su, fatti coraggio; confessa tutto.

                Ma il giovane faceva il sordo e stava senza parlare e senza risolversi. In quel momento D. Bosco vide comparire sulla cattedra un orribile scimione, il quale passando in mezzo ai giovani circostanti, prese lo slancio, saltò sulle spalle di quel poverino, lo strinse al collo cogli unghioni, e spinse avanti il ceffo tra la faccia sua e quella del giovane. D. Bosco a tal vista fu preso da un brivido di spavento, gli sgorgavano le lagrime dagli occhi per la compassione, e ripetè al giovane: - Non hai proprio niente da dirmi?

                Ma l'altro sotto le strette malefiche dei demonio, rispose con franchezza: - Non mi ricordo più di niente.

                -Ah mio caro figliuolo! E come? mi dici di non aver più nulla da confessare, mentre io vedo un grosso scimione sulle tue spalle? Ma guarda! esclamò con vivacità. [966] - Egli fece atto di volersi alzare non garbandogli star vicino a quella brutta bestiaccia. Il giovane tutto commosso alle sue lagrime, a quelle parole, sentendo ciò che aveva sulle spalle si volse, mandò un grido soffocato di spavento, ruppe in lagrime e tenendo D . Bosco per la veste ripeteva: - Non mi abbandoni, non mi abbandoni! - Ma se non vuoi che io fugga dimmi ogni cosa, replicò D. Bosco. Allora quel meschino si fece coraggio, si abbracciò al confessore, mentre quel mostro spariva, e confessò il peccato che aveva cercato di nascondere.

                Questo caso D. Bosco lo raccontò una sera ad alcuni chierici fra i quali Ruffino e Bonetti, che ne tennero memoria. I suoi detti fecero una profonda impressione, perchè ricordava il sogno, che pochi mesi prima aveva fatto di tre giovani col scimione al collo.

                La voce a poco a poco si sparse, sicchè D. Bosco invitato, espose colle debite cautele quella ributtante apparizione a tutta la comunità. In tale racconto come in altri di questa fatta, egli mutava le circostanze di tempo, di luogo e di persona e talvolta esponeva la cosa come appartenente all'oggi, mentre era accaduta magari anni prima. Infatti il nome del protagonista mai non si potè sapere, anzi coll'andar del tempo, il fatto stesso da più d'uno rimandavasi tra le storielle favolose.

                Ma quarantaquattro anni dopo in modo inaspettato, veniva in chiaro una prova della veracità del racconto. Il Fratello Edmondo delle Scuole Cristiane, nel settembre dei 1904 assisteva in Torino al Congresso Cattolico giovanile e in quelle radunanze s'incontrava con varii Salesiani fra i quali D. Francesia e D. Blanco missionario nella Repubblica Argentina. Venne a parlar con loro di D. Bosco da lui conosciuto nel 1850 e narrava come lo avesse veduto raccogliere [967] i giovani in piazza Emanuele Filiberto, e come egli intervenisse alle loro Congregazioni. Quivi, disse, essendo radunati circa 700 ragazzi per le confessioni, si invitavano dieci o quindici confessori per ascoltarli; ma quelli in grandissimo numero preferivano D. Bosco, mentre dagli altri sacerdoti andavano ben pochi. Notava eziandio che dopo le prolungate confessioni si presentava a D. Bosco del vino per ristorarlo, ma che il santo prete non ne beveva mai.

                Il Fratello Edmondo passava quindi a lodare l'abilità dì D. Bosco nel rendere fruttuose le confessioni, e come Iddio, in quel sacro ministero, lo aiutasse con grazie sorprendenti; e in prova di questo suo asserto, eccolo a raccontare il fatto del scimione.

                I Salesiani che lo ascoltavano, meravigliati a questa conclusione, gli domandarono come fosse venuto a conoscere tale cosa. Rispose: - L'ho appresa a Parma dal giovane stesso, (e ne palesò il nome) che ebbe questo serio avvertimento. Erano tre o quattro anni che egli aveva per rossore tralasciato di confessare una colpa.

                Ma insieme con qualche anima bisognosa di aiuto, nell'Oratorio ve ne erano pur delle belle. D. Bosco la sera del 10 giugno lunedì, dopo le orazioni, quando i giovani erano già andati al riposo, si trovava sotto i portici con alcuni chiericì. Fra questi erano Ruffino e Bonetti i quali arrichirono le loro cronache con ciò che disse. Scrissero adunque, e noi riportiamo.

 

                Egli incominciò a parlare: - Quante belle cose avrei da raccontarvi!

                - Racconti, racconti, dica, dica, - esclamarono tutti.

                - Presentemente abbiamo nella casa dei giovani favoriti da Dio di speciali doni, i quali ci dimostrano che il Signore è con noi. Uno di questi che è annoverato tra i più buoni, sebbene ve [968] ne siano altri che apparentemente compariscano di maggior virtù, vide nel tempo della Comunione un globo che riempiva tutta la chiesa. Questo a poco a poco divenne piccolo come una nocciuola e andò a posarsi sopra la pisside, rimanendo sollevato in aria; quindi crebbe alquanto di volume e poi impiccolitosi come prima, disparve. Domandai a questo giovane se intendesse il significato di quell'apparizione, e mi rispose di no, soggiungendo: E lei che cosa ne pensa? - Nemmeno io saprei che cosa dire, - gli risposi. Come voi vedete, ripigliò parlando ai chierici, io non feci caso della sua confidenza, ma però le si potrebbe dare questa interpretazione. Quel globo fu visto ai 2 del mese, e il 6 morì Cavour, e questi colla sua potenza e col suo nome riempi il mondo; mentre era per impiccolirsi, si innalzò fin sopra al SS. Sacramento, si gonfiò, ma venne meno, e disparve. Potrebbesi anche dare altra spiegazione, cioè che il globo significasse una ribellione contro la Chiesa; ma quando pare che la Chiesa debba essere disfatta, la rivoluzione si annienta e scompare dagli occhi di chi la guarda impensierito: in lontananza pare grande, ma viene ridotta a nulla, e svanisce affatto.

                I chierici domandarono chi fosse il giovane spettatore di quel globo, ma D. Bosco non lo disse.

                D. Bosco continuava:

                - Un altro giovane contemplò nel tempo dell'elevazione dell'Ostia, il Divin Salvatore crocifisso. Sul principio era bellissimo, maestoso e pieno di robustezza, ma poi incominciò a dimostrare estreme sofferenze e venir scarno in modo che faceva compassione. Allora parvegli di vedere tutti i giovani andare intorno a Gesù Cristo con grande affetto e offrirgli cibo e ristoro, domandandogli ansiosamente qual fosse la causa de' suoi patimenti e della sua macilenza. Gesù rispose: Miei cari figli! Questa è la volontà del mio eterno Padre! E così finiva la visione. Ciò che mi fece piacere si è che il giovane me la scrisse così alla buona sopra un foglio di carta, che ho sopra in mia camera, senza dare alla cosa nessuna importanza. Io gli chiesi se conoscesse il significato di ciò che aveva veduto, e della macilenza di nostro Signore; mi rispose di no; essergli parso tuttavia che indicasse una carestia, (o materiale o spirituale) la quale dovrà accadere non subito; forse fra qualche anno. La [969] spiegazione più ovvia però si è che Gesù ora soffre nella persona della sua Chiesa.

                Alcuni interruppero D. Bosco, domandandogli: - Ma chi è costui? - D. Bosco non lo volle dire e ripigliò.

                - Vi è un terzo giovane, già visto nel sogno delle mense, tra il numero esiguo di quelli la cui anima è veramente innocente e che risplende ancora del bel candore della stola battesimale, col quale la Madonna si compiace di stare in colloquio e gli manifesta più cose lontane e nascoste. Io stesso quando desidero sapere qualche cosa pur riguardante l'avvenire, mi raccomando a lui, con modi però che non fomentino l'amor proprio. Ed egli dopo aver chiesto a Maria SS., sa dirmela con tutta semplicità. Lo stesso accade quando ho bisogno di ottenere qualche grazia. Di giovanetti di simil fatta ne abbiamo più di uno. È cosa molto singolare, ma sto osservando dove questa andrà a finire, perchè le illusioni non sono impossibili. È certo però che Maria ci ama. Vi dirò ancora di un quarto vostro compagno cosa che è inesplicabile naturalmente. Prima delle vacanze di Pasqua costui faceva istanza per andare a passar quelle ferie a casa sua. Non lo si voleva lasciar andare, ma egli insisteva dicendo che voleva assistere alla morte del suo parroco. Finalmente gli fu data licenza e andò con questa idea fissa. I parenti, ai quali aveala manifestata lo giudicarono pazzo e scrissero all'Oratorio, domandando se il figlio fosse partito da Torino già così impazzito, perchè il parroco stava bene in salute. Ma che? Passati pochi giorni il parroco viene ammalato, aggiusta gli affari di sua coscienza e muore.

                Tutti eravamo meravigliati e gli domandavamo con maggior insistenza che ci dicesse chi fossero questi giovani fortunati che avevamo fra di noi e non conoscevamo. Egli solamente rispose:  proprio il caso di dire: Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus et revelasti sa parvulis,.... quoniam sic fuit placitum ante te. Qui non c'è scienza, non c'è buona volontà che valga: il Signore dispensa i suoi doni a chi gli pare e piace. A me però è più cara una virtù costante che le grazie straordinarie, poichè questi segni di predilezione sono molto pericolosi, tanto più quando fossero frequenti, se uno si lasciasse vincere dalle tentazioni della superbia. Dio ai superbi resiste e agli umili dà la grazia. Queste [970] anime in tale stato leggeranno talvolta o sentiranno dal pulpito a raccontare la visione di un santo, o qualche altra cosa di sovrannaturale. Un tale racconto farà colpo sovra chi non abbia avuto di tali grazie; ma sovra uno di questi di cui parliamo, non farà impressione alcuna: anzi vi è pericolo che dicano fra se stessi: - Oh! questo poi non è gran che: di questi favori ne ho già avuti anch'io. Ed allora guai guai, perchè manca l'umiltà! Guai se attribuendo tali favori ai propri meriti, se ne gloriano fosse anche per poco! Alcuni anni or sono avevamo un giovane qui nella casa, il quale in una sua malattia assicurò aver veduta la Madonna, da cui aveva saputo tante belle cose. Ne diede diverse prove fra cui di conoscere quali de' suoi compagni, fossero andati a confessarsi e quali no; e questi ultimi, essendo un sabato a sera, li mandava ai piedi del confessore. Fu pure una bella prova di quella visione, la buona condotta che egli prese a tenere dopo la sua guarigione. Tuttavia più tardi incominciò a dar giù, a dar giù, fino al punto che fummo costretti a licenziarlo dalla casa. Ma comunque sia, è cosa evidente che noi abbiamo ricevuto, specialmente in quest'anno, molte prove della bontà di Dio verso l'Oratorio. Tutti questi fatti dimostrano che il Signore regna nella nostra casa; che Egli ci protegge e ci difende, che fa andare avanti ogni nostra cosa. Guai a noi se non corrispondiamo! Continuò a dire poi intorno alle predette visioni, rispondendo a ciò che i chierici aveangli domandato: - Riguardo all'Ostia santa io non fui mai favorito, di segni sensibili o apparizioni eccettuata però la moltiplicazione delle particole. Quello è stato un fatto veramente bello e sorprendente!

                - Questo fatto è poi proprio certo? - Chiese uno.

                - Si! È certo. Un mattino, essendo io solo prete in casa, (1854) secondo il solito di que' tempi, celebrava la messa della Comunità. Dopo la consumazione presi a distribuire la SS. Comunione ai giovanetti. Aveva nella pisside poche particole, forse 10, o 12. Da principio essendosi presentati pochi non aveva pensato a romperle, ma, comunicati i primi, vennero altri e poi altri, sicchè tre o quattro volte si succedettero le file dei giovani alla balaustra. Ci saranno state almeno cinquanta comunioni. Io voleva ritornare all'altare dopo che i primi si erano accostati alla sacra mensa, per ispezzare le restanti particole, ma, parendomi a un tratto di [971] vederne nella pisside sempre la medesima quantità, continuai a dare la comunione. Così seguitai, senza accorgermi che le particole diminuissero. Quando poi fui all'ultimo da comunicare con mia estrema sorpresa mi trovai con una sola particola nella pisside e con questa lo comunicai. - E ripeté: - Senza saper come, avea vedute moltiplicarsi quelle ostie.

               

                D. Bonetti Giovanni a questo punto del suo ragguaglio, scrisse: “Le ultime parole di D. Bosco dimostrano due cose: 1° Che il fatto della moltiplicazione delle ostie consecrate è un fatto certo. 2° Che dal racconto di questo da lui ripetuto in altre circostanze ai suoi confidenti, e da certe sue espressioni, si deve anche dedurre aver egli ricevuto, oltre questa, altra volta favori di tal sorta, che rimasero sconosciuti”. E conclude: “Comunque sia, io confesso che questa mezz'ora d'intrattenimento con D. Bosco, fece più bene all'anima mia e a quella de' miei compagni, siccome essi ingenuamente mi attestarono, che non dieci giorni di esercizi spirituali. Il domani si esaminò, ma con ogni cautela, affine di venir almeno a sospettare con un poco di fondamento chi mai fossero quei giovani così fortunati, dei quali aveva parlato D. Bosco. Gli uni dicevano: - parmi che debba essere quegli. - Gli altri: - parmi sia questo. - Ma nulla di certo poterono sapere. Io però da un amico, al quale colui che ebbe l'apparizione del globo, aveva confidata la cosa, venni a conoscere anche il nome che desideravo. Lo scrissi, lo tenni per me, ed ebbi una prova che D. Bosco esponeva cose vere”.

                Nell'Oratorio le grandi virtù stavano nascoste. In mezzo ad un ambiente di idee spirituali, con sorprese continue di fatti, sogni che avevano carattere di soprannaturale, con previsioni, rivelazioni di coscienze, e annunzi di morti future, cose tutte che sembravano esaltare le fantasie, non [972] si ebbero fra le migliaia di giovani educati nell'Oratoriio, nè visionarii, nè maniaci per religione, nè bigotti, nè pusillanimi, nè superstiziosi. Svolgeasi adunque un ordine di cose che, fondate sulla vera devozione, evidentemente era voluto da Dio. E ciò conferma D. Albera Paolo e con lui moltissimi altri.

                “Il 16 giugno D. Bosco diede per fioretto ai giovani di fare qualche preghiera speciale, affinchè Dio faccia ravvedere quei del scimione, che disse giungere appena al numero plurale: e la sera del 18 raccontò la seguente storiella, o specie di sogno, come la definì altra volta. Il modo però che teneva nel raccontare era sempre tale, che di lui potè ripetere Ruffino, che ne tenne memoria, ciò che diceva Baruch delle visioni di Geremia: “Egli pronunziava colla sua bocca tutte queste parole come se le leggesse, ed io le scriveva nel libro coll'inchiostro”. (Baruch XXXVI).

                D. Bosco adunque così parlava.

 

                Era la notte del 14 al 15 del mese. Quando fui coricato appena preso un po' di sopore, sento un gran colpo sulla lettiera, come di uno che con un asse vi battesse sopra. Balzai seduto sul letto: mi venne subito alla mente il fulmine: guardai di qua e di là, ma nulla vidi. Perciò persuaso di aver sognato e che nulla vi fosse di reale, mi tornai a coricare.

                Ma non appena ricominciava ad addormentarmi, ecco un secondo colpo mi ferisce le orecchie e mi scuote. Allora mi rizzo di nuovo sui cuscini, scendo dal letto, cerco, guardo sotto il letto, sotto il tavolino e nei cantoni della camera, ma non vidi niente. Allora mi rassegnai nelle mani del Signore; presi l'acqua benedetta e mi coricai. Fu allora che la mia mente si portò di qua e di là e vidi quello che ora son per narrare.

                Parvemi di essere sul pulpito della nostra chiesa in atto di dar principio alla predica. I giovani erano tutti seduti ai loro posti collo sguardo fisso in me, ed aspettavano attenti che io parlassi. Io però non sapeva quale argomento dovessi trattare, ed [973] in qual maniera incominciare la predica. Per quanto faticassi colla memoria, la mia mente rimaneva sterile e vuota. Stetti così un po' di tempo confuso ed angosciato, non essendomi mai accaduto un simile imbroglio dopo tanti anni che predico: ed ecco che in un istante veggo questa nostra chiesa convertirsi in una gran valle. Cercava le mura della chiesa e non le vedeva più e non vedeva pia nessun giovane. Io era fuori di me per la meraviglia e non sapeva persuadermi di quel cambiamento di scena.

                - Ma che cosa è mai questo? dissi fra me: un momento fa io ero in chiesa, in pulpito ed ora mi trovo in questa valle! Sogno? Che faccio io? - Mi risolsi allora di procedere per quella valle. Camminai alquanto e mentre cercava qualcheduno per esprimergli la mia meraviglia e chiedere spiegazioni, vidi un bel palazzo con molti grandi balconi o vasti terrazzi, come si vogliono chiamare, i quali formavano un sol tutto mirabile. Innanzi al palazzo stendevasi una piazza. In un angolo di questa, a destra, scopersi un gran numero di giovani affollati, i quali stavano d'intorno ad una Signora, che distribuiva a ciascheduno un fazzoletto. Costoro preso il fazzoletto salivano poi e si disponevano schierati un dopo l'altro su quel lungo terrazzo con balaustrata.

                Io pure mi avvicinai a quella Signora e udii che, nell'atto di consegnare i fazzoletti, diceva a tutti i singoli giovani queste parole: - Non distenderlo mai quando tira vento: ma se il vento ti sorprende, quando tu l'avessi disteso, volgiti subito a destra, non mai a sinistra.

                Io osservava tutti quei giovani, ma in quel momento non ne conobbi nessuno. Finita la distribuzione dei fazzoletti, quando tutti furono sul terrazzo, fecero un dopo l'altro una lunga fila e stavano là ritti senza dir parola. Io continuava ad osservare e vidi un giovane che incominciava a trar fuori il suo fazzoletto e lo spiegava e poi gli altri giovani a poco a poco, successivamente trar fuori il proprio e spiegarlo, finchè li vidi tener tutti il fazzoletto disteso. Esso era molto largo, ricamato in oro con un lavoro di grandissimo pregio e vi si leggevano queste parole anch'esse in oro, che lo occupavano tutto: - Regina virtutum.

                Quand'ecco incominciò da settentrione cioè a sinistra, a [974] spirare bene un po' d'aria, poi a farsi più forte e finalmente a levarsi il vento. Appena ebbe incominciato questo vento vidi alcuni di quei giovani piegare subito il fazzoletto e nasconderlo: altri voltarsi dal fianco destro. Ma una parte stette immobile col fazzoletto spiegato.

                Dopochè questo vento erasi fatto gagliardo, incominciò a comparire e stendersi una nuvola che ben presto velò tutto il cielo, quindi levarsi il turbine, scoppiare un gran temporale e rombare spaventosamente il tuono: poi cadere la grandine, dopo la pioggia, e finalmente la neve.

                Intanto molti giovani stavano col fazzoletto disteso: e la grandine vi batteva dentro trapassandolo da parte a parte; ed anche la pioggia le cui gocciole pareva che avessero la punta; come pure lo foravano i fiocchi di neve. In un momento tutti quei fazzoletti furono guasti e crivellati, sicchè più nulla avevano di bello.

                Questo fatto destò in me tale stupore, che non sapeva quale spiegazione dargli. Il peggio si è che avvicinatomi a quei giovani che prima non aveva conosciuti, adesso, avendo guardato con maggior attenzione, li riconobbi tutti distintamente. Erano i miei giovani dell'Oratorio. Fattomi ancor più dappresso andava interrogandoli: - Che cosa fai tu qui! Sei il tale? - Si che son qui! Veda! c'è anche il tale, il tale, il tal'altro.

                Andai allora là dove era quella Signora che distribuiva i fazzoletti. Quivi stavano alcuni altri uomini e domandai loro: - Che cosa vuol dire tutto questo?

                Quella Signora voltasi a me rispose: - Non hai visto quello che vi era scritto in quei fazzoletti?

                - Sì: Regina virtutum.

                - Non sai perché?

                - Sì che lo so.

                - Ebbene; quei giovani esposero la virtù della purità al vento delle tentazioni. Alcuni al primo accorgersene subito fuggirono e sono quelli che nascosero il fazzoletto; altri sorpresi e non avendo avuto tempo a nasconderlo si volsero a destra e sono coloro che nel pericolo ricorrono al Signore, voltando le spalle al nemico. Altri poi stettero col fazzoletto aperto all'impeto della tentazione che li fece cadere nei peccati.  [975]

                A questo spettacolo restai corrucciato ed era per disperarmi vedendo quanto pochi erano quelli, che avevano conservata la bella virtù. Ruppi per tanto in un pianto doloroso e quando potei calmarmi, chiesi: - Ma, come va che i fazzoletti rimasero forati, non solo dalla tempesta, ma anche dalla pioggia e dalla neve? Queste gocce, quei fiocchi di neve non indicano forse i peccati piccoli, ossia veniali?

                - E non sai che in questo non datur parvitas materiae? Tuttavia non affannarti; vieni a vedere!

                Uno di quelli uomini si avanzò davanti al balcone, fece segno colla mano a quei giovani e gridò: -A destra!

                Quasi tutti i giovani si volsero a destra, ma alcuni non si mossero dal luogo ed il loro fazzoletto, finì con essere interamente lacero. Allora io vidi il fazzoletto di quelli i quali si erano voltati a destra divenir molto stretto, tutto rappezzato e cucito, in modo però che non si scorgeva più nessun buco. Erano tuttavia in così cattivo stato che facevano pietà. Non avevano più regolarità alcuna. Gli uni vedeansi lunghi tre palmi, altri due, altri uno.

                Quella Signora intanto soggiungeva: - Ecco quelli che ebbero la disgrazia di perdere la bella virtù, ma ci rimediarono colla confessione. Gli altri poi che non si mossero, sono quelli che continuano nel peccato e forse, forse, andranno alla perdizione.

                In fine poi mi disse: - Nemini dicito, sed tantum admone. -

 

                “In questo stesso giorno, racconta D. Ruffino, il Signore aveva appagato lo zelo di D. Bosco conducendogli una pecorella smarrita. Mentre egli stava in cortile in mezzo ai giovani, gli si presentò un signore dicendogli dovergli parlare di un affare d'importanza. D. Bosco lo condusse in sua camera quel signore giunto là prese senz'altro a narrargli: - Io son prete, fui parroco: disertai dal sacro ministero per arruolarmi sotto Garibaldi. Ingannato fui tratto ad apostatare dalla fede e ad associarmi coi protestanti. Ma io sono infelice, come lo fui dal primo istante della mia aberrazione e non [976] potei mai acquetare i rimproveri della mia coscienza. Ora sono in uno stato deplorabile non solo per l'anima ma anche pel corpo. Vorrei far ritorno al mio Vescovo, ma come fare?

                D. Bosco conosceva per fama quel poveretto, e gli rispose: -Vada pure; il Vescovo è già di tutto informato ed è pronto a riceverlo. Ha danaro?

                - Non ho un soldo: anzi, veda! - ed in questo scoprendo lo stomaco mostrò di avere in dosso una camicia da donna. - Questa è la camicia che sabato mi trovai sul letto per cambiarmi: forse i miei compagni l'avranno fatto per insultarmi, avendo già in me scorto il mio malcontento.

                D. Bosco gli diede danaro pel viaggio e camicia da cambiarsi. Quel povero sacerdote nel licenziarsi domandò a D. Bosco un libro.

                - Sì, ben volentieri, gli disse D. Bosco, ma non ho per ora altro libro che il breviario.

                - Appunto, il breviario: è quello che io desidero. Quanto sono infelici coloro che si allontanano dalla via del cielo!”

                Ma questi a riparare per quanto poteva i suoi errori, pare che palesasse a D. Bosco le trame che i protestanti avevano tese alle anime in Firenze e il Servo di Dio nello stesso giorno ne scrivesse a quell'Arcivescovo, il quale rispondevagli:

 

                               Pregiatissimo e Molto Rev. Signore,

 

                La signora marchesa di Villarios, al suo ritorno in Firenze, mi recò subito la sua lettera del 18 del corrente mese, che mi riuscì gratissima. Il pensiero che ha di pregare e far pregare cotesti suoi giovani per me, mi ha veramente commosso e mostra tutta la bontà dell'animo suo. Io ne ho veramente bisogno in questi tempi tumultuosi e nella difficilissima posizione in cui mi trovo, circondato da tante difficoltà ed aggravato da un peso si grande. [977]

                Il disturbo che mi fu cagionato nell'occasione dell'ottava del Corpus Domini, forse dai giornali è stato un po' esagerato; ed intorno a me ne sono state dette alcune, dal pessimo giornale fiorentino La Nazione, che non sussistono e che credei bene di smentire. Se ebbi dal ritorno dalla chiesa all'arcivescovado, dopo la processione, qualche insulto e mi fu rivolto qualche grido selvaggio, ebbi nel tempo stesso, da gran parte del mio popolo, vive dimostrazioni di divozione e di affetto. Ma quello che vivamente deploro si è che vi sia stato un numero di persone così sfrontate e perverse da disturbare una solennità, dedicata tutta al culto di Gesù in Sacramento e da inquietare e intimidire le buone persone, che con istraordinaria frequenza erano accorse ad accompagnare col torcetto il Santissimo. Questa sacrilega irriverenza è quella che più fa piangere. Iddio nella sua infinita misericordia si degni di illuminare e perdonare a quei profanatori.

                Le notizie che si è compiaciuto di darmi intorno alla propaganda Protestante mi sono accettissime e più i buoni consigli che mi suggerisce intorno ai modi più adatti ad opporvi un argine. Sono da dieci anni che qui vengono fatti dei tentativi per corrompere la fede di questo popolo: prima hanno lavorato in segreto; da due anni in qua lavorano palesemente; per grazia del Signore però vanno in discredito ogni dì più e non hanno guadagnato che della feccia, e tra quelli stessi che si sono lasciati trarre in inganno, già varii hanno incominciato a ritornare petititi al seno della Chiesa. Confido che se staremo vigilanti e gli ecclesiastici si manterranno uniti ai loro Vescovi, gli sforzi di questi falsi evangelizzatori rimarranno presso che inutili. Intorno agli ecclesiastici però non mi mancano delle afflizioni. Già ai primi di questo mese dovetti condannare una serie di ecclesiastici, che si era costituita con tristi intenzioni. Fortunatamente hanno ascoltata la mia voce, meno che tredici sciagurati, i quali piuttosto si sono presi la sospensione a Divinis. Erano per lo più ex-frati o preti di altre diocesi, qui da varii anni rifugiatisi e screditati.

                Ma se Ella verrà a Firenze, come mi fece sperare la prelodata signora Marchesa, di tutto potremo meglio discorrere a voce. Desidero vivamente di fare la sua personale conoscenza, ed ove [978] non Le dispiacesse alloggiare qui nell'Arcivescovado, una camera sarà sempre a sua disposizione.

                Augurandole frattanto ogni bene e pregando il Signore a benedire sempre più alle sue fatiche apostoliche e a cotesto suo caritatevole Istituto, ho l'onore di confermarmi pieno di ossequio e di stima distinta.

                Di V. S. Molto Reverenda

                Firenze, il 28 giugno 1861.

Dev.mo ed obbl.mo Servitore

GIOACHINO Arcivescovo di Firenze.

 

 

CAPO LXXII. Letture Cattoliche - Articolo dell'Armonia per il rinnovamento delle associazioni a queste Letture - La festa di S. Giovanni e quella di S. Luigi; come si amassero gli antichi allievi - Il piccolo Seminario di Giaveno e felice riuscita de' suoi alunni - Visite di D. Bosco a Giaveno - Rivalità - Chierici sobillati perchè abbandonino D. Bosco - Scoraggiamento del Ch. Boggero e sua lettera - Consigli di D. Bosco a Boggero - Colloquio di D. Bosco col Provicario - D. Bosco a S. Ignazio - Lettera del Cav. Oreglia a D. Alasonatti: gli infermi - Lettera di D. Bosco ai giovani dell'Oratorio - Annunzia come vedesse da Lanzo quelli che non fanno per la casa - Distribuzione dei premii: Biglietto di Tommaso Vallauri a D. Bosco - Giovani preparati per la vestizione ecclesiastica.

 

                Coi tipi di Paravia era pubblicato pel mese di luglio il fascicolo delle Letture Cattoliche: Astinenza dal lavoro nei  giorni festivi per M. D. Olivieri, antico membro dell'assemblea legislativa di Francia. Si dimostra il bisogno morale, fisico, commerciale, universale del riposo della Domenica.

                Nelle appendici si espongono le antiche leggi Sarde di S. M. Carlo Emanuele sull'osservanza delle feste; e l'estratto [980] di un cenno enologico di Mons. Losana Vescovo di Biella sul modo di curare la crittogama collo zolfo. L'illustre prelato osserva che ormai da dieci anni la crittogama impoverisce le intiere provincie; che la Madonna apparsa sui monti di La Salette aveva annunciato che le uve marciranno per i peccati degli uomini e specialmente per la profanazione dei giorni festivi; e che si rinnovò il castigo col quale Iddio aveva già punito il popolo Ebreo: “La vendemmia è in lutto, la vite ha perduto il vigore, sono in pianto quelli che erano allegri di cuore... Non più berranno vino cantando” (Isaia XXIV, 7): “Le viti sono senza uve, le foglie stesse sono cadute. (Geremia VIII, 13).

                L'Armonia inseriva ne' suoi fogli, il 17 luglio, il seguente articolo:

 

Le Letture Cattoliche di Torino.

 

                Più volte noi abbiamo raccomandato ai nostri lettori e indistintamente a tutti i buoni le benemerite Letture Cattoliche, che da più anni con tanto profitto del popolo si stampano in Torino. Ma ora nuovi e particolari motivi ci animano a raccomandarle nuovamente ed anche con più calore. Oltrechè questo è appunto il tempo destinato a rinnovarne le associazioni, a tutti è pur noto con quale ardore e tenacità i protestanti si adoperino a questi giorni per insinuare in tutte le più perfide guise il veleno delle loro empie dottrine nel cuore degli incauti fedeli. Or se i nemici della Chiesa tanto fanno per corrompere la fede di Gesù Cristo; quanto più non dovranno lavorare i buoni cattolici per la difesa della più grande e della più santa delle cause! Soffriremo noi che gli eretici mostrino più zelo per dannare le anime, che noi per salvarle? Del resto, quando vediamo non solo tutto l'Episcopato italiano, ma lo stesso Vicario di Gesù Cristo, il regnante Pontefice Pio IX, raccomandare vivamente la diffusione di questi libretti, dicendo precisamente che in questi tempi nulla vi ha di più eccellente, nulla di più utile di essi, nihil praestantius, nihil [981] utilius, ogni nostra ulteriore parola dev'essere superflua. Quindi è che persuasi come siamo di vedere nei buoni cattolici riaccendersi lo zelo per la cristiana istruzione dei popolo, quanto più gravi sono i pericoli che lo circondano, noi riproduciamo senza più le condizioni d'associazione, che sono le seguenti ecc.

                Le associazioni in Torino si ricevono dagli eredi Ormea sotto i portici del Palazzo di Città, e nell'Uffizio delle Letture Cattoliche, via S. Domenico N. II, piano terreno.

 

                Intanto nel mese di giugno D. Bosco faceva imprimere 4000 immagini di S. Luigi Gonzaga; e il Cav. Oreglia descriveva a Rostagno Severino, ritornato a Pinerolo, le feste dell'Oratorio. Questo buon giovane aveva dimorato per pochi mesi in Valdocco, causa la sua debole sanità. D. Bosco e gli altri superiori gli usavano tutti i riguardi; il Cav. Oreglia molte volte lo prendeva con sé, e lo conduceva a passeggio; ma la vita di comunità non si confaceva a Severino. Egli amava i giuochi infantili coi ragazzi più piccoli, o passeggiare co' superiori o altre persone provette, e raramente si vedeva con alunni della sua età. Quando fu a casa i compagni presero a scrivergli lettere affettuose, che la sua buona madre conservava ancora nel 1891, e fra queste la seguente del Cav. Oreglia.

 

                               Mio carissimo,

 

                Benchè io solitamente sia avvezzo a pensar bene di tutti, tuttavia debbo assai dubitare di te per il tuo prolungato silenzio; invero se tu stessi bene crederci impossibile che non avessi ancora scritto, non dirò a me, ma a qualcuno della casa. Ho quindi grande timore che la tua salute sia più che mediocremente compromessa del qual dubbio, qualunque fosse per essere la risposta, tanto da me che dai compagni si desidererebbe aver una soluzione. Sarai tu pure curioso di sapere come si passino tra noi le cose nostre. Per quel poco che posso, vedrò dirtene qualche cosa; in quanto ciò che riflette [982] la vita quotidiana, sì degli studenti che degli artisti, non vi è nulla di nuovo, se non qualche piccola variazione nell'orario, per cui le ore calde dei dopo pranzo sarebbero distribuite in modo che essi riposino, per studiare nelle ore più tarde e quindi ricrearsi la sera.

                Quello che può alquanto interessarti sarà piuttosto il sentire come sonosi passate le feste, di S. Giovanni che si fece il 24 e di S. Luigi che si fece il 30 decorso giugno. Cominciando dalla prima ti dirò che i giovani fecero regalo a D. Bosco di un orologio da campanile, per cui al tuo ritorno sentirai le ore a battere, e così non ti occorrerà andare in cerca di chi ti dica l'ora. Siccome poi la spesa è grave, perciò i giovani non hanno ancora potuto coprire la cifra di totale saldo: fortunatamente che il venditore ci diede un anno di tempo a saldare. Ti dico questa cosa acciò se mai ti arriva d'imbatterti in qualche ammiratore delle virtù di D. Bosco e col quale tu sia in sufficiente confidenza, tu possa invitarlo ad aiutare i poveri giovani a fare l'ultimo sforzo. Questo sia detto fra noi per ridere.

                Al mattino vi furono le Comunioni di tutti i giovani; quindi D. Bosco fece dare il caffè e latte a tutti i giovani della casa e degli altri oratorii ed a tutti gli esteri che vennero alle funzioni; figurati che non bastarono due brente di latte, e senza la frutta, il salame ed il pane per gli esteri. Fuvvi poi messa parata cantata da D. Bosco. Quindi lauto pranzo (more pauperum) con musica, poesie e brindisi; dopo il pranzo vi furono molte pignatte rotte ed altri giuochi sino all'ora delle funzioni in cui celebrò di nuovo D. Bosco con piena orchestra, come al mattino così alla sera; dopo la benedizione confetti, frutta per merenda; fuochi, palloni volanti, razzi; una furia di poesie lette dagli alunni, regali diversi presentati dai giovani, in particolare dagli esteri, e dai signori della città: insomma, caro Severino, non ci mancavi che tu e poi ci sarebbe stato tutto. Dopo ciò alle undici di sera andammo a letto tutti contenti e tutti stanchi; massime D. Bosco che non ne poteva proprio più.

                Salto di volo a S. Luigi perchè altrimenti mi manca il tempo e forse la carta. A celebrare sontuosamente questa festa concorsero il Vicario Generale di Torino, che venne a dirci la Messa della Comunione generale e se ne fecero più di settecento; il Vicario [983] Capitolare di Asti che celebrò la messa solenne, diede la benedizione e fece il panegirico di S. Luigi; il Conte di Collegno che fu il Rettore della festa. Al mattino il Rettore fece dare la colazione a tutti quelli che vennero alla messa e non bastarono mille distribuzioni: poi fuvvi come a S. Giovanni pranzo un po' più copioso, con musica ecc.; alla sera una lotteria dove tutti guadagnarono qualche cosa; poi ci furono fuochi e palloni innumerevoli, e tanta abbondanza di Signori e parenti che quasi non si vedeva più la famiglia nostra. La festa durò fino alle ore dieci passate e dopo si andò a dire le orazioni che furono la chiusa della festa e della giornata. Anche qui mancava Severino; e gli amici tra loro più volte domandavano il compagno Rostagno. Il che vuol dire che le distanze non dividono, non separano gli amici nel Signore.

                Eccoti quel poco che posso dirti delle nostre feste, che se non presentano nulla di delizioso agli occhi del mondo, sono pure care e pregiate da chi conosce e nutre lo spirito di questa casa e la purezza d'intenzione nella santa allegria.

                Eccoti, soddisfatto con quel poco che può esserti grato sapere. Si parla e si prega sovente di te e per te, si spera presto di riaverti con noi: intanto non dimenticarti di noi innanzi al Signore e massime di me innanzi a Maria Refugio dei peccatori; e ti prego particolarmente di voler per me rivolgere quella Salve Regina che dirai dopo il Rosario.

                Il Signore ti assista e ti aiuti a portare la tua croce: Egli voglia alleviartela, e se volesse anche dividerla con me io ne sarei tanto contento; ma forse io non ne sono degno, e non la porterei con rassegnazione, ed il Signore per sua misericordia mi risparmia tante impazienze.

                I compagni e particolarmente i più buoni e quelli tuoi più stretti nel Signore, ti salutano tanto; D. Bosco e tutti i superiori parimenti ti augurano rassegnazione pel presente e confidenza nello avvenire. Ed io di cuore ti saluto e, pregandoti dei miei ossequi alla tua signora madre, mi dico in Gesù e Maria.

                I Luglio 1861.

Tuo aff.mo sincero amico

FEDERICO OREGLIA

 

Al Sig. Severino Rostagno - Pinerolo. [984]

 

                L'anno scolastico si avvicinava al suo termine ma non senza che ai due “M” malattie e moralità si aggiungesse un “R” cioè deplorevole rivalità, come D. Bosco aveva annunziato. Sotto la sua direzione ed amministrazione e quella de' suoi chierici, colla disciplina e metodo di educare usato nell'Oratorio, il piccolo Seminario di Giaveno aveva preso sì buon avviamento che nel corso del 1860 e 61 e pel numero degli alunni, e per la morale condotta da loro tenuta e per la felice riuscita negli esami egli ne riceveva notizie consolantissime.

                “Tra l'Oratorio e il Seminario di Giaveno, ci scrisse il Can. Anfossi, vi era un continuo andirivieni d'insegnanti e d'assistenti. Da noi Giaveno si considerava come una cosa sola coll'Oratorio. Io stesso vi fui parecchie volte per accompagnarvi dei giovani. Il Ch. Durando, mandato da D. Bosco vi si recava a dare gli esami semestrali e finali, e una volta fu incaricato, anche il Ch. Cerruti di tale incombenza!”

                D. Bosco, come superiore, e tale riconosciuto dalla Comunità, aveva fatte due visite ai giovani del piccolo Seminario, che poteva a buon diritto chiamare suoi figli per tante ragioni; e da essi ebbe le accoglienze che meritavasi un padre amantissimo. Furono quelli veri trionfi; e Don Bosco predicò, parlò alla sera dopo le orazioni, si fece l'esercizio della buona morte e tutti vollero confessarsi da lui, che avviava quell'Istituto all'educazione delle vocazioni. I giovani non si erano stancati dall'avvicinarlo per avere un buon consiglio.

                Ma tanto affetto e gli applausi degli alunni offesero la suscettibilità del nuovo Rettore e non tardò il suo animo ad essere travagliato da gelosia. Risolse adunque di sottrarsi dalla dipendenza dovuta all'autorità di D. Bosco e di farsi riconoscere come unico Superiore del piccolo  [985] Seminario. Quindi confidando in se stesso e nella durata della presente prosperità, volle trattare direttamente colla Curia Arcivescovile sapendo esservi chi lo avrebbe secondato ne' suoi disegni. Venuto pertanto a Torino, come per fare atto di ossequio alle autorità ecclesiastiche, a nome proprio e senza farne parola a D. Bosco, loro consegnò il registro delle condizioni per l'accettazione di ciascun allievo, quello del risultato degli esami, e lo stato finanziario delle riscossioni del primo trimestre. Essendo stato bene accolto, da chi non badò allo sfregio che recavasi a D. Bosco, egli a quando a quando ritornava in Torino per riportare quanto D. Bosco disponeva, operava o diceva. Gli faceva buon giuoco l'osservazione che il Seminario di Giaveno non doveva considerarsi come una dipendenza dell'Oratorio. Col dimostrare tanto zelo per gli interessi della Diocesi, intendeva raggiungere due scopi: togliersi quel pruno dagli occhi, che per lui era D Bosco; e ottenere col tempo in premio una buona parrocchia, pel regime della quale del resto aveva le doti necessarie.

                Ma a' suoi desideri di indipendenza poneva allora ostacolo l'impossibilità di trovare assistenti. Perciò non la ruppe apertamente col Superiore e trovò essere tattica avveduta prendere una via coperta, cioè sobillare i chierici di Don Bosco che aveva con sé, per indurli a disertare dalla famiglia dell'Oratorio. Chi egli sperava che avrebbe accondisceso, otteneva ogni specie di preferenza: chi invece dubitava o era certo che rimarrebbe fedele a D. Bosco aveva tutti i pesi, senza alcuna dimostrazione di affetto e di confidenza. Non manifestava però i motivi di questo sistema, ma que' modi erano tali che gli stessi alunni ed i servi si accorgevano della sua misteriosa condotta. Perciò il malumore e la diffidenza si era fatta strada nel Seminario. [986] D. Bosco conosceva tali disegni e maneggi, ma ciò che più dolevagli si era che a Giaveno più non secondavansi tutte le sue idee sul modo di educare que' giovanetti. Venuti a Torino per la festa di S. Giovanni Battista i chierici Vaschetti e Boggero, D. Bosco la sera precedente del loro ritorno al piccolo Seminario, in vista della condotta di quel Rettore, tenne con essi una lunga conferenza, discorrendo, sul modo di richiamarli all'Oratorio con qualche ragionevole pretesto. Concludeva: - Dal punto che D. Grassini non pensa più come D. Bosco, lascierò che egli col Provicario si cerchino gli assistenti.

                Il Ch. Vaschetti riferiva al Rettore ciò che D. Bosco avevagli detto e quegli si affrettava a recarsi nell'Oratorio per scongiurare il pericolo di rimaner solo alla direzione dei giovani. Portò sue difese, si scusò, parve deferente ai consigli che davagli D. Bosco, ma nello stesso giorno ebbe udienza dal Provicario, col quale si lamentò delle pretenzioni di D. Bosco nel volergli imporre un sistema di educazione, che secondo lui poteva recare gravi inconvenienti, e non era adattato ai tempi; osservò che tale sua ingerenza impedivagli il libero esercizio del proprio governo, e lo persuase ad impedire che Vaschetti e Boggero gli fossero tolti. Gli insinuò che la cosa più spiccia per assicurare l'assistenza era quella di obbligare quei chierici, i quali appartenevano alla Diocesi di Torino, a distaccarsi da D. Bosco e dalla Pia Società.

                Egli ritornava a Giaveno sicuro di aver riportato un successo diplomatico. L'aspettavano ansiosi di conoscere le decisioni prese sul loro conto, Vaschetti e Boggero, al quale il primo aveva detto: - Spero che le cose si aggiusteranno ancora senza che noi siamo richiamati all'Oratorio. Infatti il Rettore loro narrò di aver parlato molto con Don [987] Bosco. - E a nostro riguardo che cosa si conchiuse? - Domandò Vaschetti.

                - Ho parlato di voi e della Pia Società, della quale fate parte, col Can. Provicario. - Ma pronunciate appena alcune altre parole per metà, forse pentito d'aver già detto troppo, si tacque.

                - E D. Bosco, domandarono ancora i chierici, un altro anno ci somministrerà ancora gli assistenti?

                Il Rettore sorrise e non rispose.

                Il Ch. Boggero scriveva pertanto in data del 5 luglio una lettera al Cav. Oreglia di S. Stefano, nella quale esponeva diffusamente quanto noi abbiamo narrato. Egli era in preda a grande melanconia. “Pare che per me, ei dice, le cose non prendano troppo buona piega... Vi è una lega tra il Rettore e qualche assistente che io credo inseparabile; perciò eccomi solo, fuori di casa nostra, senza poter comunicare confidentemente con alcuno... Se io manifestassi qualche dubbio, o speranza, o altro che riguardi la nostra Pia Società ho dati abbastanza certi per dubitare con fondamento che il Rettore ne sia informato... Ecco in quali termini io mi trovo... Non so neppur più palesare anche il più piccolo mio bisogno in vista specialmente della condotta ambigua del Rettore”.

                E concludeva il suo foglio in questi termini:

                “Quanto ho scritto a lei l'avrei voluto scrivere a Don Bosco e quella sera stessa, che ritornò da Torino il Rettore, per chè egli mi disse di scrivergli appena avessi qualche cosa di nuovo; ma non osai perché, mi figuro, ne riceverebbe troppa pena. Ella però se giudica bene che D. Bosco sia di ciò informato, lo faccia consapevole di tutto. Lo preghi però che i passi che farà, li faccia misurati, affinchè io non venga in disgrazia dei rettori di questo Seminario: [988] temo che non debba partirmi di qui tanto presto, stantechè il Can. Vogliotti e il Rettore dissero che Vaschetti ed io per ora eravamo necessari...”.

                Il Cav. Oreglia consegnò questa lettera a D. Bosco, il quale non tardò a consolar Boggero con un biglietto di poche ma preziose parole: Somma prudenza congiunta con gran pazienza; rassegnazione ai voleri di Dio e confidenza in Lui.

                Intanto nulla appariva in faccia agli esterni di quella disgraziata rivalità e qualche chierico dell'Oratorio nell'agosto venne nel Seminario di Giaveno per ristabilirvisi in salute; ed alcun altro col Ch. Francesia vi passarono alcune settimane di vacanza come in casa propria. Ma il Rettore con ragioni e osservazioni indirette li tentava ad abbandonare D. Bosco per unirsi a lui, facendo loro sperare coll'appoggio della Curia, una sicura e lucrosa carriera in diocesi.

                Egli da parecchio tempo, non era più stato in Torino, quando D. Bosco recossi a visitare il Can. Vogliotti per trattare degli screzii incresciosi di Giaveno. Trovò il Provicario impressionato dalle suggestioni del Rettore e dalla notizia che D. Bosco pensasse di ritirare all'Oratorio Vaschetti e Boggero. Il Canonico infatti incominciò subito a dichiarare essergli questi due chierici necessarii pel buon andamento del piccolo Seminario. D. Bosco sempre cortese non lo contradisse, ma gli dimostrava come altri chierici avrebbero potuto sostituirli qualora si fosse creduto conveniente. Quindi si passò a varie osservazioni; e dalla lettera che qui riportiamo, s'intenderà quale fosse il tenore del colloquio.

 

                               Benemerito Sig. Rettore,

 

                Le mando nota di alcuni chierici allevati in questa casa e che Ella può scegliere in quel numero che giudicherà meglio per mandare a Giaveno. Non posso a meno di farle una umile osservazione [989] sulla ragione addottami ieri, perchè non vuole che dicasi essere una cosa sola l'Oratorio ed il Seminario di Giaveno, cioè si dicano Gesuiti le persone e Gesuitismo l'insegnamento. Non si lasci bendare gli occhi da questa frasca, perciocchè i buoni ed anche i malevoli sono convinti che tali parole suonano garanzia di moralità. Di fatti consideri ciò che era l'anno scorso il Seminario di Giaveno e ciò che è adesso. Tutti quelli che noi abbiamo inviato di qui si sono soltanto indotti ad andare colà, quando loro si disse essere una cosa sola tra qui e Giaveno.

                Ella potrebbe fare dimanda quali e quanti siano i giovani mandati dall'Oratorio o dalle persone di nostra confidenza e quali siano stati inviati da altri; e ciò la persuaderà che le mentovate parole non fanno tanta paura al mondo. Altra parola fu quella che i chierici di altre diocesi in massima si rimandassero ai loro vescovi, di preferenza. E questo è l'opposto di quanto fanno o cercano di fare gli altri Vescovi, i quali quando hanno qualche soggetto buono fanno quel che possono per conservarlo. Io ne ho prova di fatto: Francesia è di Ivrea, Cerruti di Vercelli, Durando di Mondovì, Provera di Casale e questi sono eccellenti maestri che non avrei e forse non farebbero il bene di qui, se fossero stati rinviati alle loro diocesi.

                Ella dirà che do lezione a Minerva.

                Non voglio fare tanto. Voglio soltanto dire quello che sembrami tornar a maggior gloria di Dio. Nemmeno si pensi ch'io ambisco di mischiarmi nelle cose di Giaveno; no, che ho da fare qui a Torino in tutti i sensi; desidero ardentemente che Ella si occupi, che continui l'avviamento sì bene iniziato a Giaveno.

                Del resto Ella sa che da venti anni io ho sempre lavorato e tuttora lavoro e spero di continuare la mia vita lavorando per la nostra Diocesi; ed ho sempre riconosciuto la voce di Dio in quella del Superiore ecclesiastico.

                Compatisca questa chiacchierata e gradisca che Le auguri ogni bene dal cielo, professandomi

                Di V. S. B.

                Torino, 3 settembre 1861.

Obbl.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco. [990]

 

                In quel frattempo D. Bosco era stato per gli esercizi spirituali sull'alpestre e solitaria vetta del Santuario di S. Ignazio. Aveva condotto con sè il Cav. Oreglia, il quale così scriveva il 18 luglio a D. Alasonatti.

                “D. Bosco mi dice che spera poterle scrivere domani. Intanto pare che l'aria lo sostenga e lo aiuti a riaversi ...... A tutti i nostri cari giovani mille e mille saluti da parte nostra, particolarmente da D. Bosco col quale ne parliamo ogni volta che ci troviamo insieme. Davvero che mi pare tanto tempo che non li abbia più veduti! Raccomandi loro di pregare per la sanità del nostro caro D. Bosco, per la mia conversione e per la maggior perfezione de' compagni, ma particolarmente ai nostri cari confratelli. Interpreto l'intenzione del Rev. D. Bosco in pregarla di tener indietro i più zelanti nel troppo studiare, e, mi permetta di aggiungere, anche i maestri dal troppo faticarsi, massime il Chierico Cerruti che, poveretto, temo tanto che venga ammalato .....

                Mi saluti particolarmente i miei cari ammalati che mi rincresce non aver potuto guarire ........

                La prego di umiliare i miei ossequi a' miei diretti e principali Superiori, D. Rua, D. Savio, D. Turchi, D. Rocchietti, mentre mi raccomando alle loro orazioni”.

                E D. Bosco a sua volta con una lettera rallegrava e ammoniva i suoi alunni di Torino.

 

                               Giovani miei e figliuoli carissimi,

 

                La grazia di nostro Signor Gesù Cristo sia sempre con noi.

                Sono pochi giorni che vivo separato da voi, o miei amati figliuoli, e mi sembra esser già scorsi più mesi. Voi siete veramente la mia delizia e la mia consolazione e mi mancano l'una e l'altra di queste due cose quando sono da voi lontano.

                D. Alasonatti mi ha partecipato che voi avete pregato per me e ve ne ringrazio; io pure ogni mattina nella santa Messa ho sempre [991] in modo particolare, raccomandate al Signore le anime vostre. Debbo però dirvi che la maggior parte del tempo l'ho passato, con voi, osservando in particolare ed in generale quanto andate facendo e pensando. Delle cose in particolare, che pur troppo ce ne sono delle gravi, parlerò poi a ciascuno, secondo il bisogno, appena sarò giunto a casa. Riguardo alle cose in generale ne sono assai contento ed avete molti motivi d'esserlo anche voi. Avvi però una cosa di grande importanza da rimediare, ed è il modo troppo accelerato con cui tra di voi si recitano le comuni preghiere. Se volete fare a me cosa gratissima e nel tempo stesse piacevole al Signore ed utile alle anime vostre, studiate di essere regolati nel pregare, distaccando una dall'altra le parole e pronunciando compiute le consonanti e le sillabe, che le parole compongono.

                Eccovi, giovani amati, la cosa che vi propongo e che ardentemente desidererei di vedere effettuata al mio arrivo a casa. Di qui a tre giorni sarò di nuovo in mezzo a voi e coll'aiuto del Signore spero di potervi raccontare molte cose che ho vedute, lette, udite.

                Il Signore Iddio doni a tutti voi sanità e grazia e ci aiuti a formar un cuor solo ed un'anima sola per amare e servire Iddio in tutti i giorni di nostra vita e così sia.

                Da S. Ignazio, 23 luglio 1861.

Aff.mo amico in G. C.

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Vorrei ancora scrivere una lettera a D. Turchi, a Rigamonti, a Perucatti Placido, a Bagnasacco, a Stassano e a Cuniolo; ma mi manca il tempo. Parlerò poi verbalmente.

                Al Sig. D. Alasonatti o al Sig. D. Rua affinchè la leggano ai giovani della casa radunati.

 

                “Ritornato da S. Ignazio, narra la cronaca di D. Ruffino., egli disse ai giovani che di là aveva visti tutti coloro tra gli alunni che non facevano per la casa.” Questa vista gli forniva i criteri per giudicare di taluni le cui apparenze [992] ingannavano la perspicacia de' Superiori e li restituiva risolutamente alle loro, famiglie, togliendo alla Comunità ogni pietra d'inciampo. “Punito che sia l'uomo di mal esempio, il semplice si farà più saggio; e se frequenterà l'uomo sapiente farà acquisto di scienza”. (Così i Proverbi al Capo XXI).

                Sul finir di luglio aveva luogo nell'Oratorio la distribuzione solenne dei premi alla quale, come più volte in altri anni, presiedeva il Professore Vallauri Tommaso. Da questi D. Bosco aveva ricevuto un grazioso biglietto.

 

                               Reverendo e Carissimo Signore,

 

                Siccome il primo premio è dovuto a V. S. C.ma, così mi valgo di questa opportunità per pregarla a voler gradire l'omaggio dì alcune mie povere scritture.

                Ali voglia bene e preghi per me.

                Di casa, il 30 luglio 1861.

Uni. Dev. aff. Servo

T. VALLAURI.

 

                Il risultato degli studi in quest'anno, per la carriera ecclesiastica, era stato felicissimo. I giovani che per l'età, la moralità ed istruzione, distinti per ingegno e pietà, si giudicarono degni di vestire l'abito clericale furono trentaquattro.

 

 

CAPO LXXIII. Letture Cattoliche - UNA FAMIGLIA DI MARTIRI - CENNO BIOGRAFICO SUL GIOVANETTO MAGONE MICHELE: articolo dell'Armonia - IL PONTIFICATO DI S. DIONIGI - Ristampa della biografia di Savio Domenico; giudizi dell'Armonia - Pregi degli scritti di D. Bosco - Cronaca: predizione al ch. Ruffino - Ricordo de’ Principii dell'Oratorio - Non conservar rancori - Star lontano da certi critici e non lasciarsi intimidire dai loro motteggi - D. Bosco va a Montemagno: in Asti confessa nella stazione e in una locanda - Consigli ad un nobile giovanetto perchè si apparecchi alla prima Comunione - Conferenza: sul parlare di politica: guardarsi dal rispetto umano nell'esercizio dei doveri di pietà: procurare che ove è un socio della Congregazione tutto proceda bene - D. Bosco rimprovera chi abusava, giuocando, delle frasi scritturali - Prende le difese dei Canonici vilipesi e di un Vescovo - Sua avversione alla maldicenza e come cercasse impedirla - Con quale carità parlasse del prossimo - È interrogato sulla predizione di una morte che non parea avverata: sua risposta - Malattie nell’Oratorio - Lettera di Mons. Fransoni a D. Bosco per le vestizioni clericali - D. Bosco si reca a Vercelli - In viaggio difende i suoi chierici dall'accusa che non [994] imparassero la teologia - Suo discorso inaugurale dopo la consacrazione della Basilica a S. Maria Maggiore - Due altre sue prediche improvvisale.

 

                Gli alunni dell'Oratorio abbonati alle Letture Cattoliche ritornavano alle proprie case coll'opuscolo di agosto stampato da Paravia: Una famiglia di Martiri; ossia Vita dei santi martiri, Mario, Marta, Audiface ed Abaco e loro martirio, con appendice sul Santuario ad essi dedicato presso Caselette per cura del Sacerdote Bosco Giovanni. Ei narra del culto prestato a questi martiri, delle loro preziose reliquie e dei portenti operati dalla loro intercessione.

                Pel settembre chi era in ferie ricevea un altro fascicolo scritto con grande amore: - Cenno biografico Sul giovanetto Magone Michele allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales per cura del Sacerdote Bosco Giovanni.

                A' suoi alunni era indirizzata la prefazione.

 

                               Giovani carissimi,

 

                Tra quelli di voi, giovani carissimi, che ansiosi aspettavano la pubblicazione della vita di Savio Domenico, eravi il giovanetto Magone Michele. Esso in modo industrioso ora dall'uno ora dall'altro raccoglieva i tratti speciali delle azioni, che di quel modello di vita cristiana si raccontavano, adoperandosi poi con tutte le sue forze per imitarlo; ma ardentemente desiderava che gli si porgessero insieme raccolte le virtù di colui, che egli voleva proporsi a maestro. Se non che appena poteva leggerne alcune pagine, che il Signore ponendo fine alla sua vita mortale, chiamavalo, come fondatamente si spera, a godere la pace de' giusti in compagnia dell'amico di cui intendeva farsi imitatore.

                La vita singolare o meglio romantica di questo vostro compagno eccitò in voi il pio desiderio di vederla eziandio stampata; [995] e me ne faceste ripetutamente dimanda. Laonde mosso da queste domande e dall'affetto che nutriva verso quel nostro comune amico, mosso anche dal pensiero che questo tenue lavoro sarebbe tornato dilettevole e nel tempo stesso utile alle anime vostre, mi sono determinato di appagarvi, raccogliendo quanto di lui avvenne sotto ai nostri occhi per darvelo stampato in un libretto.

                Nella vita di Savio Domenico voi osservate la virtù nata con lui, e coltivata fino all'eroismo in tutto il corso della vita sua mortale.

                In questa di Magone noi abbiamo un giovanetto che abbandonato a sè stesso era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male; ma che il Signore invitò a seguirlo. Ascoltò egli l'amorosa chiamata e, costantemente corrispondendo alla grazia divina, giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi.

                Voi troverete qui parecchie azioni da ammirare, molte da imitare, anzi incontrerete certi tratti di virtù, certi detti che sembrano anche superiori all'età di quattordici anni. Ma appunto perchè sono cose non comuni mi parvero degne di essere scritte. Ogni lettore per altro è sicuro della verità dei fatti; imperciocchè io non feci altro che disporre e collegare in forma storica quanto è avvenuto sotto agli occhi di una moltitudine di viventi, che ad ogni momento possono essere interrogati su quanto viene ivi esposto.

 

                L'Armonia del venerdì 15 novembre elogiava questa biografia:

 

                È un libretto di pressochè cento pagine, scritto da quell'ottimo sacerdote che è il Sig. D. Bosco. Certo il solo nome del Fautore dice da sè quanto dilettevole e proficuo, specialmente [996] alla gioventù, debba tornare questo breve scritto. Il modo facile e naturale, con cui egli narra le belle azioni che resero ammirabile il giovanetto Magone, allievo dell'Oratorio di San Francesco di Sales, non potrà a meno di fare una dolce violenza a chi legge per invaghirlo della virtù e mettergli in disamore tutte le frivolezze della terra. Noi abbiamo già più volte raccomandate queste care Letture, e ben ci gode l'animo in vederle diffondersi ognor più per cura di tante buone persone, che cercano di contrapporre buoni scritti ai tanti libercoli cattivi da cui siamo inondati.

 

                Pel ritorno degli alunni dalle vacanze il solito tipografo Paravia faceva imprimere l'Opuscolo delle Letture Cattoliche per il mese di ottobre. Il Pontificato di S. Dionigi con appendice sopra S. Gregorio Taumaturgo per cura del Sacerdote Bosco Giovanni (L). Si espongono anche le glorie di martiri di que' tempi, e i tremendi prolungati castighi di Dio contro gli idolatri.

                Nello stesso tempo si ristampava la Biografia di Savio Domenico e nell'Armonia del 2 agosto si legge:

 

                Questo caro libriccino che uscì per la prima volta tra i fascicoli delle non mai abbastanza lodate Letture Cattoliche di Torino, ha già avuto l'onore di tre edizioni. Nell'ultima però che è appunto quella di che ora parliamo, l'egregio autore, sig. D. Bosco, vi aggiunse una sì bella appendice contenente il racconto di molte grazie ottenute da Dio ad intercessione del giovanetto, di cui descrive la vita, che, ne siamo certi, non tornerà men cara di tutto il resto ai cattolici e pii lettori. Noi non ispenderemo molte parole per raccomandare questa pregevolissima operetta.

                Basti il dire che essa è usata da gran tempo come testo di lingua in molte scuole della Toscana, e che persone dottissime e ragguardevoli per ogni verso hanno dichiarato di non aver mai potuto pigliare in mano questo libro senza divorarlo, con sommo loro diletto e vantaggio spirituale, da cima a fondo. Non basta sapere scrivere; bisogna anche sapere farsi leggere. Or bene [997] questo segreto così raro, noi siamo lieti di poter dirlo, se il Sig. D. Bosco lo possiede in tutti i suoi scritti, lo possiede poi in sommo grado nel presente libretto, che egli per la terza volta pubblica colle stampe, e che noi con tutto piacere annunziamo.

 

                Non si può immaginare l'entusiasmo col quale erano ricevuti e letti questi libri. Se ne stamparono centinaia di migliaia di copie. In Toscana massimamente le prime opere di D. Bosco erano studiate come se fossero libri di testo. Il professore Pera, Ispettore delle scuole in quelle provincie e specialmente nella città di Pisa e di Livorno, venuto nell'Oratorio a far visita a D, Bosco, dicevagli: - Per fare apprendere ai nostri giovani bene e pulitamente la lingua italiana, io mi servo delle sue operette, come a dire, Savio Domenico, Comollo Luigi, e Magone Michele. Nelle scuole soglio dire agli allievi: - Qui in questi libretti di D. Bosco potete imparare un poco di schietto e semplice italiano. Che importa a me che voi studiate libri classici i quali abbiano parole peregrine, periodi altisonanti, frasi intricate, costruzioni difficili, se per intendere è necessario avere sempre il vocabolario alla mano? Ciò andrà bene per coloro che della lingua vogliono fare uno studio speciale, ma per coloro che a questo studio non attendono è cosa più spiccia imparare un modo semplice di scrivere, per servirsene negli usi comuni della vita.

                Ed ora ritorniamo alla cronaca scritta da Ruffino Domenico: “4 agosto. - D. Bosco per pagarmi la festa del mio giorno onomastico mi disse: - Prima che siano compiti dodici mesi vedrai cosa che ti consolerà molto: un altra che ti addolorerà molto: una terza che ti tribolerà molto”. - Ruffino era del paese di Giaveno e fu consolato dalla crescente prosperità di quel piccolo seminario: fu addolorato, come vedremo, dall'essere stato costretto Don [998] Bosco a ritirarsi coi suoi chierici dalla direzione di quello; fu tribolato da una malattia che si temette assai lo portasse alla tomba.

                “Alcune sere dopo D. Bosco stava in refettorio circondato da un bel numero di giovanetti che non erano andati in vacanza. Con essi trovavasi qualche chierico del quale non era intieramente soddisfatto. Parlò lungamente dei principii dell'Oratorio, fece ridere con varii fatterelli che raccontò, poi ad un tratto divenuto serio esclamò: - Oh! se alcuni che non si regolano abbastanza bene, si ricordassero sempre dei primi tempi dell'Oratorio, si renderebbero certamente degni dei doni singolarissimi che il Signore ci ha fatti!

                Li esortava eziandio a non secondare l'amor proprio quando venisse offeso, a non conservare rancori, a soffocare le gelosie, a non adombrarsi per la preminenza di altri in qualche ufficio. D. Bosco sapeva per esperienza il danno che recano alle comunità, ed alle anime certe dissensioni”.

                Il Ch. Albera Paolo tempo dopo, accompagnava una sera in camera D. Bosco, il quale ritornava dalla città.

                Mentre lo aiutava a deporre cappello e mantellina, Don Bosco gli disse: -Tu sei giovane, ma ne vedrai delle belle. Due sono insieme nella stessa chiesa a fare la meditazione; due sono in coro uno a fianco dell'altro che cantano il breviario; due sono vicini inginocchiati alla stessa balaustra per fare la Santa Comunione: e nello stesso tempo si aborriscono, e non possono soffrirsi a vicenda. E sanno conciliare una cosa coll'altra: odio, maldicenza, comunione e preghiera.

                Altra volta disse ai chierici presente Reano Giuseppe: - Si deve temere e fuggire la compagnia di quelle persone che essere manifestamente rilassate nella condotta morale, censurano tutto ciò che fa tendere a maggior presenza [999] fezione nella pratica dei regolamenti e nelle opere di pietà; e che nemmeno risparmiano l'autorità, gli ordini ed ammonimenti dei Superiori. - E poi soggiunse: - che, tenuto conto dell'umana miseria, un buon chierico facendo il suo dovere, deve aspettarsi di essere contradetto dai cattivi, ma deve anche rendersi superiore ai loro motteggi e compatire.

                Nel mese di agosto D. Bosco recavasi a Montemagno per celebrare la solennità di Maria Assunta in cielo e nello stesso tempo per accondiscendere all'invito cordialissimo del Marchese Fassati, che ivi abitava nel suo magnifico castello. La Marchesa si chiamava Maria Assunta ed era per D. Bosco un dovere di riconoscenza, recarle in persona i suoi augurii. Anche i figli della Marchesa, Emanuele ed Azelia avevano per lui un grandissimo affetto e lo aspettavano con vivo desiderio.

                Egli partì il giorno 14 col treno che giungeva in Asti alle due e mezzo pomeridiane e di qui a Montemagno lo avrebbe trasportato l'omnibus.

                Nel treno aveva preso a chiacchierare con un negoziante che gli sedeva al fianco, e da cose di poco conto si passò a dire prima dei giornali buoni e de' vantaggi che arrecano e poi de' giornali cattivi e degli immensi danni che questi cagionano alla fede e alla morale delle popolazioni. Don Bosco non tardò a cattivarsi la benevolenza di quel signore, che ad un tratto lo interruppe dicendo: - Questo discorso fa tutto per me.... e avrei bisogno di confessarmi.

                - Ebbene venga a Torino all'Oratorio ed io l'accoglierò come un amico. - È cosa un po' difficile. Ora vado a Genova….ho pure affari in altre città chi sa quando potrò essere di ritorno. [1000]

                - E senza mandar la cosa tanto per le lunghe non potremmo concludere tutto adesso? - esclamò D. Bosco. Trasse quindi fuori l'orologio, esaminò l'ora dell'arrivo del treno in Asti, e quella della partenza coll'omnibus; e continuò:

                - Ho venti minuti di tempo da impiegare per lei nella sua confessione.

                - E se poi lei perdesse la corsa? - gli chiese il negoziante.

                - Non stia in pena per me: prenderò un altro passaggio.

                - Sta bene; andiamo! - esclamò risoluto quel signore.

                In quell'istante il treno giungeva in Asti. D. Bosco scendendo fu salutato dal Capo Stazione che era suo conoscente, al quale chiese di potersi ritirare in una stanza che fosse libera, per trattare senza testimoni di alcuni affari con un amico. Il Capo Stazione accondiscese ben volentieri e li introdusse in una stanza ove rimasero soli. D. Bosco ed il negoziante prima parlarono di varie questioni preliminari ed accessorie; e quindi si cominciò la confessione. Ma il colloquio non procedette così spiccio come si sperava; ci volle alquanto più tempo di quello che fosse preveduto, e quando D. Bosco si recò all'ufficio delle vetture il legno già era partito. Siccome in quella stessa sera avrebbe egli dovuto trovarsi a Montemagno, chiese al padrone degli omnibus, se fosse stato possibile attaccare per lui qualche altra carrozza. Gli fu risposto che sì, ma non prima di un paio d'ore d'aspettazione. Mentre si facevano quelle trattative, nella sala si trovava un giovanotto di viso aperto e benevolo, il quale fu presto raggiunto da sette de' suoi amici. Costoro, che pareva non fossero avversi alla religione, osservavano il prete, che stava come persona cui pesasse quel contrattempo e, fattisi avanti, gli dissero cortesemente: [1001]

                - Bisogna rassegnarsi, reverendo: abbia pazienza!

                - Non se ne può fare a meno; lo so; ma almeno avessi qualche cosa da fare qui.

                - Ci sono mille modi di passare il tempo: legga un libro; - disse uno.

                E un altro: - Vada a fare qualche visita.

                E un terzo: - Facciamo conversazione.

                Un quarto: - Improvvisi una predica.

                D. Bosco: - E dove vogliono che io faccia la predica? Qui all'ufficio degli omnibus? Per non perdere il mio tempo saprei ben io cosa fare, ma .......

                - Che cosa vorrebbe fare?

                - Mettermi in confessionale.

                - E chi vuol confessare? gli domandarono.

                - Per non lasciarmi ozioso vengano loro a confessarsi!

                Qui fu uno scroscio di risa generale.

                - Ne abbiamo di bisogno sa! Esclamarono tutti; all'anima si pensa poco: si parla sempre di cose di mondo, e di altre che qui non convien dire: si tira avanti sbadatamente ........

                - Dunque adesso è tempo di pensare all'anima continuò D. Bosco con modo scherzevole: e se vogliono confessarsi io sono pronto. Ciò detto fissò in loro uno sguardo più eloquente delle parole.

                - E perchè no? Sì! se lei vuole?! risposero, prima uno e poi l'altro.

                - Ma lor signori hanno forse voglia di burlarsi di me! proseguì ancora Don Bosco colle sue maniere cattivanti.

                - S'immagini se vogliamo burlarlo!

                - Dunque abbiano buon volere di romperla col demonio e lascino del restante la cura a me; e vedranno che saran contenti. [1002]

                - E dove vorrà confessarci? -  Mi seguano e vedranno.

                D. Bosco salito nell'albergo attiguo, a quell'ora deserto, chiese licenza alla locandiera di occupare una stanza, e ottenutala v'introdusse que' giovanotti. Disposti i loro animi con brevi riflessioni li confessò tutti, rimandandoli consolati e contenti.

                Come ebbe finito trovò pronta la carrozza e arrivato a Montemagno ebbe la fortuna di incontrarsi per la prima volta colla Contessa Carlotta Callori, che da quel punto fu una delle prime benefattrici delle opere Salsiane.

                Dopo qualche settimana egli per mano della Marchesa venuta a Torino mandava al giovanetto Emanuele, che aveva riposta in lui piena confidenza, una preziosa lettera.

 

                               Caro Emanuele,

 

                Mentre tu godi la campagna col buono Stanislao, (Medolago) io vengo in compagnia di Maman a farti una visita con questo biglietto che sono in dovere di scriverti.

                Mio scopo si è di farti un bel progetto. Ascolta dunque. L'età, lo studio che percorri sembrano sufficienti per essere ammesso alla Santa Comunione. Io adunque vorrei che la prima Pasqua fosse per te quel gran giorno della santa tua prima Comunione. Che ne dici, caro Emanuele? Prova a parlarne coi tuoi genitori e sentirai il loro parere.

                Ma io vorrei che cominciassi fin d'ora a prepararti e perciò essere in modo particolare esemplare nel praticare:

                1° Ubbidienza esatta ai tuoi genitori e ad altri tuoi Superiori senza mai fare opposizione a qualsiasi comando.

                2° Puntualità nell'adempimento dei tuoi doveri specialmente di quelli di scuola senza mai farti sgridare per adempirli.

                3° Fare grande stima di tutte le cose di divozione. Perciò far bene il segno della santa croce, pregare ginocchioni con atteggiamento composto; assistere con esemplarità alle cose di chiesa. [1003] Avrei molto piacere che mi facessi una risposta intorno alla proposta che ti ho fatto.

                Ti prego di salutare Azelia e Stanislao da parte mia. State tutti allegri; il Signore Iddio vi benedica tutti; pregate per me; tu specialmente, o caro Emanuele, fammi onore colla tua buona condotta e credimi sempre tuo

                Torino, 8 settembre 1861.

Aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                In questi mesi sembra che nuovi pericoli sovrastassero all'Oratorio. Infatti il 4 settembre Don Bosco convocò i membri della Società di S. Francesco di Sales e fece un breve ma efficace discorso raccomandando lo star bene sull'avviso in cose di politica. D. Savio Angelo così ne scriveva a Don Durando che era fuori di Torino.

 

                               Amico e fratello in Gesù Cristo,

 

                Qui stiamo tutti bene ed allegri, secondo è nostro costume. Da due giorni io andava cercando occasione per iscriverti, ed ora non solo venne l'opportunità, ma sono espressamente incaricato dal sig. D. Bosco di farti sapere quanto si disse ieri sera nella conferenza di tutti i confratelli della Società di S. Francesco di Sales.

                D. Bosco disse, che i tempi si fanno grossi e che perciò usassimo gran prudenza nel parlare di politica; non mai lasciarci sfuggire espressioni contrarie al Governo, poichè di nessuno ci possiamo fidare. Esservi degli incaricati per raccogliere detti e fatti su tale materia, e per farne consapevole chi di ragione. Sono pericolosi i discorsi contro la repressione della reazione e contro l'andata dei nostri a Roma. Interrogati star sempre sulle generali. In caso che fossimo costretti a rispondere, dire:

                - Rincresce che si debba spargere tanto sangue; vorrei che presto ritornasse la pace; desidero che il Papa sia tranquillo; e altre simili espressioni. [1004] Raccomandò anche di non aver paura quando si tratta di esercitare i doveri di religione o le nostre pratiche di pietà: non omettere le preghiere stabilite e la meditazione, guardarci bene dal rispetto umano. Dover noi sempre e allo stesso modo, e in qualunque luogo ci troveremo frequentare i SS. Sacramenti; procurare di insinuar negli altri il distacco dalle cose di questa terra.

                Disse poi, per ciò che spetta a ciascuno dei soci che sono nell'Oratorio, doversi portare le cose al punto che in qualunque posto o angolo della casa uno di essi si troverà, si possa essere sicuri che tutto procede bene; e non esservi pericolo di male; sia col mettere gli altri in guardia colla nostra presenza, sia coll'impedirlo qualora si tentasse commettere disordini. Esigere egli ancora che si manifestino a lui o a chi lo rappresenta gli alunni che si giudicano non far per la casa in quanto a moralità, ed a religione specialmente.

                Raccomandò in fine caldamente che noi considerassimo la Società nostra come una catena, di cui ciascun membro è un anello che deve essere unito agli altri coi vincoli della carità, della preghiera, e dello spirito della Società medesima.

                Quanto ho scritto fin qui è ex officio.

                Soggiungo che le stampe del tuo Donato quando saranno giunte guarderemo di fartele avere.

                Torino, 5 settembre 1861

Tuo aff.mo

D. SAVIO ANGELO.

 

                Da un riserbo prudente delle parole in fatto di politica, D. Bosco passava a raccomandare che in altre circostanze ciascuno sapesse governarsi nel dare certi giudizi e criteri sia sulle cose, sia sulle persone. Beatus qui lingua sua non est lapsus. (Ecclesiastico XXV, II). Invitato, sedeva a mensa con molti sacerdoti. Fra questi eravi un commensale, molto faceto, che sapeva eseguire un gran numero di giuochi varii e belli per destrezza di mano. Prendeva una canna, la metteva sul pollice e la faceva andare e venire in modo [1005] che quella emetteva un suono quasi di piccola tromba. Tutti erano meravigliati, perchè nello stesso tempo egli cantava e alcune note della canna armonizzavano colle note della voce. Ma lasciò ben presto le canzoni semplicemente giocose e incominciò le lezioni di Giobbe come sono nell'ufficio dei defunti, e quello che è peggio, parodiavane le parole. D. Bosco che aveva riso molto piacevolmente nel vedere i giuochi, cessò allora di ridere e prese un contegno serio. I convitati continuavano a ridere e a far plauso al giocoliere, quando uno di quelli accortosi del sembiante severo di D. Bosco, lo interrogò: - A D. Bosco non piacciono questi giuochi?

                Essendosi tutti rivolti a lui egli rispose: - Mi dicano un poco: se qui con noi si trovasse S. Francesco di Sales, che cosa direbbe mai nel sentire profanare in tal modo le parole della Sacra Scrittura? Egli che rimproverò il suo medico che usava impropriamente, ma tuttavia non in modo sconvenevole alcune parole scritturali?...

                Don Rua Michele narra: - Trovandomi io con Don Bosco e il Ch. Anfossi a pranzo col parroco della Crocetta sobborgo di Torino, ove erano eziandio molti altri convitati, uno di costoro prese a parlar male dei Canonici del Duomo e del Vicario generale, dicendo, fra le altre cose, che andavano in coro solamente per i frutti del benefizio e per le distribuzioni. D. Bosco lasciollo dire alquanto e poi rivoltosi a lui, così lo riprese: - Ma non sa che lei è molto cattivo? Sarebbe lei capace, ma con vere prove, di indicarmi un solo dei canonici che abbia quella intenzione che lei dice? E posto che ci fosse uno, due, e anche più che avessero quel fine, crede lei che con questo non possano averne altro degno di maggior lode? Non sa quel che dice S. Fracesco di Sales? che se un'azione del nostro prossimo [1006] ha cento aspetti, novantanove cattivi e un solo buono, dobbiamo giudicarla buona da quel solo aspetto buono?

                “Un giorno, testificò D. Dalmazzo Francesco, D. Bosco trovavasi in una famiglia che sparlava di Mons. Ghilardi vescovo di Mondovì. Ed egli, senza entrare in questioni, ne prese la difesa, raccontando varii suoi fatti degni di lode, che dimostravano la sua grande virtù e carità. A quelle parole nessuno osò più fare osservazioni in contrario.

                E teneva sempre questa regola quando aveva in casa o a mensa de' forestieri, i quali si permettevano giudizi sfavorevoli sulle autorità ecclesiastiche o su altre persone. Egli sapeva opportunamente far notare qualche bella qualità di coloro sui quali cadeva la maldicenza e se gli altri persistevano nell'argomento, allora egli diceva: - Del prossimo o parlarne bene o tacerne affatto.

                Se la mormorazione veniva da persone a lui superiori, o sopra cui non avesse autorità, egli in bel modo la interrompeva facendo cadere il discorso sopra altro soggetto; e quando non gli riusciva, prendeva altresì coraggiosamente la difesa di coloro contro cui si mormorava; e faceva notare l'ingiustizia di sparlare di chi, essendo assente, non poteva esporre le sue ragioni e difendersi.

                Egli parlava sovente contro la mormorazione, affermando esser questa uno dei più grandi nemici della casa, e a quando a quando dava per fioretto ai giovani di fuggirla. La maldicenza era una delle cose che maggiormente gli davano pena e sapendo o vedendo dimenticate le sue proibizioni da qualcuno de' suoi alunni, rampognavalo anche severamente. E poi non lasciavasi mai trasportare a parole o a fatti che potessero ledere altrui nella fama; anzi compiacevasi di segnalare i veri meriti di chicchessia tutte le voltechè ne aveva occasione, e ciò faceva a voce o per iscritto. Tale [1007] giustizia imponeva pure a suoi pensieri, non facendosi lecito di giudicare sinistramente del prossimo, se non quando i fatti erano evidentemente cattivi e notorii. Ed allora attribuiva il fallo ad ignoranza, a debolezza umana, a consiglieri imprudenti, più che a malvagità di animo: ed intanto ricordava a se stesso ed agli altri il detto di S. Paolo: - Qui stat videal ne cadat!”

                Riferisce la cronaca di D. Ruffino “10 settembre: Domandai a D. Bosco: - Di grazia io notai che il giorno 3 di giugno V. S., annunziando l'esercizio della buona morte, ci esortava a farlo bene, dicendo che ci era uno fra noi il quale non l'avrebbe più fatto.

                D. Bosco mi rispose: - Fra poco potrò dirti chi fosse quel tale. Egli era in casa quando dissi ciò che or tu rammenti, ma non fece nemmanco allora l'esercizio della buona morte. Dirotti di più che io vidi in sogno i giovani dell'oratorio che facevano il loro esercizio; mancavano però alcuni e fra questi vi era il sopradetto. Io vidi costui fuori della chiesa, in atto di cucire un lenzuolo e gli domandai: - Che cosa stai facendo ?

                - Mi cucisco il lenzuolo, mi rispose, per ripormi dentro.

                - Ma gli altri vanno in chiesa per farvi l'esercizio della buona morte!

                - Oh io non ci vado più.”

                Costui era adunque uscito dall'Oratorio e D. Bosco non ne aveva più saputo novella. Ma queste interrogazioni e altre, come vedremo, ci fanno intendere che egli non poteva azzardarsi a dare tali annunzi, se non era persuaso della verità, essendo alla presenza di centinaia di testimoni, che nulla dimenticavano.

                Ma nel mese di settembre continuava ad avverarsi la previsione delle malattie. “Pelissone Luigi, così D. Ruffino, [1008] è gravemente ammalato e in guisa che si dubita moltissimo della sua vita. Già gli venne amministrato l'Olio santo”. Tuttavia questo giovane guarì.

                D. Bosco intanto aveva attesa invano la risposta ad una sua lettera scritta all'Arcivescovo di Torino. Gli aveva chiesta la facoltà di presentare all'esame per la vestizione clericale, un certo numero de' suoi giovani, prima del tempo fissato per tutti gli aspiranti della diocesi allo stato Ecclesiastico. Ciò forse per non essere costretto a richiamare gli alunni dalle vacanze con non lieve spesa. Erasi anche a lui raccomandato per qualche sussidio.

                Gli  fu recapitata finalmente la lettera di Mons. Fransoni, mentre egli era a Vercelli.

 

                               Carissimo D. Bosco,

 

                Soltanto ieri in un plico, che da Torino mi è giunto per occasione particolare, ho ricevuto il suo foglio del 22 luglio. Per conseguenza per la domanda dell'esame privato è finita, giacchè osservo nel calendario, che era fissato pel 19 d'agosto. Non gliene faccia però rincrescimento, perchè non avrei creduto poterla contentare, mentre anche quelli della piccola Casa prendono l'esame generale, e se aprissi la via dei privati, non si quieterebbe più.

                Per la seconda domanda Ella non ignora, che tutto il reddito Arcivescovile mi è stato tolto, e per conseguenza non posso fare grandi cose. Tuttavia siccome non ispererci, che la mia benedizione facesse andate innanzi la fabbrica, vada dal banchiere Piaggio, sotto il Can. Fantolini, che è già avvertito di darle ciò che posso.

                Preghi e faccia pregare per me, che coi sensi della più perfetta stima mi ripeto

                Lione, 15 settembre 1861

Suo devotis. ed affezion. Servo

LUIGI Arciv. di Torino. [1009]

 

                A Vercelli si doveva consecrare e dedicare la basilica parrocchiale intitolata a Santa Maria Maggiore. I parrocchiani animati con apposito discorso dal loro parroco il Vicario D. Giovanni Momo; a contribuire in offerte alla ristorazione ed all'abbellimento di quel tempio, con unanime generosità avevano risposto all'appello. Sotto la direzione del Conte Edoardo Mella, distinto nelle scienze e nelle arti erano stati incominciati i lavori nella metà di aprile ed avevano avuto termine colla metà di settembre. La nuova Basilica prendeva nome dall'Antica, celebre per i sacri suoi fasti non meno che per vetustà pagana. Monsignor Antonio Gianotti, già Arcivescovo di Sassari ed ora

                Vescovo di Saluzzo, doveva consacrarla.

                Nelle note ad un cantico, stampato dal Prof. Chionetti Giov. Battista e dedicato in argomento di stima e di gratitudine, dai parrocchiani a S. Eccellenza l'Arcivescovo Monsignor Alessandro d'Angennes, si legge il seguente annunzio.

                “15 settembre 1861 giorno della consecrazione e dedicazione della Chiesa.

                Nelle ore pomeridiane di questo stesso giorno avranno luogo solenni vespri, musicati ed accompagnati coll'organo dal rinomato maestro Felice Frasi a' quali assisteranno Sua Eccellenza l'Arcivescovo della Diocesi ed il Vescovo consecrante. Dirà l'orazione inaugurale il dotto e caritatevole Don Giovanni Bosco così benemerito della Società e della Religione”.

                D. Bosco adunque invitato dal Vicario D. Giovanni Momo, preparata e dettata a D. Rua l'orazione che voleva esporre, partì per Vercelli il giorno 14 del mese.

                Ma come abbiamo già visto, e come vedremo, era inevitabile che in ogni suo viaggio, dovesse dimostrare la mitezza dell'animo suo. Nella vettura in cui si trovava vi [1010] erano pure due preti che conversavano fra di loro, mentre D. Bosco scriveva la vita di un Papa.

                Quei due preti parlavano del Seminario, dell'istruzione ecclesiastica; e poi il discorso cadde sull'Oratorio di Torino. Dicevano che i chierici dell'Oratorio non potevano studiare teologia perchè occupati sempre ad assistere i giovani e che di là non potevano uscire che preti di poco conto. Rivolta poi la parola a D. Bosco, che non conoscevano, gli domandarono: - Non è vero che è così?

                D. Bosco rispose che gli pareva il contrario e disse: - Ma conoscete voi D. Bosco e siete già stati a vedere la sua casa? I suoi chierici studiano e se volete saperlo andate a chiedere i loro voti in Seminario. - Il treno in quel momento si fermò a Vercelli. Alla stazione vi era gente che aspettava l'Arcivescovo, altri che aspettavano D. Bosco. Appena D. Bosco si fece vedere allo sportello si sentì a chiamare: - D. Bosco, D. Bosco! - Quei preti restarono mortificati e confusi; gli fecero un inchino e continuarono il loro viaggio. D. Bosco li scusò dicendo che erano male informati. In seguito essi vennero all'Oratorio a fare le loro scuse ed a raccomandare giovani.

                D. Bosco adunque il giorno 15 settembre predicò a Vercelli le glorie di Maria, testificate da quella Basilica è piacque tanto sia all'immenso uditorio e sia ai due Prelati, che l'Arcivescovo d'Angennes, lo fece predicare nei due giorni seguenti imponendogli che non durasse pena nella ricerca degli argomenti, perchè eglino stessi, i Vescovi, a tempo debito glieli avrebbero suggeriti. Infatti così fecero, aspettando che fosse prossima l'ora di salire in pulpito. L'argomento della prima predica lo diede Monsignore di Saluzzo; l'argomento della seconda Mons. Arcivescovo, sul rispetto alla chiesa come luogo sacro.

 

 

CAPO LXXIV. La passeggiata autunnale. - A Chieri: ospiti generosi - A Buttigliera - Ai Becchi: solennità del Santo Rosario - A Castelnuovo: feste del Vicario e della popolazione a D. Bosco - Fermata a Mondonio e a Piea Arrivo trionfale a Villa S. Secondo: festa votiva in onore della Madonna e cortesie degli abitanti - A Cossombrato: fanciullo invitato a darsi agli studii - Una bella serata ad Alfiano - D. Bosco e le sue continue corrispondenze per lettera e correzioni de' suoi opuscoli Presso Castelletto de' Merli e Ponzano - Al Santuario di crea: i giovani bisognosi di ristoro: carità de' Minori Osservanti - Marcia a Casale: accoglienze del Vescovo: funzioni in chiesa e trattenimenti drammatici in Seminario - A S. Germano ed Occimiano - Arrivo a Mirabello - Funzioni religiose in piazza e teatri in chiesa - Scena buffa col sagrestano - Esercizio di buona morte nella chiesa de' Cappuccini - A Lui: esclamazione di una buona vecchia e accettazione di un giovane per l'Oratorio - A Mirabello D. Bosco risolve che si dia principio alla costruzione di un Collegio - Il parroco invita a pranzo tutta la comitiva - Partenza da Mirabello: fermate a S. Salvatore, alla Madonna del Pozzo e alla villeggiatura del Conte Groppello - Arrivo a [1012] Valenza presso il senatore De Cardenas - In ferrovia da Valenza ad Alessandria - Una notte a Villafranca Arrivo a Torino - Letture Cattoliche.

 

                Si era sul principio del mese di ottobre. Gli alunni dell'Oratorio meritevoli di premio erano pieni d'entusiasmo, avendo loro annunziato D. Bosco, molto tempo prima, che in quest'anno si sarebbe fatto una di quelle passeggiate, che avrebbero lasciato profondo solco nella loro memoria. Nulla però aveva voluto dire di più, sicchè stavano in curiosa aspettazione.

                Il 27 settembre era cominciata la novena della Madonna del S. Rosario ai Becchi, e le squadre dei giovani si disponevano per la partenza. Uno di questi che poi si laureò in varie facoltà, scrisse un memoriale della passeggiata di quest'anno, giorno per giorno, e di mano in mano, che arrivava in un paese. Noi lo seguiremo fedelmente aggiungendo fatti e circostanze, che ci furono narrate da altri, che presero parte a tal pellegrinaggio, con qualche nostra particolare osservazione. Ecco le note del nostro buon amico.

                Il 3 ottobre doveva partire per Castelnuovo una prima piccola squadra di cinque giovani, della quale io facea parte. A noi, e a tutti gli altri che dovevano tenerci dietro, Don Alasonatti aveva consegnati i nostri quattrini da lui tenuti in deposito. Ascoltata la S. Messa, baciata la mano a Don Bosco, salutati gli amici che rimanevano a casa, fatta colazione, alle 8 uscivamo dall'Oratorio.

                Essendo arsi dal sole abbiamo fatto un po' di sosta a Pino Torinese per estinguere la sete; giunti a Chieri D. Calosso ci accolse con ogni cortesia e ci fece sedere a pranzo. Dopo alcuni giri per osservare la città, entrati nella chiesa di San [1013] Filippo, pregando sulla tomba di Luigi Comollo, visitato un nostro condiscepolo, non dimenticata la merenda che ci aspettava in casa di D. Calosso, siamo usciti per la via di Torino, osservando se giungeva D. Bosco. Ed eccolo comparire col Cav. Oreglia e il giovanetto Albera Paolo. Gli siamo corsi incontro e con lui fummo al palazzo del Cav. Marco Gonella. Visitato il suo ricco giardino botanico, tre giovani ritornarono presso D. Calosso e gli altri cenarono e dormirono nel palazzo dopo aver recitato il rosario e le solite preghiere della sera.

                Il 4 venerdì alle 6 e mezzo abbiamo ascoltato la messa di D. Bosco nella graziosa cappella del palazzo ed alle 8 eravamo pronti a partire. Passata Riva di Chieri D. Bosco ci parlò di cose molto svariate; di qualche episodio della sua vita, del come provare la voce di un cantore e come conservarla, ed anche del Sacramento della Penitenza. Arrivati a Buttigliera, trovammo pronta dal parroco Teologo Vaccarino Giuseppe una seconda colazione. Gli alunni dell'Oratorio che erano in vacanza in quel paese, vennero intorno a D. Bosco e lo accompagnarono per un buon tratto della via ai Becchi, ove il nostro pranzo era preparato. Siamo poi andati a diporto per i prati di rimpetto a Buttigliera, e sul tramontar del sole vedemmo comparire da quella parte i nostri comici. Indi a non molto suonò il campanello che ci chiamava alla novena del Rosario, per ascoltare la predica, e dopo cena cantammo sull'aia lodi al Signore, varie altre liete canzoni, finchè fummo chiamati alla recita delle preghiere e al dormitorio.

                Il 5 ottobre ci siamo alzati alle 7 e solitari, silenziosi, sparsi qua e là, ci recammo a respirare l'aria pura dei boschi vicini; ma ascoltata la S. Messa incominciò l'allegria romorosa, la facezia, il ridere, il saltare, il correre, il giuocare e [1014] l'andare alle cascine dei dintorni per comprare noci, latte, uva. Dopo il pranzo divisi in brigate, chi s'incamminò verso Montafia, chi a Morialdo per incontrare D. Bosco, che ritornava da Castelnuovo essendo andato ad invitare il Vicario D. Cinzano alla festa; chi si arrestò e sedette all'ombra degli alberi poco lontano da casa. Altri si avviarono verso Buttigliera, donde sarebbero giunti i cantori colla banda strumentale, i quali infatti non tardarono, accolti con applausi, complimenti, scherzi da quelli che li attendevano. Il campanello invitò allora tutti alla chiesuola, ove cantate le litanie del M°. Madonno ed il Tantum ergo del M°. Blanchi, Ai diede la benedizione con tutta solennità. Dopo cena, le orazioni, e alcuni avvisi di D. Bosco, ci siamo ritirati per dormire, la maggior parte di noi essendo spossata dal camminare.

                Il 6 ottobre, domenica, fu una splendida giornata di sole. Alle 8 vi fu messa con molte comunioni. Alle 9 il tamburo chiamò a raccolta per l'assistenza alla Messa solenne in musica. Lo stesso accadde, dopo un vero pranzo da amici, per le funzioni vespertine, assistite da numerosissimo popolo, accorso da tutte le regioni confinanti. Quindi ascensione di palloni areostatici e commedia. Il palcoscenico era circondato da ornamenti e da lampadari campestri. La Signora Damevino illuminò le finestre della sua cascina e qui si accesero fuochi artificiali, si slanciarono razzi, e la banda venne a fare una serenata. Dopo che tutta la moltitudine degli spettatori si fu dileguata i giovani cenarono, e quindi per circa un ora si cantò, si saltò e si esegui un'allegra pantomima, finchè giunse D. Bosco che aveva accompagnato per un tratto di via il Vicario D. Cinzano, nel ritorno a Castelnuovo. Cantata allora una lode e recitate le preghiere, D. Bosco diede, come faceva sempre, la parola d'ordine pel domani. Così finiva la bella giornata. [1015] Il 7 ottobre, celebrata la S. Messa, e riposto per l'anno venturo ogni oggetto della cappella, D. Bosco ci ammonì sulla maniera di regolarci in quel viaggio, e la banda eseguito un pezzo musicale sull'aia, come saluto al buon Giuseppe, fratello di D. Bosco, ci siamo messi in cammino per Castelnuovo. Al nostro arrivo si produsse uno sconvolgimento generale in paese. Vecchi e giovani donzelle e madri lasciano il focolare; gli operai le botteghe, i contadini il campo. Tutti si accalcano per udire le sinfonie dei musici, per vedere e salutare D. Bosco. Questi si avanzava lentamente chiamando per nome gli antichi amici e chiedendo loro notizie dei singoli individui e delle loro famiglie.

                Nel cortile del sig. Bertagna Matteo, stava preparato il nostro pranzo. Alle 11 antimeridiane, dopo un concerto di musica e un evviva all'ospite, ci portammo dal parroco, il quale ci presentò vino e frutta; e salutandolo con musica e ripetuti evviva ci avviammo verso Piea. Passando a Mondonio siamo soccorsi al cimitero per recitare una breve preghiera e raccogliere alcune foglie cresciute sopra il sepolcro di Savio Domenico. Ma nell'uscire da quel mesto cancello ecco un gran numero di paesani invitarci a sostare alquanto e versarci generosamente del vino, perchè ci dissetassimo.

                Fatti i più cordiali ringraziamenti in brevissima ora fummo alle falde della collina di Passerano, ove l'acqua di una freschissima fontana ci fu sommamente gradita e ci aiutò a proseguire, non ostante la sferza del sole cocente, fino ai piedi del grazioso poggio di Piea. Aspettati quelli che erano rimasti indietro e ordinate le file, salimmo al Castello e trovammo con viva gioia D. Bosco che ci aveva preceduti. Dopo una buona merenda e visitato il magnifico edifizio, scendemmo nella valle con D. Bosco e allegramente ci indirizzammo a Villa S. Secondo, che era la nostra meta [1016] in quel giorno. Chi fosse entrato nei piccoli borghi circostanti, nelle casipole de' poverelli, nelle cascine degli agricoltori e nelle case dei proprietari avrebbe trovato ovunque solitudine, perchè la musica attirava tutti gli abitanti sul nostro passaggio.

                Entrati trionfalmente in paese, D. Bosco ci presentò al parroco Teologo Barbero. La cena era pronta e alle nove recitate le preghiere e ascoltati i consigli e gli avvisi del nostro buon superiore, fummo condotti a dormire nelle varie stanze per noi preparate.

                L'8 ottobre, martedì, incominciò col S. Sacrificio e con un sermoncino di D. Bosco alla popolazione, che gremiva la chiesa. Una maestosa polenta larga un metro, cotta in un calderone da bucato, fumava superbamente sopra il tavolo, aspettandoci; e non tardammo a darle l'assalto.

                Il suono festivo delle campane chiamò poi il popolo alla messa solenne che venne da noi cantata in una cappelletta di quel borgo. Dopo il pranzo, le musiche e la recita di una poesia per ringraziare il generoso Teol. Barbero, i giovani si dispersero a passeggio per le vie del paese e per le campagne vicine; ma alle quattro e mezzo le campane li richiamarono alla cappella. I nostri cantori ottennero un effetto meraviglioso. Col vespro, una divota processione e la benedizione, ebbe fine la festa religiosa verso le sette.

                Tutta la gente corse allora nel cortile ove era preparato il palco per il teatro: e gli attori colla commedia e la farsa fecero ridere gli spettatori fino alle 11.

                Il 9 ottobre si cantò la messa funebre in musica in suffragio dei defunti del paese. Mentre eravamo chi a respirare l'aria pura in campagna, chi in conversazione nel giardino del parroco, e chi a salutare gli amici e condiscepoli in vacanza, un concitato battere di tamburo ci raccolse tutti nel [1017] solito tinello per il pranzo. Il parroco di Corsione, D. Roggiero Giambattista, venne per regalarci varie bottiglie di vino squisito e una quantità di caciuole per la merenda.

                Salutato con un concerto musicale il nostro ospite e preso da lui commiato, alle 2 pomeridiane ci mettevamo in via. Ma il sindaco e vice sindaco avendo mostrato gran desiderio di averci per un istante in casa loro, si entrò successivamente ne' due cortili, si eseguirono alcune suonate e si accettò una bicchierata offerta con gran cuore.

                Ciò fatto ci siamo allontanati dal paese, ma ben presto ci arrestammo a Cossombrato e dopo breve fermata per visitare il Cavaliere Pelletta, ci recammo dal Conte di Germagnano. E anche da questi signori, suonate, canti e bicchierate. Era una cuccagna, che però ci dimostrava quanto era stimato e amato D. Bosco.

                Dalle 5 in poi la marcia non fu più interrotta. Passando noi per una lunga valle fiancheggiata da colline amenissime portanti a ridosso varii paeselli, la gente sospendeva i lavori nelle vigne per osservare quella carovana di musici, giovanetti, chierici e preti. I fanciulli scendevano correndo sulla strada e alcuni di essi si univano alla nostra compagnia, poichè D. Bosco aveva rivolte loro parole affettuose. Egli osservata l'aria ingenua ed espressiva di uno di questi, lo interrogò: - Chi sei tu?

                - Io mi chiamo Luigi e sono del tal paese.

                - Verresti anche tu con noi?

                - Ci andrei ben volentieri; ma lei chi è?

                - Conosci il parroco del tuo paese?

                - Gli ho servito la Messa questa mattina.

                - Bene; andrai da lui e gli dirai che domani si compiaccia a venire qui ad Alfiano presso il Prevosto, e che io gli parlerò di te... Ma verrai anche tu è vero? [1018] - Ma lei chi è?

                - Dirai al tuo parroco che è un prete di Torino che desidera parlargli di te!

                E il Prevosto venne, il giovane studiò il ginnasio nell'Oratorio, e poi fu parroco distinto nella diocesi di Casale.

                Intanto il sole tramontava ed essendo l'ora del saluto alla Vergine, ogni squadra recitò ad alta voce l'Angelus.

                D. Bosco finalmente entrava in Alfiano aspettato da tutta la popolazione: le campane suonarono la benedizione e la chiesa fu in un momento piena zeppa.

                D Bosco fu d'avviso che in qualche maniera si cercasse di ricreare quei buoni campagnuoli; e senz'altro i pontonieri mentre i compagni cenavano, si accinsero ad un opera della quale erano divenuti maestri. Su due o tre carri da buoi si collocarono gli assi, due antenne furono piantate per sostenere il sipario, e corde e chiodi tennero spiegate le scene. Il divertimento durò fino alle 11. Una farsa, alcune poesie berniesche in dialetto, varii canti recarono sommo piacere agli spettatori. Alla fine D. Bosco fece intonare una lode alla Madonna: i giovani si inginocchiarono e recitarono le preghiere della sera alle quali prese parte l'intera popolazione. Il Parroco D. Pellato Giuseppe ci condusse tosto ad una cascina e in varie case ove tutti poterono dormire comodamente.

                Mentre i giovani riposavano D. Bosco scriveva. Quasi ogni giorno gli giungeva da Torino un messo che gli recava la posta, guidato dall'itinerario scritto da lui e lasciato nella Prefettura dell'Oratorio. D. Bosco in ogni momento libero della giornata e di notte senza impazientirsi, leggeva tutte le lettere e a tutte preparava la risposta, perchè moltissimi signori si sarebbero offesi non vedendo i suoi caratteri. Enorme era la corrispondenza che doveva sbrigare, [1019] eppure scriveva anche qualche nuova Lettura Cattolica, e correggeva le bozze di queste in corso di stampa. E il messo ripartiva subito riportando in Valdocco i plichi che gli erano consegnati e la corrispondenza.

                Il 10 ottobre, giovedì, sul far dell'alba si cantò una messa solenne in musica, seguita dalla benedizione col Santissimo Sacramento. 1 giovani dopo la loro refezione ebbero licenza di visitare i dintorni del paese ed era legge che dovessero andare sempre riuniti in piccole squadre e mai da soli. Ma dopo breve ora si ode battere il tamburo che li chiama per la partenza. Salutato il venerando ospite e pregando il Signore a ricompensarlo, abbiamo lasciato Alfiano.

                Passando vicino al Castelletto dei Merli D. Bosco ci narrò le vicende del suo smarrimento da quelle parti nel 1841 e come avesse trovato rifugio in quel castello.

                A Ponzano il parroco D. Ottone Francesco venne incontro a D. Bosco per salutarlo e fargli invito a sua casa, ma non si potè accettare perchè il tempo stringeva.

                Andavamo avanti su per l'alto monte sul quale sta il Santuario di Crea, ufficiato dai Minori Osservanti. Qui D. Bosco aveva stabilito di fare una tappa. Perciò si era inteso coll'Economo Vescovile, D. Crova Giuseppe, proprietario legale del convento, e che quivi teneva le sue stanze, acciocchè fosse preparata una merenda. L'Economo però essendo vecchio e ingannato dalla memoria, credette che si fosse solamente conchiuso di pranzare a Casale e in tale giorno andò a fare preparare il pranzo in quel Seminario, non pensando alla merenda.

                D. Bosco intanto mentre camminava aveva fatto, secondo il solito, correre la voce che desiderava dire ai giovani una bella cosa, le quando li ebbe attorno, prese a narrar loro [1020] la storia di quel Santuario che andavano a visitare. Questo racconto avvicinavali piacevolmente alla meta, facendo loro dimenticare la stanchezza.

                Giunti noi a Crea sul piazzale del Santuario circa alle 2 pomeridiane, la banda suonò una marcia, mentre D. Bosco sudato e sofferente andava per annunciare al Canonico Crova il suo arrivo.

                - Non c'è! gli rispose la fantesca, venuta sulla porta a quell'improvviso suon di trombe.

                - Eppure mi aveva detto che mi avrebbe aspettato qui, soggiunse D. Bosco.

                - Che cosa vuole? È andato stamane a Casale, perchè là aspetta un prete che deve venire da Torino.

                - Questo prete sono io!

                - Lei è Don Bosco? Ebbene il pranzo è preparato a Casale.

                - E come fare adesso? I giovani hanno fame non potreste voi…. in qualche modo.

                - Non è possibile.... Intende! Se si trattasse di due o tre persone, un pranzo mi aggiusterei di metterlo all'ordine; ma trattandosi di un centinaio di giovani non ho l'occorrente.

                D. Bosco allora ritornò sulla piazza pensieroso, meditando come provvedere a' suoi figli. Andato a battere alla porta del convento nessuno rispose. I frati che più volte avevano ricevuti insulti dai buontemponi, che venivano a fare talvolta le loro scampagnate in quel luogo, si erano chiusi come in una fortezza assediata.

                I giovani erano stanchi, polverosi. D. Bosco loro ordinò di andare in chiesa e di cantare una lode alla Madonna. Intonarono: Vivo amante di quella Signora. Qualche frate si affacciò ad un finestrino, qualcun altro si udì che era [1021] disceso in coro: il sagrestano aperta la porta della sagrestia comparve sul limitare. D. Bosco che si era inginocchiato innanzi all'altare sul quale si venera una statua della Beata Vergine, detta di S. Luca, si affrettò ad avvicinare quest'ultimo: - Mi faccia grazia, gli disse; si può parlare col Padre Guardiano?

                - Non mi disturbi.... mi lasci godere questo canto ..... gli rispose il frate alquanto impaziente; e voltosi per aver udito fruscio di tonaca, continuò: - Se vuol vedere il Padre Guardiano, eccolo là. - Infatti il Guardiano entrava allora in sacrestia.

                D. Bosco gli andò incontro, gli chiese licenza di dare la benedizione col SS. Sacramento e quindi gli significò che tutti que' giovani appartenevano all'Oratorio di San Francesco di Sales.

                - Dunque vengono da Torino? disse il Guardiano.

                - Precisamente.

                - E lei è D. Bosco?

                - Sono io. - E gli narrò il contrattempo occorsogli e la sua necessità.

                - E come faremo? osservava quel buon Superiore. In poco d'ora non si può preparare per tanta gente affamata. Là... senta: si dia la benedizione: si faccia osservare ai giovani il bel panorama della pianura visto da questa altezza, e quindi li mandi a visitare alcune delle molte magnifiche cappelle della salita: e intanto qualche cosa prepareremo.

                D. Bosco lo ringraziò e dopo il Tantum ergo in musica e la benedizione, andò a dare i suoi ordini, mentre i giovani usciti fuori della chiesa avevano già fatto amicizia coi frati, comparsi tutti sulla piazza. All'avviso di D. Bosco si avviarono alle cappelle, arrampicandosi per l'erta collina. [1022] Quelle cappelle erano in parte state distrutte nell'invasione francese ma ora alcune già erano ristorate e altre in via di restauro. Rimasero rapiti allo spettacolo che le statue rappresentavano in quelle conservate: La natività e la presentazione al tempio di Maria SS. Giuditta che tronca la testa ad Oloferne, il Paradiso, le nozze di Cana, l'ultima cena.

                Quando discesero trovarono che i frati, benchè poveri e con scarse provvigioni, avevano preparato loro il pranzo nel refettorio. La minestra era un miscuglio di riso, paste, e legumi di ogni specie. Tutto il pane del convento stava sulle tavole. Avevano anche mandato a comperare quanto pane si trovò in un paesello distante mezz'ora. Nel forno fecero cuocere il maggior numero di focaccie che poterono. Aggiunsero salame, formaggio, carne fredda avanzata al loro pranzo, frutta, quanto insomma di commestibile si trovava nella dispensa. E i giovani fecero tutto sparire, perchè l'ora tarda aveva accresciuto il loro appetito in modo straordinario. Il Guardiano fece anche portare ottimo vino e ne fu generoso distributore.

                Alle 4 dopo alcuni canti, una visita alla Madonna, una preghiera per que' caritatevoli frati, e mille ringraziamenti, i giovani si rimisero in marcia e continuarono il cammino a piedi direttamente per Casale. Eziandio D. Bosco andava a piedi. La via era polverosa e il caldo soffocante. Tutti soffrivano una gran sete. Nel camminare si erano sbandati. Gli uni si vedevano molto avanti, gli altri rimanevano molto indietro. Chi andava solo, chi formava gruppo con tre o quattro. Così sparsi tenevano un mezzo miglio di strada. Ogni tanto le trombe suonavano. Oltrepassato Ozzano sopraggiunse loro incontro il Maggiordomo di Mons. Calabiana, angustiato pel nostro ritardo, e ci accompagnò con grande cortesia. Si arrivò a Casale [1023] dopo le nove di sera avendo percorsi circa 20 chilometri, e ci teneva dietro un lungo codazzo di gente. Fatta una suonata sotto le finestre del Vescovado, i giovani furono condotti in Seminario. Appena giunti ci sentivamo tanto oppressi dalla stanchezza, che ci gettammo addirittura a sedere per terra, in que' larghi corridoi. Qui però attendevaci un magnifico pranzo, che il Canonico Crova aveva preparato fin dal mattino, poichè ci aspettava a mezzogiorno.

                Dopo aver pranzato, ogni giovane ebbe per dormire una cella di Seminarista, mentre D. Bosco era stato costretto con grande cordialità ad accettare la cena e la camera presso Monsignor Calabiana.

                Il venerdì 11 ottobre D. Bosco vista la nostra stanchezza aveva ordinato che alle 8 e mezzo si suonasse la sveglia, e alle 9 si ascoltasse la S. Messa. Dopo le 10 il Rettore del Seminario ci condusse nella gotica cappella Vescovile, perchè Monsignor Calabiana ci attendeva. Egli comparve nella sala, ci benedisse, entrò in cappella, recitò con noi alcune preghiere e ci presentò da baciare un pezzo del sacro legno custodito in un reliquiario d'oro di gran valore artistico.

                Quindi volle egli stesso accompagnarci in duomo, perchè vedessimo parte a patte i grandiosi restauri che si andavano eseguendo, per restituirgli la sua antica forma Longobarda Bisantina. Fece notare al giovani come ancora esistesse l'atrio dei penitenti, la tribuna delle donne, e varii capitelli antichi che andavano qua e là scoprendosi; indicò le sei colonne disposte lungo la chiesa ma in linea quasi obliqua per significare il Salvatore del quale il capo pende obliquamente sulla croce: e nel primo ordine di queste magnifiche pile scolpito il serpente che morde un putto, simbolo della schiavitù dell'uomo; nel secondo la croce che s'innalza [1024] torreggiante e manifesta la redenzione; il terzo un putto che incatena il serpente, ossia la vittoria dell'uomo sul demonio. Narrò eziandio un po' della storia di Casale, della vita e morte di S. Evasio e della costruzione del duomo fatta da Liutprando nel 712.

                Suonò mezzogiorno e il Rettore del Seminario ci ricondusse al pranzo. La musica andò quindi nell'atrio del palazzo Vescovile per la levata da tavola, ed io a nome de' miei compagni mi recai per chiedere licenza a D. Bosco, di visitare le chiese e i monumenti della città. Entrato in episcopio e baciato l'anello a Monsignore fui commosso dalla benignità e cortesia colla quale s'intratteneva coi giovani musicanti, ora parlando ad uno, ora ad un altro, accarezzandoli e ridendo piacevolmente.

                Ottenuta da D. Bosco la licenza, poichè senza questa non era lecito andare in verun luogo, ritornai in Seminario per darne l'annunzio ai compagni. Ma incominciando a cadere la pioggia fummo costretti nostro malgrado a rimanere in casa, andammo poi a cantare nella bellissima chiesa dei Missionarii, ove dal Vescovo venne data la benedizione col SS. Sacramento.

                Alla sera abbiamo tenuto nel salone del Seminario, alla presenza del Vescovo, di un clero numeroso e di parecchi nobili Signori, un trattenimento che piacque moltissimo. Si rappresentò il dramma: I due sergenti, si recitò qualche componimento in lode, di Monsignore e si cantò qui la prima volta l'Orfanello, romanza musicata dal genio del Ch. Giovanni Cagliero.

                Il 12 ottobre alle 8 nella Chiesa dei Missionarii avevamo già assistito alla messa del Vescovo, ricevuta dalle sue mani la S. Comunione, e dopo l'ultimo vangelo, udito da lui un fervoroso discorsetto sopra l'amore che Gesù Cristo porta [1025] ai fanciulli. Molti di noi avevano pregato D. Bosco a volerli confessare.

                La colazione ci fu apprestata nel refettorio dei Missionarii. Lo stesso Monsignore tagliava le fette di formaggio e le distribuiva agli alunni. Condottili poi nel giardino, loro propose di visitare la città, assegnando una guida. Non è a dire il plauso col quale fu accolta tale proposta e tutti in bell'ordine andammo a soddisfare la ragionevole curiosità.

                Il venerando prelato anche in questo giorno volle a pranzo con sè D. Bosco, alcuni de' suoi chierici, e i musici più provetti. Gli altri giovani presa la loro refezione in Seminario si disposero alla partenza. I primi passi li rivolsero all'Episcopio per ringraziare il Vescovo de' suoi benefizi; ed egli regalò a ciascuno una medaglia della Vergine venerata nel Santuario di Crea e li benedisse. La banda dopo aver suonato un concerto grazioso per il Vescovo e pei cittadini, si mise in marcia coi compagni ordinati in squadre e con D. Bosco, mentre una gran folla ingombrava le vie. Mirabello, ove eravamo aspettati, distava sette chilometri da Casale.

                Usciti nel suburbio il parroco di S. Germano Don Schierani Giovanni mosse incontro a D. Bosco e lo pregò a ristare per un momento a casa sua. D. Bosco annuì al caloroso invito, e la sua comitiva, ristorata da un rinfresco, rallegrò il buon parroco con una suonata e continuò a procedere per la via provinciale. Ad Occimiano incontrò molte persone venute da Mirabello, impazienti di vedere D. Bosco e i suoi, e in mezzo a queste, accresciute dalla folla di Occimiano, arrivarono alla meta. Aspettavaci tutta la popolazione, il parroco D. Coppo Felice, il clero della parrocchia ed il signor Provera che aveva invitato [1026] D. Bosco a far quella passeggiata. Questi volle in sua casa ospite il servo di Dio e qualcheduno de' suoi maggiorenti. Pei giovani dispose i letti, parte in un fienile, parte in una stalla vuota, presso una casa di sua proprietà, posta in un bel sito, e che aveva qualche stanza per i chierici. Anche per noi era preparata una tavola da principi.

                Il domani, domenica 13 ottobre si celebrava la festa della Maternità della Madonna. Siccome la Chiesa era in restauro così le funzioni solenni si dovevano fare nella piazza bene addobbata, ove colla licenza del Vescovo si ammirava eretto un magnifico altare. Il tempo era splendido. Al mattino le messe lette e l'amministrazione dei Sacramenti si celebrò in una piccola cappella che serviva di parrocchia e qui si recarono i giovani dell'Oratorio per fare le loro divozioni. Alle 10 si cantò la messa all'altare posto in piazza, con una solennità straordinaria, eseguendo scelta musica i nostri giovani. Erano accorsi più di 20.000 persone. Non si risparmiarono le campane ed i mortaretti. Dopo i vespri in musica ci fu la processione. I tappeti appesi qua e là alle finestre e i fiori sparsi sulla via erano prova novella della divozione di quegli abitanti.

                "Ritornata innanzi all'altare la sacra comitiva, D. Bosco predicò. La piazza era coperta da un mare di teste. Regnava un silenzio profondo. Le madri levavano in alto i loro figli perchè potessero veder meglio D. Bosco. Ed egli colla sua voce argentina e penetrante tutti commoveva parlando della Madonna; ed esortando i fedeli ad essere devoti di quella buona madre celeste colla recita del S. Rosario. Il parroco non poteva rattenere le lagrime.

                Data la benedizione solenne, e venuta la sera, tutte le case brillavano con una bella luminaria; la musica suonava in mezzo alla piazza; e la festa ebbe termine col getto [1027] di molti razzi a varii colori e l'ascensione di alcuni palloni areostatici.

                Dopo la cena gli alunni si diedero ad una vivace ricreazione nel cortile del loro quartiere e siccome era accorsa una gran folla curiosa di osservarli, suonato il campanello delle orazioni, anch'essa s'inginocchiò e le recitò in comune. Fu la predica del buon esempio.

                Il 14 ottobre lunedì si cantò in musica una solenne messa funebre per i defunti del paese. Dopo il pranzo, i giovani ottenuta licenza si recarono a visitare tre dei loro amici ed i frati cappuccini, dei quali il convento era poco distante nella pianura. Furono ovunque regalati di vino, uva, e confetti.

                Tornati in paese trovarono pronto il palcoscenico nella parrocchiale. Gli attori furono presto all'ordine, e si diè principio alla rappresentazione. Ma siccome tutti volevano entrare e non vi era posto per tutti, accadde un tafferuglio incredibile. Di fuori si vociava da chi faceva ogni sforzo per farsi avanti, di dentro si gridava contro que' prepotenti respingendoli. In chiesa nella folla stipata, oppressa come le acciughe in un barile, si udiva un continuo brontolio, che certi maggiorenti volevano far cessare, urlando: Silenzio! - Il fatto sta che per quanto i comici alzassero la voce non fu possibile che il pubblico udisse una parola sola della commedia.

                Le donne poi s'interrogavano a vicenda: - Eh! Hai sentito?

                - Io non ho potuto capire niente.

                - Oh sì! io ho capito: hanno recitata la passione di Nostro Signore.

                Ma la scena più bella accadde dopo il teatro tra le quinte. I giovani avevan preso qualche arazzo di chiesa [1028] per adornare il palco. Il sagrestano, al quale non si era chiesta licenza, visti quei drappi si avanzò. Era così ubbriaco; da potere a stento tenersi in piedi e disse ad Enria: - Vi chieggo con quale diritto abbiate preso quegli arazzi! E rinculava e si inoltrava, secondo le spinte che gli dava il vino.

                - Scusatemi, rispose Enria; io vi ho cercato e non vi ho trovato. Voleva chiedervi licenza ma non ho potuto.

                - Torno a chiedervi, continuò il sagrestano con voce più solenne ancora, torno a chiedervi con quale diritto avete presi quegli arazzi?

                - Là, perdonatemi chè non lo farò più.

                - Voglio sapere che cosa voi pretendete; siete forse voi il padrone?

                - Oh bella! rispose Enria ristucco di quella scena; finitela una volta che mi avete seccato abbastanza.

                - Come? come?

                - Sì: adesso, se ho preso questa roba, la cosa è fatta. Il parroco mi ha detto nulla e voi in questo affare non ci dovete entrare!

                - Come? Non ci ho da entrare? Io?

                La scena a questo punto diventava eroicomica. Enria era stato sorpreso dal sagrestano nell'atto di riporre una daga che aveva servito per la commedia e teneva quindi la sua daga in mano. Il sagrestano coi pugni stretti sembrava volesse slanciarsi contro di lui. Le voci risuonavano rabbiosamente. Il fratello di Pelazza Andrea, che era un ragazzotto e Avanzini che a caso erano presenti, tremavano.

                Enria allora accorgendosi che la cosa prendeva cattiva piega: - Eh là, mio caro, disse col tono di voce più soave che potè trovare, perchè vi arrabbiate così? Non vedete che io faccio per burla? Che ho voglia di ridere? [1029]

                - Voglia di ridere, neh? Ma avete parlato con una prepotenza ......più... mai più! S'avessi saputo di farvi dispiacere nel prendere quegli arazzi, non l'avrei mai più fatto. Pensate se io voleva in qualche maniera non dipendere da voi. Era mio dovere! Anzi, ascoltatemi: se in qualche cosa vi avessi offeso vi domando perdono. Voglio che siamo amici. Siete voi dunque il sagrestano di Mirabello? Ho sentito parlare da tante persone di voi... mi hanno detto che avete un buon cuore... che siete un ometto come si deve... sì il mio caro sagrestano... facciamo la pace! Avrei rimorso di non essere nelle grazie di un bravo uomo come voi.

                Queste e altre simili frasi fecero un effetto magico. Il sagrestano in principio voleva ancor dire... mostrarsi offeso... ma non trovò il filo delle parole; poi fissò Enria con quegli occhi imbambolati dal vino che a poco a poco si riempirono di lacrime e finì col mettersi a piangere dirottamente e col saltare al collo di Enria, abbracciandolo e baciandolo.

                - Su, venite con me a casa mia... ne berremo una bottiglia! - si mise a gridare. E presili tutti e tre per mano, non volle sentire rifiuti o complimenti e dovettero andare a casa sua.

                D. Bosco la dimani, saputa tale cosa, gli mandò una mancia per mezzo di Enria: ciò servì a persuaderlo del tutto che i giovani di D. Bosco erano veramente buoni.

                Il 15 ottobre, martedì, secondo l'ordine del giorno, essendoci alzati alle 6,30, ci siamo recati ad assistere alla Santa Messa e a fare l'esercizio di buona morte al convento dei Cappuccini.

                D. Bosco era solito in ogni passeggiata indire questo esercizio salutare. Pareva imitasse Giobbe il quale, finiti i [1030] giorni di convito, mandava a chiamare i suoi figli e li purificava offerendo olocausti. Perocchè diceva: Chi sa che i miei figliuoli non abbiano fatto del male e non abbiano disgustato Dio nei loro cuori?

                I frati vennero incontro a D. Bosco il quale andò subito in sagrestia a confessare. Parecchi uomini e giovanetti del paese l'avevano accompagnato, volendo approfittarsi di quella pia pratica. Vi era copia di confessori e tutti si confessarono e si comunicarono; e D. Bosco disse poi a' suoi allievi: - Sono contento di voi!

                Fatta la ricreazione nel giardino attiguo al chiostro, esaminato il macchinismo per tirare l'acqua, onde inaffiare l'orto ed il prato, allo scoccare delle dieci, salutavansi con un concerto musicale quei buoni religiosi e si ritornava al quartiere generale ove ci attendeva il pranzo. D. Bosco aveva accettato l'invito dei Cappuccini e i chierici si fermavano a mensa con loro. Fransi appena alzati da tavola e si odono le trombe dell'Oratorio. Gli alunni si avviavano e Lu e i chierici li seguirono. Quel Vicario Foraneo parroco di S. Maria Nuova, il Teol. D. Roggero Nicolò, aveva pregato D. Bosco a recarsi presso di lui, desiderando anch'egli di preparare una casa per la cristiana educazione della gioventù.

                D. Bosco nel salire quell'alta collina, ai giovani che lo circondavano camminando, raccontava la storia di Lu e quella dei varii paesi che a mano a mano scoprivansi nella pianura. Una donna molto vecchia osservandolo, si fermò e chiesto e saputo chi fosse quel prete, si udì esclamare: Ora se avessi da morire morirci contenta perchè ho veduto D. Bosco.

                Verso le due pomeridiane la comitiva entrava in Lu. Si erano mossi incontro a D. Bosco il parroco di S. Nazzaro [1031] D. Bensi Giambattista e quello di S. Giacomo D. Fracchia Feliciano, mentre la fama del suo arrivo, il suono delle campane e gli squilli delle trombe facevano correre la gente anche da luoghi lontani. D. Bosco fece un po' di predica a S. Maria Nuova. Gli alunni visitarono la Sottoposta e vasta cripta con altare e coro pei canonici. Alcuni musici salirono sulla torre per godere quella bellissima prospettiva e per suonare una sinfonia. Il sindaco però, ostile al clero, li fece discendere con modi poco cortesi, perchè le scale erano veramente in cattivo stato e pericolose. Intanto il Vicario Foraneo che, all'arrivo di D. Bosco, era assente per affari urgenti della parrocchia, appena rientrato, ai giovani accolti in sua canonica, distribuiva un eccellente ristoro. Essi ebbero anche generoso invito dagli altri due parroci.

                D. Bosco intanto in mezzo alla folla aveva osservato un giovanetto, il quale in maniche di camicia e senza scarpe, era corso in fretta per vedere quella novità che metteva in moto tutto il paese. Giunto D. Bosco vicino a lui si fermò, lo fissò con molta attenzione e poi gli disse: Come ti chiami?

                - Quartero.

                - Vuoi venire con me a Torino?

                - È per questo, gli rispose francamente il giovane, che io sono corso qui! Volentieri!

                - E vieni adunque: ed io ti farò mettere i chiodi alle scarpe. - Tutti i circostanti risero di quella facezia perchè il fanciullo era scalzo.

                Dopo che D. Bosco si fu inteso co' suoi parenti, Quartero venne nell'Oratorio; all'ottima condotta unì un grande amore allo studio, divenne prete, fu viceparroco nel suo stesso paese guadagnandosi la stima di tutti e infine prese con gran zelo la cura di una parrocchia nella Diocesi. [1032] Quando poi D. Bosco si mosse per partire da Lu la contrada era stipata di gente e specialmente di madri, che andavano a gara nel portare vicino a liti i proprii ragazzi, affinchè da lui fossero benedetti. La qual cosa avveniva pressochè in tutti i paesi in cui andavamo.

                Alla sera si rientrava in Mirabello.

                Il 16 ottobre mercoledì, all'ora solita eravamo già pronti per recarci alla cappella che serviva di parrocchia, ove dopo una messa letta, furono solennemente cantate le litanie seguite dalla Benedizione. Dopo la colazione per ordine di D. Bosco, avendo la musica alla testa, ci siamo recati al passeggio per le strade dei campi con gran piacere dei coltivatori che non si aspettavano in mezzo alle loro fatiche tale improvvisata.

                Intanto D. Bosco trattava col Sig. Provera del collegio da edificarsi. Accettava per questo fine l'area e la casa che in quel momento serviva per l'alloggio de' suoi alunni, e si determinavano le ultime disposizioni in quanto al disegno da eseguirsi.

                Il Prevosto in questo giorno aveva fatto invito ai figli di D. Bosco e preparate le mense nella casa parrocchiale. Quel buon Sacerdote si mostrava veramente felice e i nostri ringraziamenti in poesia, in canti e in musica non cessarono così presto.

                Alle 6 nella chiesa in riparazione si diede principio alla commedia. Gli spettatori erano moltissimi, ma non più quieti della prima volta. Furono eseguiti diversi canti, ma riportò la palma una buffa pantomima detta l'Avaro che fece ridere a crepapelle il rispettabile pubblico.

                - Sono gente di spirito i giovani di D. Bosco, si andava poi dicendo: visto che non potevano farsi capire colle parole, si fecero intendere co' gesti. [1033] Finito lo spettacolo la musica uscì dal teatro, a suonare in piazza, traendosi dietro tutta la moltitudine. La luna chiarissima illuminava que' piani e quelle colline, e da frenetici applausi fu salutato un grosso areostato con disegni a varii colori che s'innalzava maestosamente nell'atmosfera.

                Noi rientrammo nel nostro quartiere e D. Bosco venne ad augurarci un felice riposo dopo aver dati alcuni avvisi pel susseguente giorno e consigli pel bene dell'anima nostra.

                Era l'ultima notte che dovevasi dormire a Mirabello.

                Il 17 ottobre giovedì i nostri cantori vollero dare un ultimo saggio della loro abilità col canto di lodatissime litanie e di un magnifico Tantum ergo alla benedizione, che tenne dietro alla messa. Si anticipò il pranzo. Un poeta a nome di tutti con un mesto canto dava l'addio alla famiglia Provara, ringraziandola, e augurandole ogni benedizione dal Signore, e promettendole di ritornare l'anno venturo. Quindi ringraziati e salutati il Prevosto e gli altri amici, al suono della banda, fra gli applausi e gli auguri; di felice viaggio di tutti i paesani, siamo partiti alla volta di Valenza sul Po.

                Alle 2 pomeridiane si entrò nel cospicuo Borgo di San Salvadore. La via era così zeppa di popolo che la banda poteva a stento avanzarsi. L'arciprete di S. Martino e Vicario Foraneo D. Boeri Camillo, che era venuto incontro a D. Bosco, ci condusse nella sua casa parrocchiale, e ci diede una desiderata e necessaria merenda. Quindi eseguita una magnifica funzione nella sua chiesa molto vasta e leggiadra per la forma e pei dipinti, siamo andati alla Madonna del Pozzo distante di qui circa un miglio. Visitato devotamente quel Santuario, entrammo nel recinto di una casa ove talvolta vengono ad abitare alcuni frati. Questi avevano preparato vino e castagne a profusione; e noi [1034] demmo loro il contraccambio con musiche e canti. Eravamo sui confini della Diocesi di Casale e mettemmo il passo in quella d'Alessandria. Non andò però molto che fu interrotto il nostro cammino alla cascina di un nostro compagno, i cui parenti venuti incontro a D. Bosco, avevano preparato per tutti una bibita.

                Il sole era tramontato, e alle 7 e mezzo non avevamo ancor raggiunta la nostra meta. Entrati in un piccolo borgo, ecco venir fuori il Conte Groppello, il quale volle D. Bosco colla sua squadra nel proprio palazzo, e facendogli mille feste, presentò a lui e a tutta la comitiva un vino scelto delle sue vigne. Fatta una visita alla Chiesa, si partì e in breve giungemmo alla stazione di Valenza. La musica salutò il Capo stazione, col quale D. Bosco si abboccò, per informarsi quali disposizioni gli fossero giunte da Torino per la partenza de' suoi giovani sulla ferrovia. Avuta la desiderata notizia, siamo entrati in Valenza che ormai erano le 9.

                Già da Casale D. Bosco aveva scritto al Conte De Cardenas Senatore del regno e insigne benefattore dell'Oratorio, pregandolo a preparare un alloggio militare per sessanta persone. Varii giovani eransi fermati alle loro case. In quei giorni ferveva nel cortile di quel grandioso palazzo, nel quale contavansi ben settanta camere signorilmente ammobigliate, un continuo andare e venire di carri i quali dalle vigne recavano le ultime uve. Il Conte diede i suoi ordini al fattore, il quale continuamente intento alla vendemmia ed alla pigiatura dell'uva si uniformò materialmente alla frase della lettera di D. Bosco. Preparati alcuni saloni e varie camere al piano superiore i servitori vi stesero un alto strato di paglia, ma dura e non battuta. Per la cena fu imbandita una grossa polenta senz'altro. Suonavano ormai le dieci e venne data ad ogni giovane una coperta da [1035] gettarsi indosso. Recitate le preghiere, udita la parola d'ordine, si coricarono, ma quelle paglie sembravano stecconi e pochi poterono dormire. Come D. Bosco di ciò si avvide, dopo essersi ritirato per qualche tempo, per fare atto di gradimento, in una bella camera che era stata per lui preparata, ne uscì quando i signori si furon chiusi nei loro appartamenti. Andato a visitare le sale ove erano i giovani volle rimanere in mezzo ad essi sulla paglia: e poco prima dell'alba ritornò nella stanza.

                Ovunque D. Bosco andasse non mancavano mai gli ospiti di preparare per lui una camera decente, ma spesse volte ei preferiva dormire, anche con suo grave incomodo, ove pernottavano i suoi alunni.

                Il 18 ottobre, venerdì, di buon mattino i giovani erano venuti fuori dai dormitorii e D. Bosco dal poggiuolo osservava un gruppo di questi che nel cortile parlavano in crocchio. Il giovane conte De Cardenas, figlio, comparve poco dopo al suo fianco e chiese al giovane Tomatis se avessero dormito tutti bene. Tomatis con un gesto così comico che non è possibile descriverlo, e che indicava aver esso e i compagni tutte le ossa rotte, rispose un: - Oh benissimo! - E con un tono di voce che fece scoppiar dalle risa quanti l'udirono. Il giovane Conte rise pure, ma molti anni dopo ricordava ancora con dispiacere quell'accoglienza un pò gretta e spicciativa che non aveva potuto impedire.

                Quando fummo all'ordine D. Bosco ci condusse per le pratiche di pietà ad un piccolo Santuario, ove venerasi un'immagine della Madonna. I nostri cantori dopo la solita Messa cantarono le litanie e il Tantum ergo, poichè si diede la benedizione, con grande piacere dei fedeli che vi assistettero.

                Mentre facevamo una eccellente refezione, venne il Conte padre ad invitarci a visitare la sua cantina, che era allora una [1036] delle più stupende di tutta l'Italia. Scendevasi in un immenso sotteraneo a forma di croce latina, ove erano tini di grandezza fenomenale, torchi, lambicchi e 109 botti alcune delle quali contenevano 400 brente e più di vino; poichè le vendemmie autunnali fruttavano a quel Signore 7000 brente.

                Usciti di là ci recammo nel giardino del palazzo e prendemmo d'assalto gli attrezzi ginnastici del giovane conte. Ottenuta quindi licenza da D. Bosco siamo andati a visitare la città e la bella chiesa parrocchiale dedicata a Santa Maria Maggiore; poi con un grido unanime abbiamo detto: Corriamo a vedere il Po. - Ed un mezzo miglio fuori della città godemmo lo spettacolo di questo re dei nostri fiumi, larghissimo di letto e profondo di acque.

                D. Bosco intanto era andato a visitare qualche benefattrice e il parroco Vicario Foraneo Teol. Rossi Domenico.

                Il mezzogiorno ci richiamava al palazzo ove era apprestata la mensa con larghezza signorile. D. Bosco dopo aver pranzato col Senatore e colla sua famiglia scese con essa in cortile, mentre la banda suonava alcuni pezzi scelti.

                Indi ci avviammo alla stazione e salimmo in due vetture di terza classe, concesse a D. Bosco gratuitamente dalla Direzione delle ferrovie. Giunse il treno e, ganciati i nostri due carrozzoni, in breve giungemmo ad Alessandria. Con un concerto musicale abbiamo salutata la città. Alle 6 il treno proveniente da Genova traevasi dietro le nostre vetture. Ad ogni stazione la nostra banda faceva udire una sua marcia.

                Arrivati a Villafranca d'Asti, luogo dell'ultima nostra fermata, siamo discesi dal convoglio alle ore 8, intirizziti dal freddo. Eravamo aspettati in casa del parroco. La banda salutò il paese. Fatta cena malgrado la stanchezza universale, si eseguì una recita e varii canti, dopo i quali, dette le preghiere, abbiamo dormito in un'ampia stalla. [1037] Il sole del 19 ottobre, sabato, spuntava per indicarci che quello era per noi l'ultimo giorno delle vacanze. Alzatici verso le sette ci recammo subito in chiesa per la messa solennemente cantata dai nostri musici, dopo la quale si diede la benedizione. Alle 9 e mezzo la banda salutava il paese passando in mezzo all'affollata popolazione e saliti ne' carrozzoni, giunto il convoglio da Alessandria, si partiva per Torino. D. Savio Angelo con altri amici era venuto incontro a D. Bosco. Al primo eco lontano della gran cassa e del tamburo, le due campane della nostra chiesa tempestavano a festa; e tutti gli allievi si affollavano alla porta maggiore dell'Oratorio che venne spalancata. A mezzodì entriamo con D. Bosco e tra le acclamazioni, gli evviva e i saluti al nostro buon padre, ci rechiamo in refettorio per il pranzo.

                D. Bosco dunque aveva visitati paesi di quattro diocesi; Torino, Asti, Casale, Alessandria: ovunque aveva raccolti giovanetti che promettevano bene per la vocazione Ecclesiastica, accettandoli nell'Oratorio; e caldamente raccomandata ovunque l'associazione delle Letture Cattoliche. Di queste consegnava subito a Paravia bozze di stampa e manoscritti da lui corretti nel tempo della sua escursione. Pel novembre era pronto l'opuscolo: Il paradiso in terra nel celibato cristiano, On. Giuseppe Frasinetti priore di S. Sabina in Genova.

                Pel dicembre: Notizie intorno alla Beata Panasia pastorella Valesiana nativa di Quarona, raccolte e scritte da Silvio Pellico. Tratta di una verginella uccisa a 15 anni dall'inferocita sua matrigna. Conclude con dare avvisi alle giovani intorno a ciò che debbono praticare, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese ed ogni anno per guadagnarsi molti meriti pel Paradiso. Infine si leggono alcune poesie dello stesso Pellico in lode della Beata.

D. Bosco vi aveva premessa una biografia dell'autore.

 

 

CAPO LXXV. Generosa elemosina di un vecchio creduto avaro - Il numero dei giovani dell'Oratorio - Modo grazioso nell'accordare riduzione di pensione - Lettere di D. Bosco per raccomandare chierici diocesani al Vicario Capitolare di Asti e al Provicario di Torino - Risposta di Mons. Fransoni a D. Bosco; gli Oratorii; i Protestanti; il Seminario di Giaveno; l'esame alle regole della pia Società - Il Piccolo Seminario di Giaveno floridissimo per merito di D. Bosco.

 

                Reduce D. Bosco della passeggiata dovette cercar il modo di pagare una grossa somma all'impresario delle sue nuove fabbriche. Si trovava in impaccio, ma un consiglio provvidenziale lo soccorse. A P.... torinese viveva un vecchio sacerdote l'abate Ag… che possedeva molte ricchezze ed era giudicato assai avaro. Il Ch. Dalmazzo Francesco che aveva in quel paese uno zio, fece a D. Bosco la proposta, di andare con lui a vederlo per tentare di ottenere qualche sussidio da quel sacerdote. D. Bosco acconsentì e ambidue andarono nell'ottobre. L'Abate accolse D. Bosco con piacere, e Don Bosco gli parlò dell'opera sua e del bisogno che aveva di soccorsi. Benchè le sue ragioni nulla avessero esposto di [1039] straordinario, seppe dire con tanta unzione del paradiso e del premio che il Signore ha preparato alle anime caritatevoli, che l'Abate incominciò a scuotersi come convulso, un fremito agitava le sue labbra e gli occhi gli si empirono di lagrime. Si alzò andò allo scrigno, per ben due volte prese quante monete d'oro potè con ambo le mani; e le versò nel cappello di D. Bosco, dicendogli che provvedesse ai bisogni de' suoi poveri giovani. Erano circa 5000 lire.

                Tutto il paese strabigliò quando seppe questo fatto dal Ch. Dalmazzo, e disse aver D. Bosco operato un miracolo.

                Intanto i nuovi alunni affluivano in Valdocco e il 24 ottobre il Cav. Oreglia scriveva al giovane Rostagno infermo a Pinerolo. “Poichè appartieni sempre all'Oratorio ti dirò che in quest'anno sembra che il numero dei giovani arriverà a 600 circa; quindi pensa al lavoro che ha D. Bosco e quel che ha D. Alasonatti:.... D. Bosco ti saluta, e ti raccomanda la pazienza e la continuazione nel bene”.

                Moltissimi degli alunni erano accettati gratuitamente, altri col condono di un terzo o di una metà della pensione. Graziose erano certe sue espressioni nel fare questa carità. Accettando il giovane Audagnotto che poi divenne sacerdote e morì segretario privato di Mons. Gastaldi, scriveva a D. Balladore Prevosto di Beinasco il 23 ottobre. “Inter notos ed amicos facciasi almeno la somma di lire 10 mensili pel giovane Audagnotto; gli altri due terzi di pensione cioè fr. 20 sono a carico del sottoscritto”.

                Ma le accoglienze dei nuovi alunni non impedivano che egli si interessasse vivamente delle sorti e dell'avvenire di que' suoi giovani della Diocesi di Asti e di Torino, i quali propendevano ad entrare in un Seminario e a quelli che avevano già indossato l'abito clericale, e desideravano continuare gli studi nell'Oratorio. [1040] D. Bosco ne scriveva al Monsignore Can. Sossi Vicario, generale Capitolare di Asti.

 

                               Carissimo Sig. Canonico,

 

                Da qualche settimana ho in animo di fare una gita in Asti, ma le faccende di questa casa me l'hanno sempre fatta ritardare. Ora le dirò in breve quanto voleva esporle verbalmente.

                Il chierico Viale cui Ella concedeva anche nelle vacanze due mesi di pensione, per motivo di salute si recò a casa, ed io ho trasferito il favore al chierico Fagnano come veramente degno di premio, il quale passò qui tutte le vacanze e desidererebbe di continuare se nulla osta da parte di Lei.

                Qualora l'avere trasferito al Fagnano il favore del Viale facesse qualche difficoltà, pazienza, ogni cosa sarebbe a mio conto.

                Pel medesimo Fagnano io domanderei l'intera pensione. La condotta e lo studio del figlio lo rendono degno d'ogni riguardo.

                In quanto agli Astesi che subirono l'esame in quest'anno, ecco quanto so di loro. Bossetti e Ferraris fanno qui il I. anno di filosofia, vestiti in borghese - Ciattino va in Asti - Galletti di Cunico mi ha detto ancora niente. - I due fratelli vestono l'abito in Villa S. Secondo e costoro hanno bisogno della sua carità. Il padre ha buona volontà, ma non può pagare; per costoro farei la domanda di 25 fr. mensili caduno; pel resto ci penserei io stesso, cioè metterei tutto nelle mani della divina Provvidenza.

                Avrei ancora un'altro caro giovanetto di Viarigi di nome Preda Lorenzo, promosso con distinzione alla II. Retorica. Lo tengo gratis nella casa da tre anni: i suoi parenti possono far niente. Per ingegno e pietà è assai commendevole, e desidera pure di vestire l'abito clericale; ma ha bisogno di tutto, se Ella potesse dargli un sussidio mensile di fr. 20, io procurerei di farlo andare avanti.

                Ciò rispettosamente domando, affinchè possa condurre a buon termine gli Astesi che aspirano allo stato Ecclesiastico.

                Sono ancora circa 25 gli altri giovanetti di cotesta diocesi che studiano con animo di abbracciare lo stato Ecclesiastico, ma essendo ancora inferiori alla seconda Retorica mi rimetto per ora nelle mani della divina Provvidenza. [1041] Raccomando me e i miei poveri giovanetti alla carità delle sue preghiere ed augurandole ogni bene dal cielo mi professo con pienezza di affezione

                Di V. S. Car.ma

                Torino, 25 ottobre 1861.

Aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Appartenenti alla Diocesi di Torino altri sei candidati dell'Oratorio erano stati ammessi ad esame straordinario per la vestizione clericale; e avendo essi conseguito il loro intento, D. Bosco li raccomandava al Can. Vogliotti.

 

                               Illustrissimo Sig. Provicario,

 

                Il giovane Gallina Giorgio di Chieri, mi scrive ripetutamente di raccomandarlo alla sua bontà per avere riguardi nella pensione pel Seminario di Chieri. Le notizie de' suoi studi e della sua condotta, mi risultano assai buone. Ella poi faccia come giudica meglio nel Signore.

                I giovanetti chierici attendono ansiosi, ed io dovrei dire loro fino dove si estenda il favore che sperano da Lei riguardo alla pensione del Seminario. Se può darmi cenno di risposta mi farà un favore. Andrei in Curia a prenderla, ma in questi giorni non posso disporre molto di me stesso.

                Sempre con pienezza di stima ho l'onore di professarmi

                Di V. S. Ill.ma

                Da casa, 27 Ottobre 1861

Obbl. Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Eziandio al piccolo Seminario di Giaveno egli intendeva continuare le paterne sue cure; ma scrivendo all'Arcivescovo, mentre gli dava notizia dell'Opera degli Oratorii, gli faceva pur cenno della rivalità che intorbidava la direzione di quel Collegio - Seminario. Mons. Fransioni gli mandava la risposta. [1042]

 

                               Carissimo D. Bosco,

 

                Le accludo una lettera di risposta al Pievano di Villa San Secondo, che La prego di far gettare nella buca.

                Mi è riuscito di vera consolazione quanto nella sua lettera del 15 ottobre mi ha significato, riguardo al prospero andamento dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, in tutte le sue ramificazioni. Consolante è pure la sua relazione per l'Oratorio di S. Luigi, e se non l'è allo stesso grado per quello dell'Angelo Custode, parmi però che lo sia abbastanza, pel miglioramento che vi si scorge dopo che ne prese la direzione D. Rua. Ne sia benedetto il Signore. È senza dubbio deplorabile, che i Protestanti facciano delle conquiste sui Cattolici, ma più che l'apostasia degli adulti, i quali di fatto si eran già da prima separati dalla Chiesa Cattolica, è dolorosa la perversione dei ragazzi, che vengono su protestanti senza avvedersene, e danno poi luogo alla formazione di altre famiglie egualmente protestanti. Si è per tal guisa, che deve temersi di vederne accrescere il numero, ma pel momento non posso credere che ascenda all'indicatami cifra di 6650. Lo diranno essi, perchè è una delle solite loro millanterie. E certamente se vi comprendessero tutti gli atei, il numero sarebbe purtroppo anche maggiore, ma questi non vogliono sapere di religione nessuna, e non sarebbero Cattolici quand'anche i Protestanti non esistessero.

                Ho provato una ben disgustosa sensazione all'udire ciò che mi racconta sul Seminario di Giaveno. Le notizie che ne ebbi l'anno scorso furono effettivamente consolantissime e l'aumento degli allievi, ad un numero non mai sperato, ne era la più convincente prova. Quel nuovo Rettore mi si dipingeva come eccellente. Apparteneva egli al personale da lei provvisto o vi era estraneo? Nel secondo caso temerei che fosse esso che avesse cercato di liberarsi dalla sua cura indiretta, come Ella la qualifica. Dell'avvertimento del Pro - Vicario niuno mi fece motto, e mi fa pena ora il sentirlo. Nel fondo, può essere che abbia ragione Ella, e può essere che l'abbia il Pro - Vicario, ma io non oso chiederne direttamente, perchè l'anno prima, quando non sembrava più possibile di sostenere il Seminario, ed io non sapeva che cosa proporre, finii per rispondere, che si cavassero come potevano, mentre [1043] io abbandonava affatto la cosa al loro arbitrio. Mi occorre ben sovente di trovarmi in simile penosa situazione, e dopo aver indicato qual sarebbe la mia maniera di vedere, non m'informo più di quello che si è fatto. Non potendo governare io, e dovendo lasciar governare da altri, mi è forza comprimere il pronto mio carattere.

                Sulla Società di S. Francesco di Sales, mi fu detto, che essendo occorse osservazioni anche d'importanza, come per esempio da chi abbia da dipendere la Società, le si erano rimesse le Regole perchè le aggiustasse e le completasse. Parmi, che dopo mi si dicesse, che avea fatto qualche concessione, ma che vi erano ancora molti notabili difetti. Essendo cosa prudente, posso bene chiederne conto, e lo farò quanto prima.

                Per le Letture Cattoliche, ne ho fatto prendere l'associazione del 1861 in capo del Parroco di Vedèes, Cantone Vaud Protestante, ma dove si trovano molti cattolici.

                Mi saluti cotesti suoi sacerdoti; pregando il Signore di volerli benedire tutti, in un coi giovani ricoverati, e conoscenti, me le ripeto di vero cuore

                Lione, 23 ottobre 1861.

Dev.mo e affmo

LUIGI Arciv. di Torino.

 

                D. Bosco si era adunque lamentato con l'Arcivescovo ma sempre generoso occupavasi a popolare quel Seminario di alunni, i quali dimostrassero di essere chiamati allo stato ecclesiastico; e vi mandava di preferenza coloro che potevano pagare una retta intiera. Per l'assistenza, al Ch. Boggero aggiunse il Ch. Bongiovanni Domenico e il Ch. Bessa. Altri chierici dell'Oratorio erano preparati a prestare in certi casi la loro opera come insegnanti cioè Ghivarello e Ruffino.

                Al fine adunque dell'ottobre 1861, per opera di Don Bosco, come Afferma D. Vaschetti, riprendosi le scuole regolari, gli alunni a Giaveno furono 216, e nei mesi seguenti se ne noverarono sino a 240. Più non sapevasi dove [1044] porli a dormire, perchè erano occupati tutti gli ambienti, anche più ristretti dell'edifizio. Si dovettero perciò riparare ed adattare per dormitorio alcuni rozzi locali che prima erano o sottotetti o vani trascurati e appena usati per ripostiglio.

                Nel programma, stampato da Paravia per l'anno scolastico 1861-62 si legge, esser state riaperte anche le scuole di quarta e di quinta ginnasiale, ossia l'Umanità e la Rettorica. Tutte le classi avevano adunque il loro professore, in Seminario, scelti come nell'anno precedente d'accordo con D. Bosco. Il Ch. Vaschetti insegnava Umanità, mentre come economo e Prefetto sosteneva il peso di quasi tutta la direzione.

 

 

CAPO LXXVI. Divozione di D. Bosco al Sacro Cuore di Gesù e una scismatica convertita - Insegnanti nell'Oratorio - Consolazione di chi ha impiegalo lutto il giorno per il Signore - Argomenti di lettere da suggerirsi agli alunni perchè scrivano ai loro Parenti - Suppliche esaudite per vestiarii al Ministro della guerra, al Re e al Ministro di Grazia e Giustizia per sussidii: al Presidente dell'Opera Pia di S. Paolo per le spese di culto - Tristi presentimenti e malattia mortale del Ch. Provera: Don Bosco gli offre la scelta fra la guarigione e il paradiso: Predice anni di tribolazioni: Due biglietti - Conferenze ai socii: Il consigliere nei dubbi sulla vocazione: Distacco dalle cose terrene - Capitolo e accettazione di un socio - Parlata alla sera: Distrazioni procurate dal demonio ai giovani nel tempo della Santa Messa - Soddisfazioni con danno dell'anima - Tre giovani e un sacerdote raccomandali dal Vescovo di Novara.

 

                La divozione al Sacro Cuore di Gesù ardeva, sin da questi anni, nell'anima di D. Bosco. Di questa sua divozione ne fa parola la nobile signora Elisabetta Seyssel-Sommariva, nata nello scisma e poi convertitasi al Cattolicismo, in una sua lettera a lui scritta da Firenze il 28 ottobre 1861: [1046]

 

                               Reverendissimo D. Bosco,

 

                Quanto Le sono grata della sua carissima lettera giuntami esattamente. Iddio La rimeriti; di più non saprei dire... Sperava tanto di vederla qui; ma ora mi dice la Contessa Pernati che sarà difficile che venga. Lo faccia per amore delle anime alle quali potrà giovare tanto; per animare ed accendere lo zelo tanto languente per la salvezza dei miseri ragazzi; per operare contro la bestemmia. Per l'amor di Dio venga a Firenze.

                Faccio quel che posso per spargere i suoi libri anche nella campagna. La ringrazio del molto coraggio che procura darmi parlandomi delle corone del cielo... Sono tanto debitrice di grazie perdute per me, per gli altri, che temo grandemente la giustizia divina. Però confido assai nella misericordia e nell'amore del Cuore SS. di Gesù, mia prediletta divozione ispiratami da Lei anche prima che fossi Cattolica. Ma i bisogni sono così grandi, non solo per me, ma per il marito, per i figli... Ed ho anche un povero fratello nello scisma: si chiama Michele: lo raccomandi al suo Arcangelo: per carità, mi dica una messa per lui.

 

                Nell'Oratorio erano incominciate regolarmente le scuole e gli insegnanti nell'anno scolastico 1861-62 furono i chierici stessi dell'anno precedente: per la prima classe Provera Francesco; per la seconda Anfossi Giovanni; per la terza Durando Celestino; per quella di Umanità Cerruti Francesco; per la Rettorica Francesia Giovanni Battista.

                Erano indefessi nello studio e nell'adempimento de' loro doveri. Uno di essi diceva a D. Bosco di non avere un momento di tempo che non dovesse occupare nel far qualche cosa. E D. Bosco per risposta fu sentito esclamare più volte, essendo presente D. Bonetti: - Oh! che consolazione si prova mai quando si giunge alla sera stanco e spossato di forze, avendo impiegato il giorno per la gloria di Dio e per la salute delle anime ! -  [1047]

                Riguardo agli alunni la prima norma che dava ai Superiori e agli insegnanti, per la loro educazione, era tale da tener vivo l'affetto alla casa paterna, consolare i genitori, e diffondere anche la fama del lieto e vantaggioso sistema che regolava l'Oratorio. Riportiamo un suo foglio autografo, nel quale spiega in modo laconico la sua idea, perchè venga poi spiegata diffusamente.

 

                Si desidera che ciascun maestro faccia scrivere ad intervalli dagli alunni ai propri parenti lettere tracciate come segue.

                1. Sulla scuola le materie trattate e che si trattano - Ordine e tempo dello studio; ripetizione a chi ne ha bisogno; profitto che sembra aver fatto e si spera di fare; canto fermo, musica ecc.

                2. Ricreazione - Si nominino i trastulli, e se ne descriva alcuno; passeggiate e come si fanno.

                3. Pratiche di pietà - preghiere; meditazione; frequenza dei Sacramenti; ricordi della sera; lettura, Rosario; dovere di pregare pei parenti e pei benefattori.

                4. Feste dell'Oratorio - Musica dei giovani a cui se non adesso sperasi più tardi di prendere parte; teatrino; Gianduia ecc.

                5. Giorno festivo - Levata; pulitezza; varie funzioni di chiesa; argomenti ordinarii delle prediche del mattino e della sera; prima del riposo che cosa si faccia.

                6. Quali cose recano fastidio o contentezza nella casa - Perchè si deve tollerare un incomodo; non si può imparare senza fatica; fuga dell'ozio.

                7. Si parli della casa e se ne descriva qualche cosa: - la chiesa; il refettorio; il pranzo; numero di giovani; assistenti.

                8. Dicasi qualche cosa di Torino; il maestro racconti qualche fatto: - il Santuario della Consolata; la chiesa di S. Lorenzo, la statua equestre del duca Emanuele Filiberto in piazza San Carlo; colonna sulla piazzetta della Consolata; perchè dicasi Valdocco, la regione ove sorge d'Oratorio.

                9. Inverno - gradi del freddo; caldo nelle sale; lume a Gaz; si assicurino i parenti che gli alunni sono riparati dalle intemperie ecc. [1048] Nello stesso tempo non mancavano gli aiuti materiali. Nel settembre con carta da bollo di una lira, erasi D. Bosco rivolto al Ministro della guerra, generale Della Rovere cav. Alessandro.

 

                               Eccellenza,

 

                All'avvicinarsi dei freddi della invernale stagione mi trovo nella necessità di provvedere ai bisogni di oltre a mille poveri giovanetti che domandano vestiarii ed oggetti per coprirsi nel letto. In vista a tale necessità ricorro alla più volte esperimentata bontà dell'E. V., supplicandola a volerci concedere qualunque oggetto di calzoni, mutande, lenzuola, coperte, camicie, scarpe, cappotti, corpetti, o calzetti e simili.

                Comunque tali cose siano rimesse o lacere, saranno da noi ricevute colla massima riconoscenza. Ogni cosa si farà aggiustare e sarà usata a coprire i più poveri figli del popolo.

                Pieno di fiducia nella nota di Lei bontà, auguro ogni celeste benedizione sopra l'Eccellenza vostra e sopra tutti i benefattori di questi nostri giovanetti, mentre ho l'alto onore di potermi professare colla più sentita gratitudine

                Di V. E.

Obbl.mo servitore, untile ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Ebbe dal Ministro risposta favorevole.

 

                MINISTERO DELLA GUERRA.

 

                Direzione generale dell'Amministrazione militare N. 7098.

 

Torino, addì 3 Novembre 1861.

 

                Questo Ministero, secondando la domanda che la S. V. M. R. ha inoltrata, gli è grato significarle onde venire in sussidio ai giovani ricoverati nell'Oratorio da Lei diretto, che ha disposto presso il Magazzino Generale dell'Amministrazione Militare di questa città, onde a titolo di elargizione siano i qui contro distinti oggetti consegnati [1049] a quella persona che, munita di ricevuta da Lei vidimata, si presenterà a ritirarli.

                Questo è quanto Le si partecipa di riscontro al di Lei foglio a margine ricordato (del 30 settembre).

Pel Ministro

INCISA.

 

                Paia scarpe di seconda categoria scelte fra le più piccole 50

                Dette sparpagliate fuori uso 51

                Cappotti da Ospedale fuori uso 95

                Pantaloni 69

                Farsetti usati senza maniche 63

                Cravatte di cotone bianco usate 153

                Fazzoletti da naso usati e fuori d'uso 263] Un'altra supplica in quest'anno D. Bosco aveva presentata al Sovrano.

 

                SACRA REAL MAESTÀ,

 

                La critica annata che corriamo, il gran numero di giovani abbandonati e pericolanti in parte ricoverati nell'Oratorio maschile di Valdocco, parte frequenti alle scuole serali od alle istruzioni festive che si somministrano negli Oratorii di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova e del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, mi hanno costretto a fare una scelta di giovani chierici, onde non mancasse la necessaria assistenza e si avessero maestri e catechisti in numero sufficiente nelle varie categorie e nelle molteplici classi che occorrono farsi. Questi chierici, in numero di dieci, mentre proseguono il loro corso di scuola, impiegano ogni ritaglio di tempo per fare scuola, catechismo ed assistere i giovani, mentovati.

                Ma sono essi assolutamente poveri e perciò eglino stessi in assoluto bisogno di caritatevole soccorso per vitto, alloggio e vestito.

                Egli è per questi poveri chierici che il sottoscritto ricorre alla provata bontà di V. S. R. M. supplicandola caldamente a volerli prendere in benigna considerazione, e accordar loro sopra la cassa [1050] dell'Economato quel caritatevole sussidio che a V. S. R. M. sarà beneviso; affinchè possano proseguire i loro studii e continuare a prestare la loro assistenza ed istruzione a favore dei giovani abbandonati e pericolanti che frequentano gli Oratorii maschili di questa città di Torino.

                La condotta di questi chierici sia nello studio sia nella pietà è buonissima ed esemplare; e per la loro sollecitudine nel prestarsi ad opere di carità meritano ogni benigno riguardo.

                Che della grazia con viva gratitudine si professa a nome anche dei chierici accennati

Umile Supplicante

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                In risposta la regia Limosiniera per sussidio ai chierici dell'Oratorio, per la loro educazione e per quella degli allievi, accordava a D. Bosco lire 300 nel 1861 e lire 280 nel 1863. D. Bosco aveva unito alla supplica l'elenco dei nomi di tutti i chierici e di tutti i giovani studenti.

                Una terza domanda al Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti Miglietti Comm. Vincenzo otteneva la seguente risposta:

 

REGNO D'ITALIA

MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA E DEI CULTI

4° Divisione

N° 41052.

 

Torino, addì 16 dicembre 1861.

                Questo Ministero avendo presa in considerazione l'istanza presentata da V. S. M. Reverenda, promosse a di Lei favore dalla Sovrana Munificenza un nuovo sussidio di Lire 600 sui fondi dell'Economato Generale delle antiche provincie, per i bisogni dei tre Oratorii da Lei fondati e diretti per ricovero ed istruzione dei ragazzi poveri di questa città

D'ordine del Ministro

Il Direttore Superiore

A. MAURI.

 

Al Sac. Bosco. [1051]

                D. Bosco raccomandavasi anche per sussidio alla Compagnia dell'Opera di S. Paolo.

 

                               Illustrissimo Sig. Presidente,

 

                Il Sac. Bosco Giov. Direttore dell'Oratorio di S. Francesco trovandosi in bisogno di pagar e alcune spese fatte in cera ed in altre cose spettanti il Divin culto, e di più in assoluta necessità di provvedere paramentali e biancherie per questa chiesa, dove si fanno tutte le funzioni religiose quali soglionsi fare nelle parrocchie, non sapendo dove cercare aiuto, si rivolge umilmente a V. S. Ill.ma.

                Supplicandola a voler prendere in benigna considerazione il bisogno e la povertà assoluta di questa chiesa, la necessità gravemente sentita che ivi si facciano le sacre funzioni, non esistendo chiesa alcuna in questi popolatissimi caseggiati, e concedergli quel caritatevole sussidio che giudicherà a proposito; e per parare i debiti esistenti che consistono in fr. 300; e per fare provvista di alcuni sacri arredi che sono di maggiore urgenza.

                Pieno di fiducia nella provata di Lei bontà, prega ogni bene dal cielo sopra tutti i benefattori signori Amministratori di questa pia Opera e si dichiara colla più sentita gratitudine

Di V. S. Ill.ma

Umile ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Intanto le scuole erano incominciate e il Ch. Provera Francesco in prima ginnasiale aveva quasi 200 discepoli e le cose erano incamminate molto bene. La consolazione da lui provata nel vedere accettato il progetto di un collegio in Mirabello sua patria, era tanto grande che egli diceva: - È troppo grande il piacere che godo e perciò bisogna che mi tenga apparecchiato a qualche prova, giacchè il Signore suole sempre frammischiare colle rose anche le spine.

                Un caso sopravvenne che, sebbene egli non ne tenesse [1052] conto, pareva tuttavia presagire che ei dovesse venir assogettato a qualche dura prova, a qualche forte lotta. Un mattino trovandosi diversi compagni con lui nell'ora dell'assolvere, Francesco prese a dire: - Stanotte ho fatto un sogno molto strano, nel quale mi trovai in grave imbarazzo, e se vi piace vel racconterò per divertimento. Mi parve di trovarmi in una campagna leggendo un libro, quando mi si fece incontro un mostro orribile. Mentre pensava a darmi alla fuga, colla celerità del fulmine, si avventò furioso contro di me. Non vedendo altro scampo mi posi sulle difese, alzai un bastone che tenevo tra le mani, lo percossi fortemente sulla testa, sul dorso, dovunque poteva, e fu un momento che credetti d'averlo vinto e che se ne rimanesse almeno tramortito. Ma ecco che mentre stavo per voltar le spalle e fuggirmene, il mostro riprende le forze, e con nuova lena mi assale cercando colle sue zanne di squarciarmi il petto. Immaginatevi il mio spavento. Di nuovo mi posi sulla difesa, che mi riuscì più difficile e faticosa, perchè già mi trovava stanco; tuttavia riuscii vincitore. Ma che? il mostro mi si avventò contro la terza e la quarta volta ed io mi sentiva venir meno per la stanchezza; se non che il timore di rimanere sbranato mi dava un po' d'animo, e non cedeva. Trovandomi tutto sudato e trafelato, nè più potendo reggere in piedi, mi volsi al Signore, invocai la Madonna, e mettendo un grido: - O Maria aiutatemi! - mi svegliai. Il grido stesso da me fatto mi riscosse da quello spaventosissimo sogno. Mi sentii consolato allora, soggiunse Francesco, nel trovarmi tranquillo nel mio letto e fuori d'ogni pericolo, ma vi assicuro che mi sentiva realmente affranto di forze, tutto in un sudore. Cercai di scoprirmi alquanto per respirare più liberamente e mi trovai le mani impacciate da non poterle disgiungere l'una dall'altra. Quasi temetti che vi [1053] fosse qualche realtà o mi fossi fatto male nel sogno; quando mi accorgo che avevo legate le mani colla corona del Rosario. Allora ancor più contento mi misi a ridere fra me stesso e dissi: - ah! l'ho capita; l'arma per vincere il mostro non ha da essere il bastone materiale, ma la preghiera.

                Qualcuno fece parola a D. Bosco di questo sogno e il buon padre si limitò a rispondere: - Vedrete!

                Si sa dai libri sacri, che permettendolo Iddio, il santo Giobbe fu colpito da tante disgrazie e da un'orribile malattia per opera del demonio, che tentava con quelle diverse e dure prove farlo maledire il Signore. Or non pare che questo sogno potesse far presagire qualche cosa di somigliante? Il fatto sembrò approvare questa supposizione.

                Infatti dopo pochi giorni che faceva scuola il Ch. Provera, sentissi un dolore piuttosto acuto ad un lato del petto accompagnato da febbre. Una carta scritta dallo stesso, Provera, ci narra le singolari circostanze di questa malattia, e noi vi aggiungeremo per complemento alcune poche cose che egli omise e ci palesò a voce.

                “Non sentendomi più in forze da reggermi in piedi, alla sera del 10 novembre 1861 fui costretto a coricarmi. Ero colto da una pleuropolmonite e da indigestione; aveva la tosse e sputava sangue. Il medico venne a visitarmi e mi praticò varii salassi, ma inutilmente. Il male si andava ognora aggravando. Il domani mi trovai in tale stato che il medico a mezzodì riconobbe versare io in pericolo di vita, e tolta ogni speranza di guarigione. Quindi ordinò che mi fossero amministrati i Sacramenti. D. Rua che mi assisteva, dopo un'applicazione di mignatte, andò a chiamare D. Bosco, il quale, per la quarta volta in quel giorno, fu a visitarmi intorno alle 6 di sera. - Oh! povero Francesco, mi disse con [1054] aria scherzevole; vuoi che ti mettiamo sotto la protezione di Maria SS. e di Savio Domenico?

                Io risposi essermi quella proposta assai cara. Allora D. Bosco mi suggerì di recitare un Pater di cuore; ed inginocchiatosi pregò alquanto; quindi alzatosi stese la mano sopra di me continuando a pregare; e fini con darmi la benedizione. Ciò fatto mi disse: - Ecco io ti assicuro, o il Paradiso o la guarigione. Che cosa desideri? Che cosa ti piace di più? Vuoi tu fermarti ancora un poco a questo mondo e aumentare i tuoi meriti colle tribolazioni, oppure ami meglio che ti facciamo il passaporto per il paradiso? Quale di queste due proposte accetti?

                Io rimasi un momento silenzioso, volendo riflettere alquanto sopra una deliberazione così importante; e poi risposi con tranquillità: -È una domanda questa che mette sovra pensiero: mi dia due ore di tempo a pensarci; ed abbia la bontà di ripassare a vedermi stassera prima di ritirarsi in camera; ed io le darò la risposta.

                D. Bosco riprese: - Ah ti rincresce abbandonare il tuo corpo, abbandonare l'Oratorio! Sospenderemo il passaporto questa volta. Così ti piace?

                - Non è questo che io dico, soggiunsi: bensì che voglia compiacersi di ritornare stassera a visitarmi, ed io le esprimerò il mio desiderio.

                D. Rua vedendo che io non mi appigliava subito al partito più conveniente, disse quasi meravigliandosi: - Ed hai ancora da pensare?

                E D. Bosco: - Eh sì; la vita è sempre cara. Basta! Adesso lasciamo le cose nelle mani del Signore. Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra. Poscia mi si accostò all'orecchio e disse: - Non darti fastidio alcuno: prima di discendere a cena passerò di nuovo per vedere se mai desiderassi di [1055] rinconciliarti con Dio; e poi se sarà il caso dopo le orazioni ti porteremo il SS. Viatico. - Quindi mi esortò alla rassegnazione ed alla tranquillità e soggiunse ad alta voce: Quando avrai ben pensato e scelto me lo farai sapere. E se ne andò.

                D. Bosco aveva fatti appena pochi passi fuori della stanza che io mi deliberai. Mi trovava tranquillo di coscienza, avrei potuto ricevere ancora i sacramenti della confessione e della Comunione, dell'Olio Santo e tutti gli altri conforti della Chiesa; avrei avuto assistente nella mia agonia lo stesso D. Bosco nel quale aveva tanta fiducia: se avessi aspettato un'altra volta a morire non ero sicuro di avere tutti questi vantaggi, e non sapevo come sarebbero andate le cose dell'anima mia nel corso della vita. E poi se D. Bosco mi promette il paradiso, sono sicuro di andarvi. - Decisi quindi di chiedere il passaporto pel paradiso.

                In quel mentre venne il Cavaliere di S. Stefano, e D. Rua narrogli quanto era successo poco prima tra me e D. Bosco. Ed egli udendo la mia esitazione, disse sorridendo: - Se io fossi stato al suo posto non solo avrei aspettata la morte, ma sarei saltato giù dal letto e le sarei andato incontro.

                - Ma perchè replicò D. Rua, non hai scelto subito il paradiso? Perchè non accettare?

                - Ho anch'io pure, soggiunsi, conosciuto il partito di maggior vantaggio, ed ora attendo impaziente la venuta di D. Bosco per manifestargli la mia deliberazione. Anzi vada lei a dire a D. Bosco che io accetto il passaporto.

                D. Rua, quando scese in refettorio per la cena, fece la commissione a D. Bosco, il quale gli rispose: - Troppo tardi, non è più a tempo per ora; avrà ancora da patire per varii anni. [1056]

                D. Rua non ritornò per riferirmi quella risposta, ed io non potrei dire quanto fossi contento della mia decisione. Già faceva i miei calcoli di raccomandare a Maria Santissima i miei Superiori, i miei parenti, i miei compagni e cominciava a bearmi nel pensare al mio ingresso nella patria celeste, accompagnato dagli angioli. Il tempo dalle 6 alle 8 sebbene fossi aggravatissimo, sembrommi un momento. Suonò intanto l'ora di cena ed io ansiosamente aspettavo D. Bosco; ma non comparve. Allora un pensiero prese ad intorbidare alquanto il mio gaudio e dissi fra me: - D. Bosco non venne a confessarmi, come aveva promesso. Forse avendomi veduto così esitante nella scelta, andò in sua camera e se la intese col Signore perchè io non morissi, ma vivessi ancora e riacquistassi la sanità. Ciò mi rincrescerebbe molto! Che mai feci col non decidermi subito, cogliendo il punto! - E così me ne stetti inquieto fino alle ore 10, quando entrò D. Bosco. Appena lo vidi esclamai: - Oh D. Bosco io desidererei di andare in paradiso. Mio caro, rispose egli, non siamo più a tempo! Bisognerà aver pazienza; la grazia della guarigione è ottenuta, ma rassegnati e preparati a rimanere ancora un po' di tempo su questa terra per tribolare e molto.

                A tali parole io mi affliggeva: - Oh povero me! Aveva già fatti tutti i miei conti, ed ora qual nuova ella viene a recarmi! Non si potrebbero combinare diversamente le cose secondo il mio desiderio?

                D. Bosco m'interruppe dicendo: - Eh sì! Bisognerebbe rivocare le cose chiamate, il che non conviene; contuttociò non hai da prenderti fastidio alcuno. Io ho domandato al Signore che tu rimanga ancora in vita al fine di guadagnargli anime pel cielo. Adesso lasciamo le cose nelle sue mani. Diedemi poscia di nuovo la benedizione, mi disse qualche [1057] altra parola di conforto e poi mi lasciò.... Così io che era persuasissimo di andare quanto prima nel numero dei più, divenni persuasissimo di riacquistare la sanità e di continuare a vivere.

                Nel mattino seguente ricevetti il SS. Sacramento per divozione, mi sentii meglio ed era fuori di pericolo. Il medico entrando nell'Oratorio, incontrò D. Alasonatti e gli chiese: - A che ora è morto ieri sera?

                - Chi? - rispose D. Alasonatti, perchè vi erano due ammalati nell'Oratorio.

                - Il chierico, disse il medico.

                - Sta meglio.

                - Oh! In paradiso! esclamò il dottore.

                - No; vada e vedrà che si può dire entrato in convalescenza.

                - Possibile ?... Aveva tanto male da morire dieci volte.

                E dopo l'ottavo giorno di letto lo stesso medico dichiaravami libero da ogni male col solo bisogno di riprendere le forze perdute,chè pure riacquistai. E ritornava alle mie occupazioni.

                Un'altra volta D. Bosco mi diede ancora prova del suo potere presso Dio. Un anno dopo nel luglio del 1863 ricaduto infermo e assai gravemente, egli venne trovarmi mentre io era inquieto.

                - Non corrucciarti di niente mi disse: lascia a me ogni cura tanto per l'anima quanto pel corpo; e tu non pensare a nulla. - Stante la fiducia che io aveva in lui, fui da tali parole siffattamente confortato che durante tutto il tempo della malattia, trovandomi per qualsiasi causa in agitazione bastavami ricordarle per subito rimettermi in calma”.

 

Provera Francesco Ch. [1058]

 

                Egli guarì anche da questa infermità, ma la profezia di D. Bosco dovevasi avverare. Poco tempo dopo fu colto da carie alla noce di un piede che gli aperse una piaga, la qualè, per le fitte che gli dava e per le operazioni dei medici, gli fece soffrire di continuo, finchè visse, un'infinità di dolori. Fu costretto ad appoggiare il ginocchio su di una gamba di legno e ad usare le stampelle. Ciò non gli impedì di lavorare come Prefetto nei collegi di Mirabello, di Lanzo, di Cherasco, e nell'Oratorio di S. Francesco di Sales; e rese innumerevoli servigi alla Pia Società fino al 1874, anno nel quale morì. Per la sua pazienza in mezzo a tante e dure prove egli venne molte volte paragonato al Santo Giobbe.

                D. Bosco nel corso di questi anni gli aveva scritti due biglietti, in occasione che ne aveva preparato uno per ogni singolo chierico, o alunno: - I. Provera: Omnis patientia in terris, Mesaurum in coelo tibi comparabit. -

                II. Provera: Se vuoi volare allo coimncia dal basso humilitas est totius aedificii spiritualis fundamentum.

                Tali furono le gravissime tribolazioni che dovevano fare acquistare a Provera grandi meriti presso il Signore, ma nel 1861 si era avverata la prima parte della predizione di D. Bosco ed egli poteva ricomparir nella scuola e riprendere le sue lezioni. Con viva gioia anche i suoi confratelli lo videro perfettamente guarito assistere alle conferenze della Pia Società nella camera di D. Bosco.

                “Il 20 novembre 1861, scrisse D. Bonetti, D. Bosco parlò a tutti i soci radunati, di coloro che si sentono dubbiosi riguardo allo stare nella Congregazione, e diede questi ammonimenti: - Qualora il demonio mettesse in capo a qualcuno di lasciare la Congregazione, ed egli si trovasse perciò in angustia, ne parli, domandi consiglio. E questo consiglio non si vada a domandare a persone estranee [1059] alla Congregazione, le quali non essendo bene informate, ci potrebbero consigliare non secondo la volontà di Dio; nè anche si vada a chiedere consiglio a quelli che, per usare un termine moderno, sono un po' liberali: ma si vada da quelli che ci paiono i più fervorosi, ed i più zelanti; si vada in una parola, dal Superiore….. Prega prima bene il Signore che ti faccia conoscere la sua volontà e poi sta sicuro che il Superiore non potrà fare a meno che darti un consiglio che sarà vantaggioso per l'anima tua. Quando poi avrai sentito il suo parere non istare a far istanze e a mostrarti restio; poichè allora il Superiore, per togliersi la seccatura, ti lascierà fare come più ti aggrada, sebbene vegga che tu non faccia il volere di Dio.

                Il giovedì 21, D. Bosco, dopo che i chierici ebbero recitati alcuni versicoli del nuovo testamento disse loro: - Se vuoi essere vero figlio di D. Bosco, bisogna che ricordi tu non essere più per la famiglia e per gli interessi materiali, ma di Dio e per Iddio: bisogna che lasci tua, tuos et le, i beni di questa terra, i parenti e quindi te stesso. Chi si sente di far questo è, il più felice in questo mondo egli sarà discepolo di Gesù Cristo, vero figlio di Dio. Iddio sopra di lui verserà le sue grazie, e gli riempirà il cuore del suo divino amore. - Quindi in conferma di ciò raccontava la visione che ebbe S. Teresa, la quale aveva lungamente pregato il Signore che la riempisse del suo amore. Ella vide un sacco, che conteneva metà terra, e metà oro. La Santa corse subito per vedere se poteva prendere dell'oro, ma non trovava modo se non coll'aprire la bocca del sacco e toglier prima la terra. Si mette adunque a togliervi la terra e di mano in mano che la terra se n'andava, l'oro veniva ad occupare il posto. Allora comprese che se voleva avere il [1060] suo cuore pieno dell'amor di Dio, doveva bandirne ogni terreno pensiero ed affetto.

                Così, soggiunse, devono fare tutti i cristiani e specialmente quelli, e diciamolo noi che siamo chiamati ad uno stato tanto sublime”.

                I suoi dolci inviti facevano intanto accrescere di nuovi aspiranti il numero de' suoi coadiutori. Sono lenti i progressi della Pia Società, perchè la prudenza di D. Bosco non ha fretta.

                Leggiamo nei verbali del Capitolo:

 

                Li 23 Novembre 1861 il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales, dopo essersi radunato, fatta la solita invocazione allo Spirito Santo, fece l'accettazione del giovane Diatto Emanuele di Michele di Sanfré, il quale avuta la maggiorità dei voti fu ricevuto tra gli altri confratelli.

 

                Fra i nuovi alunni l'efficace parola di D. Bosco preparava felici successi da conseguirsi nell'anno  scolastico.

                Il 28 novembre, come dice D. Ruffino, raccontò un sogno, o apologo, incominciando così:

                - I sogni si fanno dormendo, perciò io dormiva. La mente mia si trovò in chiesa ove stavano raccolti tutti i giovani. Incominciò la messa ed ecco che io vidi molti domestici vestiti di rosso colle corna, cioè diavoletti, aggirarsi in mezzo ai giovani in atto di servirli. Ad uno presentavano la trottola, innanzi ad un altro la facevano girare; a questo presentavano un libro, a quello delle castagne calde. Qui un piatto d'insalata, là un baule aperto col salame riposto; a questo additavano il loro paese, all'altro susurravano alle orecchie le vicende dell'ultima baraonda, ecc. ccc.

                Uno era invitato coll'esempio a suonare il piano, ed [1061] egli ci aderiva; ad un altro facevano la battuta della musica; insomma ciascheduno aveva il proprio domestico che lo invitava a cose profane. Alcuni diavoletti poi se ne stavano sulle spalle di certi giovani, non facendo altro che accarezzarli e lisciarli.

                Giunse il tempo della consecrazione. Al tocco del campanello tutti i giovani si prostrarono e scomparvero i diavoletti, ad eccezione di quelli che stavano sulle spalle. Questi insieme coi giovani da loro posseduti, si rivolsero colla faccia verso la porta della chiesa senza fare alcun segno di adorazione. Terminata l'Elevazione ecco comparire di nuovo quella musica, ossia quel divertimento, cioè ciascun servitore ripigliava il suo ufficio.

                Se volete che io vi dia una spiegazione di questo sogno eccola: io credo che significhi le varie distrazioni cui, per suggestione del demonio, va soggetto ciascun giovane in chiesa. Quelle poi che non scomparvero al tempo dell'elevazione dinotano quei giovani occupati dal peccato. Costoro non hanno più bisogno che il demonio presenti loro oggetti di distrazione, perchè sono già suoi: non fa più altro perciò che accarezzarli: quei giovani non sono più capaci di pregare.

                La dissipazione naturale in giovani ritornati dalle vacanze, il desiderio di libertà, il ricordo delle cipolle d'Egitto, sul principio dell'anno erano causa in alcuni di malcontento. “Due di questi, nota il Ch. Bonetti, che appartenevano a famiglie denarose non volendo adattarsi alla vita dell'Oratorio, dai parenti, che idolatravano i figli, erano stati fatti iscrivere in un collegio alla moderna. Ivi dicevasi, avrebbero avuti cinque piatti a pranzo, tre a cena, sarebbero stati condotti al ballo, al teatro ed a divertimenti di simil genere. Don Bosco aveva cercato di persuaderli a rimanere e quando [1062] vennero per congedarsi disse loro: - Sappiate che tutti i piaceri ai quali anelate non potranno fare la vostra felicità. Ricordatevi che avete un'anima da salvare; che se la salverete sarà salva per sempre; se la perderete sarà perduta per sempre; e Iddio vi accompagni.

                Alla sera raccontando ai chierici il fatto, soggiungeva:

                - Due giovani di quattordici anni allevati fra tante tentazioni, quale riuscita saranno per fare?

                Non fu certamente quella di tanti altri alunni che andavano crescendo nel santo timor di Dio, come tre giovanetti collocati nell'Oratorio da Mons. Gentile Vescovo di Novara. Questi con lettera del 23 novembre manifestava la sua soddisfazione per la buona riuscita che quelli avrebbero fatta sotto la direzione di D. Bosco. Al Servo di Dio poi raccomandava anche il prete D. Ferrabuco, perché, essendo egli tutto carità, lo esortasse a mettersi in regola colla Santa Chiesa, per certo benefizio ecclesiastico chiesto ed ottenuto dall'Autorità civile, senza previo indulto del Superiore Ecclesiastico.

 

 

CAPO LXXVII. Il Galantuomo Pel 1862 e le Sue Profezie - Lettura Cattolica per il prossimo gennaio - Alcune vestizioni clericali - Capitolo e accettazione di soci - Un alunno che la novena di Natale costringe a ritirarsi dall'Oratorio - Don Bosco infermo di risipola - L'ultimo giorno del 1861: consigli di D. Bosco a tutti gli alunni: sua promessa di una strenna straordinaria.

 

                In dicembre era terminata la strenna agli associati delle Letture Cattoliche ed era stampata nei primi giorni di gennaio. Portava il solito titolo: Galantuomo, almanacco piemontese - lombardo per l'anno 1862. Il galantuomo e le sue Profezie.

                Incominciava con varietà utili e curiose d'agricoltura. - Coltura delle patate e varii modi di moltiplicarle - Delle piante fruttifere; come allevarle, innestarle, liberarle dalle formiche - Conservazioni dei fiori.

                Quindi si leggeva una canzone in dialetto piemontese contro il vizio dell'ubbriachezza, seguita da una comunicazione agli associati.

 

IL GALANTUOMO A' SUOI AMICI.

 

                Per la nona volta, venerati amici, vengo a farvi visita, e se qualche brutto accidente non mi impedirà, conto di potervi ancora venire per molti anni. Debbo mettere questa condizione, perchè avvi uno che è qualche cosa più di me, anzi è mio padrone. Costui [1064] se vuole, in un momento mi fa tacere, e mi manda a fare conversazione coi vermi al campo santo.

                Finora però vivo ancora, e con me vive il mio codino il quale mi fu strappato da una palla di cannone nella battaglia di Solferino; ma poco per volta rinacque, crebbe e ritornò al suo stato normale di prima. Mi gode eziandio l'animo il trovarvi ancora voi tutti sani e salvi; ciò dico a voi con cui io parlo e non a quelli che andarono a cercarsi una dimora sotto terra. Siate adunque tutti felici, vivete molti anni in sanità ed allegria; questi siano i giorni vostri e quelli dei vostri amici.

                Io mi pensava in quest'anno di potervi narrare le mie vicende del passato, e ne avrei molte, ma motivi di prudenza e di rispetto mi persuadono a differire i miei racconti ad un tempo più sereno, in cui non ci sia più pericolo di temporali, di grandine, di turbini e di uragani. Siate cortesi di contentarvi delle cose ordinarie degli almanacchi, del calendario in cui vi è un cenno della vita del santo che occorre nel giorno. Di poi vi noterò il levare ed il tramontare del sole e della luna, del giorno e della notte, quindi con facile induzione ognuno potrà fissarsi l'ora del mangiare, del bere, del dormire, del riposare, del ridere, del piangere, del giuocare, del passeggiare secondo la libertà e secondo il bisogno.

                Intendo poi essere mio dovere di spiegarvi le profezie dell'anno scorso, cui seguiranno altre di quest'anno. A proposito di profezie voglio dirvi che in un modo o in un altro devono sempre conseguire il loro avveramento, perciocchè gli almanacchi hanno il diritto di stiracchiare tanto i loro detti quanto è necessario per avere sempre ragione. Ciò posto eccomi all'opera.

                Le profezie per lo scorso 1861. - Vi diceva che nel 1861 due cospicui personaggi sarebbero scomparsi dal mondo politico. Dal mondo politico già scomparvero il granduca di Toscana ed il duca di Modena. Quest'anno scomparvero dal mondo vivente non più metaforicamente, ma in senso letterale due cospicui personaggi e questi sono il conte di Cavour che andò nel numero dei più il 6 giugno anno corrente, ed il Re di Portogallo.

                Vedrete il vino a miglior prezzo ma più caro il pane. R. - Tutti quelli che mangiano e che bevono sanno per esperienza l'aumento del prezzo del pane, e la diminuzione in quello del vino. Ciò l'anno scorso fu in senso allegorico, in quest'anno è in senso letterale. [1065] Un paese sarà rovinato dal terremoto. - Ognuno sa che cosa sia avvenuto per la eruzione del Vesuvio nel regno di Napoli. Là vicino a quel monte vi è un paese detto Torre del Greco. Questo paese non è più. Il terremoto succeduto sul principio del dicembre di quest'anno scosse con tale violenza le vie, le piazze, le case, che gli abitanti dovettero fuggire per non rimanere schiacciati. Di più il Vesuvio facendo in quegli stessi giorni terribili e spaventevoli eruzioni con lava, cenere, bitume, pietre e fuoco orribile, coprì e distrusse gli avanzi delle abitazioni e seppellì nelle voragini e nei rottami, coloro che non poterono per tempo fuggire.

                Altri paesi saranno desolati dalla siccità. - Ognuno ricorda il calore eccessivo di quest'anno. A memoria d'uomo non fu mai somigliante. Basti il dire che in molti paesi provincie e regni entro e fuori d'Italia, da aprile a gennaio, non cadde più una pioggia che si possa dire aver innaffiate le campagne. Ancora presentemente (I gennaio 1862) vi sono paesi e città che hanno i pozzi e le fontane vuoti d'acqua, le campagne bruciate, i terreni e le seminagioni secche per mancanza di pioggia benefica che da tanto tempo si attende indarno dalla mano del Creatore.

 

I grandi avvenimenti del 1861.

 

                Gli avvenimenti di quest'anno sono molti ed essendo pubblici sono noti a voi e a me, perciò io ve ne andrò accennando alcuni, affinchè ne possiate essere giudici e riconosciate in essi il dito del Signore.

                Una terribile siccità si fece sentire in tutta Italia e fuori. Molti paesi e città intere dovettero condurre i loro bestiami fino in lontananza di cinque miglia per abbeverarli.

                I secondi raccolti, cioè meliga, miglio, patate, fagiuoli ecc. si possono dire interamenti falliti. Molti incendi devastarono case, isole, ed anche paesi. Ogni dì nei giornali si pubblicavano e si pubblicano parecchi incendi che hanno cagionato danno immenso. Fra i molti avvenuti in Torino si nota soltanto quello di casa Tarino. Mentre io assisteva a quel doloroso spettacolo ho più volte udito dire: - Dicano gli uomini quello che vogliono, ma questi disastri sono un flagello di Dio.

                E la reazione ed il brigantaggio di Napoli? [1066] Tutti si pensavano che una decina di uomini bastassero a disperdere o catturare Chiavone co' suoi cinque o sei compagni briganti, ma intanto sappiamo che furono già spediti colà circa centomila uomini, di cui molti restarono morti o feriti, molti caddero ammalati e mi dicono che l'affare non sia ancor finito.

                Non pochi si consolano perchè molti briganti siano stati uccisi o presi e fucilati e che così il loro numero fu assai diminuito. Che utile mi dà la morte dei briganti mentre tanti nostri parenti ed amici lasciarono al par di loro la vita? Potrebbe a taluno recare consolazione se la morte di coloro avesse portata la vita ai nostri, ma la cosa non fu così. Furonvi accaniti combattimenti da ambe le parti, restaronvi morti e feriti da ambe le parti, e v'è ancora da fare assai da ambe le parti. Anche qui dobbiamo dire: Bellum Dei flagellum. La guerra è un flagello che permette Iddio per castigare i peccati degli uomini.

                Io vi dico con sincerità, che vorrei che neppure un brigante fosse morto, neppure uno dei nostri fosse rimasto neanco ferito, che tutti vivessero in pace alle loro case, colle loro famiglie, coltivando le campagne, lavorando ne' loro mestieri. Così potrebbero anche meglio praticare la loro religione, e santificare i giorni festivi, e, se vi piace, anche fare qualche partita a carte, a tarocchi, alle boccie, o se non altro a fare qualche festino, qualche allegria, qualche passeggiata o merenda coi parenti e cogli amici.

                E un grande avvenimento che in mezzo a tanti progetti, tanti desiderii, il Papa abbia potuto rimanere tranquillo in Roma e conservare libere le sue relazioni con tutti i paesi della cristianità.

                Al Papa stanno uniti i veri Cattolici guidati dai loro Vescovi che con un cuor solo e con un'anima sola professano, insegnano, difendono le dottrine del Vicario di Gesù Cristo.

                È altresì un grande avvenimento la spaventevole eruzione del Vesuvio, la siccità avvenuta, il freddo rigido che ci affligge, la carestia che cresce.

                È pure un grande avvenimento la morte del Re del Portogallo. Dicesi che poco tempo prima egli co' suoi ministri disprezzasse la scomunica come roba antiquata e di nessun effetto. Intanto passarono pochi giorni e moriva suo fratello di morte quasi improvvisa; quasi nello stesso tempo il medesimo re alla verde età di 24 anni, dopo appena alcuni giorni di violenta malattia, cessava [1067] di vivere fra gli spasimi. Sono eziandio gravi avvenimenti le guerre di America, di Polonia, del Monte Libano, del Montenegro, ma niun fatto è così strepitoso come la morte di Cavour.

                Si sa che esso aveva il filo politico di tutti gli affari. La sua morte precipitata lo impedì di comunicare ad altri i suoi segreti; morendo poi in un tempo inaspettato pose il mondo in costernazione e costrinse i buoni e non buoni a dire: Qui è la mano del Signore che dà e toglie la vita a chi vuole e quando vuole.

                Qualcheduno dirà: - Gli affari non andarono con Cavour alla tomba.

                Sono anch'io del medesimo parere. Io credo e ne sono persuaso, che il mondo non andò, nè andrà alla tomba con Cavour; ma intanto colla sua morte si è perduto il bandolo e d'allora in qua la matassa politica fu ognora più ingarbugliata. Vi era uno che aveva l'altra estremità del filo; ma adesso egli non sa più dove fissarne la parte opposta. Costui che è ancor vivo, sa benissimo giuocare alla palla, ma da solo non può fare la partita, nè sa dove trovare un amico che voglia o sappia fargli compagnia.

                Qui siamo di nuovo al punto di prima, cioè che la mano di Dio confuse la mente degli uomini.

                Farà stupire che nel 1861 sia cominciata l'era di pace; pure è così. Gli uomini sono miseri strumenti della divina potenza. Facciano a talento quello che vogliono, ma la bussola è perduta e non si trova più. Ci sarà ancora la guerra ci saranno ancora disordini di altro genere, ma niuno potrà impedire la mano di Dio che agisce tra noi, perciò verrà il tempo, e non sarà lontano, che ogni buon cattolico potrà vivere in pace professando la sua religione. Ma nel tempo stesso debbo dirvi che gli avvenimenti del 61 sono soltanto l'indice di quelli che succederanno nel 1862.

 

Gli avvenimenti nel 1862.

 

                Sebbene sia cominciata l'era di pace, tuttavia lo stato delle cose del 1861 non è altro, come si disse, che l'indice di quanto avverrà nel 1862. Perciò quelle piccole guerre che l'anno scorso cominciarono, in questo anno prenderanno assai più vaste proporzioni, ma passati tre quarti dell'anno cesseranno le ostilità e gli uomini me prima camminavano come privi di testa, cominceranno a conoscere i loro condottieri e faranno un passo indietro [1068] in quella medesima strada per cui ciecamente hanno camminato molto tempo senza frutto. Ma guai a coloro' che saranno incontrati mentre si farà quel passo indietro.

                Una malattia terribile affliggerà molti in quest'anno. Ma farà assai bene alle anime. Questo flagello si potrebbe mitigare assai se gli uomini santificassero meglio il giorno festivo.

                Verranno la sete, la fame, gli ulceri a punire le bestemmie che ogni giorno si proferiscono contro al nome di Dio, contro alle cose di religione. Guai ai bestemmiatori! Si pentiranno fino quelli che di essi hanno compassione.

                Sino ad un certo punto dell'anno si temerà assai dei frutti della terra, che di fatto saranno molto devastati, ma dopo i due terzi dell'anno non vi sarà più pericolo di carestia.

                Ora vi dirò una cosa assai importante, state attenti e procurate di capire. Vi è un verme terribile che gira rodendo la vita degli uomini. Molti studiarono di assalirlo ed ucciderlo, ma inutilmente; niuno lo può arrestare. L'anno scorso forò il cervello a molti, che perciò divennero semipazzi, di poi andò a passare per la spina dorsale di un uomo grande e lo rose fino al cervello; questa fu la cagione di sua morte.

                Ora è già entrato nella spina dorsale di chi da alcuni pazzamente credesi direttore del mondo. La metà è rosa; gli effetti li vedrete in quest'anno.

                Io vorrei ancora dirvi molte cose, ma la prudenza mi dice che basta, perciò mi limito ad aggiungere soltanto alcune profezie antiche le quali hanno relazione coi tempi nostri.

 

                E l'almanacco rapportava una predizione manoscritta di un povero villanello di Fiandra fatta nel 1792.

                Finiva colla nota: - Distribuzione delle Quarantore nelle Chiese della città di Torino.

                Col Galantuomo, per gennaio 1862, Paravia avea pronto il fascicolo: Divozione delle sette domeniche consecrate ad onorare i dolori e le allegrezze di S. Giuseppe con indulgenza plenaria ogni domenica, del P. Ughet. Traduzione di Giuseppina Pellico. [1069] Intanto coi soliti modi e colla solita devozione, celebravasi nell'Oratorio la festa dell'8 dicembre. Prima dei vespri Don Bosco manteneva la promessa fatta nel maggio. Egli aveva procurata una bella statua in cemento di Maria SS. Immacolata. Il capo mastro Buzzetti Carlo la collocava sulla cima del frontone, presso il luogo colpito dal fulmine e innanzi vi piantò un solido tavolato. D. Bosco salì a quell'altezza vestito di cotta e stola, circondato da una schiera di chierici e benedisse solennemente la statua. Indi da quel ponte, che fu certamente il più alto pulpito del mondo, fece ai suoi giovani, raccolti nel sottostante cortile, una brevissima ma calda esortazione ad onorare, ad amare, a confidare sempre nella gran Madre di Dio. Cessato di parlare egli di là intonava la lode che incomincia: Lodate Maria o lingue fedeli; e i giovani la proseguirono sino alla fine, con un affetto e slancio indescrivibile, accompagnati dalla banda musicale, che gareggiava alla sua volta nel riempire l'aria di armoniosi concenti a gloria e in ringraziamento alla nostra celeste Protettrice.

                In quel giorno vestivano l'abito clericale i povani Jarach, Costanzo, Mignone e Murra. Mons. Gianotti Vescovo di Saluzzo e gli Ordinarii di varie diocesi avevano autorizzato e delegato D. Bosco a benedire gli abiti talari ed a vestirne questi e varii altri alunni per conto delle loro diocesi. Il giovane Albera Paolo aveva ricevuta la sacra vestizione a None, il 29 ottobre, dal suo parroco il Teol. Abrate Vicario Foraneo.

                Anche la Pia Società aggregava nuovi membri. Dicono i verbali del Capitolo:

 

                Li 15 dicembre 1861, il Rettore della Società di S. Francesco di Sales, dopo aver radunato il Capitolo e fatta insieme l'invocazione dello Spirito Santo, propose alla votazione i giovani Don [1070] Luigi studente dei fu Giovanni di Vigone e Mignone Giuseppe chierico figlio di Felice da Mazzè. Ebbero tutti e due i voti favorevoli e furono accettati nella Società.

 

                Incominciava la novena del Santo Natale, e in essa si rinnovava il fatto dell'allontanamento spontaneo dall'Oratorio, di chi non era di buon esempio ai compagni.

                Nel 1861 il giovane Ric… entrato nell'Oratorio da pochi mesi, non si era mai voluto andare a confessare.

                Quando egli scendendo le scale vedeva D. Bosco salire, si volgeva subito indietro e correndo pel corridoio saltava giù a precipizio da un'altra scala. Non una volta sola Don Bosco potè incontrarlo, benchè facesse ogni sua parte per parlargli, mettendogli anche ai fianchi buoni compagni che a lui lo conducessero.

                Ma la vigilia del Santo Natale, Ric…..si sentì in dosso un grave malessere e nella notte andato in frenesia incominciò a gridare che aveva attorno al letto i demonii, che questi lo afferravano, che lo trascinavano e le sue grida paurose si udivano per tutta la casa. Quindi in preda ad un terrore sempre più profondo incominciò a fare una narrazione delle più abbominevoli. L'assistente, Ch. Giuseppe Bongiovanni, comandò a tutti i giovani della camerata, svegliati a quelle grida, che si turassero le orecchie. Al mattino si era calmata alquanto la febbre, ma Ric… avendo saputo quali rivelazioni avesse fatto quella notte in delirio, così infermo come era, fuggì a casa sua e mai più si vide, nè si ebbe di lui notizia.

                D. Belmonte Domenico fu teste del fatto.

                Passate le feste Natalizie D. Bosco, racconta D. Ruffino, cadde ammalato di risipola e tenne il letto per alcuni giorni. L'ultimo giorno dell'anno 1861 si sentì meglio. Alla sera disse di voler scendere in parlatorio. Era cosa contro il parere di [1071] tutti. Egli discende dalia stanza e sale in cattedra per dare secondo il solito la strenna generale a tutti i giovani plaudenti e così prende a parlare, secondo la cronaca di Don Bonetti:

 

                Ho voluto discendere per vedervi e per parlarvi questa sera, perchè era persuaso, se non fossi venuto, che non vi avrei di quest'anno mai più veduti, nè più parlato (si ride.) L'anno 1861 è trascorso: quelli che l'hanno passato bene ora si troveranno contenti, gli altri se ne potranno pentire, ma quest'anno non potranno più averlo: il tempo passa irreparabilmente: fugit irreparabile tempus. Io son solito ogni ultima sera dell'anno dare ai miei figli alcuni ricordi per l'anno veniente. Ecco i ricordi che io vi do pel 1862.

                Fatevi un grande impegno per ascoltar bene la S. Messa e ciascuno per parte sua si adoperi, nel promuovere la divota assistenza a questa. Quest'anno ho molto bisogno che voi facciate ciò che vi raccomando e mi sta molto a cuore l'ottenerlo. Noi siamo minacciati da grandi disastri. La S. Messa è il grande mezzo per placare l'ira di Dio e tener da noi lontani i castighi. Quindi si metta pure in pratica quel bel consiglio del Sacro Concilio di Trento: ogni volta che assistiamo alla santa Messa procuriamo di tenerci in tale stato di poter fare la nostra santa Comunione, per così viemaggiormente partecipare a questo augusto sacrificio. Ciascheduno facciasi un grande impegno per adempiere i doveri del proprio suo stato, cominciando da quelli che hanno qualche ingerenza nella casa. Taluno sarà capo di camerata, di studio, di laboratorio; capo di tavola: ebbene, si adoperi a tutto suo potere per disimpegnare quel suo uffizio. Ma mentre io ciò raccomando a quelli che sono in qualche modo superiori, non voglio dimenticare di raccomandare ai subalterni ubbidienza e sommissione. Se così farete, tutto procederà con ordine ed avremo un anno pieno di pace e di tranquillità. Io auguro poi agli artigiani che possano attendere allo studio della loro professione e venire capaci di guadagnarsi onoratamente il pane col sudore della propria fronte: auguro loro maggior sollecitudine per la salute dell'anima. Agli studenti io auguro che possano imparare la scienza profana, senza dimenticare la scienza dei santi. Ma quale augurio fate voi [1072] a Don Bosco? Mi pare di vedere nei vostri cuori il vivo desiderio che io viva lunghi anni. E io accetto ben di cuore questo vostro augurio. Io pure vi auguro molti anni e felici. Ma potrò assicurarvi che per voi tutti avrà effetto questo mio augurio? Eh! no! Forse al fine del 1862 non ci troveremo più tutti in vita. L'anno scorso in questa stessa sera dicevamo, che forse non ci saremmo più tutti trovati al mondo in questo giorno. Vi era pure con noi Martino ed egli eziandio, andava dicendo: - Chi sa chi sarà colui che deve andare all'altra vita? -E non si sarebbe mai più creduto di essere lui stesso. Eppure fu così. Venne sino quasi alla fine dell'anno, e poi se ne dovette partire circa al 26 del corrente. Con lui partirono un Maffei, un Quaranta, un Roggero. E se l'anno scorso che eravamo in minor numero, tuttavia quattro ci mancarono, potremo noi sperare di trovarci ancor tutti a questo mondo l'anno venturo, mentre siamo in numero maggiore? Teniamoci tutti preparati, affinchè la morte arrivandoci alle spalle ci trovi pronti a partir tranquilli per l'eternità. Quanto vi ho ora detto fa per tutti in generale.

                Ma nei giorni finali degli altri anni, data la strenna generale, io era solito di darne ancora una particolare a ciascuno. E quest'anno farò ancora così? Si lo farò, e lo farò in modo che dopo che esiste l'Oratorio non ci capitò ancora una cosa simile. E una cosa singolare e straordinaria, però non posso dirvi ancora nulla fino a domani; pregate secondo la mia intenzione e vedrete che vi sarà una cosa che meritava di pregare. Domani a sera vi dirò poi tutto. Intanto dormite bene.

 

                Con questo discorso D. Bosco terminava l'anno. Ma le sue parole dell'ultimo giorno e sera del 1861 dovevano dare argomento a quelle che avrebbe pronunciate nel primo giorno e sera del 1862. La gloria e misericordia di Dio, la bontà di Maria, la salvezza delle anime, risuonano ad ogni istante sopra le labbra innamorate, che le annunziano ai piccoli e ai grandi. La sua voce si unisce al coro dell'intero universo: Dies diei eructat verbunt et nox nocti indicat scientiam.

 

 

 

APPENDICE.

 

 

                Alcune lettere di raccomandazione dal Ministero degli Interni negli anni a D. Giovanni Bosco in favore di giovani da ricoverarsi

 

                Giovani raccomandati da S. E. il Ministro FARINI.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5

                N. 2352

                Torino. addì I agosto 1860] All'effetto di conseguire la gratuita ammissione nel pio istituto di S. Francesco di Sales in Valdocco, sobborgo di questa Capitale, del giovinetto G. B., orfano di padre, e residente in questa stessa città, essendosi inoltrata istanza in questo stesso Ministero, il sottoscritto non può non raccomandarlo alla pietosa carità del Sig. Sacerdote Bosco, Direttore dell'anzidetto pio Istituto, per quei speciali riguardi di cui lo riconoscerà meritevole.

Pel Ministro SALINO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N- 3236.

Torino, addì 16 ottobre 1860.

 

                Il signor Prevosto di Bobbio nell'esporre a questo Ministero che trovansi nella sua parrocchia i giovani Michele Buscaglione e Colombo Chiaffredo, il primo orfano e il secondo poco meno, poiché, morta la madre, il padre l'abbandonava or son più di tre anni senza conoscersi il luogo di sua dimora, fa le più vive istanze, affinché sia provveduto sollecitamente al ricovero di questi due giovani abbandonati. Aggiunge [1074] poi che i rispettivi avoli materni privi di mezzi ed in età avanzata non sono più in grado di provvedere al mantenimento di quei fanciulli.

                Il sottoscritto quindi nel far conoscere altrettanto al benemerito Sacerdote Sig. D. Bosco, lo interessa vivamente a vedere se fosse possibile, che questi poveri orfani fossero ricoverati nel pio stabilimento a cui egli presiede, in vista ancora che i medesimi dimostrano una certa capacità, la quale coltivata li renderebbe utili alla società; e forse dannosi qualora malauguratamente dovessero continuare nello abbandono in cui trovansi.

                Nel rimettere poi al prelodato Sig. D. Bosco i' documenti che riguardano i due giovani in discorso, lo scrivente starà in attenzione di conoscere il risultato delle fatte premure.

Pel Ministro SALINO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione

                N. 3375

Torino, addì 26 ottobre 1860.

 

                Vennero prodotte le unite carte a questo Ministero, perché sia procurata la ammissione in qualche pio Istituto del giovane Giuseppe Berna, orfano di padre, ed appartenente a povera famiglia di questa capitale.

                Il sottoscritto nel trasmettere gli attestati, comprovanti la miserevole condizione della famiglia stessa, al Sig. Sacerdote Giovanni Bosco, Direttore dell'Istituto di San Francesco di Sales in Torino, raccomanda l'ammissione di detto giovane nello stabilimento da esso diretto, ed attende un cenno di riscontro per conveniente norma degli interessati.

Pel Ministro SALINO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 3400.

Torino, addi 31 ottobre 1860.

 

                Certo Felice Raíneri dimorante in questa capitale, corista da teatro di professione, si rivolge a questo Ministero, perché sia procurata l'ammissione in qualche pio Istituto educativo di un suo figlio di anni 14 per nome Pietro.

                Dalle assunte informazioni risultò che il ricorrente non ha mezzi sufficienti onde provvedere al sostentamento proprio, della moglie inferma e della famiglia, e che d'altronde é urgente di togliere il ragazzo sunnominato dall'ozio e di applicarlo al lavoro in qualche stabilimento. [1075] Il sottoscritto raccomanda pertanto una tale istanza ai benevoli riguardi del Rev. sacerdote Bosco, interessandolo a volere cercar modo di accogliere nell'Istituto da esso diretto il giovane in discorso, con riserva in caso favorevole di disporre per una retribuzione di lire 150 per una volta tanto a pro di codesto stabilimento.

                Attende un cenno di riscontro per sua norma.

Pel Ministro SALINO.

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 3780.

Torino, addì 3 dicembre 1860.

 

                In riscontro alla lettera del 27 P. p. novembre con cui il sacerdote Giovanni Bosco partecipa di aver accolto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, da Esso diretto, il ragazzo Giulio Paroncini, il sottoscritto gli significa essersi provveduto da questo Ministero per la corrisponsione di un assegno di L. 100 in compenso di siffatta ammissione, oggetto della sua nota delli 25 giugno p. p. n. 1817.

Pel Ministro SALINO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N- 3909.

Torino, addì 12 dicembre 1860.

 

                Il nominato Serafino Gianuzzi dell'età di anni 14, figlio del fu Agostino, già Revisore dell'Ispezione Generale del Regio Lotto, nativo di Torino, essendo testé rimasto orfano per la morte della di lui madre Luigia Vittoria Aprà e trovandosi in istato miserabile, abbandonato da tutti, si rivolse a questo Ministero per essere ricoverato in cotesto Ospizio. Dalle assunte informazioni sul conto del giovane risulta essere di qualità personali e morali buone, e conseguentemente degno d'essere esaudito nella sua preghiera.

                Lo scrivente nello interessare l'esperimentata filantropia del sacerdote D. Bosco a far modo di provvedere pel ritiro del suddetto Serafino Gianuzzi in cotesto stabilimento da Esso diretto, si riserva di dare le occorrenti disposizioni pel pagamento della somma di L. 100 una volta per titolo di sussidio, quando vengano esauditi i desiderii del supplicante.

                Si attende un riscontro in proposito, che si spera favorevole.

 

 

Pel Ministro SALINO. [1076]

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 4108.

Torino, addi 28 dicembre 1860.

 

                Alasia Carlo, nell'esporre a questo Ministero che essendo egli padre di numerosa famiglia, vedovo ed assai miserabile, non si trova più assolutamente in caso di provvedere alla sussistenza dei figli per non aver altra riserva fuori di quel poco che guadagna col suo mestiere di ciabattino, fa viva istanza perché sia provveduto al ricovero di due suoi figli, uno d'anni 21 disgraziatamente sordo, e di complessione gracilissima e l'altro d'anni 12.

                Il sottoscritto si pregia di fare conoscere altrettanto al benemerito Sacerdote Sig. D. Bosco, interessandolo a veder modo, se fosse possibile di ricoverare il minore dei precitati poveri figli nel Pio Istituto a cui egli presiede; ed attende un riscontro che spera favorevole.

Pel Ministro SALINO.

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 7351.

                844.

Torino, addì 6 febbraio 1861.

 

                Si rivolse a questo Ministero, da Giacomo Anglois, dimorante in questa Capitale, Professore di contrabasso alla Regia Cappella di S. M., una supplica, perché venga promossa l'ammissione del suo figlio per nome Celestino ad uno dei posti di pensionanti in cotesto Collegio, ove da un anno circa esso percorre lo studio Latino.

                La ristrettezza di fortuna in cui trovasi il ricorrente, padre di nume rosa prole, cui non potrebbe provvedere con gli scarsi mezzi che gli accorda la sua professione, inducono questo Ministero ad appoggiare vivamente la proposta domanda presso il signor Sacerdote Bosco, Direttore dell'Istituto predetto.

                E nella fiducia di ottenere un favorevole riscontro in proposito, massime per trattarsi di un giovane già conosciuto da esso Sig. Direttore, offre fin d'ora in compenso una retribuzione di L. 100 al pio Istituto per una volta tanto.

                Intanto lo scrivente fa conoscere al Sig. Bosco in riscontro alla sua lettera delli 2 andante mese, relativa al giovane Guglielminotto, che ha interessato il sindaco di Susa, il quale promuove il ricovero di detto giovane, a procurare un qualche sussidio a cotesto Istituto, in compenso del ricovero del ragazzo suddetto.

 

 

Poi Ministro SALINO. [1077]

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 12389.

                1509

Torino, addì 3 marzo 1861.

 

                Certo Mautino Francesco dimorante in Aglié (Ivrea) di professione bracciante, d'età avanzata e padre di numerosa famiglia ricorre a questo Ministero per ottenere che il di lui figlio Giuseppe, d'anni 13, sia ricoverato in qualche pio istituto affine di apprendervi qualche arte o mestiere, che lo ponga in grado di procacciarsi i mezzi di sostentamento

                La misera condizione in cui trovasi difatti la detta famiglia, la quale vive del prodotto delle giornaliere sue fatiche, vedendola meritevole di riguardo, il sottoscritto interessa la sperimentata bontà del sacerdote Giovanni Bosco a pro del fanciullo di cui é cenno, pregandolo di veder modo di accoglierlo nel pio istituto da esso diretto; e dì porgergli un riscontro in proposito a conveniente norma degli interessati.

Pel Ministro SALINO.

 

                Giovani raccomandati da S. E. il Ministro MINGHETTI.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 15560.

                1895.

Torino, addì 18 marzo 1861.

 

                Il giovane Secondo Boccadoro, d'anni 12, figlio del vivente Celeste nativo e dimorante in Asti, volendo sollevare il proprio padre dal carico di provvedere al sostentamento della famiglia composta d'altri otto figli, cui può a stento procacciare il vitto collo scarso guadagno del proprio lavoro, ha inoltrato una domanda a questo Ministero, appoggiata ai qui uniti documenti per ottenere collocamento in qualche pio stabilimento.

                Non può fare a meno il Ministero di secondare un così lodevole desiderio del giovane Boccadoro; e raccomanda quindi vivamente alla esperimentata carità del sacerdote Giovanni Bosco siffatta istanza, pregandolo a volerlo accogliere favorevolmente; nel quale caso si riserva di corrispondere a codesto Pio Istituto una elargizione di L. 150 per una volta tanto.

                Attende in proposito un riscontro per sua norma.

                Pel Ministro G. BORROMEO. [1078]

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 44505.

                5325.

Torino, addì 27 giugno 1861.

 

                Il Ministero della guerra ha fatto calde raccomandazioni a questo dell'Interno pel ricovero in qualche pio istituto del giovanetto Rosario Pappalardo d'anni 9 circa, nativo di Giarre (Messina), orfano d'entrambi i genitori, venuto in Casale colla 12ª compagnia del 2° reggimento d'artiglieria di ritorno dalla città di Messina, osservando che fino agli anni 14 non potrebbe essere ammesso in verun Istituto militare, onde dedicarsi alla milizia, per cui sembra aver inclinazione e dare speranza di buona riuscita per essere d'ingegno assai svegliato.

                In considerazione delle eccezionali circostanze sovra narrate, questo Ministero interessa il Rev. Sac. Bosco perché voglia acconsentire in via straordinaria ad ammettere non ostante il difetto d'età, il giovanetto Pappalardo nello stabilimento da esso diretto, offrendo in caso favorevole la somma di L. 200 in compenso del chiesto collocamento.

                Vorrà il Sac. Bosco porgergli un cenno di risposta per ulteriore sua norma.

Pel Ministro G. BORROMEO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 45993.

                5509.

Torino, addì 28 giugno 1861.

 

                Si rivolse a questo Ministero coll'unito memoriale e carte all'appoggio, certo Gaetano Ghiringhello perché sia procurata l'ammissione in codesto Pio Istituto d'un suo figlio per nome Roberto d'anni II.

                In vista delle narrate circostanze non può far a meno lo scrivente di porgere i suoi uffici al Rev. Sac. Giovanni Bosco, perché veda modo possibilmente di aiutare un povero padre, reso inabile al lavoro per malattia e d'altra parte meritevole di benigno riguardo, a sopportare il carico di mantenimento ed educazione della famiglia.

                In previsione di un riscontro favorevole, il Ministero é disposto ad accordare in compenso una retribuzione di L. 150 per una volta tanto.

 

 

Pel Ministro G. BORROMEO. [1079]

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 56189.

                6602.

Torino, addì 6 agosto 1861.

 

                Il sindaco del Comune d'Arizzano (Pallanza), ha interessato questo Ministero perché procuri il ricovero in qualche pio istituto del povero ragazzo Giov. Batt. Caretti di anni 14 circa del fu Giov. Batt. e della Luigia Bianchi vedova in seconde nozze di certo Realini,.. dura fatica a trovare occupazione onde ritrarre scarsamente i mezzi di propria sussistenza e tanto meno da poter provvedere al proprio figlio.

                In vista delle narrate circostanze il Ministero non sa rifiutare di interporre i suoi uffici presso il Rev. Sac. Bosco, perché veda di far luogo all'ammissione di detto fanciullo nello stabilimento da esso diretto, riservandosi, in caso di accoglimento favorevole della richiesta, di far erogare per una volta tanto a codesto Istituto una elargizione di L. 150

Pel Ministro G. BORROMEO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 5.

                N. 60093.

                7041.

Torino, addì 13 agosto 1861.

 

                Coll'unito memoriale il nominato Petiti Francesco, falegname a Fossano, fa istanza perché venga ammesso in codesto pio stabilimento il figlio Giovanni Battista d'anni 14.

                Le circostanze narrate nel ricorso ed avvalorate dalle favorevoli attestazioni risultanti dagli unitivi recapiti, dimostrano veramente meritevole di riguardo la domanda del Petiti.

                Il sottoscritto non può quindi a meno di aggiungere i suoi vivi uffici all'istanza del ricorrente acciò voglia compiacersi il Rev. Sac. Giovanni Bosco, Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di veder il miglior modo possibile di accogliere nel Pio Istituto il giovane Petiti Giov. Battista con preghiera di porgergli un cenno di riscontro in proposito per le opportune comunicazioni all'interessato.

Pel Ministro G. BORROMEO.



[1] Ecclesiastico III

[2]                              INVITO SACRO.

Domenica, 30 gennaio si celebra la festa di S. Francesco di Sales titolare dell'Oratorio.

Il Regnante S. P. Pio IX concede indulgenza plenaria a tutti quelli che, confessati e comunicati in tal giorno, visiteranno questo Oratorio pregando per i bisogni di S. Chiesa. Decreto dato in Roma addì 28 settembre 1850.

ORARIO.

Lungo il mattino copioso numero di messe e frequenza ai SS. Sacramenti.

Ore 8. Comunione generale.

9. Ricreazione.

10. Messa solenne cantata in musica dai giovani dell'Oratorio.

Sera.

Ore 1. Trattenimenti diversi.

2½ Vespro solenne, Panegirico, Benedizione col SS. Sacramento.

4. Lotteria di varii oggetti.

5½ Distribuzione di premii a 14 giovani di migliore condotta.

6. Trattenimento speciale.

[3] Illmo Signor Conte,

 

Vorrei poter con parole abbastanza significanti chiarire alla Signoria V. Ill.ma quanto mi accori il non poter assistere il mio caro Luigi in questi giorni specialmente, in cui si fa sempre più imminente il suo esame. Questo pensiero Le assicuro, che inasprisce sempre più il mio male, eppure mi trovo ora sprofondato in un languore tale, che mi toglie gran parte delle forze fisiche e morali....

Se la S. V. Ill.ma fosse contenta, io Le manderei un Sacerdote, mio amico, e compatriota (il suo nome è D. Bosco), persona a cui non manca neppur uno dei pregi che si convengono ad un eccellente Sacerdote.

Virtù, dottrina, e candore di costumi in costui fanno a gara per renderlo amabile alle persone che lo conoscono.

Tale è colui che mi deliberai di proporre alla S. V. Ill.ma, affinchè l'accetti nella sua nobile casa, dove potrà fare le mie veci; io non ho bisogno di raccomandarglielo, giacchè quando lo conosca, son certo che i suoi meriti sono per lui la più efficace raccomandazione.

Quando la S. V. Ill.ma abbia di ciò tenuto ragionamento colla Signora Contessa, spero che avrà la compiacenza di farmi nota la sua intenzione. Abbia in ultimo la compiacenza di accettare i miei vivi e sinceri saluti, e di estenderli a tutta la sua nobile famiglia. Ed io faccio punto, perchè male mi regge il mio povero cervello, che ad ogni benchè menoma occupazione mi porta quasi al delirio. Ho l'onore di dirmi di V. S. Ill.ma

Da casa mia, li 29 Luglio 1844.

Dev.mo ed Umilmo Servo

ALLAMANO ILLUMINATO.

 

A. Monsieur

Le Comte Senateur Mola de Larissé

TURIN.

[4] II Esdra II, 4, S.

[5] I ad Corint. XV, 46

[6] LXV; 23, 24

[7] I postulanti si mettevano in ginocchio avanti all'altare o ad una statua del Santo. Un sacerdote vestito di cotta e stola, invocato lo Spirito Santo col canto del Veni Creator, Versetto ed Oremus, si voltava verso i postulanti e loro indirizzava le seguenti domande alle quali erano date analoghe risposte.

D. Fratelli miei che dimandate?

R. Noi dimandiamo di essere ammessi alla Compagnia di S. Giuseppe.

D. Conoscete le regole di questa Compagnia?

R. Le conosciamo avendole lette con attenzione, e, fiduciosi nell'aiuto di Dio e di Maria SS., speriamo di poterle osservare.

D. Per quale scopo volete farvi ascrivere a questa Compagnia?

R. Per farci un tenore di vita cristiana sotto la protezione di S. Giuseppe coll'imitarlo nelle sue virtù, massime nella castità e nell'ubbidienza.

D. Quale è il fine principale che più d'ogni altro vi stimola ad entrare in questa Compagnia?

R. Il fine principale si è di meritarci la protezione di S. Giuseppe nei pericoli della vita e massimamente la sua assistenza in morte.

Sac. Il Signore benedica questo vostro ottimo proposito e la Vergine Santissima vi aiuti a conservarlo sino alla fine di vostra vita. Mettetevi con grande impegno ad osservare le Regole della Compagnia: e siate persuasi che S. Giuseppe vi sarà protettore in vita e specialmente in punto di morte.

Ciò detto i postulanti proferivano la seguente formola:

Io…………………………. prometto di fare tutto quello che posso per imitare S. Giuseppe Sposo di Maria, la più pura delle Vergini; epperciò di fuggire i cattivi compagni, di evitare i discorsi osceni, di animare gli altri alla virtù colle parole e col buon esempio. Prometto altresì di osservare tutte le Regole della Compagnia. Questo spero di eseguire coll'aiuto del Signore e colla protezione del Santo.

Fatta questa solenne promessa tutti insieme i nuovi soci dicevano:

Nei nostri bisogni spirituali e temporali ricorreremo con illimitata confidenza al Santo e gli diremo:

Glorioso S. Giuseppe, nostro Protettore, vi supplichiamo di rivolgere i vostri occhi benigni sopra i nostri presenti bisogni ed apportarci quei soccorsi che Voi vedete migliori per la salute dell'anima nostra. Ricordatevi, o purissimo Sposo di Maria Vergine, o dolce Protettor nostro S. Giuseppe, che mai non si udì aver alcuno invocata la vostra protezione e chiesto aiuto da Voi, senz'essere stato consolato. Con questa fiducia noi veniamo al vostro cospetto, ed a Voi fervorosamente ci raccomandiamo. Deh! non abbiate in dispregio le nostre preghiere, o Padre putativo del Redentore, ma ricevetele pietosamente ed esauditele. Così sia.

Gesù, Giuseppe e Maria, Vi dono il mio cuore e l'anima mia. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell'ultima agonia. - Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con Voi l'anima mia.

I nuovi soci, dopo avere scritto il loro nome e cognome sopra un registro, ricevevano la medaglia di S. Giuseppe, quindi il. Sacerdote faceva una breve morale esortazione, e la funzione terminava col canto: Laudate Dominum omnes gentes.

[8] XXI, 29

[9] Indépendance Belge

[10] LA MARMORA, Un po' di luce, pag. 133

[11] Deuxième partie, livre Deuxième, pag. 362. - Milan, chez l'éditeur Charles Turati MDCCCLVI

[12]PIUS P.P. IX. ”

 

Ad perpetuam rei memoriam.

Ad augendam fidelium religionem, animarumque salutem coelestibus Ecclesiae thesauris pia charitate intenti, omnibus et singulis utriusque sexus Christi fidelibus vere poenitentibus, et confessis, ac S. Commuinione refectis, qui Ecclesiam in honorem SS. Marii, Marthae, Audifacis et Habacu M. M. sitam intra fines paroeciae loci “ Caselette ” nuncupatae Taurinens. Dioec. die decimo nono mensis Januarii a primis Vesperis usque ad occasum solis diei huiusmodi singulis annis visitaverint, et ibi pro Christianorum Principum concordia, haeresum extirpatione, ac S. Matris Ecclesiae exultatione pias ad Deum preces effuderint, plenariam omnium peccatorum suorum indulgentiam et remissionem; quam etiam animabus Christi fidelium, quae Dei in charitate conjunctae ab hac luce migraverint per modum suffragii applicari posse, misericorditer in Domino concedimus. In contrarium faciend non obstant quibuscumque praesentibus, perpetuis, futuris temporibus valituris.

Datum Romae apud S. Petrum sub annulo Piscatoris die XX decembris MDCCCLIX. Pontificatus Nostri Anno Decimoquarto.

Pro D.no Card. MACCHI.

I. B. BRANCALEONI CASTELLANI.

 

Vis. pubblicari et quatenus opus typis edi permittimus. Taurini, die 29 decembris 1859

CAELESTINUS FISSORE Vic. Gen.

[13] Hebr. IV, 12

[14] Dilecto Filio Presbitero JOANNI Bosco

AUGUSTAM TAURINORUM

Pius P. P. IX.

 

Dilecte Fili, salutem et apostolicam benedictionem.

 

In literis tuis, V Idus Novembris proximi datis, novum invenimus eximiae tuae in Nos et Supremam Dignitatem Nostram fidei, pietatis et observantiae testimonium. Facile intelligimus, dilecte Fili, qui tuus aliorumque ecclesiasticorum hominum sit animi dolor in ingenti hoc Italiae tumultu, rerumque pubblicarum conversione, ac rebellione provinciarum quarumdam temporalis nostri Status. Hanc, ut omnes norunt, externae moverunt incitationes et machinationes, eamque omni data opera fovent tuenturque. Accessit nunc lucubratio sparsa in vulgus hipocrisi plenissima ad homines simplices decipiendos, ad communem christiani orbis in vindicando civili Sedis Apostolicae Principatu consensum extenuandum. Fides ipsa Italicae regionis adducitur in discrimen: colluvies pravorum librorum et ephemeridum non modo urbes sed et pagos etiam Italiae pervasit, nec subalpinis istis regionibus tantum, sed et Hetruriae finitimis que provinciis protestantes virus evomunt pravitatis suae, scholis sive clandestinis, sive pubblicis institutis; ad quas proemiis etiam adolescentes pauperes student allicere. Verum in saevissima hac, quam satanas excitavit, tempestate, summas in humilitate cordis Deo gratias persolvimus, qui Italiae Episcopos roborat, et gratia sua confortat ad fidei depositum in suo quique grege strenue custodiendum. Solatio cordi nostro sunt summa animorum concordia qua et Clerus tristissimo hoc tempore in salutem animarum incumbit, animique firmitas et constantia quibus pro Dei et Ecclesiae causa adversa quaeque perfet et sustinet. Haud vero possumus consolationem verbis explicare, quam Nobis attulit illa literarum tuarum pars qua intelleximus tibi, Dilecte Fili, aliisque viris Ecclesiasticis maiorem praesentes huius temporis aerumnas alacritatem addidisse. Hinc qua praedicatione verbi Dei, qua bonis libris et scriptis distributis, coniunctis animis et studiis, bostium Ecclesiae machinamentis obsistere alacriter contenditis. Nihil hac agendi ratione praestantius, nihilque utilius ad populi pietatem fovendam, acuendamque. Neque fructu eximia illa tua solertia caruit, qua adolescentes plurimi in sacra oratoria diebus festis atque ad scholas quotidie opportunis horis convenientes institutione christiana, ac sacramentorum frequentia evenerunt usque ferventiores. Cura, quam geris in pauperes iuvenes hospitio exceptos, feliciore in dies successu locupletatur, numerumque auget eorum qui utiles Ecclesiae ministri aliquando esse possunt. Perge, Dilecte Fili, cursum tenere, quem ad Dei gloriam et Ecclesiae utilitatem coepisti; perfer, si gravior tribulatio incubuerit, et sustine magno animo angustias et tribulationes huius temporis. Spes nostra in Deo est, qui, protegente nos coelorum Regina ac mundi Domina, Maria Virgine Immaculata, de tantis bis malis eripiet, contristatanique Ecclesiam de sua in hostibus victoria consolabitur. Minime dubitamus quin in hunc finem, atque ad impetrandam infirmitati Nostrae praesentissimam Dei opem et auxilium pergas, Dilecte Fili, una cum tibi Nobisque carissimis hospitii tui alumnis ac discipulis, in omni oratione et obsecratione Deum ipsum maiore usque studio obtestari. Eundem Nos summis precamur votis, ut Te atque illos in sua pace custodiat, dextera sua tegat, et brachio sancto suo defendat. Coelestis huius praesidii auspicem esse cupimus Apostolicam Benedietionem, quam tibi, Dilecte Fili, iisdemque alumnis ac discipulis, atque omnibus, qui una tecum in pia illa opera incumbunt vel ea frequentant, effuso paterni cordis affectu, et amanter impertimur.

Datum Romae apud S. Petrum die 7 Januarii, An. 1860. Pontificatus nostri anno XIV.

Pius P. P. IX

[15] Dilecto filio Presbitero Ioanni Bosco Augustam Taurinorum. Pius P. P. IX. Dilecte Fili, salutem et apostolicam Benedictionem. Gratae Nobis fuere tum litterae, a Te die 13 proximi mensis Aprilis datae, tum aliae, quas Nobis scripserunt isti juvenes Tuae institutioni traditi, quasque ad Nos misisti. Namque ex iisdem litteris novimus quae quantaque sit Filialis tua et eorundem juvenum erga Nos, et hanc Petri Cathedram fides, pietas et observantia et quam acerbus tuus et illorum dolor ac luctus propter nequissimos sacrilegosque ausus contra civilem Nostrum, et huius Apostolicae Sedis principatum, ab iis hominibus admissos qui acerrimum catholicae Ecclesiae, eidemque Sedi bellum inferentes, jura omnia divina et humana conculcare non dubitant. Equidem hujusmodi egregii Tui, et eorumdem juvenum sensus omni certe laude digni non leve nobis attulerunt solatium inter maximas, quibus premimur, amaritudines. Optamus autem vehementer ut pergas cum eisdem juvenibus ferventissimas diviti in misericordia Deo sine intermissione fundere preces, ut ab Ecclesia sua sancta tot tantasque avertat calamitates, eamque novis ac splendidioribus ubique terrarum exornet et augeat triumphis, Nosque adiuvet et consoletur in omni tribulatione Nostra. Dum autem debitas Tibi, iisdemque juvenibus agimus gratias pro munere ad Nos misso, caelestium omnium munerum auspicem, et praecipue Paternae Nostrae charitatis testem Apostolicam Benedictionem intimo cordis affectu Tibi et commemoratis juvenibus peramanter impertimus.

 

Datum Romae apud S. Petrum die 21 Maii Anno 1860.

Pontificatus Nostri Anno Decimoquarto.

Pius. PP. IX.

[16] I, II, 13

[17] I ad Timot. II, 2

[18] Sap. XVIII, 9

[19] Salmo XXVII

[20] Vedi Appendice in fondo al volume

[21] Questioni religiose-morali-sociali del giorno. Vol. I, pag. 310

[22] I Corint. IX, 16, 17

[23] XIV, 8

[24] Noi abbiamo interrogato un venerando religioso di San Domenico che per anni trattò con questa Suor Colomba Asdente, il quale ci assicurò aver inteso egli medesimo le infinite volte replicarsi dalla suddetta di propria bocca, ora l'una ora l'altra di siffatte predizioni; imperocchè non dicevale di seguito, ma interpolatamente: alle quali, fingendo egli di non prestarvi credenza, soggiungevagli essa: Ebbene egli stesso ne vedrà in parte l'adempimento

[25] Le parole segnate in corsivo sono tutte sue espressioni

[26] Proverbi XVI, 25




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