Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco

 

raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne

 

(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)

 

Vol. V, Ed. 1905, 940 p.

 

                modello

 

 

 

PROTESTA DELL'AUTORE

 

                Conformandomi ai decreti di Urbano VIII, del 13 marzo 1625 e del 5 giugno 1631, come ancora ai decreti della Sacra Congregazione dei Riti, dichiaro solennemente che, salvo i dommi, le dottrine e tutto ciò che la Santa Romana Chiesa ha definito, in tutt'altro che riguardi miracoli, apparizioni e Santi non ancora canonizzati, non intendo di prestare, nè richiedere altra fede che l'umana. In nessun modo voglio prevenire il giudizio della Sede Apostolica, della quale mi professo e mi glorio di esser figlio obbedientissimo.

 

 

CAPO I. 1854 - Letture Cattoliche: ristampa de' CENNI SULLA VITA DEL GIOVANE LUIGI COMOLLO - Domanda di sussidii al Conte De la Margherita - Disturbi per un fascicolo sulle rivoluzioni - Corrispondenza con Rosmini per la Tipografia.

 

                DON BOSCO con vera purità d'intenzioni, con umiltà di cuore in tutte le sue imprese, senza alcuna mescolanza di proprio interesse, continuava infaticabile per quella via che il Signore avevagli indicata.

                Pel fine del dicembre 1853 e pel principio del gennaio 1854 egli ristampava nelle Letture Cattoliche i suoi Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo. Ne aveva cambiato la prefazione che prima era dedicata ai Chierici.

Al Lettore. -- Siccome l'esempio delle azioni virtuose vale assai più di qualunque elegante discorso, così non sarà fuor di ragione un cenno sulla vita di un giovanetto, il quale in breve periodo di tempo praticò sì belle virtù da [2] potersi proporre per modello ad ogni fedele cristiano, che desideri la salute dell'anima propria. Qui non ci sono cose straordinarie, ma tutto è fatto con perfezione a segno, che possiamo applicare al giovane Comollo quelle parole dello Spirito Santo: Qui timet Deum nihil negligit. Chi teme Dio nulla trascura di quanto può contribuire ad avanzarsi nelle vie del Signore.

                Quivi sono molti fatti e poche riflessioni, lasciando che ciascuno applichi per sè quanto trova adatto al suo stato.

                Tutto quello che qui si legge, fu quasi tutto tramandato a scritti contemporaneamente alla sua morte e già stampati nel 1844; e mi consola assai di poter con tutta certezza promettere la verità di quanto scrivo. Sono tutte cose pubbliche da me stesso udite e vedute o apprese da persone, della cui fede non avvi luogo a dubitare.

                Leggi volentieri, o lettor Cristiano, e se ti fermerai alquanto a meditare quel che leggi avrai certamente di che dilettarti e farti un tenor di vita veramente virtuosa”.

                Di questi cenni faceva poi una terza edizione nel 1867; e nell'edizione del 1884, per confermare la verità di quanto scrisse, aggiungeva: “I superiori che in quel tempo reggevano il Seminario di Chieri, vollero essi stessi leggere e correggere ogni più piccola cosa che non fosse abbastanza esatta.

                “Giova notare che questa edizione non è riproduzione delle precedenti, ma contiene molte notizie, che allora sembravano inopportune a pubblicarsi, ed altre che pervennero più tardi a nostra cognizione”.

                A questo volumetto era aggiunto il seguente annunzio.

                Ci facciamo grato e premuroso dovere di comunicare ai nostri benemeriti cooperatori e lettori la venerata lettera [3] pur ora scrittaci dall'Em.mo Cardinale Antonelli a nome di Sua Santità Pio IX.

                Mentre il benigno suffragio del Vicario di Gesù Cristo conforta le anime nostre a sostenere con alacrità le fatiche intraprese in difesa di nostra santa Cattolica Religione e a svelare le arti seduttrici dei nemici della fede, noi non dubitiamo che sarà pure di non lieve incoraggiamento per quelli che patrocinano l'opera nostra, e sarà in pari tempo un pegno di sicurezza per quelli cui noi ci sforziamo di porgere un antidoto contro l'errore”.

                Ma se queste approvazioni erano di conforto allo spirito, anche il corpo esigeva la sua parte. Vuota essendo ormai di viveri la dispensa dell'Oratorio, D. Bosco si rivolgeva ai benefattori e scriveva a Sua Eccellenza il Conte Solaro De la Margherita, Ministro e Consigliere di Stato.

 

                Direzione Centrale delle Letture Cattoliche - caldamente raccomandate al Sig. Conte e Contessa De la Margherita.

Torino, 5 gennaio 1854.

 

                               Eccellenza,

 

                Sebbene io non sia mai ricorso all'Eccellenza Vostra per sussidio, tuttavia la parte che prende in molte opere di carità ed il bisogno grave in cui mi trovo, mi fanno sperare che leggerà quanto espongo.

                L'incarimento d'ogni sorta di cibo, il maggior numero di giovani cenciosi ed abbandonati, la diminuzione di molte oblazioni che private persone mi facevano e che ora non possono più, mi hanno posto in tal bisogno da cui non so come cavarmi: senza calcolare molte altre spese, la sola nota del panettiere di questo trimestre, monta ad oltre L. 1600 e non so ancora dove prendere un soldo: pure bisogna mangiare, e se io nego un tozzo di pane a questi poveri giovani pericolanti e pericolosi, li espongo a grave rischio e dell'anima e del corpo. [4] In questo caso eccezionale ho stimato bene di raccomandarmi all'Eccellenza Vostra, onde mi voglia prestare quell'aiuto che nella sua carità stimerà a proposito e di raccomandarmi a quelle benefiche persone che nella sua prudenza stimerà propense a queste opere di carità. Qui non trattasi di soccorrere un individuo in particolare, ma di porgere un tozzo di pane a giovani cui la fame pone al più gran pericolo di perdere la moralità e la religione.

                Persuaso che vorrà prendere in benigna considerazione queste mie calamitose circostanze, l'assicuro che ne conserverò la più grata memoria e, augurando a Lei e a tutta la rispettabile famiglia ogni bene del Signore, mi reputo al massimo onore il potermi dire

                Di V. Eccellenza

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                P. S. I) Qualora la sua carità stimasse di fare qualche oblazione in questo caso, potrebbe, se così ben giudica, farlo tenere al benemerito Sia. D. Cafasso.

                2) È pure rispettosamente invitato ad un dramma religioso che ha luogo domani ad un'ora e mezzo nell'Oratorio di San Francesco di Sales.

                Era una di quelle commedie morali, come disse Savio Ascanio, che egli aveva composte al fine di ricreare ed istruire i giovani specialmente artigiani, e che faceva rappresentare da essi stessi con molto loro vantaggio.

                Intanto i tipografi preparavano il secondo fascicolo del mese di gennaio, riproduzione di un'operetta della quale si erano già fatte quattro edizioni, per sostenere la causa della Chiesa e della Società civile. Il libro si svolgeva per domande e risposte. Aveva per titolo: Il Catechismo Cattolico sulle rivoluzioni. [5]

Accenniamo agli argomenti vigorosi dell'autore.

                “Il Cattolicismo è la sola scuola del rispetto, il Protestantesimo è la scuola della ribellione. È  colpa gravissima ribellarsi al Sovrano. Il rivoluzionario si spaccia per liberatore dei popoli, ma se riesce a distruggere l'ordine pubblico, diviene tiranno delle persone, delle anime, delle sostanze e persin dei pensieri de' cittadini. Odia la Chiesa ed il Sovrano perchè odia Iddio. Un oscuro fazioso, degno sol delle forche, quasi ad ogni momento promulga leggi e decreti. Darsi in balía delle passioni senza che alcuna legge od autorità nè divina nè umana possa impedirli, è il programma dei maestri della rivoluzione. Fanno guerra ai principi per non avere più alcun contrasto nella perfida guerra che hanno mossa al cielo. Essi proteggono e amano ogni setta d'infedeli pel male che ciascuna contiene. Ordinariamente son membri di società segrete fulminate dai Papi colle censure. Essi mettono quasi sempre le mani sui beni ecclesiastici, come sono quelli dei parroci e degli altri religiosi, delitto pel quale s'incorre la scomunica, che eziandio colpisce quelli che usurpassero il dominio temporale della S. Sede. Odiano il clero, lo calunniano di avverso allo Statuto ed alla patria e ciò perchè alza la sua voce autorevole contro alla corruttela dei costumi da essi promossa. Il potere secolare ha diritto e dovere di procedere contro di essi anche coll'estremo supplizio; il Sovrano Dei enim minister est in bonum, ed è responsabile di tutti i danni da essi cagionati sì nell'ordine temporale, come nell'eterno. La clemenza di un Re non deve ritornare in danno alla società e rendere più audaci, perchè impuniti, i nemici abituali del pubblico bene. Dio nella Santa Scrittura ciò ordina ripetutamente. Il suddito è obbligato in coscienza a dar [6] notizia al Governo di quelle occulte congiure delle quali ha contezza, perchè il Sovrano è il padre del popolo”.

                Il Vescovo d'Ivrea aveva decisa la pubblicazione di questo fascicolo nelle Letture Cattoliche. D. Bosco era stato di contrario parere, sembrandogli pericolosa tale pubblicazione, pei molti, che, allora in auge, avrebbe feriti, ma cedette alle insistenze di Monsignore e si assoggettò coraggiosamente alle prevedute conseguenze. Venne infatti chiamato presso le Autorità civili, udì rimproveri, ed ebbe altri disturbi, che per fortuna presto cessarono.

                In questo frattempo egli recavasi ad Ivrea, dove lo raggiunse una lettera da Stresa del Sig. D. Vincenzo Devit dell'Istituto della Carità, il quale a nome dell'Abate Rosmini richiedevalo di uno schema di progetto per la fondazione nell'Oratorio dell'ideata tipografia. E D. Bosco così rispondevagli:

Ivrea, 11 gennaio 1854.

 

                               Ill.mo e M. Rev.do Signore,

                In seguito alla venerata lettera di V. S. Ill.ma M. Rev.da con cui mi manifesta la buona volontà del benemerito Abate Rosmini a pro degli Oratorii maschili di questa città, comincerò esternare un mio qualunque siasi sentimento sopra cui fondare una base per una tipografia; e sebbene io conosca appieno che la base sopra cui intende camminare il prelodato sia. Abate Rosmini sia fare un'opera di carità diretta a beneficare, mercè lavoro, li miei poveri figli, tuttavia è bene che le cose siano chiare dinanzi a Dio ed anche dinanzi agli uomini. Eccole il parere mio:

                I. L'Abate Rosmini somministrerà un capitale per ultimare un corpo di fabbrica e per le spese di un primo impianto di una tipografia.

                2. Il suo danaro sarebbe assicurato: quello impiegato nella fabbrica, sulla fabbrica medesima; quello poi speso nella tipografia, sopra i medesimi oggetti di cui conserverebbe la proprietà. [7]

                3. Io metterei la mia assistenza e quella di un chierico e il fitto del locale.

                4. La tipografia sarebbe a comune vantaggio: ed in tempo da determinarsi ci sarebbe un rendiconto.

                5. Alle Opere che farà stampare l'Abate Rosmini ci sarà un ribasso del cinque per cento sopra i prezzi ristretti degli avventori.

                6. Tutti d'accordo per procacciare lavoro e fare che le cose procedano con ordine.

                7. Utili e spese a carico di ambe le parti.

                Non so se questo mio progetto sia ben espresso, ma l'Abate Rosmini saprà aggiugnere e togliere ed anche variare quanto sarà del caso; ed io mi rimetto a lui pienamente.

                Intanto La ringrazio dei graziosi sentimenti manifestati a mio riguardo e mentre auguro al benemerito Sig. Abate e P. Generale, ed a Lei ogni benedizione del Signore, mi raccomando rispettosamente alle sue preghiere con dirmi

                Di V. S. Ill.ma e M. Rev.da

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI

 

                Il progetto di D. Bosco, già spiegato a voce, consisteva nel destinare ed adattare ad uso tipografia un locale nello stesso edificio dell'Oratorio di Valdocco; ed alla sua lettera rispondeva il P. Devit in data del 21 gennaio per commissione del Rev.mo Padre Generale. Dicevagli come l'Abate Rosmini dopo maturo esame venisse alla conclusione di non potersi risolvere alcuna cosa relativa alla tipografia prima di aver veduto il locale e tenuto un abboccamento con lui stesso in Torino, per appianare le difficoltà che si prevedevano doversi incontrare per tal affare. In conseguenza il Rosmini avrebbe spedito entro alcuni mesi persona conveniente per avere questo colloquio con D. Bosco.

 

 

CAPO II. I decennii dell'Oratorio - Conferenza.- per la prima volta i collaboratori di D. Bosco prendono il nome di SALESIANI -Prediche efficaci - La festa di S. Francesco di Sales e il premio di buona condotta ai chierici e ai giovani - Il volo mensile - Carità eroica di D. Bosco nel sollevare da gravi dolori i suoi giovani - Il dono delle guarigioni - Cure paterne per gli infermi.

 

                DON Bosco lasciò scritto in una sua memoria: “Chi, osserva attentamente, resta maravigliato come sieno memorabili i decenni dell'Oratorio. Il primo decennio si può intitolare: L'Oratorio vagabondo. Nel secondo decennio si possiede un luogo ed un'abitazione fissa, e questo periodo può definirsi: L'Oratorio, stabile, e successivo ordinamento della casa. Nel terzo decennio si incominciarono ad aprire alcune case, come Mirabello e Lanzo e poi tutte le altre in Italia, e si denominerà: Decennio d'ingrandimento esterno. Sul principio del quarto decennio incominciò la Congregazione a stendere le sue ali fuori d'Italia, andò in Francia colla casa di Nizza e Marsiglia e volò fino al nuovo mondo aprendo i, suoi collegi nella Repubblica Argentina e in quella. [9] dell'Uruguay; e questo periodo si denominerà: Espansione mondiale”.

                Ma ora siamo al secondo decennio, e D. Bosco continua: “Nel 1854 si può dire che finisse la parte poetica dell'Oratorio e incominciasse la parte positiva. I giovani avevano cessato di andare a scuola col proprio cucchiaio in saccoccia, e una sala era destinata ad uso refettorio col necessario occorrente. La venuta poi di D. Alasonatti Vittorio, uomo pacato e di ordine, mi avrebbe permesso di sistemare la casa non essendo io più solo. Allora incominciai a prendere qualche nota delle cose principali riguardanti l'Oratorio. Queste però consistevano in un breve indice piuttosto che in racconti”.

                Avvicinandosi intanto la festa di S. Francesco di Sales, D. Bosco continuava ad insinuare nell'animo di alcuni suoi allievi una vaga idea di Congregazione religiosa. Tenne perciò una radunanza, nella quale parlò del gran bene che molti uniti insieme avrebbero potuto fare al prossimo in generale, e ai fanciulli in particolare. Il chierico Rua ne tenne memoria in un suo scritto, che ancora si conserva negli archivi. “La sera del 26 gennaio 1854 ci radunammo nella stanza di D. Bosco: esso D. Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua; e ci venne proposto di fare coll'aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venire poi ad una promessa; e quindi, se sarà possibile e conveniente di farne un voto al Signore. Da tale sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e si proporranno tale esercizio”.

                Questa proposta fece grande impressione in que' buoni chierici, perchè trovò un'eco nei loro cuori, preparati anche dalle sue prediche, nelle quali coordinava a' suoi [10] fini segreti i pensieri che trasfondeva negli altri. Egli per lo più faceva comprendere a' suoi uditori le verità .religiose continuando ad esporre sul pulpito fatti della storia ecclesiastica o la vita dei Papi; e per assicurarsi di essere inteso e per eccitare l'emulazione, in fine del racconto egli soleva rivolgere la parola ad alcuni degli uditori, ora esterni ed ora interni, domandando quali riflessioni suggerissero quelle narrazioni e quale moralità se ne sarebbe potuta trarre. Così li obbligava tutti a stare attentissimi ed esercitava l'acume del loro intelletto. Quindi raccoglieva egli dalle risposte avute i varii precetti che si potevano apprendere, li esponeva con una massima generale, applicandola alla vita de' suoi ragazzi; e a questo modo accoppiava l'istruzione alla morale. Mirabile in specie era la semplicità e l'ordine, la chiarezza, l'affetto con cui,dipingeva i vincoli di fratellanza degli antichi cristiani, l'unione figliale dei ministri dell'altare col Sommo Pontefice e coi loro vescovi, il fervore di virtù dei primi ordini monastici e le fatiche degli apostolati e le conversioni dei popoli. Quindi interrogava pubblicamente uno dei chierici qual fosse la causa di così magnifici effetti e si veniva a concludere in mezzo alla generale attenzione: - L'obbedienza unisce, moltiplica le forze e colla grazia di Dio opera portenti.

                E dalle prediche di D. Bosco e da' suoi splendidi esempi molti sentironsi germogliare e crescere in cuore il seme della vocazione religiosa od ecclesiastica, che li rese glorie dell'Oratorio e della Chiesa. Egli poi tali cercava formarli colla pratica delle varie virtù necessarie al loro stato, specialmente collo spirito di umiltà e di sacrificio, eziandio in ciò che spettava le azioni giornaliere e comuni, e raccomandava ai chierici che fossero a tutti modelli d'obbedienza. [11]

                Sopravveniva intanto la festa del Santo Titolare dell'Oratorio di Valdocco. Abbiamo già detto che per stimolo e guiderdone alla buona condotta dei ricoverati aveva D. Bosco introdotto una lodevole pratica, che rimase in vigore per molti anni: e fu la premiazione ai creduti migliori, per voto comune. La distribuzione di questi premii facevasi per ordinario nella sera della festa di S. Francesco di Sales agli studenti ed artigiani. La settimana innanzi ognuno degli alunni notava sopra un foglio di carta il nome di un dato numero di compagni, che a suo giudizio parevangli di più specchiata condotta religiosa e morale. Tra i votanti non poteva esservi precedente accordo e non rendevano ragione del loro voto. I Superiori non s'immischiavano, neppure col consiglio in tale votazione, ed era perfettamente libera. Quei fogli, sottoscritti, erano consegnati a D. Bosco. Egli ne faceva lo spoglio, e i sei, otto, dieci ed anche più giovani che ricevevano più voti, ossia che si trovavano più volte degli altri scritti nelle singole liste, venivano letti in quella sera e premiati solennemente con qualche libro, alla presenza di tutti, Superiori e alunni. È  degno di considerazione che il giudizio dato dai compagni riusciva ogni volta così giusto ed assennato, che migliore non sarebbe riuscito quello dei Superiori medesimi. Non si vide mai premiato un immeritevole, e gli impostori, per quanto fini, non ebbero mai fortuna. Nessuno infatti è più atto a conoscerci di chi ci frequenta, ci usa insieme alla famigliare e, senza che ce ne accorgiamo, osserva le azioni e le parole nostre. Questa premiazione dopo tre soli mesi d'entrata dei giovani nell'Oratorio, non era solo di grande eccitamento ai buoni, ma un avviso e una rivelazione per quelli che non avevano avuto alcun suffragio. [12] In tale plebiscito però, in quest'anno, ma solo per unica eccezione, era stata introdotta una novità: cioè, gli alunni diedero i loro voti anche ai chierici.

                Si legge in un registro autografo di D. Bosco: “In quest'anno nella solenne distribuzione dei premi fatta nel giorno di S. Francesco di Sales tra i chierici vennero compresi per eccezione, Rua Michele e Rocchietti Giuseppe. Fra gli studenti, onorati della premiazione, furono Bellisio, Artiglia, Cagliero. Tirarono le sorti: Turchi Mag., Savio Angelo, Pepe L. Comollo”.

                In questo registro è notato il voto della condotta morale di tutti i giovani della casa, che erano 76, dal 1° novembre 1853 al 10 agosto 1854. Il voto migliore vi è espresso con io decimi. Vi si legge anche il voto complessivo mensile intorno alla condotta morale, religiosa, scolastica dei chierici; fra questi compariscono oltre Marchisio Domenico alcuni non ancora da noi nominati e sono: Olivero Giuseppe, Luciano Giovanni, Viale Luigi. La ragione per la quale due chierici deposero la veste talare è svelata dai voti progressivamente scadenti coll'avanzarsi dell'anno, e da una spiegazione di D. Bosco stesso. Furono particolarmente negligenti nell'intervenire alle pratiche perdettero mollo tempo senza studiare, furono poco edificanti nel discorrere e nel trattare.

                Anche i voti della condotta dei chierici erano a quando a quando letti in pubblico ne' giorni stabiliti insieme con quelli de' giovani. E nessuno se ne offendeva o facevane le meraviglie. L'Oratorio era il regno della vera democrazia. Chierici, studenti, artigiani si trattavano a vicenda con fratellevole famigliarità, dandosi del tu non solo allora, ma quando, divenuti uomini, sembrava che le differenze sociali dovessero esigere mutazione di linguaggio. Il verace [13] affetto non soffre mutazione, e tale era quello che veniva loro ispirato dall'eroica carità di D. Bosco, costante, generosa, pronta ad ogni sacrificio per i suoi figliuoli. Godeva se essi godevano, soffriva se essi soffrivano, piangeva al loro pianto, era fortunato nelle loro fortune; persino si infermava, se essi cadevano ammalati. Poteva asserire con S. Paolo: Quis infirmatur et ego non infirmor? Anzi egli diveniva infermo perchè guarissero. Nei primi anni dell'Oratorio tutte le volte che un giovane era assalito da febbre, da male di denti, o dolor di capo, o spasimi di viscere, egli si recava innanzi al Signore supplicandolo a togliere dall'affanno il povero giovanetto, mandando a lui quella penitenza. Ed era ascoltato.

                Quando un giovanetto si sentiva male, dicevagli:

                - Su, fatti coraggio; io prenderò per me una parte del tuo male. - Egli proferiva queste parole ridendo, ma poi era assalito da un male di capo, o mal d'orecchi, o male dì denti terribile, e il giovane all'istante sentivasi perfettamente libero. Dopo qualche anno però avendo provato che se non era sano non poteva più adempiere a' suoi doveri, e che era necessaria la sua presenza pel buon andamento di tanti affari e dell'Oratorio, stabilì di non più pregare per simile motivo. - Io era pazzo! diceva ai giovani, nascondendo per quanto poteva la sua virtù; ma quelli conoscevano quanto questo buon padre li amasse, mentre egli continuava a chiamar pazzia quest'atto eroico di carità.

                Un giorno vide un giovane tormentato da un così atroce dolor di denti, da lasciarsi andare ad atti di frenesia. D. Bosco gli disse: - Sta di buon animo: io andrò a pregare acciocchè il Signore dia a me una parte del tuo male. - Il giovanetto rispose che non voleva assolutamente [14] veder patire D. Bosco, ma il buon superiore mantenne la parola.

                Venuta la sera, appena ebbe mangiato, D. Bosco sentissi assalito da mal di denti che gli andava ognor crescendo, a segno che dovette chiamar sua madre e dirle: - Per carità non mi abbandonate, perchè io temo di gettarmi giù da qualche finestra. Questo mio dolore ho paura che mi tolga il cervello. - Tuttavia, come era solito a fare, non si pentì del suo sacrifizio, non volle chiedere al Signore d'essere liberato da quel tormento, e assoggettossi alle conseguenze della sua offerta.

                La buona Margherita era in angustie e non sapeva che fare, nè qual rimedio trovare. D. Bosco passò a questo modo una parte della notte, finchè il dolore acutissimo essendo venuto insopportabile, chiamato il giovane Buzzetti, pregollo ad accompagnarlo da qualche dentista. Andarono adunque in cerca e videro sovra di un uscio l'insegna di Camusso, dentista del Re. Bussarono e la porta venne loro aperta, ma un ragazzo che si era presentato disse che il signor Camusso a quell'ora si trovava a letto.

                - Chiamatelo, disse D. Bosco; vedano se può venire a farmi un'operazione: sono così tormentato!

                - Allora venga pure avanti, rispose quel garzone: mio padre sa che cosa è questo male e si leverà facilmente.

                Difatti il signor Camusso venne; esaminò i denti, ma nulla vide di guasto: erano tutti sani. Solamente tutta la mascella era infiammata sopra ogni dire.

                - Che fare? disse il dentista: non ci resta che tentare l'estremo rimedio, come si fa in una botte, il cui liquore fermenta. Facciamo l'esperimento di cavare un dente.

                La prova era difficile, dovendosi strappare un dente sanissimo e ben compatto cogli altri; ma in quello stato [15] in cui D. Bosco si trovava se gli sarebbe fatti strappare tutti. Non temendo di sentir maggior dolore di quello che già provava, si assise, e di un colpo il dente fu strappato il dentista fece bensì più delicatamente che potè, ma Don Bosco svenne e gli si dovette somministrare alcuna cosa per farlo rinvenire.

                Uscito di là se ne ritornò a casa, e il dolore, scemato, in breve lo lasciò libero del tutto. Anche il giovanetto era guarito.

                Ma di tanta generosa carità di D. Bosco, fu certamente premio segnalato il dono delle guarigioni, che fu continuo finchè visse. D. Turchi Giovanni, testimonio oculare, in un suo manoscritto dei primi tempi ci racconta più fatti, meravigliosi di vario genere operati da D. Bosco, assicurandoci che ebbe riguardo alle date, per quanto gli fu possibile, e alla esattezza delle cose che narra, amando meglio a tal proposito smettere forse cose vere, ma incerte, che registrar le dubbie, benchè forse avvenute, a detrimento della verità. Noi di questo già ci siamo giovati nei volumi precedenti e ci gioveremo ancora nel procedere del nostro racconto, in specie narrando di guarigioni, riportandole all'anno nel quale accaddero. Per ora ci, limitiamo a due.

                Prima del 1850 un giovane, che frequentava l'Oratorio festivo, ammalò in una gamba che venne in suppurazione con buchi da dar ribrezzo per la tabe che ne scaturiva. La cancrena minacciava. I suoi parenti mandarono a chiamare D. Bosco, il quale non tardò ad andare, e dolenti gli dissero come i medici trattassero di fare l'amputazione.

                - No, rispose loro D. Bosco, non si farà. Abbiate fede e non si farà. [16] Quindi invitò il giovane a fare alcune promesse e lo benedisse, invocando S. Luigi Gonzaga e Luigi Comollo. L'indomani giunge il medico, visita la gamba ed era guarita, rimanendo tuttavia i buchi.

                Il giovane si alzò e la gamba continuò a dolergli alquanto, ma solo nei cangiamenti dì atmosfera. Egli però essendo stato, dopo breve tempo, infedele alle sue promesse, tornò ammalato come prima. D. Bosco andò a visitarlo ed intuì tosto il motivo della ricaduta. Allora, fattegli rinnovare le promesse, di nuovo lo benedisse e l'infelice guarì.

                Nel 1853 un giovane studente, G. Turco, una sera d'inverno erasi coricato con una febbre fortissima. Sentiva un gran male in tutta la persona; provava forti smanie, per cui si voltava in tutte le posizioni, senza trovarne una che gli procurasse un po' di requie: e gemeva e si lamentava piangendo. D. Bosco, informatone, dopo cena andò tutto solo a trovarlo, mentre gli alunni facevano ricreazione ed attendevano agli esercizi di canto. Colle sue dolci maniere gli infuse una gran calma, lo esortò ad aver viva fede in S. Luigi, facendogli' fare a questo amabile Santo una promessa speciale. Infine lo benedisse invocando S. Luigi e lo lasciò augurandogli amorevolmente la buona notte. Quel che successe l'infermo non seppe dirlo e non ricordò più altro. Si addormentò all'istante tranquillo tranquillo, sudò, e al mattino si svegliò dopo un sonno solo, trovandosi perfettamente guarito. D. Bosco, sempre curante della sanità de' suoi alunni, appena uscì di chiesa, domandò nuove dell'infermo, ed ebbe per risposta: - Turco è cogli altri che mangia allegramente la sua pagnotta. - Il giovane stesso raccontò: Io tanto allora come poi ho sempre stimato l'improvvisa cessazione de' miei mali come una cosa straordinaria. [17] Ma non sempre il Signore giudicava essere conveniente una subitanea o affrettata guarigione, ed allora in altro modo manifestavasi la carità di D. Bosco.

                “Se un giovanetto ammalavasi, D. Bosco facevalo trasportare nella camera destinata per infermeria ed usavagli e facevagli usare una diligente assistenza con molti riguardi, come io stesso ne feci la prova”; ci narrava il Teol. Savio Ascanio. “lo provai le sue cure direi materne quando fui colpito dal tifo”, ci ripeteva il Can. Anfossi. D. Bosco, sebbene occupatissimo, non tralasciava di visitare i suoi infermi, ed affrettavasi subito se il caso era grave. Chiamava il medico e lo conduceva egli stesso al loro letto. Gli stavano così a cuore, che non potendo talora recarsi da essi, ne domandava sovente notizia, s'informava se eransi provviste le medicine, e ripeteva l'ordine che loro non si lasciasse mancar nulla. Soleva dire: “Si faccia economia in altre circostanze, ma agli infermi si provveda quanto è necessario”. Se il fanciullo peggiorava, egli, occorrendo, stava presso di lui non solo di giorno, ma anche lunghe ore di notte, e sopratutto si adoperava perchè ricevesse i santi sacramenti per tempo e colle dovute disposizioni. Le sue maniere erano così incantevoli, le sue parole così affettuose e piene di santa unzione, da parere che gli ammalati più non sentissero pena. “Era voce comune di tutti, noi, dissero D. Turchi e Mons. Cagliero, che dolce sarebbe stato il morire nell'Oratorio, purchè si avesse l'assistenza dei nostro caro padre”.

                Quando erano in convalescenza, raccomandava al Prefetto di usar loro riguardi nel cibo, di servirli eziandio di vino generoso, e li interrogava con premura per conoscere il loro stato. “Egli era fatto così, diceva Enria: dimenticava se stesso per pensare a noi”.

 

 

CAPO III. Letture Cattoliche - Il primo anno di questo periodico Dichiarazione di D. Bosco agli associati - CONVERSIONE DI UNA VALDESE - Notificanza del Vescovo di Biella sulle trame dei protestanti - Leggi penali contro il clero e la leva militare dei chierici.

 

                COLLA stessa carità colla quale amava i suoi figli, D. Bosco proseguiva nella stampa e diffusione delle Letture Cattoliche. Non bastandogli il proprio lavoro per soddisfare alle esigenze e ai bisogni della società insidiata, si adoperava per impegnare vari dotti sacerdoti ed anche laici a scrivere su argomenti di religione, assegnando egli stesso a ciascuno la materia da trattarsi. Alcuni si prestavano volentieri; ma altri cercavano di eludere il suo incontro, per non rimanere interessati in simili lavori, poichè rincresceva loro per altra, parte dare una negativa al buon servo di Dio, che li invitava con  invincibile amabilità.

                Perciò nei primi quindici anni si può dire che gran parte di que' fascicoli furono opera sua e gli altri tutti vennero da lui esaminati attentamente, completati, corretti, e non solo per ciò che riguarda il manoscritto originale, ma eziandio le bozze di stampa. [19] Pel mese di febbraio 1854 era pubblicato il duplice fascicolo anonimo che portava per titolo: AI CONTADINI - Regole di buona condotta per la gente di campagna, utili a qualsiasi condizione di persone. “Vorrei, incomincia a dire ai contadini, o cari amici, potervi fare amare il vostro stato al disopra di tutti gli altri, vorrei potervi far comprendere che tra le condizioni ordinarie della vita la vostra è una delle più onorevoli, delle più favorite da Dio, delle più feconde di mezzi di santificazione... Voi siete i servitori, gli operai della potenza del Creatore ..... Se tutti voi cessaste dal vostro lavoro tutti in una volta, la vita cesserebbe da per tutto... La vostra condizione è la più degna di rispetto perchè Dio creò coltivatore della terra il primo uomo”. E con auree pagine continua a descrivere le attrattive della vita in campagna, la carità che regna più che altrove tra i coltivatori, la pace e l'amore nelle case, e il loro pesante lavoro meritorio quanto quello dei santi solitari nei deserti. Quindi li avvisa a conservare la semplicità, la modestia, la purezza delle loro antiche abitudini, di non andare a giuocare nei caffè i giorni di mercato, di non permettere la vanità nel vestito alle loro famiglie, di non far discorsi poco convenienti, alla presenza dei loro fanciulli e servitori contro le autorità civili ed ecclesiastiche.

                Loro proponeva infine mezzi di salute: - La preghiera -L'elevazione del cuore a Dio col pensiero che Dio ci vede - La santificazione delle domeniche e feste - La frequenza dei Sacramenti - La docilità ai giudizi e avvisi del Confessore - Le letture divote, p. es. la Storia Sacra, l'Ecclesiastica ecc. da leggersi nelle serate e nelle veglie. “Avanti però di comprar libri, osservava, prendete consiglio dal vostro Curato; e ciò per tener lontano [20] dalle vostre case la peste che arreca un libro malvagio. Non accettate libri gratuitamente da persone che non avete mai conosciuto, giacchè vanno vagando uomini incaricati di spargere stampe tra il popolo, per trascinarlo all'apostasia”.

                Questo opuscolo compievasi colla seguente dichiarazione:

 

                                “Ai nostri associati,

                Nel pubblicare il vigesimoterzo fascicolo delle Letture Cattoliche, col quale chiudesi il primo anno dell'associazione, compiamo altresì abbondantemente alle promesse fatte  nel nostro programma.

                In esso annunciammo di dare agli associati un fascicolo mensile non minore di 96 pagine; ma la favorevole accoglienza incontrata, gli incoraggiamenti dei buoni, i consigli e il desiderio espressoci da gran numero degli associati, ci determinò di pubblicare, noti avuto riguardo alla maggiore spesa cui avremmo dovuto sottostare, due fascicoli al mese di 50 a 60 pagine, secondo che avrebbe richiesto la materia, e di dare 108 pagine per ciascun mese invece di 96: e così 1296 pagine in luogo di 1152 all'anno, siccome puossi rilevare dal rendiconto che riportiamo in fine.

                Noi speriamo di non aver fallito l'aspettazione degli associati, nè per ciò che riguarda l'interesse materiale, nè per ciò che concerne i principii e le questioni trattate, nelle quali abbiamo eziandio secondato i suggerimenti che distinte persone vollero benevolmente esporci.

                Ringraziamo pertanto, e ne proviamo un vero bisogno di pubblicamente testimoniare la nostra riconoscenza ai Reverendissimi Prelati, i quali si degnarono accordarci la loro protezione; ai degni ecclesiastici nostri confratelli, i quali con noi cooperarono; ed alle anime nobili e generose che sostennero quest'opera colla loro associazione.

                La continuazione di questo concorso ci dà la speranza che, coll'aiuto di Dio, noi potremo progredire con vie maggior efficacia [21] nel secondo anno che siamo per incominciare, a procurare alla società, alla religione, quel bene che l'una e l'altra si attendono dai buoni nei tempi che corrono, critici per l'una e per l'altra. Che se giungeremo coi nostri sforzi solo ad arrestare l'immoralità, la corruzione dello spirito e del cuore, che con tanto impegno, con tanti mezzi si tenta vie maggiormente disseminare nella nostra povera patria, specialmente nei villaggi tra le persone rozze ed ignoranti, noi saremo stati gli strumenti con cui Iddio avrà operato un gran bene, del quale darà il merito a noi ed a tutti quelli che con noi si adoperarono alla difesa della fede cattolica e alla diffusione dei principii di cristiana virtù.

                L'approvazione del Santo Padre, espressaci, per mezzo dell'E.mo suo Segretario di Stato Card. Antonelli, nella lettera che abbiam pubblicato di fronte al fascicolo 20-21, infuse nel nostro animo nuovo coraggio e portiamo fiducia che la benedizione dell'Augusto Pio IX avrà eziandio incoraggiato i benemeriti nostri cooperatori a proseguire con lieto animo a prestarci quel soccorso di cui ci furono cortesi pel passato, e che noi nuovamente e caldamente imploriamo.

                I nemici della cattolica religione e della società con incredibile attività, e con ogni mezzo si adoprano a pervertire lo spirito, a corrompere il cuore dei tiepidi e dei semplici; è dover nostro, è dovere di tutti i buoni di opporsi altresì con tutta attività e con tutti i mezzi leciti ed onesti al torrente che tenta travolgere nelle corrotte sue onde la società e la religione.

                Ma a quest'opera eminentemente sociale e santa è necessaria l'unione, l'accordo. Uniamoci dunque, accordiamoci ed operiamo energicamente. Iddio benedirà le nostre fatiche, darà il necessario incremento alle nostre opere, ed avremo la consolazione un giorno di vedere i nostri nemici, i nemici della fede cattolica e della società, o convinti dei loro errori, delle loro utopie, convertirsi e unirsi a noi; o scornati e confusi ravvolgersi nel fango della loro sconfitta, incapaci di più nuocere.

                Intanto annunciamo che l'associazione continua colle stesse condizioni e basi dell'anno cadente:

                Che le materie e i principii che si imprenderanno a trattare saranno compiuti in ciascuna particolare pubblicazione, di modo che i fascicoli non avranno relazione, ossia non saranno continuazione [22] di altri. Che la direzione si darà tutto l'impegno, perchè gli associati ricevano in tempo i fascicoli che si pubblicano.

                Annunciamo finalmente che sta sotto i torchi una traduzione in lingua francese di tutti i fascicoli pubblicati nel corso dell'anno, onde appagare il desiderio e provvedere ai bisogni di quelle provincie e diocesi cui è comune il francese. Rinnoviamo ancora l'avviso già stampato sulla coperta del fascicolo 20-21”.

 

                Questo ultimo avviso riguardava gli associati della Savoia.

                Con questa notazione le Letture Cattoliche entravano nel secondo anno di loro esistenza. D. Bosco per raccomandarle aveva fatta stampare da Doyen 3000 circolari, e pel marzo egli stesso esponeva in due fascicoli un fatto contemporaneo col titolo: Conversione di una Valdese. È  un racconto veramente storico, nel quale sono travisate solamente alcune circostanze che non era conveniente che fossero per allora manifestate. Eroina di scene pietose è una giovanetta nata da parenti eretici, che invidiando la pace goduta nella loro fede dalle compagne cattoliche, istruita segretamente dal Parroco, combattuta dal Ministro protestante, punita e imprigionata dal padre, riesce miracolosamente a fuggire di casa, ed entra nel grembo della vera Chiesa, non ostante le insidie dei nemici dell'anima sua.

                Questo libretto portava in fronte le seguenti autorevoli parole:

                “Fin qui dai protestanti si distribuivano gratis a larga mano ora la Bibbia adulterata, ed ora scritti apertamente ostili ai dommi, al culto, alla morale della Chiesa Cattolica: vedendo però rimanersi tali manovre senza successo si tentò di comprare le coscienze coll'oro! Ma ora si va più in là; al sacrilegio e all'oro si aggiunge [23] l'inganno; nuova perfidia di cui solo è capace l'infernale nemico del bene. Girano fra noi, come in altre provincie .dello Stato, uomini prezzolati e perversi, che coll'apparente scopo di un commercio qualsiasi o di un'arte, si introducono nei negozi e nelle case, e perfino vi assalgono nelle contrade, onde vendervi a modico prezzo, o farvi accettare anche con niuna o con una minima spesa libriciattoli pieni di eresie e di bestemmie, e portanti i più bei titoli in fronte, al fine di sorprendere gli incauti, e far da loro stessi recare in seno alle famiglie il più reo quanto men sospettato veleno”.

                Così scriveva a' suoi diocesani in una Notificanza del 15 marzo 1854 il Vescovo di Biella, dando loro gli opportuni consigli e precetti; e D. Bosco aggiungeva: “I nemici del cattolicismo, o fratelli, i protestanti in ispecie, si adoperano colla massima attività per corromperci la fede. Noi preghiamo e supplichiamo caldamente tutti coloro cui sta a cuore la conservazione della religione dei loro padri, ad unirsi con noi per difendere la fede, il più bel dono che ci abbia fatto la Divina Misericordia; ad aiutarci colla loro opera alla diffusione delle Letture Cattoliche che appunto si pubblicano per far conoscere gli errori che si propagano, e perchè si conservi intatta nelle nostre popolazioni la FEDE CATTOLICA, la quale sola ha il carattere della verità, e fuori della quale è impossibile piacere a Dio e salvarsi”.

                Senonchè i Valdesi tanto più insolentivano quanto più sapevano che sarebbero impuniti, mentre ai cattolici non si risparmiavano le più nere calunnie.

                I Vescovi nel gennaio 1854 avevano protestato al Re per le gravi e ingiuste accuse di ribellione mosse contro il Clero e gli raccomandavano di comporre le differenze [24] colla Santa Sede. Ma, come per risposta, Urbano Rattazzi, ministro di Grazia e Giustizia, proponeva alla Camera certe sue modificazioni alle leggi penali. Temperate di molto quelle che prima erano stabilite contro gli offensori della religione, insisteva che i ministri del culto, i quali in pubblica adunanza nell'esercizio del loro ministero pronunciassero discorsi contenenti censura delle Istituzioni o LEGGI dello Stato, fossero puniti col carcere da tre mesi a due anni. Se poi la censura si facesse con scritti od altri documenti, letti in pubblica adunanza o in altra forma pubblicati, il carcere fosse esteso da sei mesi a tre anni; in ambedue i casi si aggiungesse una multa da toccare anche le due mila lire. Il 16 marzo la legge fu votata nel Parlamento da 93 deputati contro 33.

                I Vescovi Subalpini e Liguri con lettera del 30 marzo pregarono allora il Senato di assicurare al Clero Cattolico quella libertà e quei diritti che lo Statuto concedeva a tutti i cittadini. E il Senato approvò la legge con qualche modificazione, e il Re la sanciva il 5 luglio.

                Ma ciò non era tutto. Avendo il governo fin dall'anno antecedente preparato un disegno di legge sulla leva militare, la Camera dei deputati aveva approvato l'ART. 98 Così espresso: -Sono dispensati dal concorrere alla formazione del contingente, nel numero proporzionato ai bisogni del culto, da limitarsi e stabilirsi ogni anno ed in ciascuna diocesi per decreto reale, da emanare sulla proposta del Ministro di Grazia e Giustizia, gli inscritti che siano:

                I Alunni cattolici in carriera ecclesiastica richiamati anteriormente all'estrazione dai Vescovi di loro diocesi.

                2. Gli aspiranti al ministero di altro culto in comunioni religiose tollerate nello Stato, richiamati, come nei precedente numero, dai superiori della loro confessione. [25] Da questo articolo risultava che l'esenzione dei chierici dalla leva cessava di essere un privilegio, un diritto, per diventare una grazia sovrana: che questa grazia si estendeva ai Valdesi, agli Ebrei e a qualunque altra setta che abbia danaro da comperare qualche dozzina di discepoli.

                I Vescovi avevano fatto ricorso al Re e al Senato, dimostrando come in molte diocesi si patisse difetto di sacerdoti, ma il 2 febbraio 1854 i Senatori approvavano quella legge con 50 suffragi contro soli 12. Il Re la sanciva il 20 maggio. Ogni Vescovo ebbe la facoltà di richiamare un chierico ogni ventimila diocesani, ma ove il chierico non conseguisse prima dei 26 anni alcuno degli ordini maggiori sarebbe decaduto dall'esenzione. Per i ministri protestanti non vi era questo incaglio.

 

 

CAPO IV. Un terreno venduto a D. Bosco dal Seminario di Torino - Altri progetti per la costruzione di un edifizio tipografico - Lettere di D. Bosco a Rosmini e risposte dell'Abate - Letture Cattoliche: RACCOLTA DI CURIOSI AVVENIMENTI CONTEMPORANEI - Legatoria di libri, terzo laboratorio interno nell'Oratorio.

 

                CONTINUAVANO le pratiche coll'Abate Rosmini per l'impianto di una tipografia. Si era messo da parte il progetto di adattare a quest'uso alcune sale dell'ospizio costruendo, e arrideva il pensiero di -erigere di sana pianta un edifizio isolato. Perciò erasi volto l'occhio al terreno di figura triangolare di are 38 circa, venduto a D. Bosco dal Seminario di Torino, rappresentato -dal Rettore Can. Vogliotti. Il contratto erasi conchiuso per autorizzazione ottenuta, con decreto del 28 febbraio 1850, da Mons. Fransoni, delegato dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari con Rescritto del i dicembre 1849. Il 5 febbraio 1850, fu concesso il Regio exequatur. L'apice del triangolo incominciava alla biforcazione ad angolo acuto delle due vie Giardiniera e Cottolengo, e questa divergenza è ancora evidente nel cortile del [27] l'Oratorio, denominato poi da Maria Ausiliatrice; la base del triangolo cadeva oltre la metà dello spazio, ora occupato dal nostro santuario.

                Ora D. Bosco, nel 1851 il 18 giugno, aveva venduto per 2500 lire parte del fondo pervenutogli dal Seminario al sig. Giovanni Battista Coriasco, cioè un rettangolo di 17 metri di larghezza sulla via Cottolengo e metri 1940 verso l'interno, area che occupava all'incirca Io spazio intero dell'attuale nostra porteria. Il signor Coriasco erasi qui costrutta una casetta di un piano, avente due ali parallele, e vi abitava esercitando il mestiere da falegname. Nello stesso anno 1851, il 20 novembre, D. Bosco aveva pur ceduto in proprietà a Giovanni Emanuel, ettare 0,I,99 al levante della casetta Coriasco per la somma di 1573 lire.

                Potendosi riscattare le due suddette proprietà, Don Bosco le proponeva a Rosmini, come molto opportune all'effettuazione del proprio disegno. L'Abate Rosmini aveva perciò nuovamente scritto a D. Bosco, chiedendo informazioni, incaricandolo di iniziare le pratiche con Coriasco ed Emanuel, ed esponendogli la convenienza di trattare colla Curia Arcivescovile. Questa lettera non si rinvenne negli archivi, ma se ne arguisce il contenuto,da un foglio di D. Bosco.

 

                All'Ill.mo Ch.mo Signore, il Sig. D. Antonio Rosmini Cavaliere Ab. Gen. dell'I. d. C. - Stresa.

 

                               Ill.mo e Rev.mo Signore,

 

                Non posso a meno che ringraziare V. S. Ill.ma e Rev.ma dei buoni sentimenti espressi a mio riguardo: e poichè Ella mi dice di fare quello che può, io pure farò quanto posso dal canto mio affinchè i nostri progetti siano effettuati a maggior gloria di Dio [28] e a salute delle anime. Bisognerà ancora fare qualche modificazione sulle condizioni apposte per avere l'intiero quartiere a nostra disposizione.

                Sarebbe una condizione alquanto grave per me il ricuperare la casetta e il sito venduto al Coriasco, col sito confinante a levante e a mezzanotte, con obbligo di non alienarlo. Credo sia meglio che V. S. compri tal sito e casa e così saranno tolte due difficoltà; e poichè Ella mi dice che per ora non potrebbe fare tale spesa io appianerei in parte tale impedimento versando l'ammontare di quel  la ventina di tavole, cioè quello che eccederebbero il quartiere regolare di cui non avvi difficoltà, per la estinzione di una parte dei debito mio verso V. S., assumendosi Ella, la spesa relativa al Coriasco, che monterebbe intorno ad ottomila cinquecento franchi, di cui basterebbe ora pagarne tre.

                Io mi assumerei di fare le trattative con detto Coriasco per avere ogni agevolezza possibile. Noto qui però che V. S. ne ha particolarmente bisogno di questo tratto di fabbrica del Coriasco; perciocchè dovendo dare principio ad un edifizio resta indispensabile una tettoia, bastantemente capace di ricevere i molti oggetti che vi si ricercano, con qualche cameretta per un assistente e per un governante: la qual cosa sarebbe già fatta.

                Oggi sono andato in città dall'architetto degli edili, e mi disse che avrebbe dato la linea di fronte quando che sia; ma perciò è necessario presentare un piano di costruzione, in seguito a cui il Consiglio edilizio emanerebbe un decreto analogo delle quali incombenze m'incarico io medesimo.

                Sebbene le spese d'insinuazione e d'istrumento siano regolarmente a carico del compratore, tuttavia io ci entrerò per la metà, come Ella dice; e ciò per facilitare l'impresa.

                In quanto al parlarne col nostro sig. Vicario Generale giudicherei bene differirne ancora, e forse sarà meglio cogliere l'occasione, che qualcheduno dell'Istituto passi a Lione per parlarne verbalmente all'Arcivescovo medesimo; ma il parlare di ciò al nostro Vicario forse sarebbe suscitare difficoltà, dove io, credo non ci siano. Se Ella giudica altrimenti mel dica ed eseguirò quanto mi suggerisce,

                Stando le cose in questi termini, io credo che Ella possa mandare una persona a ciò incaricata, che segni i limiti entro cui [29] dobbiamo tenerci, e qui sul luogo del luogo aggiusteremo ogni cosa; perchè ho veramente piacere di questo progetto e desidero che sia compiuto ed effettuato.

                Noto finalmente che una persona attende il risultato di queste trattative per fare acquisto del sito che io sarò in grado di vendergli. Che se noi possiamo dar principio alla provvista di materiali in questo momento, avrebbesi un agio non inferiore al quindici per cento, cosa che non si avrebbe più sul finire di aprile. Eccole quali sono le espressioni del mio cuore riguardo alla risposta della venerata sua lettera, disposto a seguire ogni paterno consiglio che Ella vorrà suggerire; perchè qui non trattasi del vantaggio temporale dell'Istituto o dell'Oratorio, ma trattasi di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime.

                Il Signore benedica Lei e il suo benemerito Istituto, e mentre Le auguro ogni bene dal cielo mi raccomando alle divote di Lei preghiere e me Le offro in quel che posso.

Di V. S. Ill.ma e Rev.ma

                Torino, 24 febbraio 1854.

 

Obbl.mo ed Affmo in Gesù Cristo

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                A questo foglio l'Abate Rosmini corrispondeva con altra sua lettera.

 

                Stresa, 2 marzo 1854.

 

 

                               Mio Caro e Rev. Signore e fratello in G. C.,

 

                La cara sua mi dà molto a pensare, perchè quantunque sia mia intenzione di fare per adesso solo un braccio di fabbrica, quant'è necessario strettamente allo scopo, ho tuttavia da temere che altri poi non dica: “Coperti aedificare et non potuit consummare”. Vorrei dunque pregarla che Ella si risolvesse di aiutarmi un po' di più di quello, che mi promette. Le propongo dunque, che io mi risolverò anche a comprare il pezzo Coriasco, ma non più, e a condizione che Ella restituisca qualche cosa dei capitale delle ventimila lire, restando del rimanente ferme le altre condizioni. [30] In quanto al prezzo da convenirsi col signor Coriasco mi raccomando molto a Lei. In ragione di tavole a lire 350, il terrena non potrebbe eccedere lire 3500; ci sarà poi il fabbricato, che non so quanto possa valere. Ma in somma sono certo ch'Ella tratterà l'interesse comune.

                Non è possibile al momento presentare al Municipio il disegno del fabbricato da erigersi, perchè l'architetto non l'ha ancora formato, ma basterà per intanto dire all'architetto degli Edili, che si vuol chiudere il luogo con una cinta di muro, e che più tardi, se si vorrà fabbricare, si presenterà il disegno. Riguardo alla detta cinta Ella potrà farla tracciare e stabilire una mediocre altezza del muro, e su questa traccia presentata in carta, non dubito che sarà segnata dal detto architetto la linea di fronte, com'è necessario prima di estendere l'istrumento di compra-vendita nel quale la detta linea deve venire indicata, come pure la misura del fondo.

                Riguardo all'atto di urbanità, che pensavo doversi fare con cotesto Monsignore Vicario Generale, m'atterrò al suo consiglio.

                Mi mandi dunque una risposta favorevole, di che ho tutta la fiducia, ed io manderò sopra luogo persone, sia per eseguire l'acquisto, sia per far subito la provvista dei materiali.

                In questa aspettazione raccomandandomi alle sue orazioni, mi onoro di essere con tutta la venerazione e l'affetto in Gesú Cristo

 

Suo umil.mo e obbl.mo servo fratello

antonio rosmini

Prep. G. D. S. D. C.

 

                Dal complesso di queste trattative si viene a conoscere come il primitivo valore dei terreni in Valdocco si fosse di molto elevato, e che eranvi impresarii desiderosi di farne acquisto. Infatti in que' giorni correva una voce abbastanza fondata che la' stazione della ferrovia di Milano, poi edificata a Porta Susa, dovesse essere costrutta poco lungi dall'Oratorio e che le avrebbe dato accesso [31] una piazza. Don Bosco certamente aveva informato l'Abate Rosmini di questo progetto governativo. Quindi spediva un'altra lettera a Stresa.

 

                Direzione centrale delle Letture Cattoliche.

Torino, 7 marzo 1854.

 

                                Ill.mo e Rev.mo Signore,

 

                Quanti disturbi debbo recare a V. S. Ill.ma e Rev.ma per questo affare! Abbia pazienza. Tali disturbi saranno tante cambiali per la Divina Provvidenza. Il motivo per cui non posso accondiscendere alle proposte condizioni si è la strettezza dei mezzi in cui mi trovo ed il bisogno di sostenere alcuni affari riguardanti la costruzione dell'edifizio or ora ultimato. Tuttavia, nel vivo desiderio di accordarci in tale iniziativa, accolgo la sua proposta modificata come segue:

                I. Nella vendita e nella compra della casa Coriasco io lascierei a sconto del prezzo di sito venduto, cinquemila franchi, di cui tre imprestatemi lo scorso autunno e due mila sopra i ventimila di cui fa cenno nella sua lettera.

                2. La parte che terrei come annessa allo stabilimento, non potrebbe vendersi per tre anni, in fine di cui se mi trovassi in grave bisogno e non potessi approfittare di quel sito altrimenti sarei libero di poterlo alienare, con preferenza di 25 franchi per tavola sopra i prezzi vigenti, qualora si voglia acquistare dall'Istituto della Carità.

                3. Il Municipio di Torino garantisce la linea di fronte per un semplice muro di cinta, di che ho già dato ordine per la formazione di un piano analogo da sottoporsi all'architetto di città, la qual cosa si compie entro quest'oggi.

                Debbo però notare che ci sono altri avventori per la compra Coriasco, ma che esso preferisce noi; gli fu offerta la somma di franchi 9,500 e la cederebbe a diecimila in contanti, oppure dodicimila con mora. Questa compera vorrebbe esser fatta presto, o prescindendo per ora, perchè l'avvicinarsi della primavera favorisce molto i venditori. [32] Ecco quel tanto che Le posso significare nella presente mia posizione in riscontro alla veneratissima sua. E sarei solamente a pregarla di una decisione tra breve per avere una norma con alcuni individui che mi hanno fatto inchiesta del medesimo sito.

                Nella dolcissima fiducia che le cose siano tutte aggiustate, dia pure incarico alla persona, che giudicherà del caso, per ulteriori incombenti, e se nel progresso della nostra impresa s'incontreranno difficoltà, studieremo reciprocamente il modo di superarle.

                Compatisca questa mia lettera. Il Signore Iddio colmi di sue benedizioni Lei e tutti i suoi compagni e figli dell'Istituto e colla massima venerazione mi professo in G. C.

                Di V. S. Ill.ma e Rev.ma

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI

                Il 10 marzo rispondevagli D. Carlo Gilardi, che il suo superiore lo avrebbe mandato a Torino nella prossima settimana per conchiudere definitivamente la cosa e che sperava si accorderebbero con tutta facilità. Pregava pure D. Bosco di dargli, se poteva, alloggio e vitto presso di lui, pagando egli pensione.

                D. Bosco in questa attesa finiva di preparare il doppio fascicolo delle Letture Cattoliche pel mese di aprile da lui stesso compilato: Raccolta di curiosi avvenimenti contemporanei, che tutti riguardavano i Protestanti e le arti loro e portavano per titolo: Un parroco in mezzo agli assassini - Buon senno di un operaio - Una bella similitudine - Fermezza cattolica - Le miserie dell'annata - La verità conosciuta - Il lavoro nei giorni festivi. Erano in forma di dialoghi pieni di vivacità. A questi aggiunse l'apparizione della Beata Vergine ai due pastorelli della Salette, la conversione e morte di un giovane protestante, e qualche altro grazioso aneddoto. [33] D. Bosco aveva premesso a questo fascicolo il seguente Avviso. “Nel pubblicare la presente Raccolta di fatti,contemporanei, stimiamo a proposito di avvisare i nostri lettori come i protestanti siansi dimostrati altamente indegnati soprattutto per altri fatti da noi dati già alle stampe che li riguardano! Ciò dimostrarono con detti con lettere private e cogli stessi loro pubblici giornali. Noi aspettavamo che entrassero in questione per farci rilevare qualche errore da noi stampato; ma non fu così.

                “Tutto il loro dire, scrivere e pubblicare non fu che un tessuto di villanie ed ingiurie contro alle Letture Cattoliche e contro chi le scrive. A dire ingiurie e villanie, noi concediamo loro di buon grado la vittoria, senza fermarci a dare nemmeno una parola di risposta. Perciocchè abbiamo avuto sempre massimo impegno di non voler mai pubblicare cosa alcuna che fosse contraria alla carità, che devesi usare a qualunque uomo di questo mondo. Laonde perdonando di buon grado a tutti i nostri dileggiatori, ci studieremo di evitare le personalità; ma di svelare l'errore ovunque si nasconda.

                “Iddio colmi di sue celesti benedizioni i nostri lettori, e tutti quelli che si uniscono con noi per sostenere la verità e conservare nei popoli la Santa Cattolica Religione”.

                E gli errori degli eretici erano sempre più valorosamente sconfitti con due altri fascicoli, in un sol libro, consegnati al tipografo pel mese di maggio. Basta indicare il nome dell'autore per dimostrarne il pregio:

                Catechismo intorno al Protestantesimo ad uso del popolo per il P. Giovanni Perrone della Compagnia di Gesù. Comprendeva la storia e la dottrina del Protestantesimo, l'e sue male arti per disseminare l'errore, la vita infelice e la morte lagrimevole degli apostati. [34] D. Bosco intanto mentre sperava di avere in tempo non lontano una tipografia a sua disposizione, nei primi mesi dell'anno apriva, scherzando, come era solito a fare, in molte sue imprese, un terzo laboratorio nell'Ospizio: Legatoria di libri. Ma fra i giovani che aveva nella casa non ve n'era alcuno che s'intendesse di questo mestiere: pagare un capo d'arte esterno non era ancora il tempo. Tuttavia un giorno, avendo intorno a sè i suoi alunni, depose sopra un tavolino i fogli stampati dì un libro che aveva per titolo: Gli Angeli Custodi, e chiamato un giovane gli disse:

                - Tu farai il legatore!

                - Io legatore? Ma come farò se non so nulla di questo mestiere?

                - Vieni qua! Vedi questi fogli? siediti al tavolino bisogna incominciare dal piegarli.

                D. Bosco pure si assise, e fra lui ed il giovane piegarono tutti quei fogli. Il libro era formato ma bisognava cucirlo. Qui venne in suo aiuto mamma Margherita e fra tre riuscirono a cucirlo. Subito con farina si fece un po' di pasta ed al libro si attaccò anche la copertina. Quindi si trattò di eguagliare i fogli, ossia raffilarli. Come fare? Tutti gli altri giovanetti circondavano il tavolino, come testimoni di quella inaugurazione. Ciascuno dava il suo, parere per rendere eguali que' quinterni. Chi proponeva il coltello, chi le forbici. In casa all'uopo non vi era ancora nulla, assolutamente nulla. La necessità rese Don Bosco industrioso. Va in cucina, prende con sussiego la, mezzaluna d'acciaio che serviva a tagliuzzare le cipolle, gli agli, le erbette, e con questo strumento si pone a tagliare le carie. I giovani intanto si rompevano lo stomaco dal ridere. [35]

                - Voi ridete, esclamava D. Bosco, ma io so che in casa nostra ci deve essere questo laboratorio dei legatori e voglio che s'incominci.

                Il libro era legato e raffilato.

                 - Ed ora, interrogò D. Bosco, vogliamo indorarlo sui fogli?

                 - Vedremo anche questa! esclamò mamma Margherita.

                 - Ebbene se non c'è oro, proseguì D. Bosco, daremo solamente un po' di giallo sui fogli! Ma come fare? Prese un po' di terra d'ombra, gialla, e vóltosi ai circostanti: - Ed ora? Con quale liquido la mescolerò? Coll'acqua pura!

                - Non attacca, risposero i giovani a coro.

                - Coll'olio?

                - Sì che imbratterebbe bene il suo libro!

                D. Bosco pensò alquanto, mandò a comprare alcuni soldi di vernice, con questa sciolse la terra gialla, ed ecco il libro legato a perfezione. D. Bosco rideva, rideva pure Margherita e con essa i giovani; ma il laboratorio era inaugurato, e si stabilì nella seconda stanza della prima parte del fabbricato nuovo, vicino alla scala, dove al presente corrisponde uno de' refettori. Attesa la penuria dell'annata, non si erano ripigliati i lavori di costruzione, ma se ne fecero poi solamente ultimare alcuni già fatti e che erano di prima necessità. Egli, intanto, nelle botteghe di Torino procurava di imparare le regole di questo mestiere, che di mano in mano insegnava al suo primo legatore.

                A questo ne aggiunse alcuni altri e comperò qualche istrumento col quale si lavorava alla buona; poi vennero ricoverati nell'Oratorio alcuni giovanetti, che per un po' di tempo avevano già fatto il legatore di libri in città. [36] Costoro aiutarono il progresso dei lavori, e il laboratorio incominciò a far sue prove colla piegatura e cucitura delle Letture Cattoliche e dei libri scolastici. Il primo giovane legatore fu Bedino, soprannominato Governo.

                Questi esigui principii però a quale sviluppo e perfezionamento non dovevano giungere! Fin dall'autunno di questo stesso anno l'Armonia del 9 novembre 1854 poteva pubblicare il seguente annunzio, facendo cenno ad un fatto che presto discriveremo.

                “Ad oggetto di procurare lavoro ad alcuni poveri figli ricoverati nell'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Valdocco, sotto la direzione del benemerito sacerdote D. Giovanni Bosco, fu aperto un laboratorio da legatore di libri. Le persone che somministreranno libri o altri oggetti di lavoro, oltre l'agevolezza del prezzo, concorreranno a sostenere un'Opera di pubblica beneficenza. Noi caldamente raccomandiamo questo stabilimento, sapendo essere già stati ivi ricoverati diciotto ragazzi, rimasti orfani nella micidiale emergenza del coléra; e altri ancora saranno fra breve ricoverati”.

                E presso questa legatoria incominciò a formarsi in questo stesso anno 1854 una piccola libreria commerciale.

 

 

CAPO V. Gli Oratorii festivi - Cooperazione del Clero secolare regolare della città - I priori nelle feste - L'avvicinamento delle classi sociali e l'amore dei giovani ai loro nobili benefattori - Morali soddisfazioni - Amore al sacerdote e suoi effetti salutari - Catechismi quaresimali - Ammirabile costanza di un giovane nel frequentare L'Oratorio - D. Bosco cede a Rosmini il campo comprato dal Seminario per l'erezione della tipografia D. Bosco a Castelnuovo e guarigione sorprendente di un giovanetto - I beni del Seminario di Torino sequestrati.

 

                GLI affari e le Letture Cattoliche non diminuivano zelo di D. Bosco per gli Oratorii Festivi. I giovani accorrevano numerosi per apprendere il catechismo. I chierici alla domenica e nelle feste erano occupati da mane a sera insegnando la dottrina cristiana, sorvegliando continuamente in chiesa e fuori, prendendo parte a tutte le ricreazioni per animare i divertimenti. Nell'Oratorio di Valdocco dopo le funzioni vespertine D. Bosco una volta al mese tirava a sorte qualche oggetto di vestiario, commestibili e libri a favore dei giovani si [38] interni che esterni; e specialmente di questi ultimi per eccitarli a frequentare con assiduità le sue radunanze domenicali.

                Negli altri due Oratorii vigeva la stessa usanza. In quello di S. Luigi i chierici dovevano pensare a provvedere gli oggetti per quel lotto e D. Demonte donava loro fino al 1861 cinque lire ogni mese a questo scopo, ed essi da abili amministratori con tale somma sapevano procurarsi tanti oggetti da contentare i giovani. Era loro incombenza, mancando talvolta il direttore D. Felice Rossi, giovane di molto zelo, ma di precaria salute, andare per Torino in cerca di un sacerdote che acconsentisse di celebrare la S. Messa, predicare e confessare nella prossima domenica. E trovavano sempre chi si prestava volentieri a quest'opera di carità. Anche per le solennità della Chiesa e per l'esercizio di buona morte ricorrevano a confessori della città, e, qualora questi fossero stati impediti per le loro occupazioni, i buoni chierici salivano al convento del Monte; ed il Padre Guardiano dei Cappuccini mandava loro qualcuno de' suoi religiosi, i quali caritatevolmente per ore ed ore ascoltavano i giovani penitenti. E ciò accadde molte volte e per più anni.

                Per le distribuzioni annuali dei premi e le feste patronali, era necessario preparare accademie con prose, poesie e un po' di musica e canto; ed ecco che a tempo nulla mancava di lustro e attraenza a quelle solennità. A tutto pensavano i chierici. Anche si consigliavano sui Priori da scegliere, e ai scelti si recavano a far visita, pregandoli a voler accettare quella specie di presidenza. Sovente il Priore era un giovane distinto di cospicua famiglia, e nel suo giungere all'Oratorio, nel tempo delle funzioni e nel dipartirsene era trattato con tutte quelle distinzioni, che si usano [39] colle persone, dalla presenza delle quali ci teniamo onorati. L'avvocato Garelli, che fu in predicato di essere sindaco di Torino, ci narrava con molto piacere che nell'età di venti anni era stato Priore a Porta Nuova.

                Sia quivi come in Vanchiglia al Priore riserbavasi, nelle accademie e nelle distribuzioni dei premi, un seggio dei più onorevoli, e sul finire, uno dei chierici faceva la parlata di chiusura ovvero invitava il Priore a indirizzare qualche parola alla moltitudine dei giovani, alla presenza dei loro parenti e dei benefattori. Se quegli non era troppo esperto nel maneggio della parola, oppure manifestava timidità, il chierico gli stava al fianco, suggerivagli un'idea provocava un applauso per incoraggiarlo, se vedevalo impacciato; e talora gli prendeva la parola di bocca e continuava egli stesso a nome dell'oratore, approvando quanto quegli aveva detto fino a quel punto. Ciò faceva però con tale garbo, che l'uditorio di nulla accorgevasi; e il chierico Rua aveva nel dare questo aiuto una grande prontezza di spirito. Il Priore poi soleva con una generosa oblazione concorrere alle spese della festa.

                D. Bosco adunque, date a' suoi chierici certe norme generali, lasciandoli in libertà di cercare i mezzi per raggiungere il fine proposto, assuefacevali a fare da sè, pronto egli però sempre a porger loro efficace aiuto.

                Ma se l'Oratorio festivo era una palestra utilissima per i chierici, recava ai giovani, oltre a tutti i benefizi già accennati altrove, il vantaggio di togliere dalla loro mente certi pregiudizii che sarebbero stati perniciosi per il civile consorzio. Tale era l'avversione che le invettive degli arruffapopoli, libri, giornali, teatri ispiravano nelle plebi contro alle classi superiori della società. Nel vedere infatti molti signori prendere parte alle loro sacre funzioni [40], inginocchiarsi in chiesa nei loro banchi, far la comunione al fianco di essi, insegnar loro il catechismo, stare in mezzo alle ricreazioni, far da maestri nelle scuole serali, essi li stimavano, li amavano, li trattavano con famigliarità, facevano loro festa, li salutavano per via, ne imitavano i buoni esempi, e si gloriavano di averne fatta la conoscenza.

                In questi personaggi non vedevano solamente il patrizio, il banchiere, il medico, il professore, l'avvocato, il notaio, lo studente dell'Università, ma eziandio e molto più l'amico del poveretto. Così erano tolte le distanze e le avversioni sociali. Il figlio dell'operaio toccava con mano quanto, fossero bugiarde le massime dei rivoluzionarii; e imparava che Dio opera sapientemente nel far nascere gli uomini in condizioni diverse, perchè il ricco è fatto pel povero e il povero è fatto pel ricco: questi dando il superfluo de' suoi beni a chi manca del necessario, quegli contraccambiando il beneficio coll'affetto, coll'aiuto e col lavoro. Riconosceva che ambedue sono creati da Dio per la sua gloria: umile dover essere il dovizioso nell'avvicinarsi al miserello, ed umile il povero nel sopportare i disagi del proprio stato: e ciascuno nella propria condizione avere il mezzo per giungere alla felicità eterna. Nello stesso tempo era consolato dal gran pensiero, che Gesù benedetto volle nascere da famiglia nobilissima, ma visse povero, proclamando beati i poveri e che i poveri rappresentavano la sua stessa divina persona.

                E dei poveri giovani quei signori erano realmente i patroni ed i benefattori, e molti di quelli, allora derelitti come furono adulti ci dissero: - Se mi sono formato una sociale onorevole condizione, se ho guadagnato una fortuna, che provvede abbondantemente a tutti i bisogni della mia [41] vita, lo debbo a D. Bosco, alle virtuose abitudini, alle conoscenze, alle commendatizie, ai soccorsi, che tanto mi giovarono per aver io frequentato l'Oratorio. - Per dire di una sola ne abbiamo prova nella seguente lettera scritta da D. Bosco il 1° aprile 1854 al Conte Zaverio Provana di Collegno: “Eccole il Morra, cui credo si possa affidare il ragazzo di cui nella carità Ella prende parte. È disposto di fare tutte le agevolezze possibili. Sentirà da lui il regime domestico. Mi ami nel Signore e in tutto quello che posso me Le offro di cuore”.

                Eziandio questi signori guadagnavano non solo ricchezze di meriti per le loro anime, benedizioni per le loro famiglie, ma anche la ricompensa di veder coronate nell'Oratorio le loro fatiche e la loro fede. “Nei giorni di festa, diceva l'avv. Belingeri, ciò che attiravaci irresistibilmente all'Oratorio, era lo spettacolo delle comunioni dei nostri biricchini. Si vedevano sporgere dalla balaustra centinaia di quelle facce, le cui sembianze poco tempo prima erano o insignificanti, o rozze, o maliziose, o beffarde, o superbe e alcune direi quasi truci. Ebbene, in quel momento si trasfiguravano e prendevano un'aria di candore, di semplicità, di fede, di amore e di bellezza, quale prova della presenza reale di Gesù Sacramentato nei loro cuori. Ciò serviva per noi di grande edificazione”.

                Ma il grande trionfo dell'Oratorio festivo, si era l'amore,e il rispetto al sacerdozio, anche allorquando coloro che lo avevano frequentato da fanciulli erano divenuti uomini. Da questo ne scaturiva la perseveranza nel vivere morigerato, il ritorno sulla buona via di chi erasi lasciato trascinare dalle passioni, il cercare, un saggio consigliere e benefattore nei dubbi, nelle difficoltà della, vita e nei disastri; e a tutti il cuore additava ognora la strada che [42] conduceva in Valdocco e la stanza o la chiesa dove D. Bosco stava sempre aspettandoli.

                Quante belle pagine si potrebbero scrivere su questo .argomento; si vedrebbe essere l'Oratorio maestro della vita per le sue tradizioni, per la riuscita di tanti giovani che lo frequentarono, per gli svariati accidenti che occorsero a ciascuno di questi, non solo dalla loro prima età fino al conseguimento della loro vocazione, stato, o professione, ma fino all'ora della loro morte. Un numero stragrande, di biografie potrebbero scriversi, le più istruttive,e dilettevoli del mondo. Tutte le virtù, tutti gli errori, tutte le perfezioni, tutti i difetti col loro principio, svolgimento e col loro esito finale si vedrebbero passare a rassegna, intrecciati cogli aneddoti più vari, e talora .eziandio i più strani, nella maggior parte dei quali risplende la misericordia di Dio e la protezione di Maria SS.

                Ma frutti così preziosi ben si può dire che germogliassero in modo speciale per la buona semente gettata nei catechismi giornalieri della quaresima. I campi evangelici erano benedetti dal Signore in proporzione del lavoro de' suoi agricoltori. In quest'anno la quaresima incominciava il I° di marzo. D. Bosco aveva coraggiosi seguaci emulatori del suo spirito di sacrificio.

                Nei giorni feriali i chierici coi giovani catechisti destinati a Porta Nuova e a Vanchiglia dovevano anticipare il loro pranzo, per correre più chilometri e fatto, il catechismo andare alla scuola in Seminario; e tante volte dopo aver cenato attendevano all'istruzione religiosa di qualche classe speciale di operai. Erano, queste, fatiche da veri missionarii.

                D. Bosco in una sua lettera a D. Abbondioli, curato di Sassi, faceva cenno dei catechismi in Valdocco. Mentre [43] la grazia di Dio riviveva nei cuori, egli pensava anche a far rinverdire l'orticello di mamma Margherita e così scriveva in modo scherzevole:

 

Torino, 4 Aprile 1854.

 

 

                               Carissimo Sig. Curato,

 

                Sebbene mia madre abbia qui molti fagiuoli, e ben grossi, tuttavia desidera di averne di quelli di Sassi, e a tale fine si raccomanda a Lei perchè le doni un po' di semente di certi fagiuoli detti della Regina, di cui fu altra volta da Lei favorita.

                Desidera pure di avere alcuni altri erbaggi, se pure Ella ne è in grado di averne e che il portatore meglio Le dirà a bocca.

                Ho circa quattrocento catechizzandi al catechismo quotidiano del mezzodì. Vuol dire che la moralità nei poveri giovani non è ancora perduta.

                Mi ami nel Signore e mi creda in tutto quel che posso, tutto suo.

                Di V. S. Carissima

 

Umilissimo servitore

Bosco GIOVANNI Capo dei birichini.

 

                P. S. Dopo Pasqua avrà una visita.

 

                L'affermazione di D. Bosco era giusta, che cioè la moralità fosse conservata tra i giovani esterni. Questi poveretti, malgrado tutte le seduzioni del male e l’affievolimento delle virtù pubbliche e cristiane, si lasciavano attrarre al bene dalla sua parola semplice ed affettuosa. Nessuno può calcolare i salutari effetti dei catechismi uditi nell'Oratorio. Si vedevano perfino famiglie intiere di operai guadagnati al Signore dai loro giovanetti, che nell'Oratorio avevano, cercato un sicuro rifugio contro i mali esempi e le deplorabili lezioni della casa paterna. [44] E non pochi si mostrarono eroi perseverando nel bene. Basti un sol fatto. - Se tu andrai ancora, diceva un padre, capo di bottega, al giovanetto suo figlio, che lavorava sotto di lui, se tu andrai ancora la domenica ad impacciarti con quella canaglia di preti non ti terrò più come lavorante. Va pure se il vuoi, ma io ti sospenderò il salario che cominciavi a guadagnare ogni dì. - E il fanciullo persisteva a frequentare l'Oratorio, continuando a lavorare senza veruna mercede nella bottega del padre, e mostrando ardor maggiore ed una abilità pari a quella di qualunque de' suoi compagni. Questi, facendo coro col padre, colmavanlo degli sciocchi loro motteggi; ma venne il dì in cui il suo coraggio e la sua fede furono ricompensate dalla conversione del padre suo.

                In questo frattempo il sig. D. Carlo Gilardi, procuratore generale dei Rosminiani era venuto a Torino. Esaminato il progetto proposto da D. Bosco per l'edifizio della tipografia, smise subito l'idea di comperare la casetta Coriasco, e senz'altro domandò di far acquisto dello spazio più largo del terreno triangolare che prima apparteneva al Seminario. Noi crediamo che D. Bosco esitasse alquanto ad accondiscendere a quel contratto, perchè a poco a poco si vedeva sfuggir di mano un luogo, al quale per tante ragioni portava amore. Stretto dalla necessità, l'8 marzo, il 10 aprile del 1849, e il 10 giugno del 1850, aveva dovuto rivendere alcune pezze di terreno che la via Cottolengo divideva dalla sua attuale proprietà e che erano un accessorio, ma di grande importanza, dello spazio indicato ne' suoi magnifici sogni. Ed ora avrebbe dovuto rinunciare, alla stessa zolla benedetta, sulla quale gli era parso che posasse i piedi la Regina degli Angeli. Ma il bene della gioventù costringevalo a fare questo sacrifizio, e quindi [45] acconsentì, lasciando alla Divina Provvidenza la cura di condurre a compimento i vaticinii.

                Perciò, dopo il mezzogiorno del io aprile, lunedì della Settimana Santa, mentre i giovani incominciavano a prepararsi per la Comunione Pasquale, con atto rogato dal notaio Turvano vendeva al D. Carlo Gilardi, rappresentante l'Abate Rosmini, tavole Si, piedi 10 e once 5 di terreno pari ad ettari 0,19,48 per il prezzo di dieci mila lire. Il podere confinava all'est colla casa Coriasco e con D. Bosco, all'ovest con altra possessione del Seminario, al sud colla strada Cottolengo ed al nord coll'Oratorio.

                Nello stesso tempo per convenzione privata l'Abate Rosmini condonava a D. Bosco il debito gratuito di 3000 lire ed assumevasi il suo obbligo di 5000 lire verso il Seminario di Torino. Rimanevagli però sempre il credito con D. Bosco di 20.000 lire al quattro per cento impiegate nella compera di casa Pinardi.

                D. Bosco pertanto lieto per la speranza di veder sorgere la tipografia, pagati alcuni de' suoi creditori più esigenti, nella seconda settimana dopo la Pasqua andava a Castelnuovo d'Asti col Vescovo d'Ivrea, che era stato invitato dal Teol. Cinzano ad amministrare la S. Cresima.

                Uno studente, S. A., giaceva a casa in Pranello, oppresso da grave male di occhi, per modo che la sua guarigione era disperata da' medici e già da più di un anno aveva dovuto interrompere gli studii. Prima di ritornare a Torino Don Bosco volle andarlo a vedere accompagnato dal giovane Turchi Giovanni. “Là giunti, è Turchi che narra, si apre la camera dell'ammalato. Egli giaceva in letto con gli occhi bendati. Il letto era circondato da una coperta che scendeva dalla volta. Chiusa la finestra, una doppia e spessa cortina ne toglieva tutta la luce; eppure bastava [46] aprire l'uscio della camera perchè l'infermo gridasse di chiuderlo per non soffrirne. D. Bosco entra e noi stemmo fuori. Ciò che là dentro sia avvenuto non ho saputo mai questo so, che il giorno dopo l'ammalato cominciò a sbendarsi gli occhi, poi aprirli, poi leggere, poi levarsi, poi guarire del tutto. Dopo pochi giorni si recò all'Oratorio, ove da quel tempo in poi non dette mai indizio di aver avuto male agli occhi”.

                D. Bosco rientrato in Torino, colla seguente lettera a D. Carlo Gilardi dava gli ultimi schiarimenti richiestigli, per una memoria da mandarsi a Roma onde ottenere l'approvazione del loro contratto.

 

                               Carissimo Sig. D. Carlo,

                Ho ricevuto le carissime sue lettere con gli oggetti entro nominati, cioè: un libro pel chierico Olivero, che gli fu rimesso; e la commedia: -Il Gianetto, che mi piace assai e che vedrà presentarsi al primo ritornare che Ella farà a Torino. Ho pure, veduto il Sig. D. Setti Luigi, il quale non può dimorare regolarmente in casa dell'Oratorio, per le molteplici scuole cui deve attendere ad ore diverse ed irregolari. A giorni le manderò l'istrumento di vendita, quale il notaio Turvano mi ha promesso.

                Per rapporto alla memoria da darsi a Roma credo che non produca effetto alcuno, perchè nello stato presente Roma non può, autorizzare alcuno a fare l'istrumento; non il Seminario cui fu interdetta l'amministrazione; non l'Economato, che finora non ne è ancora riconosciuto padrone. Il Sig. Dorna nel bisogno di comperare egli pure una striscia di questa fatta, avendone parlato coll'Abate Vacchetta e al Ministero, gli fu risposto di attendere fino ad una decisiva risposta di Roma. Così giudico possiamo, fare anche noi.

                Del resto noi abbiamo sempre in bocca D. Carlo, e ci fu una sensibile novità quando non cel vedemmo più fra noi.

                Mia madre, tutti i nostri chierici, il sig. Dorna ed un gran numero dei nostri giovani La salutano cordialmente; ed io, salutando [47] rispettosamente il Padre Generale, auguro a Lei ogni bene dal Signore con raccomandarmi alle sue divote orazioni, e dichiarandomi

                Di V. S. Carissima

                Torino, 9 maggio 1854.

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco G. Capo dei birichini.

 

                La cagione di certe frasi di D. Bosco riguardanti l'Autorità Ecclesiastica è quella che siamo per dire.

                Il 2 marzo un decreto reale aveva ordinato all'Economo, Abate Vacchetta di assumere l'amministrazione del Seminario Arcivescovile, già prima convertito in ospedale militare e poi in magazzino per strumenti militari e foraggi. All'indomani l'economo, senza farne parola al Vicario Generale, erasi affrettato a presentarsi al Rettore Can. Vogliotti, e senz'altro avevagli intimato di consegnargli le somme cospicue, custodite nelle casse, gli Archivii, e quanto apparteneva a quel ragguardevole patrimonio. Il Can. Vogliotti erasi ricusato a tale consegna; senonchè, alla minaccia dell'intervento dei reali carabinieri, dovette cedere alla forza, protestando. Con ciò i Seminari di Bra e di Chieri mancarono del necessario, poichè le rendite di quello di Torino provvedevano agli insegnanti e al mantenimento degli alunni. I Valdesi però abbondavano di oro, spedito dall'Inghilterra e dall'America.

 

 

CAPO VI. Il Ministro Urbano Rattazzi all'Oratorio - Predica di Don Bosco sulla vita di S. Clemente Papa - Pericolosa Interrogazione prudente risposta - Dialogo tra Rattazzi e D. Bosco - Simpatie provvidenziali.

 

                Di un altro fatto memorabile per le sue conseguenze dobbiamo far parola.

                Era una domenica mattina del mese di aprile dell'anno 1854, verso le ore dieci e mezzo. I giovani dell'Ospizio con molti altri degli esterni si trovavano per la seconda volta in Chiesa; avevano cantato Mattutino o Lodi dell'Ufficio della Beata Vergine, ascoltata la Messa. D. Bosco salito in pulpito stava raccontando un tratto di Storia Ecclesiastica, colla solita incantevole sua semplicità. In quel mentre entra per la porta esterna della nostra Chiesa un signore, che nessuno e neppur D. Bosco conobbe. Udendo che si stava predicando, ei si sedette sopra uno dei banchi preparati in fondo pei fedeli, e fermossi ad ascoltare sino alla fine. D. Bosco aveva principiato la domenica innanzi a narrare la vita di S. Clemente Papa, e in quel mattino raccontava come il santo Pontefice in odio alla Religione Cristiana era stato dall'Imperatore [49] Traiano mandato in esilio nel Chersoneso, chiamato oggidì Crimea.

                Terminato il racconto, egli per dargli un più vivo interesse, interrogò uno dei giovani esterni se avesse qualche domanda a fare in proposito, e quale moralità si potesse trarre dal fatto storico. Costui, contrariamente ad ogni aspettazione, venne fuori con una domanda appropriata bensì, ma inopportuna pel luogo, e per quei tempi molto pericolosa. Disse adunque: - Se l'Imperatore Traiano commise una ingiustizia cacciando da Roma e mandando in esilio il Papa Sali Clemente, ha forse fatto anche male il nostro Governo ad esiliare il nostro Arcivescovo Monsignor Fransoni? -A questa domanda inaspettata D. Bosco rispose senza punto scomporsi: -Qui non e il luogo di dire, se il nostro Governo abbia fatto bene o male a mandare in esilio il nostro veneratissimo Arcivescovo: è questo un fatto di cui si parlerà a suo tempo; ma il certo si è che in tutti i secoli, e fin dal principio della Chiesa i nemici della Religione Cristiana hanno sempre preso di mira i Capi della medesima, i Papi, i Vescovi, i Sacerdoti, perchè credono che, tolte di mezzo le colonne, cada l'edifizio, e che, percosso il pastore, si sbandino le pecorelle, e divengano facile preda dei lupi rapaci. Noi pertanto quando udiamo o leggiamo che questo o quel Papa, questo o quel Vescovo, questo o quel Sacerdote è stato condannato ad una pena, come per es. all'esilio, alla prigione e forse anche alla morte, non dobbiamo tosto credere che egli sia veramente colpevole come lo dicono; imperciocchè potrebbe darsi in quella vece che egli sia una vittima del suo dovere, sia un confessore della fede, sia un eroe della Chiesa, come furono gli Apostoli, come furono i Martiri, come furono [50] tanti Papi, Vescovi, Sacerdoti e semplici fedeli. E poi, teniamo sempre a mente che il mondo, il popolo ebreo, Pilato condannò alla morte di croce lo stesso divin Salvatore, quale un empio bestemmiatore ed un sovvertitore del popolo, mentre era vero Figliuolo di Dio, aveva raccomandato obbedienza e sottomissione alle potestà costituite, mentre aveva ordinato di dare a Cesare quello, che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio.

                Aggiunte alcune altre parole sul dovere di tenersi forti nella fede e nella divozione e rispetto ai Ministri della santa Chiesa, D. Bosco discese dal pulpito, e i giovani, recitato il solito Pater ed Ave in onore di San Luigi Gonzaga, e cantato il Lodalo sempre sia il nome di Gesù e di Maria, se ne uscirono di Cappella per la porta laterale. Dietro di loro usciva pure lo sconosciuto signore, che, venuto nel cortile, domandò di parlare con Don Bosco. Questi era allora allora salito in camera, e gli fu accompagnato da un giovane. Fatti i primi convenevoli, tra D. Bosco e quel Signore uscì un breve dialogo, udito dal, giovine medesimo, il quale, secondo il solito di quei tempi pericolosi, dopo aver introdotto il forestiere, erasi fermato, colà sino a che D. Bosco non gli accennò di andarsene pure, perchè nulla occorreva.

                Il dialogo è questo.

                D. Bosco. -Potrei sapere con chi ho l'onore di parlare?

                - Con Rattazzi.

                D. B. - Con Rattazzi! Quel grande Rattazzi[1] Deputato, già Presidente della Camera ed ora Ministro del Re? [51]

                Ratt. - Per lo appunto.

                D. B. - Dunque (sorridendo) posso preparare i polsi alle manette e dispormi per andare all'ombra della prigione.

                Ratt. - E perchè mai?

                D. B. - Per quello che V. Eccellenza udì poc'anzi nella nostra Chiesa a riguardo di Monsignor Arcivescovo.

                Ratt. - Niente affatto. Lasciando a parte se fosse più o meno opportuna la domanda di quel ragazzo, Lei dal canto suo rispose e se la cavò egregiamente, e niun Ministro del mondo potrebbe fargliene il minimo rimprovero. Del resto, quantunque io sia di parere che non convenga trattare di politica in Chiesa, tanto meno con giovanetti, che non sono ancor capaci di farne il dovuto apprezzamento, non si hanno tuttavia da rinnegare le proprie convinzioni in faccia a nessuno. Si aggiunga anche che in un Governo Costituzionale i Ministri sono responsabili delle loro azioni, le quali possono essere sindacate da qualsiasi cittadino, e perciò anche da D. Bosco lo stesso, sebbene non tutte le idee e gli atti di Mons. Fransoni mi arridano, sono lieto che la severa misura contro di lui non sia stata presa sotto il mio Ministero.

                D. B. - Se è così, conchiuse facetamente D. Bosco, posso dunque stare tranquillo che V. E. per questa volta non mi farà mettere in gattabuia, e mi lascerà respirare l'aria libera di Valdocco. Allora passiamo ad altro.

                A questo lepido esordio tenne dietro un serio discorso di quasi un'ora; e il Rattazzi con una infilzata di domande [52] a D. Bosco si fece dire per filo e per segno l'origine, lo scopo, il progresso, il frutto della instituzione dell'Oratorio e dell'unito Ospizio. Tra le varie sue interrogazioni, una si fu intorno al mezzo da D. Bosco adoperato per conservare l'ordine tra tanti giovani, che affluivano all'Oratorio.

                - Non ha la S. V. a' suoi cenni, domandò il Ministro, almeno due o tre guardie civiche in divisa o travestite?

                - Non me nè occorrono punto, Eccellenza.

                - Possibile? Ma questi suoi giovani non sono mica dissimili dai giovani di tutto il mondo; saranno ancor essi per lo meno sbrigliati, accattabrighe, rissosi. Quali riprensioni, quali castighi usa adunque per infrenarli e per impedire scompigli?

                - La maggior parte di questi giovani sono davvero svegliati della quarta' come si dice; ciò non di meno per impedire disordini qui non si adoperano nè violenze, nè punizioni di sorta.

                - Questo mi pare un mistero; favorisca di spiegarmi l'arcano.

                - Vostra Eccellenza non ignora che vi sono due sistemi di educazione; uno è chiamato sistema repressivo, l'altro è detto sistema preventivo. Il primo si prefigge di educare l'uomo colla forza, col reprimerlo e punirlo, quando ha violato la legge, quando ha commesso il delitto; il secondo cerca di educarlo colla dolcezza, e perciò lo aiuta soavemente ad osservare la legge medesima, e gliene somministra i mezzi più acconci ed efficaci all'uopo; ed è questo appunto il sistema in vigore tra di noi. Anzitutto qui si procura d'infondere nel cuore dei giovanetti il santo timor di Dio; loro s'inspira amore alla virtù ed orrore al vizio, coll'insegnamento del catechismo e con [53] appropriate istruzioni morali; s'indirizzano e si sostengono nella via del bene con opportuni e benevoli avvisi, e specialmente colle pratiche di pietà e di religione. Oltre a ciò si circondano, per quanto è possibile, di un'amorevole assistenza in ricreazione, nella scuola, sul lavoro; s'incoraggiano con parole di benevolenza, e non appena mostrano di dimenticare i proprii doveri, loro si ricordano in bel modo e si richiamano a sani consigli. In una parola si usano tutte le industrie, che suggerisce la carità cristiana, affinchè facciano il bene e fuggano il male, per principio di una coscienza illuminata e sorretta dalla Religione.

                - Certo, è questo il metodo più adatto ad educare creature ragionevoli; ma riesce egli efficace per tutti?

                - Per novanta su cento questo sistema riesce di un effetto consolante; sugli altri dieci esercita tuttavia un influsso così benefico, da renderli meno caparbii e meno pericolosi; onde di rado mi occorre di cacciare via un giovane siccome indomabile ed incorreggibile. Tanto in questo Oratorio, quanto in quelli di Porta Nuova e di Vanchiglia, si presentano o sono talora condotti giovani, che o per mala indole, o per indocilità, od anche per malizia furono già la disperazione dei parenti e dei padroni, e in capo a poche settimane non sembrano più dessi; da lupi, per così dire, si mutano in agnelli.

                - Peccato che il Governo non sia in grado di adottare siffatto metodo nei suoi Stabilimenti di pena, dove per bandire disordini occorrono centinaia di guardie, e i detenuti diventano ogni giorno peggiori.

                - E che cosa impedisce il Governo di seguire questo sistema ne' suoi Istituti penali? Vi s'introduca la Religione; vi si stabilisca il tempo opportuno per l'insegna [54] mento religioso e per le pratiche di pietà; si dia a queste da chi presiede l'importanza che si meritano; vi si lasci entrare di spesso il Ministro di Dio, e gli si permetta di trattenersi liberamente con quei miseri, e di far loro udire una parola di amore e di pace, ed allora il metodo preventivo sarà bell'e adottato. Dopo alcun tempo le guardie non avranno più nulla o ben poco da fare; ma il Governo avrà il vanto di ridonare alle famiglie e alla società tanti membri morali ed utili. Altrimenti egli spenderà il danaro, a fine di correggere o punire per un tempo più o meno lungo un gran numero di discoli e colpevoli, e quando li avrà rimessi in libertà, dovrà proseguire a tenerli d'occhio, per premunirsi contro di loro, perchè pronti a fare di peggio.

                Di questo tenore D. Bosco tirò innanzi per un buon pezzo; e siccome fin dal 1841 egli conosceva lo stato dei prigionieri giovani e adulti, perchè faceva a quei miseri frequenti visite, così potè far rilevare al Ministro dell'Interno l'efficacia della Religione sulla morale loro riabilitazione. - Al vedere il Sacerdote di Dio, ei soggiunse, all'udire la parola di conforto, il detenuto rammenta gli anni beati, in cui assisteva al catechismo, ricorda gli avvisi del Parroco o del Maestro, riconosce che se è caduto in quel luogo di pena si è, o perchè cessò di frequentare la Chiesa, o perchè non mise in pratica gli insegnamenti che vi ha ricevuti; onde richiamando a mente queste care rimembranze, sente il più delle volte commuoversi il cuore, una lagrima gli spunta in su gli occhi, si pente, soffre con rassegnazione, risolve di migliorare la sua condotta, e, scontata la sua pena, rientra in società disposto a ristorarla degli scandali dati. Se invece gli si toglie l'amabile aspetto della Religione e la dolcezza [55] delle sue massime e delle sue pratiche; se lo si priva delle conversazioni e dei consigli di un amico dell'anima, che sarà del misero in quell'odiato recinto? Non mai invitato da una voce amorevole a sollevare lo spirito oltre la terra; non mai animato a riflettere che peccando ha offeso non solo le leggi dello Stato, ma Iddio, Legislatore Supremo; non mai eccitato a domandargli perdono, nè confortato a soffrire la sua pena temporale in luogo della eterna, che gli vuol condonare, egli nella sua misera condizione altro non vedrà che il mal garbo di una fortuna avversa; quindi invece di bagnare le sue catene con lagrime di pentimento, egli le morderà di mal celata rabbia; invece di proporre emendamento di vita, si ostinerà nel suo male; da' suoi compagni di punizione imparerà nuove malizie, e con essi combinerà il modo di delinquere un giorno più oculatamente, per non ricadere nelle mani della giustizia, ma non già di migliorare e farsi buon cittadino.

                D. Bosco, colta la favorevole occasione, segnalò al Ministro l'utilità del sistema preventivo, sopratutto nelle pubbliche scuole e nelle case di educazione, dove si hanno a coltivare animi ancor vergini di delitti; animi che si piegano docilmente alla voce della persuasione e dell'amore. - So bene, conchiuse D. Bosco, che il promuovere questo sistema non è compito devoluto al dicastero di Vostra Eccellenza; ma un suo riflesso, ma una sua parola avrà sempre un gran peso nelle deliberazioni del Ministro della pubblica istruzione.

                Il signor Rattazzi ascoltò con vivo interesse queste ed altre osservazioni di D. Bosco; si convinse appieno della bontà del sistema in uso negli Oratorii, e promise che dal canto suo lo avrebbe fatto preferire ad ogni altro [56] negli Istituti governativi. Se poi non mantenne sempre la sua parola, la cagione si è che anco a Rattazzi mancava il coraggio di manifestare e difendere le proprie convinzioni religiose.

                Finita così la conversazione, egli se ne andò tanto bene impressionato, che da quel giorno divenne avvocato, e protettore di D. Bosco. Fu questo un tratto di speciale Provvidenza, imperciocchè facendosi anno per anno più difficili le condizioni dei tempi, ed avendo il Rattazzi avuto molto sovente le mani al Governo, ed essendo rimasto ognora uomo influente, l'Oratorio ebbe in lui tale un appoggio, senza di cui avrebbe forse risentite delle fortissime scosse, ed anche sofferto dei gravissimi danni.

                I lettori faranno le meraviglie nell'apprendere che il Ministro Rattazzi pigliasse sì vivo interessamento per D. Bosco e per l'opera sua, imperocchè son note a tutto il mondo le sinistre opinioni politiche di quell'uomo, e la parte purtroppo efficace che egli ebbe in fatti dolorosi a danno della Chiesa. Eppure così fu, perchè Dio, qual provvido padre, così voleva.

                Quando Iddio sceglie un uomo per servirsene come di strumento in gloriose imprese, gli concede quanto ha di mestieri per condurre a termine la sua missione; e se questa esige il concorso e la cooperazione di molti, mette nel suo eletto una specie di sigillo, un non so che di misterioso, perchè tutti innanzi a lui s'inchinino e si prestino ad aiutarlo, anche gli avversari. La Sacra Scrittura, e la Storia Ecclesiastica hanno migliaia di fatti in conferma di questa verità. Giuseppe è destinato ad essere in Egitto il salvatore de' suoi fratelli e Dio dispone le cose in modo che lo schiavo, il carcerato, lo straniero, trovando grazia nell'animo di Faraone e del suo popolo, giunga. [57] alla più alta dignità del regno, dopo la regale. Daniele deve essere nei tristissimi giorni della cattività il consolatore de' suoi fratelli prigionieri in Babilonia, e il Signore imprime nella sua faccia e nella sua persona alcunchè di straordinario, che innamora tutti i Re che si assisero sul trono Caldeo da Nabuccodonosor fino a Ciro e a Dario, e lo mette in condizione di essere quel che fu per quasi cinquant'anni. Così accadde a S. Benedetto, a S. Francesco d'Assisi e ad una moltitudine dei santi del testamento nuovo. Lo stesso può affermarsi di D. Bosco; e l'attraimento verso di lui di molti uomini ostili alla Chiesa è una prova di più della sua divina missione.

 

 

CAPO VII. Nuove strettezze nell'Oratorio - Circolari per altra lotteria - Rattazzi e il Sindaco di Torino accettano biglietti - Un confessore non preveduto - Estrazione della lotteria - Esercizii ai giovani esterni - L'esposizione delle quarantore nell'Oratorio di S. Francesco -Globo di fuoco sul campo dei sogni - Note di esperienza onde             prevenire inconvenienti nelle solennità - La festa di S. Luigi - letture cattoliche.

 

                IN Piemonte si pativa penuria per la scarsità dei raccolti e per l'aumento dei prezzi delle derrate causato dalla guerra d'Oriente. Nel 1853 lo Czar

                Nicolò I, col segreto disegno d'impadronirsi di Costantinopoli, aveva intimato al Sultano di affidare a lui la tutela esclusiva di tutti i sudditi Greci dei dominii Turchi e di proclamare la supremazia delle Chiese Greche sulla Chiesa Latina. Essendosi il Sultano rifiutato, le armi Russe avevano invaso nel Luglio ed occupati i principati, di Valdacchia e di Moldavia; e nel novembre distrutta nel porto di Sinope la flotta maomettana. In quest'anno poi 1854 assediavano la fortezza di Silistria posta sul Danubio ai confini della Bulgaria, ma non riuscivano ad [59] espugnarla. La guerra intanto impediva i trasporti delle granaglie dal Mar Nero in Italia.

                Diminuiva perciò la pubblica carità; e D. Bosco, prevedendo che i suoi ricoverati ne avrebbero sofferto, ricorreva nuovamente al piccoli aiuti di molti, mediante una lotteria d'oggetti che erangli rimasti dalla precedente. Ottenuta l'autorizzazione dall'Autorità civile, la Lotteria ebbe sede in via S. Chiara; e in locali disponibili del,convento dei RR. PP. Domenicani furono esposti i premii. Cadun biglietto costava 20 centesimi. I giovani più adulti andavano per turno a far da guardiani nelle varie sale. -Così D. Bosco col prezzo dei biglietti, non senza grande sua fatica e travaglio, smerciati qua e colà, riusciva a provvedere alla sua famiglia quanto era necessario per la vita.

                Egli aveva mandato attorno un gran numero di circolari, delle quali ecco un esemplare, con note a penna pel Teologo Appendini in Villastellone.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                I gravi bisogni cui mi trovo ridotto in quest'anno, per le molte spese che occorrono nei tre Oratorii eretti in questa città a favore della gioventù pericolante, mi costringono di ricorrere alla pubblica beneficenza ed in singolar maniera alla S. V. Ill.ma la cui bontà e carità ho già altre volte sperimentato.

                Appoggiato pertanto al buon cuore di Lei, senza dilungarmi a particolarizzare i singoli casi del mio bisogno, mi fo animo a spedirle N. 200 biglietti di una piccola lotteria di oggetti, parte rimasti dalla lotteria or son due anni ultimata, e parte offerti da altre benemerite persone. Ho viva fiducia che tra Lei e le persone di particolare sua conoscenza saranno smerciati i biglietti qui uniti.

                Mi trovo però nella dolorosa circostanza di poterla assicurare -che se vi fu tempo calamitoso per la gioventù certamente è questo. Un gran numero trovasi ad imminente pericolo di perdere [60] onestà e religione per un tozzo di pane. La sollecitudine che Ella si darà in questo caso è proprio un cooperare alla salute delle anime e sarà pure senza dubbio per Lei sorgente di celesti benedizioni.

                Pieno di gratitudine pei favori già fatti, e che spero vorrà, continuare a pro di questi miei poveri figli, l'assicuro che nelle deboli mie preghiere e de' miei figli imploreremo sempre mai copiose le grazie del Cielo sopra di Lei e sopra tutti quelli che si vorranno adoperare in quest'opera di carità.

                Mi permetta intanto che con massima venerazione mi dica

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 13 Marzo 1854

Dev.mo Obbl.mo Servitore

D. Bosco.

 

                P. S. Prendendo parte a quest'opera di carità, concorre a beneficare i poveri giovani di Villastellone, i quali in numero, considerevole intervengono a questi Oratorii ed alcuni intieramente ricoverati nell'Oratorio di Valdocco.

                Di tante risposte che egli ricevette due sole vennero conservate. L'una del Ministro Rattazzi, l'altra del Sindaco di Torino.

 

 

ministero dell'interno

Gabinetto particolare.

Torino, 12 Maggio 1854.

 

 

                               Ill.mo e Rev.mo Signore,

 

                Di buon grado assecondando la richiesta dalla S. V. fattami di concorrere alla pia opera instituita per sopperire alle urgenti spese che occorrono all'Oratorio maschile di S. Francesco dì Sales in Valdocco, Le acchiudo nella presente L. 40 in un colla restituzione dei 200 biglietti di lotteria inviatimi; e ringraziandola di avermi per tale effetto richiesto, ho l'onore di costituirmi con distinta stima

 

u. rattazzi. [61]

                Dopo il Ministro così scriveva il Sindaco:

 

                Città di Torino

 

                Risposta a lettera del 30 passato aprile.

 

Torino, addì 13 maggio 1854.

 

                Premuroso di dimostrare, sebbene in tenue modo, il vivo mio desiderio di concorrere per quanto possa tornare ad utile degli Oratorii festivi dalla V. Signoria Molto Reverenda con tanto plauso iniziati e sorretti a profitto morale e materiale dei giovani abbandonati, mi professo ben fortunato di poter secondare l'invito da Lei ricevuto colla lettera in margine accennata, ritenendo i cento biglietti di Lotteria a benefizio degli Oratorii medesimi trasmessimi, e compiegando il prezzo di detti biglietti in lire 20, uniti alla presente, faccio voto perchè i pii Oratorii trovino ognora patrocinio presso chi si trovi in grado di proteggerli, come ben lo meritano, e dommi il pregio di professarmi ossequiosamente

                Di V. S. molto Reverenda

 

Dev.mo Obbl.mo servo

Notta

                L'estrazione della Lotteria era stata fissata pel 27 aprile; ma D. Bosco aveva ottenuto che fosse differita di qualche settimana.

In questi giorni intanto accadeva un fatto degno di nota.

                D. Bosco essendo andato nelle sale della Lotteria, fra le molte persone venute a visitare l'esposizone vi fu un signore, il quale gli chiese con istanza di confessarsi. D. Bosco gli disse di recarsi ad attendere un istante nella Cattedrale poco lontana, ove recatosi egli pure, si mise in un banco appartato, aspettando che quel signore gli fosse [62] venuto vicino per confessarlo in quel luogo; ma invece lo vide andare difilato ad inginocchiarsi presso ad un confessionale. Come fare? D. Bosco temeva che il sagrestano venisse a metter lui fuori come un intruso, o peggio che arrivasse il canonico cui apparteneva quel confessionale per confessare qualche suo penitente. Quindi esitò alquanto; finalmente si risolse e andò a confessare. Ma dopo il primo, si presentò il secondo, e a poco a poco sopraggiungendo altri, fu tenuto in quel luogo quasi una mezza giornata.

                Fra questi venne un uomo impiegato nell'Oratorio in cerca di un confessore che non lo conoscesse, e visto quel confessionale occupato, andò a porsi in ginocchio e venuto il suo turno si confessò. Nel corso della confessione palesò come si fosse recato a confessarsi in quel luogo, perchè non voleva che D. Bosco venisse a conoscere una mancanza abbastanza grave nella quale si era lasciato incappare nel maneggio, forse, dei danari della casa. Don Bosco ascoltò tutto senza pronunciar verbo e poi gli disse: - Guarda, ti assicuro che D. Bosco saprà nulla, e per tua tranquillità di coscienza anche in avvenire, sappi che egli passa sopra a questa cosa. -Pensate lo stupore di costui nell'accorgersi che si era confessato proprio da quegli al quale non aveva osato manifestare la coscienza. Egli ritornò all'Oratorio tutto consolato, e narrava a Buzzetti Giuseppe lo strano fatto occorsogli.

                I premi intanto della Lotteria venivano estratti il 24 maggio alle ore 2 pom. in una camera dell'Oratorio di Valdocco, e il 30 maggio l'Armonia pubblicava i numeri vincitori.

                Ma nel frattempo D. Bosco non aveva lasciato di occuparsi con intensità nel campo evangelico colla predicazione. Dal 22 aprile, giorno di sabato, varii zelanti sacerdoti, [63] avevano, col suo aiuto, dettati gli esercizi spirituali, per otto giorni ad un numero di giovani e di adulti della città, nella chiesa della Veneranda Confraternita della Misericordia. Per certo a più d'uno venne assicurata l'eterna salute, nel flagello che doveva in quest'anno colpire Torino.

                Dopo ciò D. Bosco preparava un'altra speciale funzione della quale abbiamo notizia dall'annunzio che si legge, nell'Armonia del 20 maggio 1854.

 

Quarantore ed Ottavario nell'Oratorio maschile

di S. Francesco di Sales in Valdocco.

 

                Affine di ottenere le benedizioni del Signore sopra i popoli cristiani e sopra i frutti delle nostre campagne, fu divisato un sacro ottavario da farsi in onore di Maria Santissima in questo Oratorio dal 21 al 28 corrente mese di Maggio.

                L'orario dei tre primi giorni è come segue Lungo il mattino un competente numero di Messe lette; alle ore io Messa solenne ed esposizione per le Quarantore.

                Alla sera, ore 6, vespro, discorso, benedizione col SS. Sacramento.

                Nei giorni che seguono le Quarantore, alle ore 7 di sera, avrà luogo la recita del Rosario, predica e benedizione,

                Giovedì (25) giorno dell'Ascensione del Salvatore e la domenica (28), le sacre funzioni avranno luogo come nel decorso dell'anno.

                Tutti i fedeli cristiani, e specialmente i giovani che sogliono frequentare quest'Oratorio, sono caldamente invitati ad intervenire a queste sacre funzioni; e a tal fine il Sommo Pontefice concede indulgenza plenaria a tutti quelli che confessati e comunicati visiteranno questa chiesa nel triduo delle Quarantore; e Sua Santità il Regnante Pio IX, con particolare suo decreto, concede la medesima indulgenza plenaria per la domenica 28 corrente, solenizzandosi in tal giorno la chiusa del mese dedicato a Maria Santissima. [64] D. Bosco in queste feste un'altra volta narrava ai giovani come avesse visto un luminosissimo globo di fuoco in aria sul terreno ove più tardi si innalzò la Chiesa di Maria Ausiliatrice. Sembrava che la Vergine affermasse con questo segno di non aver Ella rinunziato alla sua presa di possesso. Buzzetti Giuseppe, testimonio di tali parole, nel 1887 a Lanzo rammentando a D. Bosco questa sua narrazione gli diceva: - Era la cupola illuminata, non è vero?

                - E perchè no? rispose D. Bosco.

                Dopo le Quarantore si preparavano le solennità di S. Luigi e di S. Giovanni. Per queste e per ogni altra festa, D. Bosco, che voleva ordine in tutte le cose, instava perchè coloro che erano alla direzione predisponessero in chiesa e fuori di chiesa quanto era necessario, per ovviare ad ogni inconveniente. Perciò raccomandava

                I. che si tenesse nota per iscritto ogni anno delle cause di qualsivoglia disordine che fosse accaduto, perchè servisse di esperienza nelle feste venture.

                2. Che si conservasse o rifacesse l'elenco di tutti i benefattori e benefattrici o persone di riguardo amiche per mandare loro gli inviti alle feste di chiesa, al teatro o alle accademie.

                3. Che si compilasse sempre un programma da conservarsi presso il Prefetto per l'ordinamento materiale delle feste.

                Infatti noi troviamo nelle sue carte le disposizioni per la festa di S. Luigi:

I. Cercare un Priore per tempo, mandargli una deputazione con preghiera di accettar quest'ufficio; almeno il giorno della vigilia fargli avere copia del sonetto, l'orario ecc. [65]

2. Novena o triduo. Mandare l'orario ai Sigg. Benefattori.

3. Nettezza fuor della chiesa e per le vie dove passerà la processione. Distese le tele ad ombrello.

4. Esposizione e bacio della reliquia. Purificatoi preparati.

5. Lotteria in cortile se si crederà conveniente.

6. Acque gazose per i musici.

7. Prevenire l'Ispettore di sicurezza mandandogli il programma della festa.

D. Bosco poi in preparazione alla festa di S. Luigi, nel primo fascicolo delle Letture Cattoliche destinato pel mese di giugno, ristampava Le sei domeniche e la novena in onore di S. Luigi Gonzaga; faceva imprimere 500 immagini di questo santo dalla litografia Doyen per distribuirle ai giovanetti. Una poesia in omaggio di S. Luigi, che ancora è conservata negli archivii, fu data alle stampe e così sottoscritta: I figli dell' Oratorio di San Francesco di Sales e per essi il Teol. Giov. Battista Vola, Direttore spirituale della compagnia di S. Luigi ivi eretta.

                Il conte Cays, rieletto Priore di questa Compagnia, provvedeva un drappo rosso con tocca similoro per coprire tutto intorno il cornicione interno della Chiesa.

                In mezzo a queste solennità D. Bosco non cessava di combattere i Protestanti, e in tre fascicoli per giugno e per luglio dava alle stampe il Catechismo intorno alla Chiesa Cattolica ad uso del popolo per Giovanni Perrone della Compagnia di  Gesù. L'autore in questo volumetto, di oltre 200 pagine, dimostra l'origine e la natura della Chiesa Cattolica; le note e le prerogative della vera Chiesa di Gesù C, la sua infallibilità, la santità, la fermezza, l'immutabilità. Parla della sua Costituzione, dell'obbligo di [66] ascoltare il suo magistero, risponde alle obbiezioni dei protestanti contro l'inquisizione, la confessione, la messa, il purgatorio, il culto e l'invocazione dei santi. Finisce coi dimostrare il dovere che hanno i fedeli di amare la, Chiesa Romana,

                D. Bosco interrompeva questi lavori per recarsi a S. Ignazio a confessare, e conducendo con sè il Ch. Michele. Rua, desideroso di fare gli esercizi spirituali; ma li riprendeva appena ritornato in Torino.

                Pel mese di agosto pubblicava in due fascicoli un libretto anonimo, intitolato: Trattenimento intorno al Sacrificio della Santa Messa. Sono dialoghi tra un padre e suo figlio. Si prova l'istituzione divina dei sacrificii antichi e di quello della S. Messa; si confutano le sfrontate menzogne dei Protestanti colle antiche e varie Liturgie di tutte le Chiese cristiane e anche scismatiche, le quali confermano pienamente la credenza Cattolica; si dimostra l'eccellenza della S. Messa e le sue prerogative o proprietà di valore infinito, e il frutto che ne ridonda al Sacerdote e ai fedeli vivi e defunti.

 

 

CAPO VIII. Sussidio del Re a D. Bosco - Il solo Rettore non basta più al governo dell'Ospizio - D. Vittorio Alasonatti primo prefetto ed economo - Virtù esimie di questo sacerdote.

 

                SUL principio del mese di agosto D. Bosco aveva fatto ricorso al Re per avere qualche sussidio, ed ecco la risposta pervenutagli.

 

                Regia Segreteria del Gran Magistero dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.

 

Torino, 15 agosto 1854.

 

                Veramente in questo anno di straordinarie miserie, l'Ordine Mauriziano avendo dovuto erogare soccorsi anche straordinari a sollievo di nuove ed insolite calamità, non troverebbesi in grado di sovvenire replicatamente ad un medesimo istituto.

                Tuttavia riflettendo che la carezza dei viveri mentre aumenta sensibilmente la spesa di mantenimento dei giovani abbandonati che Ella va ricoverando, ed accresce anche notevolmente il numero di questi, ho pensato per questa volta potersi derogare alle massime stabilite, e proporre a S. M. la concessione di un nuovo speciale sussidio a pro di cotesta Pia Opera. [68] Essendosi la Maestà del Re degnata assegnarle a questo fine la somma di L. 250, io mi pregio di rendernela avvertita per sua norma, mentre Le confermo gli atti della mia distinta considerazione.

 

Per il primo Segretario di S. M.:

Il Primo Uffiziale

SOMIS DI CHIAVRIE

 

                Ma non solo di danaro aveva D. Bosco grande necessità. Fin dal 1853 era oppresso da gravi cure, e non poteva più da solo rispondere al bisogno morale e materiale della direzione interna della casa, che andava assumendo sempre maggiori proporzioni. Ed il Signore in buon punto gli provvedeva chi sarebbegli poi stato il braccio destro, il forte e intelligente sostegno dell'Opera degli Oratorii. Già D. Bosco aveva posto l'occhio sopra il sacerdote Vittorio Alasonatti di Avigliana, amicissimo di D. Giacomelli, e quindi anche suo. Molte volte e anche nel 1854 si erano trovati ambidue agli esercizii di S. Ignazio e avevano percorsa insieme la strada da Torino a Lanzo. Conosceva a prova quanto D. Alasonatti potesse servire all'importante e difficile assunto che aveva progettato d'imporgli Gli mosse perciò la proposta di venire a dividere le sue fatiche nell'Oratorio Molto lavoro e poco riposo, molte sofferenze e pochi conforti, povertà, abnegazione, sacrifizio, ecco il programma che D. Bosco mise sotto gli occhi a D. Alasonatti nell'invitarlo ad accettare l'ufficio di Prefetto nell'Oratorio Per stipendio null'altro gli promise che il vitto ed il vestito e a nome di Dio una ben ricca corona di gloria in cielo. Era come l'invito che il Salvatore aveva fatto a Pietro e a Giovanni. D. Bosco aveagli scritto poi una lettera; D. Alasonatti la ricevette mentre era nella sua cameretta; la lesse, rivolse gli occhi al cielo, come [69] per interrogare la volontà del Signore, diede uno sguardo al crocifisso, abbassò il capo ed accettò.

                Ma chi era questo degno sacerdote, di cui avrà sempre a gloriarsi e professarsi riconoscente la Congregazione di D. Bosco?

                Nato il 15 novembre 1812 in Avigliana, aveva frequentate le scuole normali del suo paese, che allora comprendevano eziandio la prima ginnasiale, e nel Seminario di Giaveno compieva i corsi di Grammatica, Umanità e Rettorica; in Avigliana vestiva l'abito clericale per mano del Prevosto D. Pautassi; e nel Seminario di Torino studiava la Filosofia e la Teologia. Dovunque, era stato il modello de' suoi compagni in ogni virtù. Studiata la Teologia morale nel Convitto di S. Francesco d'Assisi, veniva ordinato sacerdote nel 1835. Mentre si occupava indefessamente nel sacro ministero nella sua patria, venne per voto di tutto il popolo nominato maestro della scuola elementare. Egli era amantissimo dei fanciulli. Malgrado la nobile gravità de' suoi modi sapeva farsi semplice coi semplici, quasi volesse diventare uno di loro. Lo rendeva ammirabile a tutta la popolazione e a tutto il clero la carità veramente materna con cui guidava alla chiesa la sua classe e la pazienza inalterabile colla quale correggeva le mancanze de' suoi allievi irrequieti. Li ammoniva preventivamente in scuola del contegno divoto e grave che dovevano poi osservare nella casa di Dio. Assisterli nel trasferirsi dalla scuola alla chiesa, far loro prendere l'acqua benedetta ed eseguire con precisione il segno della croce, disporli poscia al posto loro assegnato, procurando coll'assidua vigilanza e coll'esempio che assistessero col dovuto raccoglimento alle sacre funzioni; erano sollecitudini che s'imponeva con un zelo veramente sacerdotale. [70] Oltre alle scuole private gratuite, che faceva a persone adulte e a chi desiderava intraprendere qualche corso speciale, aiutava il parroco nel disimpegno delle cure della parrocchia, spiegava il Vangelo alla domenica, faceva il catechismo, serviva all'altare come un semplice chierico, insegnava il canto fermo, passava le lunghe ore al confessionale, assisteva gl'infermi ed i moribondi. Era il tipo dell'uomo apostolico.

                Quando si ritirava stanco per riposarsi nella sua umile cameretta, recitava ogni giorno il Rosario seguito da lunghe altre orazioni, e il breviario diceva sempre in ginocchio col capo scoperto anche negli ultimi anni del vivere, benchè logoro dalle lunghe e gravi fatiche, da continui mortificazioni e da varii dolorosi incomodi. Mai si rimise da questo rigore di vita, e tanta fortezza d'animo si deve massimamente attribuire alla somma temperanza, sempre da lui osservata nel riposo, nelle ricreazioni e nel cibo. Ogni giorno faceva lunga meditazione, la visita al SS. Sacramento, un rigoroso esame di coscienza; negli ultimi dieci anni leggeva tutte le sere il Proficiscere, applicando a se stesso le preghiere dei moribondi. Quand'ecco mentre il parroco d'Avigliana il Teol. Vignolo, il paese ed il clero facevano maggior assegnamento sopra di lui, D. Bosco lo chiamava a Torino nell'Oratorio, con una frase che più volte gli aveva ripetuta: -Venga ad aiutarmi a dire il breviario!

                Il giorno 14 del mese di agosto 1854, D. Alasonatti, lasciata generosamente l'agiatezza di sua benestante famiglia, rinunziato ad un considerevole stipendio che percepiva come esperto e stimato maestro, messe in non cale le considerazioni più o meno mondane che alcuni conoscenti e persone anche ragguardevoli del clero gli avevano [71] messe dinanzi per distornarlo dal suo divisamento, entrava nell'Oratorio col breviario sotto il braccio e diceva a D. Bosco:

                - Dove devo mettermi a recitare il breviario?

                D. Bosco lo condusse nella stanza, che aveagli destinata in casa Pinardi come ufficio di Prefettura, dicendogli:

                - È  questo il suo posto!

                Da quell'istante D. Alasonatti si mise sotto la totale dipendenza del suo nuovo Superiore, pregandolo a volergli comandare senza riserva in tutto ciò che egli potesse riuscire utile alla casa, e a non risparmiarlo, sempre che lo richiedesse la gloria di Dio. Non ebbe a durar molto a trovarsi aggravato di occupazioni, perchè il programma di D. Bosco non era stato uno sterile complimento. La casa contava allora circa ottanta giovani tra studenti ed artigiani, oltre agli esterni che venivano alle scuole diurne e serali. D. Alasonatti aveva l'incarico dell'amministrazione generale. Questo importante uffizio abbracciava la vigilanza sulla condotta morale dei giovani, la direzione delle scuole, dei laboratorii, l'assistenza in chiesa e nello studio, la sopraintendenza alle funzione sacre, la tenuta dei libri di entrata e di uscita, i registri dell'amministrazione, e una vasta corrispondenza epistolare.

                Egli, primo sempre a porsi a lavoro, era l'ultimo nell'andare a riposo e bene spesso, al mattino si trovava il suo letto ancor fatto dal giorno precedente. Non di rado era così continua l'udienza, che uno scritto incominciato il mattino doveva sospendersi fino alla sera ed anche all'indomani, poichè le persone introdotte nella sua stanza succedendosi a vicenda non gli lasciavano ripigliare la penna. Spesso l'udienza riusciva doppiamente penosa, per [72] la varietà delle cose che doveva trattare, per l'indiscrezione dei concorrenti, per le spiacevoli riprensioni che talvolta doveva infliggere ai colpevoli. All'uno conveniva fare una lunga ammonizione, all'altro bastava volgere uno sguardo un po' espressivo talvolta doveva interrompere un discorso per visitare un dormitorio, troncare la visita al dormitorio per prevenire un disordine nello studio. Spesso si avviava a passare in rassegna i laboratorii, e allora veniva chiamato in tutta fretta in Prefettura per ricevere parenti dei giovani, soddisfare agli uni, appagare gli altri. Tutta l'amministrazione della casa dipendeva dal prefetto; per qualunque grande o piccolo bisogno si faceva capo a lui. Quindi egli doveva contemporaneamente farsi maestro nelle scuole, assistente nella Chiesa, superiore nel laboratorio e talvolta medico ed infermiere nella stessa infermeria.

                D. Alasonatti rispondeva a questa calca d'incombenze con tale imperturbabile costanza d'animo, che mal si saprebbe dire, se fosse maggiore in lui la pazienza nel soffrire o la previdenza nel dirigere gli affari; o la calma nel maturare o la disinvoltura nello spedire le faccende più intricate; o la soddisfazione dei travagli sostenuti o, il desiderio d'averne dei nuovi. Nè tanta fatica era poi sempre da felici successi premiata; talora le ingratitudini erano il compenso del suo instancabile zelo.

                Ei sovvenivasi allora che aveva in Avigliana una famiglia, i genitori che lo avrebbero accolto a braccia aperte, che egli avrebbe potuto godersi in patria le dolcezze di una vita tranquilla e pacifica all'ombra del tetto, paterno. Aggiungevasi l'incurvarsi degli anni, lo spiegarsi degli incomodi fisici, che non resistendo a quell'eccessivo lavoro, cominciavano già a farsi dolorosamente sentire. [73] Ma ben lungi dall'arrestarsi in faccia a simili riflessi, egli ne traeva anzi argomento di rinfrancarsi ancora di più. - Vittorio, ad quid venisti? diceva allora a se stesso. A che sei venuto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales? Gesù Cristo non riposò che sulla croce e tu vuoi ripor sarti a mezza via?

                Confortato da questi pensieri egli andava incontro a nuove occasioni di lavoro. Sostituendo D. Bosco, istruiva nel canto gregoriano i giovani, perchè si cantassero i vespri e le messe facendo due cori, e così gli allievi si abilitassero al canto nelle parrocchie. Insegnare le sacre cerimonie, spiegare il nuovo testamento ai chierici, dirigere le funzioni di chiesa, confessare, predicare, fare il catechismo, diventarono per D. Alasonatti un pane quotidiano. Fu visto più volte assestare dei letti che erano male in arnese, spazzare le scale, servire a mensa con una semplicità da disgradarne l'ultimo servo di casa.

                D. Bosco dividendo col prefetto tante e gravi cure voleva alleggerirlo in qualche modo dal faticoso incarico che l'opprimeva; ma egli con costante fermezza sempre vi si oppose. Appena però la Divina Provvidenza, benedicendo al laborioso zelo di entrambi, fece trovare soggetti capaci di sollevare in parte le incombenze del Prefetto, gli pose in aiuto un viceprefetto per la tenuta dei libri, riserbando a D. Alasonatti le cose di maggior rilievo; creò un economo per le spese, un direttore per gli studii e dopo qualche tempo un prefetto per la sagrestia.

                A far conoscere quanto grande fosse lo spirito della, mortificazione in D. Alasonatti, aggiungeremo che egli, quando partì da Avigliana per l'Oratorio, disse a Don Giacomelli: - lo non lascierò D. Bosco e non ritornerò, [74] più a casa, finchè D. Bosco non abbia qualche aiutante. - Giunto nell'Oratorio trovò che ivi di tutto si mancava. II vino, provvisto di quando in quando dalla beneficenza del Municipio e da quella dei negozianti del foro vinario, composto di varie qualità, talora acido, o col sapore di muffa, non si confaceva col suo stomaco, ed egli prese subito la sua risoluzione: - A me basta per vivere pane ed acqua! - Egli era solito bere a casa sua vino generoso, poichè le sue cantine erano ben provviste. Ma non volendo procacciarsi una risposta di rimprovero dai suoi parenti che malvolentieri l'avevano lasciato partire, temendo recar onta a D. Bosco manifestando questa sua necessità, ed eziandio aborrendo dal fare un'eccezione, che avrebbe dato ad altri incentivo di conservar vino nella propria cella, determinò di non* chiederne ai parenti e bere sempre acqua. E così fece fino all'anno della sua morte, se si eccettuano alcuni rari casi nei quali la cortesia costringevalo ad accettare un bicchiere di vino.

                Questa privazione era da lui molto sentita, ma egli sempre sereno, sempre tranquillo non badava a ciò: -Semper in gratiarum actione manere. Iustus meus ex fide vivit, erano i suoi motti abituali.

                Tale fu il primo prefetto ed economo inviato dal Signore ai giovani dell'Ospizio. Il domani del suo arrivo nell'Oratorio, festa di Maria Santissima Assunta in cielo, venne fissato l'orario delle funzioni di chiesa nei giorni festivi e più non si mutò. Verso le 7 e ½

                D. Alasonatti prese a celebrare la santa Messa, ossia quella detta della Comunione, e D. Bosco saliva all'altare alle 10 e in quell'ora finiva di confessare gli esterni; e quindi faceva la predica. Prima di questa seconda Messa continuossi regolarmente [75] il canto o la recita del Mattutino e delle Lodi del piccolo ufficio della Madonna, come tuttora si costuma. Fino al 1858 D. Bosco celebrò la seconda Messa.

                Intanto D. Alasonatti il 15 agosto 1854 dava principio alla sua missione in Valdocco coll'assistere un coleroso, essendo scoppiato micidiale in Torino il morbo asiatico.

 

 

CAPO IX. Il coléra asiatico predetto - Sua comparsa in Torino - Il Municipio ricorre alla proiezione di Maria SS. Consolatrice - Mortalità nella regione Valdocco - Precauzioni nell'Oratorio - D. Bosco offre la sua vita per gli alunni - Discorso memorando - Virtuosa condotta degli alunni - D. Bosco incomincia ad assistere i colerosi - Figli degni del padre - Opportuni ammaestramenti - I giovani infermieri - Soccorsi agli ammalati e generosità di Mamma Margherita - Il Governo fa sgombrare varii conventi e monasteri.

 

                Don Bosco, asseriva D. Rua, nel mese di maggio annunziava ai giovani che il coléra sarebbe pervenuto a Torino facendovi strage aveva detto in pari tempo: - Ma voi state tranquilli: se farete quanto vi dico sarete tutti salvi da quel flagello.

                - E che cosa c'è da fare? - chiesero i giovani ad una voce.

                - Prima di tutto vivere in grazia di Dio; portare al collo una medaglia di Maria SS. che io benedirò, distribuendone [77] a ciascuno la sua; recitare ogni giorno un Pater, Ave, Gloria coll'Oremus di S. Luigi, aggiungendo la giaculatoria: Ab omni malo libera nos, Domine.

                Infatti il coléra uscito dalle Indie, ove regna continuo, dopo aver percorso varie contrade d'Europa, penetrava in Italia, e in Liguria e in Piemonte. Nel mese di luglio esso invadeva la città di Genova, dove nello spazio di due mesi toglieva la vita a circa tre mila persone.

                All'annunzio dei primi casi il 25 luglio il Ministero con un dispaccio dava norme di precauzione al Vicario Generale di Torino, perchè il Clero venisse in aiuto alle autorità civili, nell'esecuzione degli ordini emanati. I parroci obbedirono, il Clero si disse pronto, e i Religiosi di San Camillo, i Cappuccini, i Domenicani, gli Oblati di Maria si offersero per l'assistenza dei colerosi.

                Terribili erano i sintomi e gli effetti dell'asiatico morbo, sicchè incuteva spavento ai più coraggiosi. Era generalmente preceduto da intestini disturbi; ma ad un tratto manifestavasi, nell'assalito, vomito e diarrea incessante. Opprimevalo un senso di grave peso allo stomaco; granchii e contrazioni orribili lo straziavano in tutte le estremità delle membra. Gli occhi facevansi incavati e circondati da un cerchio di color di piombo, languenti e senza vivacità; il naso affilato, il viso scarno e talmente alterato, da non potersi più riconoscere l'individuo. La lingua diventava bianca e fredda, la voce fioca e il parlare appena intelligibile. Il corpo tutto assumeva un color lividastro, e nei casi più gravi diveniva persin ceruleo e freddo poco meno che un cadavere. Alcuni colti dal malore stramazzavano a terra, come colpiti da apoplessia fulminante; altri non sopravvivevano che poche ore,; pochi passavano le ventiquattro. Nei primi giorni dell'infestazione, [78] quanti erano i colpiti, altrettanti erano i morti. Appresso in media sopra cento assaliti ne soccombevano sessanta; quindi è che, tolta la peste, niuna malattia, sino allora conosciuta, presentava una mortalità così spaventosa; anzi, se la peste uccideva un maggior numero di attaccati, ciò non faceva per altro in così breve spazio di tempo come il coléra. Di qui ognuno può argomentare la paura che tutti invadeva.

                Fomentava questa paura il sapere che niun rimedio erasi trovato efficace contro il morbo esiziale, e la persuasione che esso fosse non solo epidemico, ma contagioso. Si aggiungeva il pregiudizio del basso popolo, il quale s'incaponiva nella idea, che i medici somministrassero agli ammalati una bibita avvelenata, cui in Torino davasi il nome di acquetta, e ciò allo scopo di farli più presto morire, e per tal modo distornare più facilmente il pericolo per sè e per gli altri.

                Prova poi della costernazione, che spargeva negli animi la comparsa del morbo distruggitore, era il cessare del commercio, il chiudersi delle botteghe, il fuggire che tosto moltissimi facevano dal borgo invaso. Che più? In certi luoghi, appena uno era assalito, i vicini e talora gli stessi parenti impaurivano siffattamente, che lo abbandonavano senza aiuto e senza assistenza, da rendere necessario che si portasse presso di lui una qualche persona caritatevole e coraggiosa, la quale pur troppo non sempre si poteva trovare. Fu talora persino mestieri che i becchini passassero per le finestre o rompessero le porte, per entrare nelle case ed estrarne i cadaveri, che già mandavano all'intorno orribile puzza. Insomma in alcuni paesi si sono visti ripetuti in quei giorni gli stessi fatti di terrore, che narransi avvenuti nello infierire delle passate [79] pestilenze, delle cui descrizioni abbondano i libri degli scrittori antichi e moderni  Ma il coléra non dava retta alla comune paura; che anzi, come nemico imbaldanzito dallo sbigottimento dei suoi avversarii, procedeva di paese in paese, di città in città, mietendo nel suo passaggio innumerevoli vittime. I luoghi più salubri, come le colline e le montagne, non erano da lui risparmiati. Il 30 luglio, superati gli Appennini, esso già si trovava sul territorio di Torino, e nei primi giorni di agosto cominciava a fare qualche vittima ne' suoi sobborghi. Tutta la casa reale, invitata dal Conte Cays, andava ad abitare nel suo Castello, di Caselette, situato su di un fresco poggio a piè delle Alpi, e colà rimaneva sicura per ben tre mesi.

                Appena comparso il pericolo di tanto flagello, il Municipio diede un bellissimo esempio di pietà a tutto il popolo. Il Sindaco Notta, dopo di avere adottate le richieste misure sanitarie per la cura ed assistenza degli ammalati ed emanati opportuni provvedimenti, volle altresì che si facesse ricorso alla Regina del Cielo, della quale in altre consimili strettezze erasi provato il valido patrocinio. Ordinò pertanto una funzione religiosa nel Santuario di Maria Consolatrice, a cui nel mattino del 3 agosto, insieme con una immensa folla di fedeli, prese parte una apposita rappresentanza del Consiglio municipale. Il Sindaco ne dava egli stesso comunicazione all'Autorità ecclesiastica con una lettera, nella quale tra le altre leggevansi queste parole:

                “Il Consiglio delegato, interprete del voto della popolazione di questa capitale, nella circostanza della temuta invasione del coléra asiatco, ha assistito stamane ad una, Messa, susseguita da Benedizione, nella chiesa della Beata Vergine della Consolata, onde impetrarne il patrocinio”. [80] E Maria Consolatrice non ispregiò queste preghiere, poichè la terribile malattia, contro ogni aspettazione, infierì assai meno in Torino, che in tante altre città e paesi d'Europa, d'Italia e pur del Piemonte.

                Ciò non ostante, i casi da uno salirono a 10, a 20 a 30 e poi sino a So e 60 al giorno. Dal I di agosto al 21 di novembre la città coi sobborghi e territorio ebbe circa 2500 casi, 1400 dei quali seguiti da morte. La regione più afflitta fu quella di Valdocco, dove nella sola parrocchia di Borgo Dora furono in un mese 800 i colpiti e 500 i morti. Vicino al nostro Ospizio vi ebbero delle famiglie non solamente decimate, ma affatto distrutte. In casa Bellezza, in casa dell'Osteria del Cuor doro'  in casa Filippi e in casa Moretta a pochi metri dall'Oratorio, ci narrava l'assiduo infermiere Tomatis, morirono in brevissimo tempo più di quaranta. In altri siti del Regio Parco e di Bertóla accadde il medesimo.

                Or bene, nella invasione e nello imperversare del fatal morbo così da vicino, e nello sbigottimento degli uomini più animosi, qual fu la sorte, quale fu l'opera dell'Oratorio di S. Francesco di Sales? Lo diremo brevemente.

                Quando si sparse la notizia che il malore cominciava a serpeggiare in città, D. Bosco mostrossi pei figli suoi quale amoroso padre, quale buon pastore. Egli, per non tentare il Signore, usò tutti i mezzi di precauzione possibili, suggeriti dalla prudenza e dall'arte. Fece quindi ripulire il locale, aggiustare altre camere, diminuire il numero dei letti nei dormitorii, migliorare il vitto, sobbarcandosi perciò a gravissime spese.

                Perciò in quei giorni la cattolica e benemerita Armonia avendo saputo la strettezza, in cui si trovava D. Bosco, [81] faceva per lui e pei suoi giovanetti un caldo appello alla carità dei fedeli, con questo breve ma sugoso articolo:

 

Soccorso all'Oratorio di S. Francesco di Sales.

 

                “A tutti è noto con quanto zelo e con quanta carità il Sacerdote Don Giovanni Bosco si sacrifichi per l'istruzione e per l'educazione dei giovani dell'infima classe del popolo, i quali in generale sono abbandonati a loro stessi in fatto di educazione. E quale sia il risultato di quest'abbandono, niuno meglio potrebbe dircelo, che i magistrati incaricati a punire i delinquenti, i quali sono per la maggior parte spettanti a questa classe. Quanti delitti non previene la carità del pio Sacerdote! A tutti è noto parimenti che quest'Opera, sotto il patrocinio di S. Francesco di Sales, non ha altro modo di sostentamento da quello in fuori, che le, viene dalla carità delle persone dabbene, non ricevendo la medesima alcun sussidio di pubblica beneficenza. Ognuno potrà di leggieri immaginarsi quali spese occorrano per mantenere ed alloggiare un centinaio di giovani, massime in quest'anno, in cui la carezza dei viveri si fa sentire sopra tutte le borse. All'approssimarsi del colèra, nuove ed urgenti spese furono necessarie per ripulire il locale, per diminuire nel medesimo sito il numero dei letti, e quindi riattare altre camere a quest'uso destinate, provvedere biancheria ecc. Sappiamo di buon luogo che il bravo Sacerdote, benchè sempre eguale a sè medesimo e riposantesi tranquillamente in quella Provvidenza che non viene meno agli augelli dell'aria ed alle fiere del bosco, tuttavia si trova in gravi strettezze, ed è disposto a qualunque sacrificio, piuttostochè abbandonare i suoi cari giovani, ora che più che mai abbisognano di soccorso. Non dubitiamo che le anime generose verranno in aiuto dell'ottimo e caritatevole Sacerdote, alle quali il medesimo si dichiara debitore di tutto ciò che ha finora adoperato a vantaggio della gioventù”.

 

                Così il cattolico giornale nel suo n. 95 dell'anno 1854, 10 agosto. [82]  Ma D. Bosco non pago dei provvedimenti terreni, si appigliò di gran cuore a provvedimenti di gran lunga più efficaci, ai provvedimenti celesti. Da persona degna di fede abbiamo saputo che; fin dai primi giorni del pericolo, Don Bosco prostrato dinanzi all'altare fece questa preghiera al Signore: - “Mio Dio, percuotete il pastore, ma risparmiate il tenero gregge”. Poscia rivolgendosi alla Beatissima Vergine disse: “Maria, voi siete Madre amorosa e potente; deh! preservatemi questi amati figli; e qualora il Signore volesse una vittima tra noi, eccomi pronto a morire quando e come a Lui piace”.

                Era il buon Pastore, che offriva la vita pe' suoi agnelletti.

                Il 5 agosto, festa della Beata Vergine della Neve, che in quell'anno cadeva in sabato, egli ad una cert'ora della sera raccolse tutti i ricoverati intorno a sa, e tenne loro un discorsetto, che coll'aiuto dell'uno e dell'altro si potè ricomporre nella sua sostanza.

                “Come avrete già udito, egli disse, il colèra è comparso in Torino, e vi furono già alcuni casi di morte. Molti in città ne sono costernati, e so che non pochi di voi ne vivono in pena. Voglio pertanto suggerirvi alcune cose in proposito, le quali se voi metterete in pratica, io spero che andrete tutti esenti dal terribile morbo.

                Primieramente dovete sapere che questo malore non è nuovo nel mondo. Di esso già si fa parola nei Libri Santi, nei quali Iddio ci avverte delle cause primarie che lo producono. - Il molto mangiare, dice l'Ecclesiastico, cagiona malattia, e la golosità conduce sino al coléra.- In multis escis erit infirmitas, et aviditas appropinquabit usque ad CHOLERAM[2]. - Ma Iddio, che ci fa indicare i germi [83] fatali di questo morbo, ci suggerisce anche i preservativi per evitarlo. - Sii frugale, Egli ci dice, delle vivande, che ti sono messe davanti. -Poco vino è sufficiente ad un uomo bene educato. - Altrove il Signore dà il rimedio, che vale più di ogni altro, e dice: - Allontanati dal peccato, raddrizza le tue azioni e monda il cuor tuo da ogni colpa.

                Ecco adunque, miei cari figli, i rimedii che vi suggerisco per andare esenti dal colèra. Essi sono pressochè i medesimi, prescritti dai medici: Sobrietà, temperanza tranquillità di spirito e coraggio. Ma come potrà avere tranquillità di spirito e coraggio chi è in peccato mortale, chi vive in disgrazia di Dio, chi pensa che morendo cade nell'inferno?

                Io voglio poi anche che ci mettiamo anima e corpo nelle mani di Maria. Il coléra sarà egli prodotto da cause naturali, come dall'infezione dell'aria, dal contatto e simili? In questo caso noi abbiamo bisogno di una buona medicina, che ce ne preservi. Or qual medicina migliore e più efficace, che la Regina del Cielo, chiamata dalla Santa Chiesa Salute degli infermi, Salus infirmorum? Oppure il morbo micidiale sarà piuttosto un flagello nelle mani di Dio, sdegnato pei peccati del mondo? E allora noi abbiamo bisogno di un'avvocata eloquente, di una madre pietosa, la quale colla sua valida preghiera, colla soavità, del suo amore ne plachi lo sdegno, ne disarmi la mano, e ci ottenga misericordia e perdono. E Maria è appunto questa avvocata, è appunto questa madre: Advocata nostra; Mater misericordiae; vita, dulcedo et spes nostra.

                Nell'anno 1835 questa istessa malattia fece pure la sua visita a Torino, ma la Vergine Santissima ne la cacciò ben tosto. In memoria di questa grazia, la città di Torino [84] innalzò la bella colonna di granito, colla statua di marmo bianco della Beata Vergine in cima, che noi vediamo tuttora sulla piazzetta del Santuario della Consolata. Chi sa che Maria non sia per difenderci nuovamente in quest'anno, allontanando questo rio malore, o almeno non lasciandolo infierire con tanta forza tra noi?

                Oggi è festa della Madonna della Neve, e domani comincia la novena della più bella Solennità che la Chiesa celebri in onore di Maria Santissima; solennità che ci ricorda la sua placidissima e santa morte; solennità che ci rammenta il suo trionfo, la sua gloria, la sua potenza in Cielo. Io raccomando che domani ognuno di voi faccia una buona Confessione ed una santa Comunione, affinchè io possa offrirvi tutti insieme a Maria e pregarla a riguardarvi e proteggervi come suoi figli dilettissimi. Lo farete voi?” - Sì, sì, fu risposto da tutti ad una voce.

                Qui D. Bosco si fermò un istante, e poi, ripresa la parola, proseguì con tono singolare, che non saprebbesi ripetere. Disse adunque e conchiuse:

                “Causa della morte è senza dubbio il peccato. Se voi vi metterete tutti in grazia di Dio e non commetterete alcun peccato mortale, io vi assicuro che niuno di voi sarà tocco dal coléra; ma se mai qualcuno rimanesse ostinato nemico di Dio, e, quel che è peggio, osasse offenderlo gravemente, da quel momento io non potrei più essere garante nè di lui, nè per qualunque altro della Casa”.

                Così D. Bosco la sera del 5 agosto 1854.

                La penna è inetta ad esprimere l'effetto prodotto nei giovani da queste parole memorande. Parte in quella sera istessa, parte al domattina, tutti i giovani dell'Ospizio, con parecchi altri dell'Oratorio festivo, andarono a confessarsi e a fare la Santa Comunione. [85] Da quel giorno in poi la condotta religiosa e morale dei giovani dell'Ospizio fu di una tale edificazione ed esemplarità, che non si sarebbe potuto aspettare di più. Preghiera, frequenza ai Sacramenti, lavoro, obbedienza, carità, timor di Dio erano portati al più alto grado di perfezione. Soprattutto si aveva tanto timore di commettere peccati, che appena uno avesse detta una parola o fatta un'azione, la quale gli paresse offesa di Dio ancorchè leggiera, correva tosto a confidarla a Don Bosco e a domandargli opportuno consiglio e conveniente penitenza. Specialmente alla sera dopo le orazioni tutti lo circondavano, per esporgli i proprii dubbii, o manifestargli le piccole mancanze della giornata; e talvolta il paziente Sacerdote stava in piedi un'ora ed anche più, per udire e l'uno e l'altro, assicurando, confortando, consolando e mandandoli a dormire tutti contenti e tranquilli. Era quello uno spettacolo che muoveva alle lagrime e dava il più chiaro indizio della nettezza del cuore, che ciascun giovane voleva conservare per Dio.

                Anche i giovani, che frequentavano solamente l'Oratorio festivo, presero a condurre una vita molto virtuosa. Nei giorni del Signore si portavano puntualmete alle sacre funzioni, e si accostavano numerosi ai  Santi Sacramenti; lungo la settimana poi erano di esempio a quanti li vedevano e praticavano.

                Intanto i casi di coléra in Torino e nei sobborghi facevansi ogni dì più frequenti, e D. Bosco appena ebbe notizia che l'epidemia era scoppiata nei dintorni dell'Oratorio, senz'altro accorse ad assistere gli appestati. Mamma Margherita, che in varie circostanze aveva dimostrata tanta trepidazione per la vita del figlio, dichiarò essere doveroso per lui l'affrontare il contagio. [86]

                Nello stesso tempo il Municipio torinese creava in fretta dei lazzaretti, per raccogliere i colerosi che non avessero mezzi di assistenza e di cura nella propria casa. Due di questi ospedali improvvisati vennero stabiliti nel Borgo S. Donato, che allora faceva ancor parte della parrocchia di Borgo Dora. Ma se al Municipio torinese riusciva facile fondare qua e colà lazzaretti, tornava poi difficilissimo il trovare persone, le quali ancorchè per paga volessero prestarsi a servire gli ammalati nei medesimi e nelle case private. Anche i più coraggiosi temevano di contrarre il malore, e rifiutavano di esporre a cimento la propria vita. Allora fu che alla mente di D. Bosco balenò un gran pensiero: pensiero, che gli suggerì una generosa e nobile determinazione. Dopo essersi per parecchi giorni e parecchie notti prestato qua e colà all'assistenza dei colerosi, insieme con D. Alasonatti e con alcuni Sacerdoti di Torino addetti all'Oratorio festivo; dopo di aver veduto coi proprii occhi il bisogno in cui molti malati versavano, D. Bosco un giorno radunò i suoi giovani e fece loro una tenera parlata. Egli descrisse loro lo stato miserando, in cui tribolavano tanti poveri colerosi, alcuni dei quali soccombevano per mancanza del pronto e necessario soccorso. Disse il bell'atto di carità, che si era il consacrarsi in loro sollievo; che il divin Salvatore aveva assicurato nel santo Vangelo di riguardare come fatto a se stesso il servizio prestato agli infermi; che in tutte le epidemie, e nelle stesse pestilenze vi erano sempre stati Cristiani generosi, i quali avevano sfidata la morte allato degli appestati, per servirli ed aiutarli nel corpo e nell'anima. Loro notificava come il Sindaco stesso erasi raccomandato, per avere degli infermieri ed assistenti; che D. Bosco con [87] varii altri già si erano esibiti; e conchiudeva esprimendo il desiderio che alcuni de' suoi giovani si facessero suoi compagni in quell'opera di misericordia. - Queste parole di D. Bosco non caddero invano. I giovani dell'Oratorio le raccolsero religiosamente e si mostrarono degni figli di un tal padre. Quattordici di essi gli si presentarono bentosto, pronti a compiere i suoi desiderii, e gli diedero il proprio nome, per essere consegnato in nota alla Commissione sanitaria; e pochi giorni dopo altri trenta ne seguirono l'esempio.

                Chi considera per una parte il terrore, che in quei giorni padroneggiava gli animi a segno, che molti, non esclusi i medici stessi, fuggivano dalla città, e che molti infermi venivano abbandonati dagli stessi parenti; e per altra parte rifletta alla età e naturale timidezza della gioventù in simili casi, non può non ammirare questo nobile slancio dei figli di D. Bosco, il quale ne andò sì lieto, che ne pianse di consolazione.

                Prima per altro di metterli in campo di battaglia, il buon padre loro prescrisse varie norme da seguire, affinchè l'opera loro tornasse ai colerosi vantaggiosa tanto pel corpo quanto per l'anima. La terribile malattia aveva generalmente due stadii o periodi; l'assalto cioè, il quale senza un pronto soccorso per lo più era mortale; e la reazione, per cui, ridestandosi nel corpo la circolazione del sangue, molti scampavano alla morte. Per la qual cosa chi prestava il suo servizio ad un coleroso doveva avere di mira il vincere la violenza dell'assalto, col produrgli addosso la reazione, la quale si procurava sopratutto per mezzo di moderate fregagioni e di caldi fomenti, con pannilani alle estremità del corpo, colte dal granchio e dal freddo. Su questo punto D. Bosco diede ai giovani [88] infermieri ammaestramenti opportuni ed assai utili cognizioni, da renderli come altrettanti medici improvvisati. Egli aggiunse poi alcuni suggerimenti spettanti le partite dell'anima, affinchè per quanto dipendeva da loro niuno degli ammalati avesse a morire senza i conforti della Religione.

                Istruitili adeguatamente, venne stabilito un orario, e furono dispersi quali in uno e quali in un altro luogo. Gli uni dovevano porgere il loro aiuto nei lazzaretti, gli altri nelle case particolari, questi in una e quegli in un'altra famiglia. Alcuni poi giravano all'intorno per esplorare, se vi fossero malati non ancora conosciuti; altri rimanevano a casa, per essere ognora pronti alla prima chiamata.

                Appena si seppe che i giovani dell'Oratorio eransi consacrati alla cura ed assistenza dei colerosi, e che riuscivano eccellenti infermieri, le domande per averli si moltiplicarono talmente, che dopo una settimana si dovette rinunziare allo stabilito orario. Parenti, vicini, conoscenti, Municipio, tutti facevano capo a D. Bosco, così che si può dire che i giovani erano sempre in moto. Alcuni giorni avevano appena tempo a prendere un boccone di pane, e talvolta in fretta nella casa stessa del coleroso. Di notte poi era un continuo andirivieni, e chi si levava e chi si coricava, e parecchie furono le notti che passarono insonni o presso gli infermi, o vegliando senza un bricciolo di riposo, ma sempre lieti e contenti.

                Da principio, prima di recarsi al caritatevole uffizio, ciascuno si muniva di una boccetta di aceto, o di una dose di canfora e simili; ritornato poscia a casa si lavava e profumava, per disinfettarsi; ma in appresso questa operazione si sarebbe dovuta fare così di sovente, che fu d'uopo darle il bando, per non perdere tempo. Allora ad [89] altro più non pensarono che ai loro poveri infermi, lasciando la cura di se stessi alla divina Provvidenza.

                Nè in quei dolorosi frangenti l'opera dell'Oratorio fu solamente personale; poichè, quantunque poveri, poterono nondimeno provvedere anche materialmente a molti malati. Avveniva sovente di trovarsi presso ad un infermo, che mancava di lenzuola, di coperte, di camicie e di questo e di quello. Vedendo tanta penuria delle cose più necessarie, si veniva a casa, si esponeva il fatto alla buona mamma Margherita; ed essa ai loro racconti presa da tenera compassione andava alla guardaroba, n'estraeva e somministrava gli oggetti, secondo il bisogno. All'uno dava una camicia, all'altro una coperta, a questo un lenzuolo, a quello un asciugamano, e così via via. In capo a pochi giorni non si possedeva più nulla fuori di ciò che si portava indosso, o serviva a ravvolgersi in letto.

                Un giovane infermiere le venne un giorno a raccontare come un suo malato, colto allora allora dal terribile morbo, si dimenava in un misero giaciglio senza lenzuola, e le domandava un qualche lembo per coprirlo. La caritatevole donna andò tosto in cerca, se mai le venisse tra mano qualche oggetto di biancheria; ma non trovò più altro che una tovaglia da tavola. - Prendi, disse la pietosa madre; ecco l'unico oggetto di biancheria che ancor mi rimanga: va e ingegnati alla meglio col tuo povero malato. - E quel giovanetto correre dal suo infermo tutto contento di poterlo avvolgere in un qualche cosa di pulito.

                Ma le domande di soccorsi continuavano: erano povere madri di famiglia che venivano a raccomandarsi per le loro figlie, o ragazze per le loro madri, o altre donne che si prestavano per l'ufficio di infermiere; e Margherita, [90] donate le sue cuffie, il suo scialle, terminava con dar loro le sue vesti e le mezze sottane, in modo da non avere più altri panni fuori di quelli che indossava.

                Un giorno le si presenta una persona  chiedendo ancora qualche oggetto per coprire i sofferenti. Margherita è presa da vivo dolore per non aver più niente da donare. Poi, colpita da una subitanea idea, prende una tovaglia della mensa dell'altare, un amitto, un camice e va a chiedere licenza a D. Bosco di poter dare in elemosina quegli oggetti di chiesa. D. Bosco concede e Margherita porge tutto alla richiedente. Così i sacri lini rivestivano le membra di Gesù Cristo, chè tali sono i poverelli. D. Bosco aveva scritto di sua mano sovra un foglio: Si può egli fare cosa più degna dei vasi destinati a contenere il sangue del Redentore che col ricomprare per la seconda volta coloro che sono già stati comprati col prezzo di questo sangue medesimo Così S. Ambrogio, costretto dalla necessità a vendere i vasi sacri in riscatto degli schiavi. Il suo caso equivaleva a quello del santo Vescovo di Milano.

                Il Governo intanto aveva designato di sbarazzarsi degli ordini monastici; e Urbano Rattazzi, col pretesto del coléra, il 9 agosto avvertì la Curia che, non bastando i Lazzaretti municipali, intendeva occupare i conventi di S. Domenico e della Consolata, e i monasteri delle Lateranensi e delle Cappuccine. Il Provicario Fissore fece le necessarie rimostranze, poichè trattavasi di violare la clausura, senza la Superiore autorizzazione Ecclesiastica; e protestò di non poter acconsentire a tale usurpazione. Rattazzi gli rispose acerbamente che gli ordini dati non potevano essere discussi, e il solo Governo essere giudice competente dei bisogni della società civile. E il 18 agosto [91] le guardie alle 3 del mattino davano la scalata al monastero delle Canonichesse Lateranensi e conducevano le suore ad una villa della Marchesa di Barolo presso la città; e la notte del 22, quaranta tra carabinieri e guardie, rotta la ruota, invadevano il monastero delle Cappuccine, e trovate le monache che pregavano in coro, le costringevano ad uscire, e in carrozze trasportatele a Carignano le chiudevano nel monastero di S. Chiara.

                I Religiosi dovettero pur sgombrare da S. Domenico e dalla Consolata, rimanendovi i soli necessarii per il servizio delle Chiese. Collo stesso pretesto furono usurpati qua e là varii altri conventi in Piemonte; e i Certosini vennero espulsi colla forza dalla magnifica Certosa di Collegno per mutarla poi in Ospedale de' pazzi. Tutto ciò si faceva a dispetto dei diritti riconosciuti dallo Statuto, mentre quelle case religiose non servirono menomamente allo scopo pel quale il Ministro ne aveva preso possesso.

 

 

CAPO X. Calma di D. Bosco e intrepidezza dei giovani nell'assistere i colerosi - I lazzaretti e le sassate - Varii aneddoti nelle case degli infermi - Un coleroso da D, Bosco trasportato all'infermeria - Suo nuovo appello e nuovi infermieri - La Madonna risana la madre del chierico Francesia.

 

                D. Bosco era stato dato l'incarico di Direttore spirituale di un lazzaretto della parrocchia di Borgo Dora, stabilito ove ora è il ritiro di san Pietro ed in una casa attigua. Egli e D. Alasonatti erano sempre pronti a correre ove fossero chiamati. Si davano lo scambio perchè uno di essi rimanesse in casa, ma talora dovevano andare tutti e due. Non badavano nè a cibo, nè a sonno, nè a riposo. D. Bosco gettavasi allo sbaraglio, non curandosi di veruna precauzione per non attaccarsi il morbo. La prima volta che andò al lazzaretto si lavò con acqua di cloruro, come usavano gli altri ogni qualvolta entravano in quel luogo; ma poi non volle più assoggettarsi a simile precauzione per non perdere tempo. Vegliava di giorno e di notte. Per [93] lungo tempo non prese altro riposo che gettandosi per un'ora o due su qualche sofà o seggiolone. Di dormire in letto non se ne parlava.

                Coi giovani più grandicelli egli andava continuamente qua e là dove sapeva esservi colerosi, portando medicine, limosine e robe. Entrava in tutte le case ove erano infermi, ma non poteva fermarsi molto tempo essendo troppi coloro che avevano bisogno del suo ministero sacerdotale. Quando vedeva che in quelle case vi era nessuno per l'assistenza corporale, lasciava o mandava poscia uno dei suoi giovani, i quali passavano molte notti al letto degli ammalati. Colla sua calma amorevole egli sapeva incoraggiarli, lodandone la buona volontà, e non ebbe mai Parole che accennassero alla minima impazienza. Il ch. Francesia, essendo già passata la mezzanotte, assisteva un infermo in una casetta, posta ove ora è la nostra tipografia. Vedendolo venir meno corse fuori, saltò il muretto di cinta del cortile e chiamò D. Bosco, rincasato da poco tempo. Egli andò subito, ma l'infelice era già morto. Tuttavia non si lamentò d'essere stato costretto ad alzarsi inutilmente a quell'ora; nè redarguì il giovane che avesse così tardato a chiamarlo; e tutto tranquillo ritornò in camera.

                Anche la carità dei giovani infermieri si mostrò eguale a quella di D. Bosco. Ma non si ha a credere che loro non toccasse di fare da principio un supremo sforzo, per superare la paura e vincere se stessi. Tra gli altri uno di quei 14, che pei primi diedero il proprio nome, e si accostarono coraggiosamente al letto dei colerosi, basterebbe da solo a farci comprendere la violenza che fu loro necessaria, per applicarsi a quell'opera, e durarla sino alla fine. Imperocchè la prima volta che egli pose piede nel lazzaretto, al vedere gli atti che facevano i colpiti dal [94] terribile morbo, al mirarne le facce livide e incadaverite, gli occhi incavati e semispenti, al vederli sopratutto a spirare in orribil modo, fu preso da tanto spavento, che divenne pallido al pari di loro, gli si oscurò la vista, gli mancarono le forze e svenne. Fortunatamente si trovava con lui D. Bosco, il quale, accortosi del caso, lo trattenne dal cadere a terra, lo trasportò all'aria libera, e lo fece tosto confortare con apposita bibita; chè altrimenti il poverino sarebbe forse stato giudicato per assalito dal coléra, e messo cogli altri infermi.

                Veramente non di poco coraggio era d'uopo esser fornito, per raggirarsi intrepido tra quei luoghi del dolore e della morte. Imperocchè oltre gli strazianti patimenti, a cui erano in preda tanti poveri malati, restringeva il cuore per alta compassione, il vederli, non appena spirati, trasportare nel vicino deposito, e quasi subito trasferire al cimitero e sotterrare. Talvolta parevano ancor vivi, e già venivano collocati tra i morti. Nel lazzaretto ove servivano i giovani dell'Oratorio, avvenne tra gli altri questo episodio. Si era da poco trasferito nella vicina camera mortuaria un cadavere, mentre D. Bosco s'intratteneva col dottore; quando il custode viene nella infermeria e dice al medico: - Signor dottore, quel tale si muove ancora; dovremo forse riportarlo qui? -Lascialo pur là, rispose burlescamente il medico; bada solo che non ti scappi. - E poi rivoltosi a D. Bosco, riprese: - Bisogna essere crudeli a parole, per non essere crudeli nei fatti. Guai se lo scoraggiamento invadesse i nostri inservienti! Che ne sarebbe degli infermi? - Gli inservienti infatti avevano tanta paura, che bisognava quasi ubbriacarli quando vi erano morti o malati da trasportare. Quindi ognuno può immaginarsi quale sangue freddo, o, per meglio dire, [95] quale fortezza d'animo fosse necessaria possedere, per assistere impavidamente a siffatte scene.

                Nei primi giorni poi, non solo era mestieri rendersi superiore alla paura del morbo e della morte, ma delle minacce altresì di certa gente. Qui giova sapere che i lazzaretti, quantunque venissero impiantati nei sobborghi e fossero una saggia provvidenza, tuttavia erano mal visti, anzi aborriti e dai malati e da coloro che ne avevano le abitazioni vicine. I primi erano dominati dal pregiudizio, che in quei luoghi si morisse più presto e si facesse anche morire, mediante l'acquetta; i secondi temevano non senza ragione che il lazzaretto corrompesse più facilmente l'aria all'intorno, e mettesse a repentaglio la loro vita. Perciò, non avendo potuto impedire che si fossero là aperti, taluni si argomentarono di farli chiudere o renderli inservibili, per vie altrettanto vili, quanto illegittime. In Borgo S. Donato, come pure altrove, una turba di monellacci del vicinato prese il partito di atterrire quanti si presentavano a servizio degli infermi colà ricoverati, immaginandosi che non se ne sarebbero portati altri, qualora niuno si ardisse di recarsi a curarli ed assisterli. A questo intento quei, malevoli cominciarono colle minacce, indi scesero persino alle busse ed alle sassate, sicchè per portarsi al lazzaretto o partirne, specialmente di notte, convenne per alcun tempo farsi scortare dalla pubblica forza. Era appunto una delle prime sere, quando due dei nostri, tra cui il chierico Michele Rua, se la videro assai brutta; poichè usciti dal lazzaretto, allorchè furono in una oscura discesa diretti verso l'Oratorio, odono un incomposto frastuono di urli e di fischi, misti alle grida di dagli, dagli. Nè bastò; perocchè quei dissennati, dato di piglio a ciottoli, di cui abbondava il sito, ne diressero [96] alla loro volta tale una tempesta, che i due giovani infermieri dovettero alla prestezza delle loro gambe e al fortunato incontro di due guardie daziarie, se non ne furono raggiunti e malconci. Anche D. Bosco più volte fu preso a sassate.

                Non ostante questa disumana accoglienza, si continuò a recarsi al lazzaretto, finchè ne fu bisogno. In appresso si raffreddò l'ira dei vicini, rimanendo solo l'ammirazione di tutta la città.

                Agli infermi però era cosa ben difficile toglier loro dal capo l'ubbìa del veleno. Fra i molti fatti non ne passeremo sotto silenzio alcuni per essere abbastanza interessanti e graziosi.

                In casa Moretta eravi un uomo colpito dal male. Il meschino, persuaso che questo malore fosse opera di gente malvagia che lo spargesse recando seco l'acquetta, aveva messo un'arma da fuoco carica presso il letto, proibendo a chiunque non fosse della famiglia di entrare in camera. Minacciava risolutamente di sparare sovra qualunque estraneo. Infatti, essendosi presentato un prete per confortarlo, costui aveva dovuto indietreggiare ed allontanarsi, avendo l'infermo abbrancata la sua arma.

                Il male cresceva rapidamente, i suoi parenti non sapevano a qual partito appigliarsi e finalmente andarono a chiamare D. Bosco che lo conosceva, e che era da lui molto stimato.

                D. Bosco accettò subito quell'invito ed andò, e quando fu su la loggia lo chiamò per nome.

                - Oh D. Bosco! rispose l'ammalato.

                - Posso venire?

                - Venga, venga, D. Bosco. Lei, son certo, non mi porterà l'acquetta! [97] D. Bosco entrò, ma appena ebbe passata la soglia, colui lo fermò con voce imperiosa e gli intimò - Apra le mani.

                D. Bosco gli mostrò la palma della mano destra.

                - Mostri anche la sinistra! continuò con impazienza l'infermo.

                D. Bosco aperse la sinistra.

                - Scuota le maniche colle braccia in giù!

                D. Bosco eseguì.

                - Ha nulla in saccoccia?

                D. Bosco scosse e rovesciò le saccocce.

                - Adesso venga pure vicino al letto, son sicuro!

                D. Bosco lo confessò! Dopo qualche istante, avendo quell'infelice perduta la conoscenza, Tomatis, entrato con un altro compagno, lo involse in una coperta, e, stesolo sopra una barella, lo portò al lazzaretto, ove morì.

                Si era sparsa eziandio nel popoletto un'altra voce: che cioè il coléra fosse cagionato specialmente da una certa acqua biancastra per causa di certe polveri mortifere, che si diceva trovarsi nei pozzi: quindi molti non volevano più bere.

                Ora D. Bosco, essendo stato chiamato presso un infermo piuttosto grave, dopo avergli amministrato i sacramenti, vide che, quantunque avesse arse le fauci da una gran sete, pure non voleva in nessun modo inumidirle.

                Siccome D. Bosco era sempre ascoltato, quindi gli preparò un'ampolla e gli disse di bere quel liquido senza timore quando fosse crucciato dalla sete. L'infermo promise, e D. Bosco, lasciato un giovane per servirlo lungo la notte, se ne andò a visitare altri colerosi. Dopo un po' di tempo, quel giovane vedendo l'infermo aggravarsi, gli disse: - Eccole un po' da bere. [98] Il malato, dimentico delle assicurazioni di D. Bosco, si fa forza, si volge e lo guarda con aria

                - Prenda, prenda; beva, continua il giovane porgendogli l'ampolla.

                - Che cosa hai detto? Che cosa dici? Parti, parti immediatamente da questa camera!

                -Si acquieti; beva: ne sentirà sollievo replicò il piccolo infermiere.

                - Non parti? grida l'ammalato; e preso come da frenesia, sbalza dal letto, corre barcollando a prendere un fucile e lo appunta verso la porta. - Vedi: se non parti! - Ma il giovane aveva già prese le scale a precipizio.

                Più volte D. Bosco stesso aiutò a trasportare i colerosi. Nel mattino del 16 di agosto, festa di S. Rocco, compatrono di Torino, mentre si avvicinava per rientrare nell'Oratorio, vide seduto sulla sponda di un fosso del prato dei fratelli Filippi, già campo de' suoi primi convegni, un giovanotto che mangiava con avidità un grosso melone.

                 - Lascia stare, gli disse D. Bosco, potrebbe farti male.

                - È  tanto buono questo melone che a me non farà del male, rispose quel giovane; sono io che ne faccio a lui. - D. Bosco lo invitò ancora a desistere, ma non vi riuscì; e quindi continuò il suo sentiero ed entrò in casa. Ma non era ancora giunto in camera, che arriva una persona annunciando che un povero operaio era nel prato in preda ai dolori e chiedeva soccorsi. D. Bosco si porta subito sul luogo e vede il giovanotto, che non aveva dato ascolto al suo consiglio, gemere e contorcersi, avendo ancora d'accanto una metà del suo melone. [99] Alcuni curiosi lo stavano osservando da lontano con aria di spavento, e niuno osava avvicinarsi. D. Bosco, fattoglisi da presso, lo confortò con incoraggianti parole e gli soggiunse: - Che cosa hai? - Non so.... mi viene freddo.... ho un brivido nelle ossa.... - D. Bosco lo prese per le mani, che erano gelate, sintomo certo del morbo micidiale. Allora invitò il poveretto ad alzarsi ed a venire con lui; ma l'altro malgrado i suoi sforzi, fatto qualche passo tornò a sedersi dicendo: - Le gambe non mi reggono più.

                D. Bosco, girati gli occhi attorno per chiamare gente, vide passare Tomatis e fattogli cenno, egli da una parte e Tomatis dall'altra, preso l'infermo sotto le ascelle, lo sollevarono e si misero in via. Il poveretto per qualche tempo potè ancora strascinare i piedi e camminare; ma arrivato ad un certo punto fu assalito dal granchio e da dolori così gagliardi che si lasciò andare a terra come corpo morto. Ciò visto, i due pietosi incrociando le mani, formarono una specie di sedile e così lo portarono per un tratto. - Ma dove mi conducono? - chiedeva quel poveretto.

                - Qui vicino, presso un mio amico, in una casa sanitaria dove tu potrai essere curato; rispondeva Don Bosco. - Non diceva al lazzaretto, perchè questo nome lo avrebbe spaventato.

                Intanto, via facendo, gli cadeva il melone che ancora teneva fra le mani e voleva che i suoi portatori si fermassero per raccoglierlo. D. Bosco lo contentò; ma Tomatis, vedendo il suo Superiore soverchiamente stanco, tirossi l'infermo sulle spalle, che per lui robustissimo era peso leggero, D. Bosco lo seguiva, sostenendo di dietro quel poveretto perchè non stesse troppo disagiato. A [100] questo modo si giunge al lazzaretto, dove gli infermieri, vista la gravità del caso, prepararono subito un bagno caldo. D. Bosco frattanto invitò il giovane a confessarsi, per disporlo a morire e il poveretto si confessò alla meglio, ma con vero sentimento di dolore. Subito dopo entrò in delirio, parlando del suo melone e di otto soldi che aveva nascosti in saccoccia. Temeva che qualche mano ladra glieli portasse via. D. Bosco gli chiese se desiderava che egli glieli custodisse, e quel giovane tranquillatosi gli con segnò il suo piccolo tesoro, dicendogli: - Me li conservi per quando sarò guarito. - Intanto arrivava il dottore; il giovane è messo nel bagno e vengono eseguite le fregagioni per farlo sudare. Cure inutili: a mezzogiorno egli non era più.

                Il morbo invadente imponeva adunque continui sacrifizii di carità corporale e spirituale, e D. Bosco a stento poteva provvedere a tanti bisogni. Talora accadde che i giovani, fattisi inscrivere come infermieri, si trovassero tutti contemporaneamente ad assistere i colerosi e in casa rimanessero solamente i più giovani, i più deboli di sanità, e anche i più timidi. Eppure D. Bosco aveva bisogno di altri che lo accompagnassero o che andassero ove erasi fatta urgente richiesta. Un mattino doveva recarsi al lazzaretto per amministrare l'Olio santo; ma conveniva che qualcuno gli portasse i vasi sacri, mentre egli avrebbe amministrato il sacramento. Nessuno dei giovani rimasti in casa osava accompagnarlo. Dopochè alcuni si erano rifiutati, D. Bosco invitò Cagliero Giovanni, che allora stava ricreandosi con i compagni:

                - Vuoi tu che andiamo noi?

                - Andiamo! rispose risolutamente Cagliero; e subito si misero in cammino. Giunti al lazzaretto, Cagliero [101] aiutò D. Bosco nei preparativi per l'amministrazione dell'Olio santo e rispondeva alle preghiere di rito, passando da un giaciglio all'altro. Un medico sopraggiunto vide quel giovanetto e disse: -D. Bosco, che cosa fa? questo giovane non può e non deve star qui! Non le pare una grave imprudenza? - No, no, signor dottore, rispose D. Bosco, - nè lui, nè io abbiamo paura del coléra e non succederà niente.

                Cagliero infatti per coraggio e abilità poteva star a paro di un provetto infermiere, e con lui anche Anfossi Giovanni Battista, il quale così ci lasciò:scritto: “Ebbi la fortuna di accompagnare D. Bosco in parecchie visite che faceva ai colerosi. Io allora aveva soli 14 anni, e ricordo che, prestando la mia opera come infermiere, provava una grande tranquillità, riposando sulla speranza di essere salvo, speranza che D. Bosco aveva saputo infondere ne' suoi alunni. In tale assistenza mi confortava anche la carità di D. Bosco. Era una tenerezza il vedere con quanta amabilità e destrezza egli sapeva indurre gli ammalati a ricevere i conforti della religione e a fare una buona morte; e come riuscisse a tranquillizzarli sulla sorte dei poveri, figliuoli, che sarebbero rimasti senz'alcun appoggio. Un giorno lo vidi ritornare all'Oratorio conducendo ben sedici fanciulli, che aveva raccolti qua e là nelle case, rimasti orfani dei genitori. E li tenne tutti con sè, e poi li avviò secondo l'attitudine o agli studi o ad un'arte. E questi non furono i soli, che lagrimosi traeva per mano per consegnarli nelle braccia amorose della Divina Provvidenza”.

                L'esempio di Cagliero, di Anfossi e di altri qualche giorno dopo animò quelli che non avevano saputo ancora risolversi. [102]

                “Infatti, attestò il Ch. Reviglio Felice, tornando Don Bosco dalla città, i rimasti in casa si stringevano intorno a lui. Ed egli esclamava: - Chi vuole andare al lazzaretto e nelle case dei privati ad assistere i colerosi? - lo! Io! - gridavano tutti con slancio di carità. - Egli allora rivolse direttamente a me quella interrogazione, e forse fui l'unico che non accettò, perchè io desiderava un comando. D. Bosco con un sorriso sulle labbra parve accondiscendere a lasciarmi in pace. Ma, quasi avesse letto nel mio cuore, mi scelse tosto ad accompagnarlo; mi chiamò e, mandato da lui stesso, prestai l'opera mia, assistendo sei colerosi sino all'estremo della loro vita”.

                Presero parte a queste veglie, con D. Bosco, Turchi Giovanni e Gastini Carlo; ma nell'assistenza continua si segnalarono in modo particolare il Ch. Rua, il Ch. Buzzetti Giuseppe e il Ch. Francesia. D. Bosco pregava continuamente per la salute de' suoi figliuoli, e la Madonna lo esaudiva, dando per soprappiù al Ch. Francesia una prova della sua materna protezione.

                La madre di questo buon chierico era stata colpita dal morbo in modo fierissimo. Il figlio avvisato corse a casa e la trovò in uno stato che dava poca speranza. Ritornato in fretta all'Oratorio, chiamò D. Bosco, il quale tosto si mosse per confessarla. Abitava in faccia alla chiesa della Consolata. Come D. Bosco fu innanzi alla colonna dell'Immacolata posta sulla piazza, scoprendosi il capo e mostrando a Francesia la statua di Maria: La vedi? gli disse; Essa ti guarirà infallantemente la madre se le prometti di consacrare, quando sarai prete, in modo particolare la tua vita per propagare la sua gloria e la sua divozione. - Il chierico accettò il patto. D. Bosco salì allora all'abitazione dell'inferma, la consolò e confessò, [103] e subito le fu amministrata l'Estrema Unzione. Ritiratosi D. Bosco e rimasto il figlio, venne il medico, impiegato alla fucina delle canne, il quale disse unico rimedio essere una replicata estrazione di sangue. Le donne del vicinato, che avevano ingombrata la stanza, criticavano l'ordinazione del medico e insistevano presso l'inferma perchè non si lasciasse aprir la vena. Il medico, immobile e silenzioso in mezzo a quel chiacchierio, disse in fine: - Io non cavo sangue se l'inferma non lo permette. -E quindi uscì. Il figlio fece allora sgombrare la camera e pieno di fede nella parola di D. Bosco disse alla madre: - E che cosa faremo dunque?

                - Di' tu, replicò la buona donna: - qual è il tuo parere?

                - Io direi di fare quello che il medico ha proposto.

                - E tu vallo a chiamare!

                Il figlio raggiunse il medico ai piedi delle scale e lo pregò a risalire, dopo averlo assicurato che la madre si rimetteva pienamente al suo consiglio. Fu cavato sangue cinque o sei volte e l'inferma guarì e visse ancora ventun anno.

 

 

CAPO XI. Gravissima infermità di Cagliero Giovanni - Visione profetica - Convalescenza, ricaduta, guarigione - Cagliero veste l'abito chiericale - Conseguenze e prove della profezia.

 

                ALTRA prova dava Maria SS. di sua protezione e di suo gradimento per quello che operavasi dai figli dell'Oratorio, colla guarigione del giovane Cagliero Giovanni. “Mentre nessuna speranza avevasi sui mezzi umani, scrisse D. Rua, D. Bosco raccomandò all'infermo di ricorrere alla Madonna, annunziandogli che sarebbe guarito; ed io rimasi meravigliato nel veder compiuta quella profezia”. Esponiamo il fatto colle sue particolarità.

                Un giorno, in sul finire del mese di agosto, Cagliero Giovanni, stanco per il lavoro dell'assistenza agli ammalati, ritornato a casa dal lazzaretto, sentissi male e dovette coricarsi. D. Bosco, che lo amava qual padre, gli fece prodigare tutte le cure possibili per salvarlo dalle terribili febbri gastriche tifoidée che lo afflissero per quasi due mesi; ma inutilmente. Attesa la gravità del male, pochi giorni dopo che erasi messo a letto, Cagliero si confessava e riceveva la SS. Comunione. Ma le febbri progredirono [105] tanto, che nel termine di un mese lo ridussero agli estremi. D. Bosco aveva annunziato in pubblico che nessuno dei suoi giovani sarebbe morto di coléra, purchè si mantenessero in grazia di Dio. Cagliero, che allora contava 16 anni, fidavasi pienamente nelle parole di D. Bosco; ma il guaio si era che in quel suo caso non trattavasi di morbo asiatico. Nell'Oratorio tutti presagivano che da un giorno all'altro passasse all'eternità; egli tuttavia era tranquillo. Intanto i due celebri medici di Torino, Galvagno e Bellingeri, dopo un consulto, dichiararono esser quello un caso disperato e dissero a D. Bosco che amministrasse pure all'infermo gli ultimi sacramenti, perchè non avrebbe potuto durarla fino al demani. Il Ch. Buzzetti allora avvertì Cagliero del pericolo nel quale si trovava e gli annunziò che D. Bosco sarebbe venuto per confessarlo, viaticarlo e amministrargli l'Estrema unzione.

                D. Bosco non tardò ad entrare nella stanza di Cagliero coll'intento di prepararlo al gran passo; quando, fermatosi sulla soglia, a' suoi occhi apparve un meraviglioso spettacolo. Vide comparire una bellissima colomba, la quale, come un punto luminoso, mandava attorno a sè sprazzi di luce vivissima, sicchè tutta la camera n'era abbagliata. Portava nel becco un ramo d'olivo e svolazzava girando più e più volte all'intorno. Quindi raccolse il volo sul letto del giovanetto infermo, e toccò le sue labbra col ramoscello d'olivo, che lasciò poi cadere sopra il suo capo. Mandando quindi una luce ancor più viva scomparve. L'intuizione di D. Bosco allora fu che Cagliero non sarebbe morto, ma che molte e molte cose gli restavano ancor da fare per la gloria di Dio; che la pace, simboleggiata dal ramoscello d'olivo, sarebbe stata annunziata dalla sua parola; che lo splendore della colomba denotava la [106] pienezza della grazia dello Spirito Santo che lo avrebbe rivestito. Da quel momento D. Bosco ebbe un'idea confusa ma ferma, e gli durò costante e continua, che il giovane Cagliero sarebbe stato Vescovo. - E senz'altro tenne per già avverato quel pronostico, quando per la prima volta Cagliero partì per l'America.

                Alla prima infatti era successa una seconda visione. D. Bosco inoltratosi a metà della camera, sparvero come per incanto le pareti, e intorno al letto vide una moltitudine di strane figure di selvaggi, che fissavano lo sguardo nel volto dell'infermo e trepidanti sembravano domandargli soccorso. Due uomini, che si distinguevano sopra tutti gli altri, uno di aspetto orrido e nerastro, l'altro color di rame d'alta statura e portamento guerriero, misto a una cert'aria di bontà, stavano curvi sopra il piccolo moribondo. D. Bosco più tardi veniva a conoscere essere quelle le fisonomie dei selvaggi della Patagonia e della Terra del fuoco.

                Le due visioni durarono brevi momenti, e il giovanetto infermo e gli astanti di nulla si accorsero.

                D. Bosco, colla sua solita calma e col suo dolce sorriso, lento lento si avvicinò al letto, e Cagliero gli domandava: - È  forse questa la mia ultima confessione?

                - Perchè mi fai questa domanda? gli, rispose D. Bosco.

                - Perchè desidero sapere se debbo morire.

                D. Bosco si raccolse alquanto in sè e poi gli disse: Giovanni, dimmi un po': ti piace più andare in paradiso adesso, o ami meglio guarire ed aspettare ancora?

                - O mio caro D. Bosco, rispose Cagliero, io scelgo ciò che è meglio per me.

                - Per te sarebbe certamente meglio che te ne andassi in, paradiso ora, attesa la tua giovine età. Ma non è ancora [107] tempo: il Signore non vuole che tu muoia adesso. Vi sono ancora molte cose da fare: guarirai, e, secondo è stato sempre il tuo desiderio, vestirai l'abito da chierico... diventerai sacerdote... e poi... e poi - qui D. Bosco s'interruppe, stette alquanto pensoso - e poi col tuo breviario sotto il braccio ne avrai da fare dei giri... e il breviario hai da farlo portare a tanti altri... eh! ne hai ancora da fare delle cose prima di morire!... e andrai lontano, lontano. - E tacque senza dirgli ove sarebbe andato.

                - Quando è così, esclamò Cagliero, non occorre che mi prepari a ricevere i sacramenti. Io mi sento tranquillo di coscienza. Aspetterò a confessarmi quando sia alzato da letto e quando eziandio tutti i miei compagni andranno ai sacramenti.

                - E sia; gli rispose D. Bosco, puoi aspettare per quando sarai alzato. - E non le confessò, nè più si parlò di sacramenti in articolo di morte.

                Da quel punto Cagliero non si diede più pensiero di nulla e, non ostante la gravità della malattia, teneva per fermo la sua guarigione essere certissima. E invero non tardò a migliorare e ad entrare in convalescenza. Ma quando sembrava rimosso ogni pericolo, avendogli i parenti nel mese di settembre mandato dell'uva, egli ne mangiò con avidità, come cibo che riputava innocuo; e ricadde e si trovò di bel nuovo agli estremi.

                Si dovette avvertire la madre sua che ritornasse a visitarlo, avvisandola della piega mortale che aveva ripresa la malattia del figlio; ed essa affrettossi a giungere da Castelnuovo. Appena entrata in quella stanza e vide il figlio in quello stato, esclamò volgendosi alle persone che l'assistevano: - Il mio Giovanni è bell'andato! A quel che vedo, tutto è finito. - Ma Giovanni, dimostrando [108] la sua allegrezza per l'arrivo della madre, senz'altro incominciò a dirle che pensasse a comprargli la sottana da chierico, con tutti gli altri accessorii, perchè doveva fare la vestizione clericale. La buona madre credette che il figlio vaneggiasse e disse infatti a D. Bosco che allora allora era sopraggiunto: - Oh D. Bosco, è proprio vero che il mio ragazzo va male! Egli vaneggia e mi parla di vestire l'abito da prete e mi dice che gli prepari tutto l'occorrente.

                E D. Bosco: - Ah no, mia buona Teresa, il vostro figlio non vaneggia mica: egli dice benissimo; preparategli pure tutto il necessario per vestirlo da chierico: egli ha da fare ancora molte cose e non ha voglia di morire.

                Cagliero che ascoltava tutto: - Ebbene, madre mia, le disse; avete capito? Voi mi farete la veste da chierico e D. Bosco me la metterà.

                - Sì, sì, esclamava la madre piangendo: povero figlio! Una Veste te la metteranno, ma Dio non voglia che sia diversa da quella che desideri.

                D. Bosco cercò di tranquillarla, assicurandola che, avrebbe veduto il figlio chierico; ma la buona madre andava borbottando: -Ti metteranno indosso una veste qualunque, quando ti porranno nella cassa.

                Il figlio però sempre ilare parlava con tutti coloro che andavano a visitarlo della veste clericale che presto avrebbe indossato, Infatti, come Dio volle, ripigliate alquanto le forze, la madre lo condusse al paese. Era immagrito così che sembrava uno scheletro; debolissimo di forze, non poteva reggersi in piedi se non camminando appoggiato ad un bastoncello; faceva compassione vederlo. Intanto insisteva sempre presso la madre che gli preparasse il corredo da chierico, e la buona madre decise di [109] contentarlo. La gente che vedevala darsi attorno a questi lavori la interrogava: - Che cosa fate, Teresa?

                - Preparo la veste da chierico per mio figlio.

                - Ma se è mezzo morto che non può star diritto.

                - È  mio figlio che vuole così.

                Una risposta di D. Bosco da Torino ad una sua lettera, scritta il 7 ottobre gli aveva detto: “Carissimo Cagliero. Ho piacere che tu vada migliorando nella tua sanità; noi ti attendiamo qui quando che sia, purchè guarito, bravo, allegro secondo il solito. Va bene che ti prepari per la veste... Saluta i tuoi parenti, pregate tutti per me, e il Signore vi benedica e vi prosperi. Credimi tuo aff.mo D. Bosco”.

                Già avvicinavasi il giorno di andare a Torino per la vestizione. Gli amici ed i parenti di Cagliero cercavano sconsigliarlo a motivo del suo stato infermiccio, dicendogli di rimettere ad altro tempo la sua vestizione. Ma egli rispondeva: - Niente affatto. La veste debbo prenderla adesso, perchè me lo ha detto D. Bosco.

                Altri trovavano che era troppo giovane, avendo ancor da fare l'ultimo anno di ginnasio; ma egli rispondeva: - Non importa: D. Bosco me lo ha detto.

                Per una coincidenza il giorno nel quale doveva partire per l'Oratorio era stato destinato per le nozze di suo fratello, il quale perciò stava attorno a Giovanni pregandolo a volersi fermare per assistere a quella festa. Giovanni rispose: - Tu prendi quella che vuoi ed io prendo quella che voglio: - cioè la veste da chierico.

                I parenti volevano ritenerlo, dicendo che se partiva, dava segno di non gradire la presenza di quella persona che il fratello aveva scelta per isposa. - Mio fratello [110] faccia quel che vuole; vi dico che son contento, contentissimo della scelta che ha fatta. Non vi basta? Ve l'ho da lasciar scritto con atto notarile che son contento?

                Il 21 novembre Cagliero, perfettamente risanato, ritornava all'Oratorio, e il giorno 22, festa di S. Cecilia, Don Bosco benediceva la veste clericale e ne vestiva il suo diletto figliuolo. Il Rettore del Seminario Metropolitano, Can. A. Vogliotti, il 5 novembre 1855 concedeva al chierico Cagliero di abitare presso D. Bosco, frequentando le scuole del Seminario e riportandone le opportune fedi da presentarsi nella Curia Arcivescovile, prima di prendere l'ultimo esame dell'anno scolastico. Ciò era a tenore delle disposizioni emanate da S. E. Rev.ma Mons. Arcivescovo nella sua circolare in data del i settembre 1834. Simile licenza era pur stata data agli altri chierici che abitavano nell'Oratorio.

                D. Bosco intanto, avendo sempre innanzi alla mente la visione della colomba e dei selvaggi, pare ne avesse confidato il segreto al Prefetto D.. Alasonatti. Questi, incontrato un giorno Cagliero, gli disse: - Tu devi farti molto buono, perchè D. Bosco mi disse cose troppo particolari a tuo riguardo.

                Nel 1855 circa, parecchi chierici e giovani erano attorno a D. Bosco, seduto ancora a tavola, e scherzando discorrevano della loro futura condizione. D. Bosco, rimasto infine alquanto silenzioso, presa un'aria grave e pensierosa, come talora soleva, e guardando a ciascuno de' suoi alunni, disse; - Uno di voi sarà fatto Vescovo!. -L'annunzio riempiè tutti di meraviglia; e poi ridendo soggiunse. D. Bosco però sarà sempre solo D. Bosco.

                A queste parole tutti si misero a ridere, perchè erano semplici chierici, e non avrebbero saputo indicare sopra [111] di chi potesse avverarsi tale predizione. Nessuno di essi apparteneva ad una classe elevata nella società, ma sibbene erano di condizione molto dimessa, per non dir povera, e alla dignità Vescovile solevansi, principalmente in quei tempi, innalzare persone di nobile casato, o per lo meno di raro ingegno e scienza. D'altra parte la posizione di Don Bosco e del suo Istituto era allora così modesta, che umanamente parlando sembrava impossibile che un suo allievo potesse essere prescelto per un Vescovato. Tanto più che allora nemmanco si aveva l'idea di Missioni estere. Ma la stessa improbabilità di tale avvenimento tenne viva la memoria della predizione, nonchè l'amor proprio di qualcheduno che per lungo tempo si lusingò di essere il designato.

                Erano presenti e udirono le parole di D. Bosco i chierici Turchi, Reviglio, Cagliero, Francesia, Anfossi e Rua. E questi stessi udirono D. Bosco ripetere: - Chi mai direbbe che uno di voi debba essere promosso Vescovo?

                Disse ancora non poche volte: - Oh! stiamo un po' a osservare se D. Bosco sbaglia. Vedo in mezzo a voi una mitra e non sarà la sola. Ma qui già ve n'è una.

                E i chierici allora tentavano, scherzando con D. Bosco, d'indovinare, chi, allora semplice chierico, sarebbe a suo tempo Vescovo. D. Bosco però sorrideva e taceva. Talora sembrò che lasciasse trapelare alcun che del suo segreto.

                Narra Mons. Cagliero: - Nei primi anni dei mio sacerdozio incontrai D. Bosco ai piedi della scala e alquanto stanco. Con amore figliale ed in tono di - scherzo: - Don Bosco, mi dia la mano, gli dissi; vedrà che son capace ad aiutarla a salire le scale. - Ed egli paternamente mi diede la sua mano; ma giunto all'ultimo piano mi avvedo [112] che egli tenta di baciare la mia destra. Subito la ritirai, ma non feci a tempo. Allora gli dissi: - Con ciò ha inteso di umiliarsi, o di umiliarmi?

                - Nè l'una, nè l'altra cosa, mi rispose ed il motivo lo saprai a suo tempo.

                Nel 1883 porgeva a D. Cagliero un indizio più chiaro; perchè nell'atto di partire per la Francia, fatto il suo testamento e dati i ricordi a ciascuno dei membri del Capitolo Superiore, a lui consegnava una scatoletta sigillata, dicendogli: - Questo è per te! - E se ne partì. Alcun tempo dopo D. Cagliero fu preso dalla curiosità di esaminare il contenuto di quella scatoletta, ed ecco che vide un prezioso anello.

                Finalmente nell'ottobre del 1884, avvenuta l'elezione del Cagliero a Vescovo titolare di Magido, questi domandò a D. Bosco che volesse svelare il segreto di trent'anni addietro, quando dicevagli che uno de' suoi chierici sarebbe stato Vescovo. - Sì, gli rispose; te lo dirò alla vigilia della tua consacrazione. - E fu la sera di quel giorno che D. Bosco, passeggiando solo con Mons. Cagliero nella sua stanza, gli disse: - Ti ricordi della grave malattia che hai fatto, quando eri giovane e sul principio de' tuoi studii?

                - Sissignore, mi ricordo, rispose Cagliero, e mi rammento che lei era venuto per amministrarmi gli ultimi sacramenti, e che non me li amministrò, e mi disse che sarei guarito e che col mio breviario sarei andato lontano lontano a lavorare nel sacro ministero di sacerdote... e... ma non mi disse altro.

                - Ebbene ascolta, soggiunse D. Bosco; e gli raccontò per filo e per segno le due visioni. Mons. Cagliero dopo aver tutto ascoltato, pregò D. Bosco che volesse di quella [113] sera stessa durante la cena narrare ai confratelli del Capitolo Superiore quelle visioni. E siccome D. Bosco non sapeva rifiutarsi, specialmente quando ne risultava la maggior gloria di Dio ed il maggior bene delle anime, accondiscese e raccontò, presente il Capitolo, le stesse cose che abbiamo sopra esposte. Noi queste pagine le abbiamo scritte quella sera stessa e sotto il dettato di Monsignor Cagliero.

 

 

CAPO XII. Un pubblico elogio alla carità di D. Bosco e de' suoi figli - D. Bosco si offre al sindaco di Pinerolo per l’assistenza dei colerosi -Lettera di Nicolò Tommaseo - Visite illustri all'Oratorio e cortesie di D. Bosco per i suoi giovani - Consiglia ad un chierico la carriera prelatizia - Letture Cattoliche - Un perfido scroccone.

 

                RIPRENDIAMO il filo del nostro racconto dal settembre 1854. Il servizio prestato in quei giorni ai colerosi dai giovani dell'Oratorio fu giudicato così commendevole, che il migliore dei giornali di quel tempo, registrando gli atti di carità del Clero cattolico durante il coléra, lo volle segnalare con un bellissimo articolo. Affinchè i lettori vi abbiano una conferma di quanto siamo venuti fin qui esponendo, lo mettiamo loro sott'occhio. È del tenore seguente:

 

                 “Nel pubblicare la nostra cronaca della carità del Clero in tempo del coléra, finora del Clero di Torino abbiamo potuto fare poco più, che registrare l'offerta fatta da molti di esso, che esibirono l'opera loro ad un bisogno: fra quali annoverammo i padri Domenicani ed i Sacerdoti Oblati della Consolata. Ma se la mitezza del male (nei quartieri centrali) non diede occasione alla carità del Clero Torinese di dare buona prova del suo zelo, tuttavia quel poco che ebbe a fare, ci rivelò abbastantemente [115] quel troppo più, che avrebbe fatto, se la Provvidenza divina avesse altrimenti di noi disposto.

                Potremmo narrare come il Clero abbia usata della sua influenza nel dissipare i pregiudizi sciocchi del volgo contro i medici e le medicine. Il Clero ebbe la consolazione di vedere che, a dispetto di tutti gli improperii, con che il sozzo giornalume lo ricopre, i poveri popolani tocchi dal tremendo morbo, in quella che fanno chiudere brutalmente la porta in faccia al medico, accolgono a braccia aperte il Sacerdote, che va a loro per conforto spirituale e corporale. E basta una parola del Sacerdote, perchè accolgano il medico, e tracannino le medicine quelli che prima detestavano l'uno e le altre più che il morbo, onde sono travagliati.” Vogliamo per saggio, anzichè tutte raccontare le opere del Clero, parlare del servigio reso al lazzaretto di Borgo S. Donato, raccomandato alle cure del Sia. D. Galvagno, cappellano della Fucina, e del signor D. Bosco, fondatore e direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Per parecchie settimane non  si posero a letto, se non così vestiti per pigliare un po' di riposo, interrotto tre o quattro volte nella notte, per essere sempre a richiesta dei bisognosi. Anzi D. Bosco potè presentare alla Commissione sanitaria una nota di 14 de' suoi giovani, i quali volontariamente si offrirono a rendere ogni sorta di servizio ai colerosi tanto nei lazzaretti, quanto nelle case private. Questi giovani sono sufficientemente istruiti di ciò che conviene fare intorno ai colerosi tanto per l'assistenza spirituale, per suggerire pii sentimenti, parole di conforto quanto per fare da infermieri. Animati dallo spirito del loro padre più che superiore, D. Bosco, si accostano coraggiosamente ai colerosi, inspirando loro coraggio e fiducia, non solo colle parole, ma coi fatti, pigliandoli per le mani, facendo le fregagioni, senza dar vista del menomo orrore o paura. Anzi entrati in casa di un coleroso si volgono tosto alle persone esterrefatte, confortandole a ritirarsi se hanno paura, mentre essi adempiono a tutto l'occorrente, eccettuato che si tratti di persone del sesso minore, chè in tal caso pregano che alcuno di casa resti, se non vicino al letto, almeno in luogo conveniente. Spirato il coleroso, se non è donna, compiono intorno al cadavere l'estremo uffizio. [116]

                Oltre ai 14 portati in nota, ve ne ha ancora una trentina degli allievi del buon Sacerdote, parimenti istruiti ad aiutare l'anima ed il corpo, pronti a correre in aiuto dei loro compagni, se per sventura ne fosse il bisogno.

                Abbiamo voluto in modo particolare insistere sui servizi di questa preziosa istituzione, perchè questo è come un debito che dessa ha, e noi per essa, di rendere ragione delle sue opere a quei pietosi benefattori, che la sostengono colla loro carità. Poche settimane sono ci volgemmo alla loro generosità pei bisogni gravissimi dell'Oratorio. Le nostre parole ebbero buon risultato, e sieno rese dovute grazie anche a nome dell'ottimo Rettore,dello stabilimento a quei generosi. Siamo certi che saranno lieti di sapere, almeno in parte, quanto sieno fruttuose le loro limosine fatte a quei poveri giovani, e questo sarà nuovo stimolo alla loro carità, la quale non permetterà che sieno lasciati nella necessità coloro, che sono pronti a sacrificare la vita in servizio dei loro fratelli”.

 

                Fin qui l'egregia Armonia di quei giorni, nel n. 112, 16 settembre 1854.

                Ma per quanto D. Bosco faticasse in Torino non era così assorbito delle sue cure pietose, da non pensare al modo di sollevare dall'infortunio coloro che abitavano fuori della capitale. Avendo saputo che eziandio in Pinerolo il fiero morbo faceva le sue vittime, sicuro nel valore dei suoi figli, scriveva al Sindaco di quella città, offrendo a servizio degli ammalati alcuni de' suoi infermieri. Il Sindaco gli rispondeva:

 

Pinerolo, addì 2 ottobre 1854.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Mille grazie alla S. V. M. R. è mio debito di profundere per la generosa e ad un tempo pietosa offerta di quattro giovani individui che si dedicherebbero al soccorso della languente umanità al servizio dei colerosi in Pinerolo. Se occorrerà ancora [117] (che però voglia impedirlo il sommo Iddio) che siano necessari degli infermieri pel servizio dei colerosi ricoverati nel Lazzaretto di Pinerolo, profitterò della graziosa offerta, ma pel momento pare che il morbo micidiale sia per giungere al suo termine; essendo da alcuni giorni diminuito il numero delle vittime e colla speranza che più non sarà per aumentare il male d'intensità.

                Li ricoverati nel Lazzaretto non sommano più che a 29 dei quali 24 sono fuori di pericolo ed in situazione di uscire tutti entro otto o dieci giorni dall'Ospedale. Se da un mese che è stato aperto il Lazzaretto e nel quale passarono circa duecento individui, io avessi conosciuto che esisteva in Torino una sì pia associazione per l'assistenza dei malati, avrei sicuramente implorata la filantropica opera di quella benemerita società che di grande utilità sarebbe tornata ai nostri infelici malati.

                Nel pregare la S.V. di gradire i sensi della massima mia gratitudine non che quelli del Municipio di Pinerolo e con premura di ricorrere a Lei all'occasione, ho l'onore di protestarmi colla massima stima e divozione.

                Della S. V. Ill.ma

 

Umilissimo e devotissimo Servo

Il Sindaco GIOSSERANO.

 

                Di questi fatti gloriosi per D. Bosco abbiamo memoria in un foglio a lui indirizzato in quel tempo da Nicolò Tommaseo, che in quest'anno era venuto a stabilirsi in Torino, ove dimorò fino al 1859:

 

                               Reverendissimo Signore,

 

                S'Ella ha le opere del Rosmini, dal tomo XI al XVI, La prego di volermeli prestare, se tutti a un tratto non può, ad uno ad uno. Il mio mal d'occhi ed altri incomoducci, che mi visitano di tanto in tanto, mi impediscono di venire io stesso a pregarnela. E da gran tempo Le debbo ringraziamenti per l'onorevole dono di libri; e Le debbo notizia che de' miei due figliastri l'uno è, collocato in una stamperia, l'altro presso un legatore di libri, e [118] per ora vivono in casa meco. So della generosa carità esercitata da Lei e dai suoi nella malattia che minacciava specialmente i poveri della città; e anche di ciò Le debbo ringraziamenti vivissimi come Cristiano. Se il latore non la trovasse in casa, prego la sua bontà d'una parola di risposta da indirizzare al nome mio al N. 22 in Dora Grossa. Creda alla riconoscenza del suo

                Torino, 3 Ottobre 1854.

 

 Devotissimo

N. TOMMASEO.

 

                Il Tommaseo veniva talora a visitare D. Bosco, col quale aveva comuni gli amici, l'Abate Rosmini e il Marchese Gustavo di Cavour. Ci narrò Carlo Tomatis: “. Un mattino io era in dormitorio, cioè in una camera bassa, stretta, con quattro letti, nella casa Pinardi. Ritornava dal Lazzaretto. Ed ecco verso le 9 entra D. Bosco con un signore la cui vista pareva debolissima, conducendolo a visitare l'Ospizio. Era Nicolò Tommaseo, il quale seguendo D. Bosco, in quel mentre gli diceva: Caro Sig. D. Bosco, sono lieto di poterle dire 'che lei trovò uno stile facile, il vero modo di spiegare al popolo le sue idee in maniera che le intenda. Anzi lei seppe rendere popolari e piane anche le materie difficili Intanto D. Bosco appena mi ebbe visto mi chiamò innanzi a quel signore, esponendogli il mio nome e la mia professione. Ciò non mi fece maraviglia, perchè nel 1853, tornando con lui un giorno dalla città a casa, c'imbattemmo in Silvio Pellico, e D. Bosco prima di incominciare un ragionamento, che fu abbastanza protratto, volle presentarmi con parole di lode all'autore delle Mie Prigioni. E non solamente a me usava tali riguardi, ma sibbene a tutti i suoi figli adottivi; poichè fu sua costante costumanza di presentarli sempre, quando erano con lui, a [119] qualunque personaggio gli si, avvicinasse, dando segno della sua deferenza rispettosa verso di essi. E si noti che fin dal principio della mia dimora all'Oratorio non furono pochi i personaggi eminenti ed i letterati di grido, che venivano in Valdocco, per visitare quell'asilo e quell'uomo di carità”.

                Ma fra queste visite, gratissima fu al nostro D. Bosco quella del Ch. Emiliano Manacorda, che gli faceva acquistare un grande amico. Questo chierico era venuto all'Oratorio risoluto di fermarsi con D. Bosco. Passeggiò lungamente con lui nel cortile davanti alla casa, chiedendo consiglio, perchè non gli era troppo simpatica la vita del Seminario, e il suo naturale pareva portato ad una maggiore attività ed esercizio di pratiche religiose. Don Bosco, che pure aveva tanto bisogno di chierici, lo ascoltò con bontà, lo persuase ad andare in Seminario e concluse che quando avesse finiti gli studi teologici, allora si sarebbe veduto la risoluzione da prendersi. Il Ch. Manacorda di quando in quando negli anni seguenti ritornava presso D. Bosco, esponendogli anche il suo disegno di partir missionario per i paesi infedeli; ma non parve che D. Bosco approvasse quella propensione. Allora D. Manacorda, ordinato prete, venne verso il 1863, all'Oratorio e vi abitò per circa sei mesi, e quindi partì per Roma,, avendolo consigliato D. Bosco ad intraprendere la carriera prelatizia. Egli nel tempo che stette nell'Oratorio studiò Don Bosco con tanta attenzione, da restare ammirato delle sue eroiche virtù. Divenuto Monsignore e, poi Vescovo di Fossano, ne fu il più ardente testimonio e predicatore.

                Frattanto l'assistenza ai colerosi non aveva impedito a D. Bosco di preparare i due opuscoli pel mese di settembre e stampavasi anonimo il seguente libretto: Del [120] Commercio delle coscienze e dell'agitazione protestante in Europa. Vi si leggeva:

                “È  coi trenta denari di Giuda che i protestanti cercano di indurre i Cattolici a rinnegare Gesù Cristo e la sua Chiesa, abusando specialmente delle miserie dei poverelli. Benchè fra coloro che son nati protestanti non pochi siano, in buona fede, i Capi delle loro sette non credono più nè alla Bibbia nè a Dio. Divisi fra di loro, da irrimediabili opinioni diverse, in un solo punto convengono; cioè nell'odio furioso contro la Chiesa Cattolica.

                Non sono in buona fede i Pastori, i catechisti, i missionari protestanti sia per ragione del mostruoso principio del libero esame, che nega l'infallibilità del Papa e della Chiesa mentre la concede ad ogni fedel minchione eziandio se non sa leggere; sia perchè il loro movente sono le buone paghe colle quali vengono retribuiti. Il loro fine non è di convertire i malvagi, ma di corrompere le anime ingenue ed incaute e ribellarle alla verità. Satana ingannatore dei nostri primi parenti nel paradiso terrestre è il loro modello; ne ricopiano in sè la malizia, conoscendo la perfidia della propria ignoranza”.

                Ciò non ostante i malvagi non si stancavano di inventar nuove armi contro D. Bosco. Si legge nell'Armonia del 17 ottobre: “Un parroco dei dintorni di Torino ci scrive che il 13 corrente verso sera, recandosi a casa incontrò un giovane, che, accostandoglisi con aria semplice e bonaria, gli presentò alcuni libriccini a nome del Sig. Don Bosco, pregandolo di raccomandare al suo popolo l'opera dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Soggiungeva che il parroco tale, ed il parroco tale aveano dato chi due, chi tre lire per l'Oratorio. Essere incaricato dal Sig. Don Bosco di presentarsi per questo scopo da tutti i parrochi: [121] e siccome l'ora era tarda, lo pregava dell'ospitalità. Il buon parroco accettò i libri, diede lire tre, scrivendo il suo nome e la somma offerta sul libro presentatogli dal dabben giovane, e rifiutò con buon pretesto di accordargli l'ospitalità.

                Il Parroco, entrato in casa, aprì uno dei libretti, e quale non fu il suo stupore scorgendo che erano tutt'altro che libri buoni! Allora solo si avvide d'essere stato scroccato da un furfante, che va vivendo col rubare i danari ai parrochi e la riputazione al Sig. D. Bosco. Questo serva d'avviso a chi di ragione”.

 

 

CAPO XIII. A Castelnuovo - Accettazione di Savio Domenico - Vestizioni clericali - Savio Domenico e Bongioanni Giuseppe all'Oratorio - Scopo principale di D. Bosco nell'avviare i giovani agli studi - Lotteria di un crocifisso d'avorio - Gli orfanelli delle vittime del coléra - Don Bosco si offre per istruirli - Lettera del Sindaco Prima visita di D. Bosco agli orfani ricoverati a S. Domenico - Ringraziamenti del Sindaco - La classe dei più piccoli nell'Oratorio.

 

                SULLO scorcio del settembre, essendo quasi cessata la moría, D. Bosco conduceva un numero de' suoi giovani ai Becchi, perchè dopo tante fatiche si svagassero e respirassero l'aria pura di quelle colline. Quivi il Signore, quasi in premio di ciò che l'Oratorio aveva fatto per gli infermi, gli mandava un allievo che dovea riuscire suo lustro e sua gloria: Savio Domenico. D. Cugliero Giuseppe, suo maestro in Mondonio, piccolo paese confinante con Castelnuovo, verso la metà dell'anno era venuto in Torino a parlare con D. Bosco del suo allievo e dopo avergliene descritta l'esemplare condotta, concludeva: - Qui in sua casa può avere giovani uguali, [123] ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un S. Luigi. - D. Bosco perciò s'intese con lui che lo avrebbe mandato a Morialdo, nell'occasione che egli stesso vi si sarebbe trovato per fare la novena e celebrare la solennità del Rosario di Maria Santissima.

                D. Bosco così narra il suo incontro col giovane Savio Domenico:

                 Era il primo lunedì, giorno 2 d'ottobre di buon mattino, allorchè vedo un fanciullo, accompagnato da suo padre, che si avvicina per parlarmi. Il volto suo ilare, l'aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.

                - Chi sei, gli dissi, onde vieni?

                - Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato D. Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.

                Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.

                Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età.

                Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole: - Ebbene che gliene pare? mi condurrà a Torino per istudiare?

                - Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.

                - A che può servire questa stoffa?

                - A fare un bell'abito da regalare al Signore.

                - Dunque io sono la stoffa; ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito pel Signore. [124] Io temo che la tua gracilità non regga per lo studio. Non tema questo; quel Signore che mi ha date, finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l'avvenire.

                - Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare?

                - Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente di abbracciare lo stato ecclesiastico.

                - Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture Cattoliche), di quest'oggi studia questa pagina, domani ritornerai per recitarmela.

                Ciò detto lo lasciai in libertà d'andarsi a trastullare con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: - Se vuole, recito adesso la mia pagina. - Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.

                - Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Sì; ti condurrò a Torino e fin d'ora sei annoverato tra i miei cari figliuoli comincia anche tu fin d'ora a pregare Iddio, affinchè aiuti me e te a fare la sua santa volontà.

                Non sapendo egli come esprimere meglio la sua contentezza e la sua gratitudine, mi prese la mano, la strinse, la baciò più volte e infine disse: - Spero di regolarmi in modo che non abbia mai a lamentarsi della mia condotta”.

                D. Bosco s'intratteneva pochi giorni ai Becchi, poichè gravi affari lo richiamavano in Torino. Il giovane Savio Angelo aveva in quel tempo indossato l'abito clericale e Turchi Giovanni, con altri si preparava a ricevere quella [125] sacra divisa. D. Bosco soleva disporli con diligenza a questo grande atto, loro ripetendo essere un dono di Dio la vocazione allo stato ecclesiastico. Nello stesso tempo esponeva ad essi i segni per riconoscere la propria vocazione, cioè l'attitudine e l'inclinazione al sacro ministero, e la purità d'intenzione nel mettersi al servizio di Dio. Spiegava loro eziandio, in modo piano e famigliare, colle parole di S. Paolo[3], l'altissima dignità del Sacerdozio, e gli obblighi imposti dalla vocazione divina: “Coloro che Dio ha preveduti, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figliuol suo, ond'egli sia il primogenito tra molti fratelli. Coloro poi che egli ha predestinati, li ha anche chiamati: e quelli che ha chiamatili ha anche giustificati: e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati”. Quindi descriveva il premio immortale preparato per coloro che rimangono fedeli alla propria vocazione.

                Intanto le persone confidenti dì D. Bosco, vedendolo così occupato nel procurarsi chierici che si fermassero ad aiutarlo, gli dicevano:

                - Ma che bisogno ha lei per tre oratorii di tanta gente?

                - I bisogni io li vedo e sono molti.

                - E che cosa vuol farne di questi chierici?

                - Qualche cosa ne faremo: lo so io.

                - E chi vuole che dia loro gli ordini sacri se alcuni non appartengono a veruna diocesi?

                - Troveremo chi li ordinerà.

                  Ma non vede che quando saranno preti, i Vescovi glieli toglieranno? [126]

                - Anche a questo inconveniente, si penserà di rimediare.

                Questi dialoghi erano ripetuti, sotto varii aspetti, le mille e mille volte poichè nessun poteva prevedere il futuro. D. Pacchiotti però, cappellano al Rifugio, ricordando le antiche parole profetiche, sovente ripeteva a D. Bosco: Adesso credo che hai preti e chierici!

                Ma il principio dell'anno scolastico ormai si avvicinava colle ultime settimane di ottobre, e i giovani novellamente accettati entravano nell'Oratorio. Fra i primi fu Savio Domenico, il quale si recò nella camera di D. Bosco per darsi, come egli diceva, intieramente nelle mani de' suoi superiori. Il suo sguardo si portò subito su di un cartello, sopra cui a grossi caratteri erano scritte le seguenti parole che soleva ripetere S. Francesco di Sales: Da mihi animas, caetera tolle. Fecesi a leggerle attentamente, e D. Bosco desiderava che ne capisse il significato. Perciò invitollo, anzi l'aiutò a tradurle e cavar questo senso: O Signore, datemi anime, e prendetevi tutte le altre cose. Savio pensò un momento e poi soggiunse: - Ho capito; qui non avvi negozio di danaro, ma negozio di anime, ho capito; spero che l'anima mia farà anche parte di questo commercio. - E senz'altro incominciò ad applicarsi con impegno allo studio ed a tutti i doveri di pietà, e a dare quegli splendidi saggi di virtù, così ben descritti poi dallo stesso D. Bosco in un caro fascicolo delle Letture Cattoliche.

                Savio aveva studiato i principii di latinità a Mondonio; e perciò colla sua grande assiduità nello studio e colla non ordinaria sua capacità ottenne in breve di essere classificato nella quarta, o come diciamo oggidì, nella seconda grammatica latina. Fece egli questo corso sotto il [127] pio e caritatevole professore Bonzanino Giuseppe, continuando i giovani dell'Oratorio a frequentarne le scuole. Di complessione alquanto debole e gracile di aspetto, misto di gravità e affabilità con un non so che di serio e piacevole, d'indole mitissima e dolcissima, di un umore sempre uguale, quel giovanetto aveva un'aria veramente angelica. E non tardò a guadagnarsi i cuori e la stima di tutti i compagni. La morte, ma non peccati! era il motto nel quale si compendiò la sua vita,

                Con Savio Domenico prendea posto nell'Oratorio Bongioanni Giuseppe. Rimasto orfano di padre e di madre, era stato raccomandato da una zia a D. Bosco, che caritatevolmente lo accolse nel novembre del 1854. Tocava, allora l'età di 17 anni, e a malincuore, forzato dalle circostanze, egli venne, ma ancora colla mente piena delle vanità del mondo e con varii pregiudizi in materia di religione. Si vide però in lui chiaramente l'operazione della divina grazia, giacchè in breve si affezionò grandemente alla casa, alle regole e ai Superiori; rettificò insensibilmente le sue idee e diedesi con tutto ardore all'acquisto, della virtù ed alle pratiche di pietà. Dotato com'era d'ingegno molto perspicace e di grande facilità ad apprendere venne applicato allo studio. Con mirabile rapidità compiè i corsi classici, facendovi eccellente riuscita. Fornito di fervida immaginazione, spiegò una grande abilità nel poetare, sia nell'italiana favella, sia nel dialetto piemontese; e mentre nelle famigliari conversazioni serviva di diletto agli amici coll'improvvisare su argomenti scherzevoli, scriveva al tavolino bellissime poesie, di cui molte furono pubblicate, come quella ad onore di Maria Ausiliatrice: “Salve salve, pietosa Maria, ecc.” che trovasi nel Giovane Provveduto. [128] Oltre a questi due, altri giovani erano accettati come allievi studenti nell'Oratorio, e il primo abboccamento con D. Bosco faceva loro una impressione così favorevole, che subito incominciavano ad amarlo ed a venerarlo. Anche le continue premure per loro di mamma Margherita, che dirigeva l'economia della casa e della cucina, la sua devozione, la sua pietà, la sua fede restavano in loro così impresse, che non furono l'ultima causa di una gratitudine perenne verso l'Oratorio. Tali sono le relazioni che ci pervennero dagli stessi antichi alunni del 1854 e 1855.

                Di questi giovani D. Bosco studiava attentamente l'indole, i portamenti, le propensioni, e se non davano segni di vocazione al sacerdozio, intendeva di conservarli o condurli a Dio, formarne uomini virtuosi, che non solo amassero il Signore essi medesimi, ma che colla parola e coll'esempio promovessero poi il timore e l'amor di Dio nelle famiglie e nella società. Non permetteva però che seguitassero gli studi a spese dell'Oratorio. Colla stessa misura egli trattava i suoi nipoti che accettava nell'Ospizio alle stesse condizioni colle quali ammetteva in casa i figli dei poveri. Era pronto a soccorrere i parenti se fossero caduti nella miseria, perchè tale è il precetto della carità, ma nulla avrebbe fatto per procurare ad essi una vita più comoda. Infatti, tenuto presso di sè il nipote Francesco fino all'autunno del 1854, lo rimandò a casa perchè non gli parve che fosse chiamato alla carriera ecclesiastica, benchè avesse ingegno e fosse molto buono. E Francesco continuò ai Becchi nella professione del suo genitore, e fu poi un eccellente capo di famiglia. In questo stesso autunno fu chiamato da D. Bosco ad occupare il posto di Francesco nell'Oratorio il secondogenito di suo fratello Giuseppe, per nome Luigi. D, Bosco [129] aveva detto ai due nipoti: - lo non intendo far di voi nè avvocati, nè medici, nè professori. Se il Signore vi chiama allo stato ecclesiastico, bene; diversamente è meglio che seguitiate l'occupazione di vostro padre!

                Anche di Luigi ebbe D. Bosco una cura veramente paterna impartendogli un'educazione religiosa e civile adattata alla sua condizione. Ma nulla di speciale. - Quello che ho, diceva di quando in quando, e che mi dánno i benefattori devo impiegarlo a comperare il pane a' miei giovani. Guai a me se ne facessi altro uso!

                E pareva che il pane fosse per mancare nell'Oratorio. La guerra dell'Oriente cagionava enormi disastri commerciali, i quali producevano grandi contraccolpi in molte famiglie benefiche. La Francia e l'Inghilterra, temendo che la loro influenza e i loro interessi venissero menomati nel Levante, si erano collegate in favore della Turchia. Sbarcate le loro soldatesche prima a Varna e poi in Crimea, sconfitti i Russi in varie battaglie, il 9 ottobre 1854 stringevano d'assedio Sebastopoli.

                D. Bosco pertanto il 2 novembre 1854 chiedeva per lettera ed otteneva dalle autorità la licenza di fare una piccola lotteria di un crocifisso d'avorio, alto 35 centimetri, di molto pregio per l'arte, donato a questo scopo dal sig. Giacomo Ramella.

                Con questa industria si potè per qualche giorno sostentare la famiglia di Valdocco, che andava crescendo per gli orfani, privati dalla pestilenza de' genitori. Anche il Municipio Torinese riconosceva tale necessità e meritava la gratitudine di tutta la cittadinanza non soltanto per aver usate le più sollecite cure per prevenire e per scemare i tristi effetti del malore pestilenziale, ma pur col soccorrere a tanti poveri fanciulli di mano in mano che [130] venivano orbati dei loro parenti. A questo benefico scopo egli aperse provvisoriamente un Orfanotrofio presso la Chiesa di S. Domenico, dove provvide albergo, vitto e vestito ad un gran numero di orfanelli, i quali, senza di questa caritatevole misura, sarebbero stati in quel terribile frangente abbandonati sopra di una strada. Si fece di più: poichè il Sindaco non fu pago che quei poveri fanciulli fossero provvisti delle cose necessarie al corpo, ma pensò eziandio alla coltura della mente e del cuore. Espresse quindi con alcuni signori la sua opinione, che sovra ogni altro D. Bosco avrebbe adempiuto con zelo l'ufficio di loro Istitutore. D. Bosco, conosciuto il desiderio del Capo del Municipio di Torino, non è a dire con quanto piacere si accingesse a secondarlo, e gliene fece perciò in iscritto domanda formale. Il Sindaco così gli rispondeva:

 

Torino, addì 31 ottobre 1854.

 

                Essendosi la S.V. Ill.ma graziosamente offerta d'istruire quei poveri orfani che trovansi provvisoriamente ricoverati nell'Orfanotrofio di S. Domenico, ed avendola il Sindaco sottoscritto comunicata al Comitato centrale di beneficenza, il medesimo ben di buon grado accettò tale offerta ed affidò allo scrivente il gradito ufficio di rendere alla S. V. i più sentiti atti di grazia.

                Nell'adempire pertanto all'affidatogli incarico il sottoscritto La prega di ben volere a suo comodo portarsi al detto Orfanotrofio onde prendere i necessarii concerti coi sig. Ioassa, economo del medesimo.

                Nel rinnovarle i particolari suoi ringraziamenti ha l'onore chi scrive di raffermarsi coi sensi della più distinta stima e considerazione.

 

Il Sindaco Presidente

NOTTA. [131]

 

                D. Bosco prese adunque a dividere il suo tempo tra gli infermi e i poveri orfani, passando varie ore del giorno con essi; ed affinchè avessero la necessaria istruzione, scelse alcuni dei giovani dell'Oratorio più abili e qualche chierico, e li destinò a fare loro scuola in ore determinate e ad ammaestrarli nella Dottrina Cristiana.

                E così praticossi sino alla fine di novembre. Però non bisogna credere che D. Bosco, solo quando ne fece domanda, incominciasse a prendersi cura degli orfani a San Domenico.

                Enria Pietro, nostro confratello, ci lasciò il seguente scritto:

                “Ho conosciuto il servo di Dio nel settembre 1854 nel convento dei Domenicani, ove per cura di un comitato raccoglievansi i fanciulli rimasti orfani per causa del coléra che imperversava. Ivi un giorno venne D. Bosco a visitarci, accompagnato dall'Economo dell'Orfanotrofio. Eravamo un centinaio. Io non l'aveva mai visto. La sua aria sorridente e piena di bontà lo faceva amare prima ancora di parlargli. Egli sorrise a tutti, e poi ci domandava nome e cognome, se sapevamo il catechismo, se ci eravamo confessati, se avevamo già fatta la prima comunione: e tutti gli rispondevamo con piena confidenza. Passò finalmente vicino a me, ed io mi sentii battere il cuore, non per tema, ma per l'affetto che già sentiva verso di lui. Mi domandò nome e cognome e poi mi disse: Vuoi venire con me? Saremo sempre buoni amici finchè possiamo andare in paradiso! Sei contento?

                Ed io risposi: - Oh! sì, signore.

                Egli poi soggiunse: - E questo che hai vicino è tuo fratello?

                - Sissignore, risposi. [132]

                - Ebbene; verrà anche lui!

                Pochi giorni dopo fummo condotti tutti e due all'Oratorio; io allora aveva tredici anni, mio fratello undici. Mia madre era morta di coléra, e mio padre era tutt'ora aggravato dallo stesso male.

                Diciassette anni trascorsero da questi giorni ed io ne parlava a D. Bosco infermo a Varazze: - Si ricorda, D. Bosco, quando sua madre lo sgridava perchè accettava sempre nuovi ragazzi? Essa gli diceva: Tu accetti sempre nuovi fanciulli; ma come si fa a mantenerli e a vestirli? In casa vi è nulla e comincia a far freddo. - E infatti a, me, appena entrato, toccò di dover dormire per parecchie notti sopra un mucchio di foglie con addosso null'altro che una piccola coperta. E alla sera quando eravamo a letto, lei, D. Bosco, e la sua mamma, ci aggiustavano i pantaloni e la giubba lacera, perchè ne avevamo una sola. - D. Bosco sorrideva nell'udir le mie parole e diceva: Quanto ha faticato la mia buona mamma!... Santa donna!... Ma la Provvidenza non ci è mai mancata!”

                Cessata la mortalità, nei primi di dicembre il Municipio chiuse il suo orfanotrofio provvisorio e ne affidò i fanciulli parte ad uno e parte ad un altro Istituto di beneficenza. Venti dei più piccini furono consegnati a Don Bosco e da quel giorno divennero suoi figliuoli adottivi, Formavano essi una classe a parte, che per celia i compagni chiamavano la classe bassignana perchè composta, dei più piccoli o bassi di statura; e prima che finisse l'anno, raccontò Enria Pietro, trenta altri coetanei ai primi, erano da D. Bosco ricoverati.

                L'istruzione impartita agli orfanelli di S. Domenico, e il ricovero di una buona parte di loro nell'Ospizio di San Francesco di Sales, furono due atti, che gradirono [133] altamente al Comitato di pubblica beneficenza stabilitosi in quel tempo a Torino, e il Sindaco ne scriveva a Don Bosco lettere, che qui riproduciamo.

 

Città di Torino - Torino, addì 7 dicembre 1854.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Il Sindaco sottoscritto, a nome del Comitato di pubblica beneficenza pei poveri colerosi e loro famiglie, recasi a doverosa premura di rendere alla S. V. Ill.ma le più distinte grazie pel nobile e generoso di Lei concorso prestato coll'istruire quei poveri orfani, che vennero temporariamente ricoverati nell'Orfanotrofio di S. Domenico, i quali non mancheranno al certo di innalzare preci a Dio pel loro degno istruttore.

                Nell'adempiere lo scrivente l'affidatogli incarico, si pregia nel suo particolare di rinnovarle i sensi della sua più distinta stima e considerazione.

 

Il Sindaco Presidente

NOTTA.

 

                In altro foglio in data del 4 dello stesso mese, nel pregare che ei fa D. Bosco, che voglia accogliere nel suo Istituto un nuovo orfanello per nome Andrea Fioccardi, il medesimo sig. Sindaco aggiunge: “Coglie il sottoscritto questa opportunità, onde ringraziare la S.V., a nome del Comitato a tal fine istituitosi, pel concorso da Lei prestato nel ricoverare quei poveri orfani, di cui i genitori rimasero vittima del fatal morbo, che per circa quattro mesi afflisse la nostra città e territorio”.

                D. Bosco intanto aveva pensato a collocare convenientemente quei piccoli orfanelli. Preparò per essi un posto distinto per la scuola e per i dormitorii, provvedendo loro prima l'istruzione ed educazione religiosa ed intellettuale e [134] poi la professionale; più di un anno fece loro scuola prima da solo e quindi con l'aiuto di varii amici esterni. Fra questi orfani ve ne fu uno di molta abilità, di nome Cora, il quale riuscì un distinto attore drammatico e per anni con Gastini sul teatrino dell'Oratorio facevasi ammirare dagli spettatori. Alcuni di loro, imparata che ebbero una professione, uscirono poscia dall'Ospizio, affezionati sempre a colui che divenne loro secondo padre; altri vi rimasero e vi rimangono tuttora, testimoni di quei giorni memorabili.

                Enria Pietro chiudeva una sua relazione con queste parole: “Io restai sempre nell'Oratorio dove D. Bosco e la sua madre ci raccolsero con tanto amore; e noi riguardavamo la madre di D. Bosco come fosse la nostra, e tutti eravamo contenti e felici”.

 

 

CAPO XIV. Letture Cattoliche - Risposte dei Vicarii generali invitate a divulgarle - Il GALANTUOMO pel 1855 - Scissioni tra i Valdesi - Lettera di D. Bosco al Ministro Valdese De Sanctis perseguitato da' suoi correligionarii - Risposta Due altre lettere di D. Bosco allo stesso Ministro Per invitarlo a ritornare a Dio - Visite, dispute, ostinazione - Morte disgraziata.

 

                NARRATI avvenimenti non avevano interrotta la regolare pubblicazione  delle Letture Cattoliche. Per l'ottobre, per la prima metà di novembre e pel mese di febbraio 1855, eransi fissati cinque fascicoli, nei quali era divisa l'operetta anonima: La buona regola di vita per conservare la sanità.- Conversazioni.

                Sono dieci conversazioni sugli effetti fisici e morali dell'intemperanza, dell'abuso del bere e del mangiare, di certe abitudini contro l'onestà dei costumi, dell'ira e delle passioni egoistiche; e suggeriscono i mezzi di emendarsene, descrivendo i felici effetti di questa emendazione. Si accenna anche ai vizii de' coriféi del protestantesimo. L'ultima conversazione espone una buona regola di vita in famiglia e in società. Un dottore è il caritatevole [136] consigliere di varii giovanotti che egli riconduce sul retto sentiero, rimettendo la pace e la felicità nelle loro case D. Bosco continuava intanto a cercarsi nuovi associati, e per questo fine si raccomandava con lettere e circolari stampate, alle diverse Curie ecclesiastiche del regno. Ecco le risposte che ancora si conservano:

 

                Ho ricevuto le 180 copie della lettera circolare di cui mi fa cenno nel pregiatissimo suo foglio del 31 scaduto ottobre. Ne ho tosto fatto la diramazione in tutte le parrocchie della diocesi, e spero che ne risulterà l'effetto corrispondente a; benefici e pii di Lei desiderii.

                Gradisca, ecc.

 

                Nizza, li 10 novembre 1854.

 

Can. Arcid. GUIGLIA, vic. gen.

 

                Ieri sera mi giunse il pacco colle incluse circolari che saranno poco per volta diramate in tutta la nostra diocesi. Il Signore benedica lo zelo sempre più edificante della S. V. M. R. Dovunque possa cooperare in qualche cosa alle religiose di Lei intraprese, non mi risparmi e farò tutto quel poco che mi sarà possibile.

                Gradisca con tutta stima ecc.

 

                Novara, II novembre 1854.

 

SCAVINI, vic. gen.

 

                Insieme col gentil foglio di V. S. Preg.ma delli 31 p.p. mese di ottobre mi pervennero, non sono che due giorni, le ivi enunciate circolari, che di concerto col ven.mo Prelato d'Ivrea furono compilate.

                Le circolari stesse munite del timbro vescovile verranno subito diramate ai Parrochi di questa città e diocesi e ad altre pie persone onde vengano viemaggiormente diffuse le letture cattoliche. [137] E’ commendevolissimo e santo lo scopo cui si mira, epperò io spero che le zelanti fatiche della S. V. Preg.ma saranno da Dio benedette e coronate di felice successo.

                Gradisca intanto, ecc.

                Asti, 15 novembre 1854.

 

Can. Mussi, vic. gen.

 

                Contemporaneamente D. Bosco preparava il Galantuomo, almanacco pel gennaio 1855. In queste pagine dettava ricette per bevande suppletive al vino, e per levare le macchie dagli abiti: quindi dava una bella esposizione delle principali solennità della Chiesa, varii aneddoti edificanti, un dialogo intorno alla sacramental Confessione, e due poesie graziose, una in lingua italiana, l'altra in dialetto piemontese.

                Ma degna di nota speciale è la prefazione colla quale D. Bosco, usando uno stile festevole, vuol togliere dal popolo certi pregiudizii, e ricorda quanto fecero il Sindaco e i buoni cittadini per soccorrere i poveri nell'ultima epidemia. Ne rechiamo alcuni periodi:

 

Il Galantuomo ai suoi amici.

 

                Son ancor vivo; sono ancor vivo! Che trista annata ho dovuto passare... Alla metà dell'anno rimasi privo di lavoro, privo di danaro, carico di debiti... Ma la miseria fu il minore dei miei mali. Appena scoppiò quella malattia terribile che chiamano cholera-morbus, parecchie famiglie che dimoravano vicino a me ne furono orribilmente colpite. Dieci miei amici di mia età (io ho quarant'anni), sani e robusti ne furono vittima; oh! che morte spaventosa fecero mai!... Se si fossero lasciati portare al Lazzaretto forse non sarebbero morti; ma non ci vollero mai acconsentire, perchè erano imbevuti della falsa idea, che colà loro venisse data una caraffina bianca per farli morire, e intanto [138] morirono senza caraffina. Poveri amici, requiescant in pace. Mi consola però che sono morti da buoni cristiani e spero che saranno in cielo con Dio.

                Mentre io credeva di avere ormai passata la burrasca e quasi voleva cantare alleluia, il temporale cadde terribilmente sopra di me... Io ed un mio ragazzo fummo colpiti dal coléra; e poichè in casa mia non eravi che miseria, fummo ambidue portati al lazzaretto. Colà non mi fu risparmiata cura e diligenza; io sono guarito; mio figlio andò all'altro mondo. In quei momenti fatali la Divina Provvidenza venne in mio soccorso. Il Sindaco della città fece ricoverare due miei superstiti ragazzi, che spero presto poter ritirare in casa mia; alcuni pii signori della società di S. Vincenzo de' Paoli mi hanno con assiduità assistito. Più volte essi mi portarono danaro, lenzuola e coperte; al presente ancora mi portano un biglietto per carne, due per pane in ciascuna settimana. Insomma la carità di persone pubbliche e private, dopo Dio, mi hanno salvato la vita. Il Cielo sia loro propizio, e tutti li difenda dal cholera-morbus.

                Intanto ho pensato di metter testa a partito, e pensare un po' più seriamente all'anima mia; perciò non istupitevi, miei cari amici, se in questo anno lascierò a parte alcune minchionerie e parlerò più assennato.

                Ho fatto una raccolta di notizie e di varii aneddoti, i quali, leggendo, spero che potrete ritrarre molto vantaggio per voi e per le vostre famiglie. Il Cielo ci sia propizio, ci scampi dai pericoli, e ci doni tempi migliori; l'anno venturo, se avrò ancor vita, ritornerò a farvi una visita.

                In questi mesi frattanto gli eretici di vario colore, che parevano stretti ad un patto per disfarsi di D. Bosco, avevano cessato di far parlare di loro. Ma scomparso il coléra,, ripresero le loro geste odiose e in specie riaccendevano le loro antiche intestine discordie. Si erano scissi come in due partiti, gli Evangelici ed i Valdesi, e di quando in quando si accapigliavano e si maledicevano a vicenda. Eransi proposti di comporre un catechismo [139], ed era già stato preparato da tre dei loro pastori, ma non poterono mettersi d'accordo. Avevano tanti principii religiosi quante erano le teste. Odiandosi a vicenda, in varii paesi delle valli e in altri luoghi del Piemonte, formavano nuove sette, assumendo, con varie denominazioni, il titolo fastoso di chiese libere.

                La discordia si era accesa fin da quando si trattò di nominare il Ministro che officiasse il nuovo tempio sul corso del Re. I Valdesi avevano parteggiato per Amedeo Bert, gli Evangelici per l'ex-parroco apostata De Sanctis. Le questioni si accentuarono a tal punto che nel mese di novembre del 1854 il Ministro Valdese De Sanctis, venuto a rottura co' suoi colleghi, era stato destituito dal suo uffizio per ordine della così detta Venerabile Tavola, ossia Supremo Magistrato della Chiesa Valdese. Il periodico della setta degli Evangelici, La luce evangelica nel suo numero del 4 di detto mese, ne dava la notizia con queste piccanti parole: - “Il Signor De Sanctis, Ministro del Santo Vangelo, che da due anni in qua ha evangelizzato in Torino con soddisfazione di tutti, è stato, dalla Venerabile Tavola della Chiesa Valdese dimesso istantaneamente dall'uffizio di Evangelista. Siccome una tale determinazione della Venerabile Tavola scandalizza la Chiesa, e può attaccare presso i forestieri (non presso gli Italiani che lo conoscono) il carattere del Signor De Sanctis, la Direzione della Luce Evangelica invita i membri della Chiesa che si sentono abbastanza indipendenti, a dire se possono o no in coscienza, e davanti a Dio che ci dovrà giudicare approvare la determinazione della Venerabile Tavola”.

                Questo disinganno toccato al povero apostata era una voce, che gli faceva udire il Signore, per richiamarlo sul [140] buon sentiero e al seno della Cattolica Chiesa, che egli aveva vergognosamente abbandonata. Quindi D. Bosco, il quale regolavasi co' suoi avversarii in ben altra maniera di quella colla quale essi aveanlo trattato, cercò, in quei giorni, di render più facile al De Sanctis la via della salute. Gli scrisse perciò una lettera:

 

Torino -Valdocco, 17 novembre 1854.

 

                               Ill.mo e Stimabile Signore,

 

                Da qualche tempo andavo meditando in cuor mio di scrivere una lettera a V. S. Ill.ma, ad oggetto di esternarle il mio vivo desiderio di parlarle e di offerirle quanto un sincero amico può offrire all'amico. E ciò derivava dall'attenta lettura fatta dei suoi libri, la cui mercè parevami scorgere una vera inquietudine del cuore e dello spirito di Lei.

                Ora da alcune cose stampate nei giornali sembrando essere V. S. in disaccordo coi Valdesi, Le faccio invito di venire in casa mia, qualora Le gradisse. A che fare? Quello che il Signore Le inspirerà. Avrà una camera per dimorare, avrà meco una modesta mensa; dividerà meco il pane e lo studio. E ciò senza alcun tratto consecutivo di spese per parte sua.

                Ecco i sentimenti amichevoli che Le esterno dal profondo del mio cuore. Se Ella potrà venire in cognizione quanto sia leale e giusta l'amicizia mia verso di Lei, accetterà le mie proposte, o almeno mi darà un benigno compatimento.

                Secondi il buon Dio questi miei desiderii, e faccia di noi un cuor solo ed un'anima sola per quel Signore, che darà il giusto compenso a chi lo serve in vita.

                Di V. S. Ill.ma

 

Sincero amico in G. C.

Sacerdote Bosco Giovanni.

 

                Questo scritto di D. Bosco scosse le più intime fibre del misero De Sanctis, il quale rispose tostamente in questi termini: [141]

Torino, S. Salvario, via de' Fiori n. 1.

 

                               Stim.mo Signore,

 

                V. S. non potrebbe mai immaginare l'effetto che ha prodotto in me la sua gentilissima lettera di ieri. Io non credeva mai di trovare tanta generosità e tanta gentilezza in un uomo, che mi è apertamente nemico. Non ci dissimuliamo: V. S. combatte i miei principii come io combatto i suoi; ma mentre mi combatte mostra di amarmi sinceramente, porgendomi una mano benefica nel momento dell'afflizione; e così mostra di conoscere la pratica dì quella carità cristiana, che in teoria è predicata così bene da tanti. Dio volesse che imitassero la sua carità i suoi confratelli del Campanone, i quali non sanno parlare senza insultare, o senza gettare lo spregio ed il ridicolo sulle cose più serie[4].

                Per rispondere poi alla sua lettera Le dico che accetto come un prezioso dono la offerta di sua amicizia, e mi auguro che possa presto presentarmisi occasione, senza offendere la mia coscienza, di dimostrarle che La amo non di parola nè di lingua, ma d'opera ed in verità.

                Per moltissime ragioni non sono ora in grado di poter accettare la sua generosa esibizione; ma la profonda impressione, che essa ha fatto nel mio cuore, non sarà cancellata così facilmente. Intanto preghiamo l'uno per l'altro, acciò Dio ci faccia la grazia di trovarci insieme per tutta l'eternità avanti al trono di Dio, a cantare l'inno dei riscattati dal sangue dell'Agnello.

                Mi creda con sincerissima stima

 

Dev.mo Servo ed Amico

Luigi De Sanctis.[142]

 

                Fortunato il De Sanctis, se avesse ascoltato il consiglio di D. Bosco e si fosse svincolato da' suoi vergognosi lacci! Ma l'infelice chiuse le orecchie alla voce del Cielo, si contentò di ringraziare D. Bosco e far pubblicare sulla Luce evangelica queste parole: - “Mentre i Valdesi trattano il Signor De Sanctis nella maniera che ognun sa, il Sacerdote D. Giovanni Bosco scrive al medesimo una lettera piena di gentilezza e di carità, invitandolo a dividere seco lui l'abitazione e la mensa. Onore a chi lo merita”.

                Quindi in una lettera al Direttore della Buona Novella, data alle stampe, diceva: “Io debbo rendere giustizia alla verità: i preti non mi hanno mai trattato così male”, comparativamente ai Valdesi.

                Ma D. Bosco non si contentava d'aver ottenuto dal De Sanctis un elogio: non voleva lasciar l'opera sua incompiuta; quindi gli indirizzava la seguente lettera:

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Ho veramente piacere che la mia lettera sia stata di gradimento a V. S. Ill.ma e car.ma; e poichè Ella mi dice che trovasi nell'afflizione, vorrei che, mentre degnasi di accettare l'umile ma leale mia amicizia, mi desse occasione con cui io Le potrei recare qualche conforto. Vorrei però che si persuadesse che il numero di quelli che l'amano e stimano sinceramente è forse più grande di quello che Ella immagina. Il sig. Can. Anglesio Rettore dell'Opera del Cottolengo, il Teol. Borel Rettore del Rifugio, D. Cafasso capo di conferenza e Rettore del Convitto di San Francesco d'Assisi e moltissimi altri dividono meco gli stessi [143] sentimenti verso di Lei, e sarebbero assai contenti di avere un'occasione per mostrare verso di Lei la realtà di quanto affermo.

                Poichè Ella compiacquesi di chiamarmi amico, avrei caro di parlare seco Lei, sia per conoscere di persona colui che amo senza aver mai veduto, sia per confermarle di persona quanto Le scrivo. Che se Ella gradisse una mia visita, o volesse fissarmi un posto per la città; oppure, e sarebbe un favore per me, volesse venire a casa mia, sarebbe cosa, credo, di reciproca soddisfazione, ed Ella non avrebbe soggezione di alcuno.

                Solamente vorrei che mi dicesse il giorno e se può anche l'ora per non assentarmi da casa ed impedire che si rechi qua senza ritrovarmi.

                Voglia gradire questi miei amichevoli sentimenti, e mentre La prego a volermi continuare la sua amicizia Le auguro ogni bene dal cielo con dirmi

                Di V. S. Ill.ma e car.ma

                Torino - Valdocco, 30 novembre 1354.

 

Aff.mo Servitore ed Amico

Sac. Bosco Giov.

 

                De Sanctis, il povero sacerdote apostata, lo scrittore dell'empio Amico di casa, aderì all'invito a patto che D. Bosco non lo nominasse ne' suoi scritti.

                E venne all'Oratorio. D. Bosco lo ricevette col berretto in mano e così stette finchè da lui non fu pregato di coprirsi; gli fece visitare la piccola casa, e lo introdusse nei primi laboratorii, ove Gastini faceva il libraio. Quindi tenne con lui una conferenza e i giorni seguenti più altre. Le questioni si aggiravano specialmente sui caratteri della vera Chiesa.

                De Sanctis ammetteva, come fanno tutti i Protestanti, la visibilità della Chiesa, a chiare note annunziata dal Santo Vangelo; ma affermava che il protestantesimo esisteva dacchè cominciò ad esistere il Vangelo e che desso era [144] la società visibile di quelli che credono in G. C. e posseggono la sua genuina dottrina.

                - Ma dove era la vostra chiesa prima di Lutero e di Calvino? obbiettavagli D. Bosco; dove era il protestantesimo nei 1500 anni che scorsero dalla Chiesa primitiva fino alla riforma? Se la società di questi uomini era visibile, questa deve sempre aver avuto dei capi: datemi adunque il loro nome, patria, successione, il tempo in cui vissero, il luogo in cui abitarono, il loro culto, liturgia, dommi, morale, disciplina. Anzi non vi domando il nome di molti: datemi il nome di un sol uomo che prima di Lutero e di Calvino abbia professata la dottrina che oggidì voi professate.

                - Un nome? Oh un nome vi è. - E qui ripeteva le favole inventate da' suoi correligionarii, e accennava ad eretici antichi che nulla ebbero di comune coi riformatori del secolo XVI.

                D. Bosco sfatava questi errori e tanto più facilmente lo convinceva in quanto che il De Sanctis non ignorava la Storia Ecclesiastica, e conchiudeva: - Dunque la vostra setta, o chiesa che sia, fu invisibile per 1500 anni, dunque le manca il carattere evangelico, dunque non è la vera!

                I giovanetti dell'Oratorio talora si accostavano cautamente alla finestra per udire qualche parola della disputa e poi ripetevano scherzando fra di loro: - Mi dica il nome di un solo, un solo nome!

                De Sanctis fu convinto de' suoi errori, ma del convertirsi non ne fu nulla. Giustamente aveva scritto a Don Bosco in questi tempi il Teol. Marengo: “Dall'ultima dispensa della Luce appare che il De Sanctis è strettamente impegnato e vincolato colla Società Evangelica italiana, il qual legame gli può essere funesto”. Tuttavia qualche [145] cosa di bene provenne da questi colloqui. L'azione generosa di D. Bosco verso un così famoso suo avversario, caduto in disgrazia, parve' calmare contro di lui le ire nemiche. Da quel giorno infatti gli eretici cessarono dalle violenze, e si limitarono alle innocue armi della polemica.

                D. Bosco però non desistette dal tentare la conversione del povero De Sanctis, e l'anno seguente indirizzavagli un'altra lettera.

20 maggio 1855.

 

                               Carissimo Signore,

 

                Desideroso che la nostra amicizia non fosse limitata a sole parole, andava aspettando occasione di manifestarla con qualche fatto. Inoltre da' suoi scritti e dalle sue parole sembrandomi di scorgere che V. S. Car.ma non sia intieramente tranquilla, attendeva anche circostanza propizia di poterle palesare i vivi sentimenti che ho per la sua eterna salvezza; ed Ella, giacchè mi fe' dono della sua amicizia, mi palesasse a tu per tu le sue speranze e timori. Non già con animo di disputare, ciò non deve essere tra gli amici, ma per discorrere e conoscere il vero  era perciò ansioso di rivederla.

                Ora Le dirò schiettamente che desidero, e desidero di tutto cuore, la salvezza dell'anima di V. S. e che sono disposto a fare tutti i sacrifizi spirituali e temporali per coadiuvarla. Resta solo che V. S. mi dica se Le pare di essere tranquilla e di potersi salvare; se giudica che un buon cattolico si possa salvare nel suo attuale sistema religioso; se Le pare aver maggiori garanzie di salvezza un cattolico o un dissidente. Si persuada però che tutto ciò che passerà fra di noi o con iscritti o con discorsi non Le potrà mai recare alcun discapito nella sua posizione civile, sociale, religiosa; giacchè l'assicuro che ogni cosa sarà detta e posta sotto al più stretto amichevole segreto.

                Stupirà V. S. di questa mia lettera; pure io son fatto così; contratta una qualche amicizia, io bramo di continuarla e procurare all'amico tutto il bene a me possibile. [146] Iddio buono La benedica e La conservi; ed io con pienezza di stima me Le offro in quel che posso.

                Di V. S. Ill.ma e car.ma

 

Aff.mo Servo ed Amico

Sac. Giov. Bosco.

 

                De Sanctis conosceva quanto fosse leale l'amicizia dì D. Bosco: le passioni gli offuscavano l'intelletto, ma non, poteva misconoscere la falsità di ciò che insegnava. Perciò andando a visitare D. Bosco non riusciva a ribattere le ragioni stringenti colle quali il santo prete lo confortava a ritornare in seno alla Chiesa Cattolica. De Sanctis però schermivasi sempre col dire: Ho famiglia e non posseggo mezzi di sussistenza.

                D. Bosco rispondevagli: - Stia certo che i Cattolici non lo abbandoneranno, ed io sono pronto a dividere il mio pane con lei. Lo aiuterò con tutti i mezzi possibili.

                - Ma... e la moglie non mi permette di fare, il passo che lei mi consiglia.

                D. Bosco allora a fine di cavarlo da ogni impiccio si assunse perfino l'incarico di provvedere alla pretesa sua, moglie un convenevole sostentamento; ma De Sanctis non accettò. L'ultima volta che fu a parlare con D. Bosco, lasciogli un barlume di speranza, che si sarebbe convertito. Era commosso e riconoscente fino alle lagrime per la bontà colla quale si vedeva trattato.

                Ma l'infelice apostata non volle rompere le vergognose catene, e pochi anni dopo, colpito da accidente, moriva all'improvviso, dicendo alla compagna di sua mala vita Muoio, muoio! Voglia il cielo che in quell'istante abbia almeno potuto fare in cuor suo un atto di contrizione!

 

 

CAPO XV. Letture Cattoliche - IL GIUBILEO E PRATICHE DIVOTE PER LA VISITA DELLE CHIESE - I giovani dell'Oratorio tutti preservati dal morbo asiatico - D. Bosco e l'unico caso di coléra - Pio IX proclama dogma l'immacolato concepimento di Maria SS. - Solennità e azioni di grazia nell'Oratorio - Amore corrisposto di D. Bosco alla Madonna.

 

                IL SOMMO PONTEFICE con Enciclica del I agosto 1854 aveva concesso e intimato il Giubileo universale invitando i popoli a penitenza ed a pregare il Signore, col patrocinio di Maria SS. Immacolata, perchè rimuovesse o almeno rendesse più miti i castighi che sovrastavano al mondo. Fra i motivi d'accordarlo, il Papa esponeva quello che i Vescovi di conserva con tutti i fedeli implorassero con suppliche e voti ferventi la bontà del Padre delle misericordie, affinchè si degni di illuminare la nostra anima colla luce del suo Santo Spirito, e Noi possiamo recare al più presto sulla Concezione della SS. Madre di Dio, l'immacolata Vergine Maria, una decisione che ridondi a maggior gloria di Dio e di questa stessa Vergine nostra Madre diletta. [148]

                Nell'Archidiocesi di Torino il giubileo aveva luogo dal 1 ottobre al 31 dicembre. D. Bosco adunque nel novembre, colla Tipografia De Agostini, dava alle stampe nelle Letture Cattoliche il suo libretto: Il Giubileo e pratiche divote per la visita delle Chiese. In esso D. Bosco pubblicava l'Enciclica papale, e nella prefazione, diceva:

 

                Al lettore. - Lo scopo principale di questo libretto si è di far conoscere ai fedeli Cristiani la vera origine del Giubileo, e come esso sia passato dalla Sinagoga degli Ebrei alla Chiesa Cattolica.

                Mi sono fatto coscienzioso dovere di consultare i più antichi e i più accreditati scrittori, fermo di nulla trascrivere che presentasse alcun dubbio sulla verità. Si aggiungono alcune pratiche religiose, che possono servire alla visita delle tre chiese, secondo che viene prescritto dal Romano Pontefice nell'accordare il presente Giubileo.

                La qual cosa servirà pure a confutare l'accusa che i protestanti ed alcuni cattivi Cattolici fanno alla Cattolica Chiesa, quasi che il Giubileo e le sante indulgenze siano un'istituzione degli ultimi tempi.

                Leggi, o Cristiano, e leggi attentamente; chi sa che per me e per te non sia l'ultimo Giubileo? Fortunati noi, fortunati tutti i Cristiani se lo faranno bene. La Misericordia divina ci attende; i tesori celesti sono aperti, faccia Iddio che tutti ne sappiano approfittare.

Sac. Bosco Gio.

 

 

                L'opuscolo poi del dicembre veniva opportuno, poichè in quei giorni sentivansi tali bestemmie contro la Madonna, sulle labbra e negli scritti dei settari, da far inorridire gli stessi demonii. Sulla fronte dell'opuscolo stava scritto: Riflessioni in proposito dell'attesa definizione dogmatica sull'Immacolato Concepimento della SS. Vergine, scritte dal [149] Prof. Fr. Costa Sacerdote Romano, coll'aggiunta di preghiere per una novena.

                Definiva la dottrina dell'Immacolato Concepimento di Maria, narrava la condotta della Chiesa riguardo a questa dottrina dai primi tempi fino ai giorni nostri, esponeva il fine che la Chiesa si proponeva nella anzidetta deliberazione dogmatica, e i doveri che in seguito alla prefata definizione dogmatica incomberanno ad ogni Cattolico.

                Questi stampati erano eziandio segni della riconoscenza dell'Oratorio a Maria SS., essendosi avverata la promessa fatta con tanta fiducia da D. Bosco ai giovani. L'esito era sorprendente anche per un scettico. In quel tempo gli alunni dell'Ospizio, compresovi D. Bosco e sua madre, formavano già una famiglia di quasi cento persone. Or bene posti in un sito, dove il coléra infierì così crudelmente, che, a destra, a sinistra e di fronte, ogni casa ebbe a piangere i suoi morti, dopo circa quattro mesi, passato il flagello, si contarono, e di tanti che erano, non uno mancava. Il morbo aveva loro serpeggiato attorno, erasi avanzato fin sulla porta dell'Oratorio, era penetrato anzi nella stessa camera di D. Bosco; ma parve che una mano invisibile gli additasse di retrocedere, ed egli obbedì, rispettando la vita di tutti. Cosa poi, la quale faceva stupire, si fu il vedere i giovani, che in quel tempo eransi consacrati al servizio degli infermi. Stavano essi così sani, vegeti e prosperosi, che parevano aver passati quei giorni, non già tra le esalazioni mefitiche dei lazzaretti e delle case appestate, ma in campagna deliziosa e salubre, in seno alle vacanze ed al riposo. Quindi tutti quelli che conoscevano la cosa, ne erano maravigliati; ed era impossibile non iscorgere in quel fatto la pietosa mano di Dio, che li aveva visibilmente protetti. [150] Abbiamo accennato di sopra, che il morbo era penetrato sin nella camera di D. Bosco; dobbiamo aggiungere che ancor lo assalì.

                Egli aveva, come già abbiam detto, pregato il Signore che se il morbo avesse dovuto colpire alcuno de' suoi giovani, esso offeriva se stesso come vittima in loro vece. E fu messo alla prova. Infatti raccontò a D. Bonetti la madre Margherita, che una sera, in quella settimana nella quale il coléra incominciava a far strage, dopo un giorno di grande strapazzo, D. Bosco, postosi in letto, si addormentò. Ma non tardava a svegliarsi; sentivasi sorpreso da una gran debolezza in tutta la vita; poscia dal freddo e dal granchio ai piedi e alle gambe. La testa gli girava, impeti di vomito gli sconquassavano lo stomaco; sentiva insomma tutti i segni precursori del gran nemico. Si pose a sedere sul letto. Che fare? Prese il campanello per chiamar gente, ma non suonò. Temeva di spaventare i giovani se domandava aiuto. Incominciò pertanto a pregare Maria SS., rimettendo però a Dio le sue sorti, e si prestò da se stesso il servizio, solito a prestare ai colerosi. Laonde, tenendo con ambe le mani la coperta e le lenzuola, ei si diede a fregare l'uno coll'altro e a dimenare i piedi e le gambe con tanta forza nel letto, che, dopo un quarto d'ora, stanco ed oppresso dalla fatica, tutto il suo corpo era immerso in un sudore. In quello stato D. Bosco si addormentò, svegliandosi al mattino senza alcun male. Fu questo l'unico caso di coléra, che si avesse in casa, il quale però dovette essere cagionato non solo dalla carità verso i suoi giovani, ma anche da un motivo ancor più sublime, inspiratogli da un sentimento di viva fede per il trionfo della Chiesa e di Maria SS. Noi infatti da certe sue parole e scritti [151] abbiamo fondate ragioni per essere convinti che D. Bosco avesse fatto a Dio offerta generosa della propria vita per,ottenere che fosse proclamato in quest'anno il Dogma dell'Immacolata Concezione della Vergine benedetta. È  -cosa anche certa che egli ricordò con molta lode persone che nel 1854 avevano emesso un simile voto. Perciò noi crediamo che il male che lo incolse, fu prova che il sacrificio era stato accetto al Signore e la sua guarigione effetto della bontà di Maria SS.

                Cessato che fu intieramente il malore in città e nel suo territorio, D. Bosco volle che i giovani ne rendessero vive grazie al Signore, per averneli così amorosamente difesi. A questo fine venne fissato l'otto di dicembre, solennità dell'Immacolato Concepimento di Maria Vergine, che in quel giorno stesso l'immortale Pontefice Pio IX, nella Basilica Vaticana, circondato da 200 tra Cardinali, Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi, accorsi anche da lontane parti del mondo, proclamava solennemente dogma di fede. Nel mattino di quel dì memorando i giovani dell'Ospizio e molti dell'Oratorio festivo si accostarono divotamente ai Santi Sacramenti delle Confessione e della Comunione ad onore di Maria Immacolata, che li aveva coperti col manto della sua bontà di Madre. Nella sera poi D. Bosco con apposito discorso preparò gli animi loro al rendimento di grazie. Parlò in modo conveniente e ad essi adattato del caro mistero che si definiva in quel dì quale verità di fede; disse poscia della bontà e potenza di Maria a pro de' suoi divoti; e infine passò a dire come, scomparso ormai ogni pericolo del coléra, fossero tutti in dovere di ringraziare il Cielo per averneli preservati. Don Bosco paragonò il passaggio del coléra nei nostri paesi al passaggio dell'Angelo sterminatore in Egitto; e per far [152] meglio comprendere l'insigne benefizio, che aveva lor fatto il Signore, descrisse varie scene dolorose, avvenute in più luoghi della Liguria, del Piemonte, in Torino stessa e in alcune case del vicinato. - “Sì, così egli terminò, sì, miei cari figli, ringraziamo Iddio, chè ne abbiamo ben donde; poichè, come voi vedete, Egli ci ha conservati in vita tra mille pericoli di morte. Ma, affinchè il nostro ringraziamento gli riesca più gradito, uniamolo con una cordiale e sincera promessa di consecrare a Lui solo il resto dei nostri giorni, amandolo con tutto il cuore, praticando la Religione da buoni cristiani, osservando i comandamenti di Dio e della Chiesa, fuggendo insomma il peccato mortale, che è un morbo infinitamente peggiore del coléra e, della peste'„. Ciò detto, egli intonò il Te Deum, e i giovani ne proseguirono il canto col più vivo trasporto di riconoscenza e di amore.

                Somma in que' giorni era la sua gioia, e aveala trasfusa ne' suoi allievi, i quali la manifestarono eziandio, con una bella accademia e con musiche. Aveva fervorosamente pregato, aveva celebrato messe per affrettare la grazia di questa definizione dogmatica, che da lungo tempo, desiderava; e continuò a pregare e a ringraziare il Signore per aver così glorificata in terra la Regina degli Angeli e degli uomini. La festa dell'Immacolata divenne la sua prediletta, benchè con grande solennità continuasse a celebrare quella di Maria Assunta in cielo.

                Chi può descrivere quanto D. Bosco amasse la Madonna! Dopo il SS. Sacramento la sua prima divozione era quella a Maria SS. Pareva che non vivesse che per Lei. Questa divozione raccomandava di continuo a tutti, predicando, confessando, tenendo discorsi famigliari, con una tenerezza figliale che traspariva dal suo volto. Visitava [153] sovente i santuarii della sua celeste Madre. Aveva sempre con sè medaglie benedette e immagini di Maria SS., che distribuiva volentieri, massime ai fanciulli, i quali si affollavano intorno a lui, raccomandando loro di portarle divotamente addosso e di pregare tutti i giorni la Madonna.

                Con giubilo e santo trasporto cantava coi giovanetti, sia in chiesa, sia nel cortile le lodi di Maria; e non bastandogli la voce quando intonava la canzone: Noi siam figli di Maria, alzava le mani in segno di allegrezza e con santa semplicità faceva la battuta. Narra il Canonico Anfossi: “D. Bosco voleva che Maria SS. fosse lodata continuamente da' suoi giovinetti. Quante laudi io ricordo d'aver cantato in sua compagnia. Tanto era l'entusiasmo da lui inspirato per la Madonna, che una domenica sera ritornando egli dall'Oratorio dell'Angelo Custode in regione Vanchiglia, seguito da uno stuolo numerosissimo di giovani, tra i quali io pure mi trovava, intonò il canto: Mille volte benedetta, o dolcissima Maria, che noi cantammo ad alta voce traversando la piazza Emanuele Filiberto”. Il suo contento era poi al colmo quando, in questi anni, vedeva i suoi alunni, chiesto il permesso, formare altarini nella sala di studio e nelle camerate, per celebrare con solennità il mese di maggio.

                Egli poi, così in questo mese come nelle novene delle feste di Maria, ogni sera faceva un fervorino, parlava di una virtù o di una prerogativa della Madonna, narrava una grazia ottenuta da Lei, e sempre consigliava un fioretto da tradursi in pratica in suo onore. Non lasciava avvicinar festa della Madonna senza annunziarla. In queste occasioni, promoveva sempre la maggior frequenza ai Sacramenti, confessando egli stesso per lunghe ore, e quando nella festa non poteva egli predicare, aveva cura [154] che fosse invitato un predicatore, che sapesse innamorare i cuori di Maria.

                Spesso indirizzandosi a qualche studente dicevagli un testo latino della Bibbia che la Chiesa applica alla Madonna; come per esempio: Beatus homo qui audit me, et qui vigilat ad fores meas quotidie et observat ad postes ostii mei. Qui me invenerit inveniet vitam et hauriet salutem a Domino[5]. Quindi ne chiedeva loro la traduzione, cui egli poscia commentava, esortando a viva confidenza nella celeste Madre, e assicurando che si sarebbero ottenute tutte le grazie delle quali si potesse abbisognare.

                Ai giovani esterni dell'Oratorio festivo raccomandava di recitare tutti i giorni una terza parte di Rosario, e piuttosto che lo tralasciassero per mancanza di tempo, desiderava che lo recitassero in parte anche durante il lavoro, e in parte nell'andare o nel ritornare dalle fabbriche. Egli assicurava essere il santo Rosario un mezzo meraviglioso per ottenere la virtù della purità e sicura difesa contro le insidie del demonio.

                Egli poi era l'apostolo di tutte quelle pratiche di pietà che sapeva essere gradite alla gran Madre di Dio. In molte parrocchie del Piemonte dopo l'Angelus fece aggiungere i tre Gloria Patri, che allora generalmente non solevansi recitare, perchè seppe che una pia persona era venuta a conoscere per rivelazione che sarebbero riusciti gradevolissimi alla Madonna.

                Egli poi sempre incominciava, proseguiva e finiva tutte le opere sue invocandola; e avendo a inviare lettere circolari procurava che fossero spedite colla data [155] di una delle sue feste, e talora ne differì di parecchie settimane la spedizione perchè recassero tale data. Similmente adoperavasi nell'iniziare un'impresa o nel tenere una solenne radunanza de' suoi collaboratori. Ogni,sua opera attribuivala alla Madonna, e nelle prediche e nelle conferenze andava ripetendo che quanto faceva l'Oratorio e la Congregazione tutto si doveva attribuire alla bontà di Maria. Nel corso intero della sua vita nulla mai intraprese d'importante senza prima affidare alla sua protezione i proprii disegni.

                L'invocazione a lui più famigliare era: Maria, mater gratiae, Dulcis parens clementiae, Tu nos ab hoste protege, Et mortis hora suscipe. E Maria lo liberava in tutte le sue strettezze.

                “Maria fu sempre la mia guida”, esclamava spesso. Erano evidenti le moltissime grazie che D. Bosco per intercessione di Maria otteneva per sè, per i suoi giovanetti e per le persone che per mezzo suo a Lei si raccomandavano. E i giovani andavano dicendo tra loro: - D. Bosco deve essere bene in relazione con Maria SS., poichè Essa gli ottiene tante grazie. - E il popolo si persuadeva che la Vergine SS. nulla gli negasse di quanto egli pregavala. La sua fede illimitata appariva ogni giorno più viva, ed in modo speciale al letto degli infermi, ottenendo guarigioni straordinarie. La sua benedizione invocava sui presenti e sui lontani la materna e valida protezione di Maria, e non attribuendo a sè alcun merito, andava ripetendo: - Quanto è mai buona la Madonna.

                La Regina del cielo e della terra, che D. Bosco riguardò e chiamò sempre col nome soavissimo di madre, corrispondeva al suo affetto e a quello de' suoi giovani [156] coll'assumere direttamente l'alta direzione dell'Oratorio. Le novene celebrate in suo onore erano fatali ai cattivi. D. Bosco annunciandole era solito dire: - Facciamola bene, perchè la Madonna stessa vuole purificare la casa, e ne scaccerà chi è indegno di abitarla. - Infatti quei giorni erano sempre segnalati per la scoperta di qualche volpe, o di qualche lupo, i quali, per quanto sapessero celarsi, per un motivo o per l'altro, e la maggior parte delle volte spontaneamente, abbandonavano l'Oratorio. È  un fatto che si ripetè le centinaia di volte, constatato da tutta la Comunità.

                E basti per ora di questo argomento. Ciò che la Madonna fece per D. Bosco e quanto D. Bosco operò per lei colle fatiche, colla penna e colla voce, lo vedremo, nel corso di queste pagine.

                Di quanto abbiamo sopra esposto fanno testimonianza Mons. Cagliero, D. Rua, il Can. Anfossi, D. Cerruti, Villa Giovanni tra i viventi, con molti altri: e ne scrissero autorevoli ricordanze il Teol. Reviglio, D. Giacomelli, D. Bonetti, già da Dio chiamati alla eternità.

 

 

CAPO XVI. Don Bosco e la virtù della purità.

 

                UN affetto così ardente verso la Madonna era una irradiazione ed una prova della purità del cuore di Don Bosco.

                Sì, noi siamo intimamente persuasi che qui consista sovratutto il segreto della sua grandezza, vale a dire che Dio lo abbia colmato di doni straordinari e che di lui siasi servito in opere meravigliose, perchè si mantenne sempre puro e casto. “Al solo vederlo, asserisce D. Piano, si poteva conoscere quanto amore portasse alla bella virtù”. Le sue parole, i suoi portamenti, i suoi tratti ed in complesso ogni sua azione spiravano tale un candore ed un alito verginale, da rapire ed edificare qualunque persona si avvicinasse a lui, fosse pure un traviato. L'aria angelica che traspariva dal suo volto aveva un'attrattiva tutta speciale per guadagnare i cuori. Non uscì mai dal suo labbro una parola che potesse dirsi meno propria. Nel suo contegno evitava ogni gesto, ogni movimento che avesse anche solo per poco del mondano. Chi lo conobbe nei momenti più intimi della sua vita, ciò che riscontrò sempre in lui di più straordinario. [158] fu l'attenzione somma che egli ebbe costantemente nella pratica dei più gelosi riguardi per non mancare menomamente alla modestia. Alcuni de' suoi vollero esaminare in tutto e per tutto la sua condotta esteriore, spiandolo talvolta persino dalla fessura della toppa dell'uscio, e mai fu sorpreso in atteggiamento men che dignitoso. Non fu mai visto neppure una volta sola accavalciare le gambe, star sdraiato sopra un seggiolone, mettersi le mani in seno o nelle scarselle, anche nel maggior freddo, per riscaldarle.

                Non permetteva mai alla sua presenza scherzi anche solamente grossolani; una frase un po' libera lo faceva arrossire e non esitava di avvertire chi l'aveva pronunciata. Tutti i suoi scritti sono un modello della delicatezza somma che egli aveva a questo riguardo, vero e limpido riflesso dell'animo suo. “Alcune volte accadde a me, disse D. Rua, e a vari miei compagni di trovarci incagliati nel raccontare alcuni fatti dell'antico testamento; e, consultando la sua storia sacra, trovavamo il modo di esprimerci con tale delicatezza, da escludere ogni pericolo di sconvenienza. Si può dire anche di lui ciò che si dice del nostro Divin Salvatore, che, accusato in tante guise dai suoi nemici, non si osò intaccarlo sulla castità. Di modo che devesi conchiudere che in modo eroico conservò questa virtù in tutto il corso della sua vita”.

                Un giorno D. Chiattelino si trovò in conversazione con D. Bosco, suo confidente e consigliere. Il buon prete era angustiato da gravi scrupoli dopo avere ascoltato le confessioni, e dubitava sempre se avesse fatto le necessarie interrogazioni per assicurare l'integrità del Sacramento. Allora D. Bosco per calmarlo gli narrò che egli essendosi andato a confessare da un sacerdote ancora [159] novello nel sacro ministero, interrogato su varie mancanze, egli aveva risposto che colla grazia di Dio noti, ne aveva mai commesse.

                - E questa tal cosa?

                - Nossignore, mai; Iddio mi ha sempre assistito.

                - E quest'altra?

                - Nemmeno, per bontà di Dio! - E aggiungeva. D. Bosco che quel confessore pareva non ci si raccapezzasse, e quasi temesse che il suo penitente non fosse sincero. Quindi egli faceva osservare a D. Chiattelino, che se una persona si presume sufficientemente istrutta nei suoi doveri, esser regola sicura di prudenza, che il confessore accetti senz'altro l'accusa come è presentata, e non turbarsi o recare turbamento. Perciò si persuadesse, i suoi timori non essere altro che fantasie.

                D. Chiattelino raccontandoci questo fatto, aggiungeva: -Ascoltando io queste parole di D. Bosco, e confrontandole con altre che mi ricordava essergli una volta sfuggite nel dare un importante consiglio, mi feci persuaso che D. Bosco non fosse mai caduto in colpa grave.

                Anche D. Savio Ascanio, che fin dal principio e per ben quarant'anni studiò D. Bosco, affermava come fosse persuaso ch'egli non avesse mai perduta la innocenza battesimale e che tale opinione era pur divisa con lui da altri antichi allievi sacerdoti.

                Nel trattare cogli uomini D. Bosco si lasciava baciar le mani, ma ci diceva che ciò dovevasi permettere perchè i sacerdoti sono rivestiti di un carattere e di una autorità divina e le loro mani sono consacrate. Questi sentimenti erano fatti evidentemente palesi da ogni suo atto. Alle persone di altro sesso talora permetteva quell'atto di ossequio, senza mai però tenere la loro mano nella sua, e [160] sovente si schermiva, ma senza sgarbatezze. Nei primi anni dell'Oratorio, quando non aveva ancora porteria, soleva attendere alle udienze, dopo la messa, sotto i porticati della casa, e non si vide mai che conducesse donne in camera per dar loro udienza. In appresso poi ingrandita la casa, le riceveva nella sua stanza, la quale però era attigua a quella di aspetto, in cui si trovavano altre persone che attendevano, ed uno della casa che annunziava chi voleva parlargli. E teneva sempre la porta semichiusa, affinchè tutti gli astanti potessero liberamente vedere. Se alcune volte si presentava a lui una signora vestita un po' vanamente, teneva gli occhi fissi al suolo, come tutti videro sempre, e come attestano D. Rua, D. Piano e cento altri.

                Sedeva ad una certa distanza dalle visitatrici e non mai di fronte; non le mirava in volto e mai stringeva loro la mano al loro uscire od entrare; e se ne sbrigava il più presto che potesse. Siccome molte di queste persone avevano bisogno d'essere consolate, non usava mai espressioni affettuose, che non avrebbero potuto guarire un male, se non producendone un altro. Perciò composto in contegno grave, le confortava nelle loro avversità con una ragione che soleva ripetere frequentemente: - Fiat voluntas tua! Ed anche: “Dio non abbandona nessuno; chi ricorre a lui coll'anima monda dal peccato e colla preghiera ben fatta, ottiene quanto gli abbisogna”. Evitava persino di dare del tu ad alcuna, ancorchè fosse sua parente, eccettochè alle bambine o fanciulle di pochi anni. Ma anche con queste era sempre riservatissimo. Talvolta qualche donna, chiedendo a lui la benedizione, lo pregava a farle un segno di croce sulla fronte o sugli occhi sperando di poter guarire da un suo incomodo; ma D. Bosco [161] non accondiscese mai al loro desiderio. Un giorno una di queste gli prese la mano per portarsela sulla testa; ed egli allora ne la rimproverò severamente. Era testimonio D. Rua.

                Per via non salutava mai alcuna dama pel primo, fosse anche una benefattrice. Non faceva mai visita ad una signora, se non quando lo esigeva la gloria di Dio, o qualche grande necessità. Più volte venne invitato da qualche dama ad approfittare della propria vettura dovendo uscire contemporaneamente; e D. Bosco ringraziando non accettava; e se qualche volta accettò l'invito, fu quando era accompagnato da qualcheduno de' suoi, oppure da un altro uomo.

                Tale somma compostezza egli raccomandava a' suoi allievi. Narrava il Teol. Reviglio: “Mi ricordo che quando andai parroco e Vicario Foraneo a Volpiano, D. Bosco mi diede l'avviso di non fare mai la più piccola carezza anche per premio o per incoraggiamento alle ragazze, perchè diceva: Ciò può dare occasione a maldicenze. E quando poi era già curato alla parrocchia di S. Agostino in Torino, mi inculcava di usare anche nelle cose lecite ogni circospezione e riservatezza al fine di conservare il prestigio di parroco casto”.

                E D. Bosco era geloso di questo prestigio. D. Savio Angelo e Mons. Cagliero ci raccontarono come egli, giunto una volta a Castelnuovo e avendo bisogno di farsi radere la barba, cercò di una bottega di barbiere. Trovatane una, vi entrò. Tosto gli si presentò una donna che dopo averlo cortesemente salutato lo invitò a sedersi, assicurandolo che presto sarebbe stato servito. È  da notarsi che il padre di colei era barbiere e, non avendo alcun figlio maschio, aveva insegnato il suo mestiere alla [162] figlia. Quella adunque cominciò a stendergli innanzi l'asciugamano. - Fin qui meno male, disse tra sè D. Bosco, credendo che sopraggiungesse il barbiere in persona. Ma ecco che vede quella donna disporre il rasoio, prendere il vasetto del sapone, in atto di mettersi all'opera di radergli la barba. Ciò visto D. Bosco si alzò, prese il suo cappello e salutando disse: - Non permetterò mai che una donna venga a prendermi pel naso. Oh no! Finora nessuna fuori di mia madre toccò queste guance! - E se ne andò. Aggiungeremo che nelle sue malattie non volle mai essere servito da persone di altro sesso e neppure dalle suore, e non ammise mai altri intorno al letto fuori de' suoi coadiutori adulti, che ammirarono sempre la sua estrema diligenza nell'evitare ogni più piccola cosa che potesse offendere la modestia.

                Ma ex abundantia cordis os loquitur D. Bosco nelle sue prediche, fervorini, conversazioni, conferenze sapeva insinuare nei cuori l'amore alla regina delle virtù. Parlava continuamente del tesoro intrinseco inestimabile che dessa è; dipingeva la bellezza di un'anima casta e le gioie che gode, i premii che il Signore le ha preparato in terra ed in cielo, e come nel paradiso stesso segua l'Agnello, ovunque vada. Le sue parole producevano un effetto mirabile in quelli che l'udivano, sicchè rimanevano invaghiti della purità; parole ancora oggi ricordate con affetto da Villa Giovanni e da mille altri. D. Bosco non pareva un uomo che parlasse, ma un angelo, e gli uditori andavano poi ripetendo: -Solamente chi è puro e casto come gli angioli, saprebbe parlare della purità in tal modo. - Elettrizzava D. Bosco i suoi giovani e sovente, eziandio in ricreazione con improvvise esclamazioni: Vorrei che foste tanti S. Luigi! - Manteniamo le nostre [163] promesse! Spero che l'infinita misericordia di Dio farà che ci possiamo un giorno trovare tutti colla candida stola nella beata eternità!  - E se qualche meticoloso aveva dei dubbi, esclamava: Là, là, ricórdati: Omnia possum in eo qui me confortat. E in modo speciale inculcava a tutti con istanza la divozione alla Vergine Santissima, dicendo d'invocarla nei pericoli colla giaculatoria: Maria, aiutatemi; anzi suggeriva loro di scrivere sui libri e sui quaderni tale giaculatoria con queste iniziali: M. A. E li premuniva contro i pericoli da evitarsi.

                Oltre i mezzi spirituali e molteplici che già conosciamo, insisteva sulla necessità di stare sempre occupati in qualche cosa, in ricreazione essere sempre in moto, nei divertimenti non mettersi mai le mani addosso, non camminare a braccetto o tenersi per mano o stringere quella del compagno. Non tollerava che i giovani fra loro fossero sgarbati o si abbracciassero anche solo per ischerzo. Rigorosamente, ma con prudenza, inibiva le amicizie particolari, per quanto sulle prime non presentassero pericolo di sorta, ed in ciò era inesorabile. Non solo esecrava il turpiloquio, ma non poteva soffrire che si pronunciassero parole plateali, che potessero suscitare un pensiero, un sentimento men che onesto, ed esclamava: - Certe parole nec nominentur in vobis. - Li esortava eziandio a regolare ogni azione in modo da allontanare ogni menomo sospetto sulla loro condotta.

                Nelle sue esortazioni però D. Bosco parlava della purità più che non del vizio contrario, e di questo faceva cenno con termini riservati e prudenti. Evitava di pronunciare i nomi di tal peccato; alle tentazioni non dava altro epiteto che quello di cattive; una caduta appellava disgrazia. Per contrario lo stesso vocabolo castità non gli [164] sembrava abbastanza soddisfacente; vi sostituiva quello di purità, che presentava un senso più esteso e secondo lui meno risentito dalla fantasia. Nei giovani incuteva il massimo orrore per questo vizio non tanto la sua parola, quanto un tutto insieme di grazia divina, di persuasione, di affetto, di spavento, che dal cuore di D. Bosco si riversava nei loro cuori. Ed egli esclamava frequentemente per incoraggiarli a combattere il demonio: Momentaneum quod cruciat, aeternum quod delectat. E piangeva dal dolore al pensare che tanta gioventù andava in rovina per il peccato della disonestà. Anche in pubblico ei pianse parlando con grande calore in proposito su questo argomento: -Piuttosto, egli disse, che si commettano di questi peccati nell'Oratorio, è, meglio chiudere la casa. Tali colpe portano la maledizione di Dio anche sulle intiere nazioni. - E i giovani andavano a riposo commossi e colla testa bassa, risoluti di custodire gelosamente il loro cuore per Dio.

                “Beati quei giorni, esclamò D. Bongioanni, in cui un piccolo neo riguardo ai costumi, ci commoveva al pianto e ci spingeva con insistenza ai piedi del confessore, sì grande era l'effetto prodotto in noi dalle parole di Don Bosco”.

                E soggiungeva D. Reviglio, che visse per tanti anni in Valdocco: - Si può asserire con giuramento che nell'Oratorio regnava tale ambiente di purezza, che aveva dello straordinario.

                Nello stesso tempo D. Bosco formava i chierici assistenti simili a sè. Li avvertiva, se scorgeva che usassero cogli alunni troppa famigliarità. Non permetteva che li tenessero per mano, che li introducessero nelle loro celle, e che nelle camerate si portassero tra l'uno e l'altro [165] letto, tolto il caso di grave necessità. Ogni trattenimento, conversazione esigeva che si facesse alla presenza di tutti, e per nessun pretesto mai in luoghi appartati. Li avvertiva che in ogni loro gesto, scritto, parola nulla vi fosse che, anche da lungi, mettesse in dubbio la loro virtù. Inculcava loro di custodire con severità i propri sensi e, mandandoli a servire nelle sacre funzioni negli educatorii, li avvisava di lasciare gli occhi a casa. Questa mortificazione, ei diceva, è una gran custodia della purità. - D. Bosco un giorno era uscito di casa con un giovanotto, il quale giunto in una piazza, essendo distratto, fissava con insistenza l'architrave di una finestra. A un tratto fu scosso dalla voce di D. Bosco: - Che cosa guardi? - Il giovanotto si affrettò a dargli una risposta soddisfacente, e D. Bosco rasserenato, quasi riflettendo, disse sottovoce: - Pepigi foedus cum oculis meis. - A questo fine cercava d'impedire che le giovani signore venissero a consultarlo nell'Oratorio, e fissava in altri luoghi l'incontro da esse desiderato. Ne abbiamo prova certa in varie sue letterine, fra le quali una in data da Torino 13 luglio 1854.

 

                               Signora contessina,

 

                Sono giunto a S. Francesco quando non era più a tempo di renderla avvertita. Abbia la bontà di dire a Maman che domani dalle 3 alle 5 pomeridiane sarò al Convitto; e non avranno che farmi chiamare dal portinaio.

                Dio La benedica affinchè colla pratica della virtù possa formare la consolazione degli ottimi suoi genitori.

 

Obbl.mo

Sac. Bosco Giovanni [166]

 

                Rigorosissimo poi quando eragli chiesto consiglio intorno alla vocazione ecclesiastica, soleva dire che non si consigliassero o permettessero mai le sacre ordinazioni a quelli che non fossero fermi nella pratica dell'angelica virtù.

                Nell'esortare i chierici a prendersi cura affettuosa dei giovani, recava loro l'esempio di N. S. Gesù Cristo; ma pur temendo che taluno non sapesse valersene in bene, non citava in pubblico per intero, o senza commenti quei passi del vangelo nei quali si dice che il Divin Salvatore stringeva al seno i fanciulli, perchè, soggiungeva, ciò che Dio faceva, non potevano farlo essi, senza pericolo. Non cessava di raccomandare la continua vigilanza, e che allontanassero dalle mani e dagli occhi dei giovani qualunque cosa potesse far nascere in loro qualche mala curiosità, o insegnare qualche malizia, dicendo: - Ricordatevi: De moribus! ecco tutto; salvate la moralità. Tollerate tutto, vivacità, insolenza, sbadataggine, ma non l'offesa di Dio e in modo particolare il vizio contrario alla purità. State bene in guardia su questo, e mettete tutta l'attenzione vostra sui giovani a voi affidati.

                Ed ecco D. Bosco stesso in mezzo ai fanciulli maestro e modello nelle parole e nelle opere ai preti, ai chierici e a tutti i suoi coadiutori; e la sua purità brillare così rigorosa, delicata e pubblica, da non dar mai luogo al più lieve dubbio. Il suo amore per i fanciulli, e specialmente per i più poveri ed abbandonati come più bisognosi di sue cure, perchè in maggiore pericolo di perdersi, si manifestò sempre tenerissimo, grande, forte; ma tutto spirituale, veramente casto. Benchè cercasse in tanti modi di manifestarlo, non si permetteva nessun atto troppo sensibile e neppure stringeva lungamente le mani di un [167] giovane nelle sue. Egli dava un'idea perfetta della presenza del Salvatore in mezzo ai giovanetti. La virtù della purità era come una sopravveste che lo copriva da capo a piedi; e quindi i giovani volentieri gli si avvicinavano, gli avevano illimitata confidenza, conoscendo come egli fosse innocente e puro. E il Teol. Murialdo Leonardo aggiungeva come conseguenza, che tale carità che Don Bosco aveva verso i giovani faceva sì che essi pure lo riamassero di sincero affetto ed in tal grado, che non si saprebbe trovare altro esempio da mettere in confronto.

                Il Can. Ballesio presta la sua testimonianza: “Sempre in mezzo ai giovani circondato da loro e tirato alle volte dai medesimi da una parte e dall'altra, nelle ricreazioni, e i giuochi di mano e di corsa, dimostrava una semplice, disinvolta e pudicissima sveltezza; e non solo le sue parole, ma anche la sua presenza e molto più un suo sguardo, un sorriso, ispiravano amore a questa virtù, che era ai nostri occhi uno dei più splendidi ornamenti del servo di Dio e pel quale egli era tanto per noi venerando ed amabile. Sovente, quando non giuocava, teneva un gran, numero di giovani avvinti per una mano colle sue dita, discorrendo ad un tempo di cose utili e morali. Sempre molto riservato, di quando in quando, per dare qualche suggerimento ad alcuno di essi piegava alquanto il di lui capo, per poter dirgli decorosamente la sua parola nell'orecchio, sicchè i vicini non l'udissero. Ed ora consigliava una di quelle giaculatorie che egli stesso ripeteva frequentemente, ed ora si raccomandava per una preghiera. Lasciavasi baciar la mano, e di quest'atto servivasi, per intrattenere qualche giovane a cui avesse da indirizzare qualche ammonimento o incoraggiamento. Ma sia allora che poi, usciti i giovani dall'Oratorio ed anche i [168] sacerdoti, gli baciavano volentieri la mano, e questo lo facevano per un misto di stima e di profonda riverenza come se baciassero una reliquia”.

                D. Turchi Giovanni afferma: “Quando eravamo intorno a lui, la stessa sua presenza aveva tanta attrattiva per la virtù della purità che non si era neppur più capaci ad avere un pensiero meno che onesto; e questa stessa impressione la sentivano pure i miei compagni”. Mons. Cagliero faceva eziandio osservare: “Quando D. Bosco ci confessava era tale la compostezza della persona ed il candore dell'anima sua, che ci sentivamo compresi di santo e religioso contegno e come in un ambiente di paradiso. Come egli sapeva con poche parole ispirare ardente amore per la castità!”

                Diremo ancora che non fu visto mai usare verso dei giovani quelle carezze che altri usa onestamente. Per dare come un premio ed un segno della sua benevolenza, si limitava a mettere loro per un istante la mano sul capo o sopra una spalla, o sulla guancia appena appena sfiorandola colle dita. “E in queste carezze che usava con noi, scrisse il Teol. Reviglio, vi era un non so che dì così puro, di così castigato, di così paterno, che pareva infonderci lo spirito della sua castità, a segno che noi ci sentivamo rapiti e maggiormente risoluti a praticare la bella virtù”. Da notarsi però che quando un alunno andava a parlargli solo in camera, lo trattavo con un riserbo ancor maggiore; benchè sempre affettuoso nelle parole non si permetteva nessuno dei segni sopraddetti, benchè minimi, di famigliarità.

                Così D. Bosco con quel suo atteggiamento prudente, ingenuo e santo, fin dal principio incominciò e continuò poi fino al suo ultimo respiro a infondere amore per la [169] purità e quindi per la verginità nei giovanetti. Sebbene questi fossero un'accolta di gente diversa e di ogni condizione e paese, ne furono così compresi, e la tenevano in tale pregio, che lo splendore di così bella virtù spiccava in particolar modo nella maggior parte di essi. Si rilevava nelle loro parole, nello sguardo, nel contegno della loro persona. È  indicibile l'orrore che avevano per il peccato. Di qui quel fondo di pietà cara, soda e vera che era la caratteristica dell'Oratorio: pietà che era quasi superiore alla loro età, ed incredibile ai profani. Noi li abbiamo visti mille volte in chiesa e la loro fisonomia presentò sempre un aspetto così amabile da incantare, e lo sguardo un tale fuoco d'inestimabile candore, che nessuna penna può descrivere. È  il riflesso del volto del Signore: Beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt.

                Alcuni di questi giovani, senza che essi nulla sapessero, erano da D. Bosco condotti in certe grandi famiglie della città per edificazione dei loro figliuoli, e talvolta per il medesimo fine signori e patrizi di Torino conducevano i loro figliuoli alle funzioni dell'Oratorio.

                La ragione di tanta carità e purità nei giovanetti ce la disse un esimio vecchio professore, già alunno nell'Oratorio: “Giudicando adesso le cose che io vidi per dieci e più anni nell'Oratorio, conchiudo che nessun altro sacerdote, di molti che ne conosco, vidi ardere di tanto puro amore di Dio come D. Bosco, e che tanto si sia, adoperato perchè tutti lo amassero”.

 

 

CAPO XVII. Si prepara la legge sui beni ecclesiastici e di soppressione dei Conventi - Le minacce delle tavole di fondazione dell'Abbazia di Altacomba - Le due regine benefattrici dell'Oralorio - Due sogni: grandi funerali in corte Avvisi non accolti dal Re - La legge è presentata alla camera dei Deputati - D. Bosco si prepara a nuove predicazioni.

 

                AL candore e alla pace che regnava nel cuore dei giusto, facevano singolar contrasto le ree passioni di molti, che perfidiavano nel cagionare sempre nuovi danni ed offese al clero, agognando a spogliarlo delle sue proprietà e diritti, per togliergli, fosse loro dato, ogni influenza nelle popolazioni. Erano trame di ribellione contro la stessa Divinità.

                La Chiesa Cattolica, società spirituale perfettissima e pel suo fine supremo indipendente da ogni terrena giurisdizione, essendo composta di uomini, non può fare a meno di mezzi materiali, cioè edifizii per le sue radunanze, templi per il culto, seminarii per gli alunni del santuario, episcopii per i suoi pastori, conventi e monasteri per la pratica dei consigli evangelici e di altri beni di varia natura, per il sostentamento de' suoi ministri, per le mille sue opere di carità, e per tutti gli altri obblighi a lei [171] imposti dalla sua divina missione. Di questi beni avrà sempre a valersene, dovendo Ella restare sulla terra fino alla consumazione dei secoli; e di qui il suo diritto naturale sopra possessioni permanenti e durature. Quindi tale diritto in nessun modo nasce e dipende dall'autorità civile, ma sibbene dalla sola autorità di Gesù Cristo, il quale espressamente glielo concesse, come effetto e conseguenza del dominio che Egli aveva ed ha sovra tutto il creato. Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra: euntes ergo docete omnes gentes[6].

                Ma i settari, nel loro programma di odio contro la Chiesa, dopo averle contestato il potere legislativo, esecutivo, giudiziario, congiuravano a negarle il diritto di possedere beni proprii ed ogni sovranità territoriale. Procedevano però con moltasca ltrezza per attuare, a poco a poco, interamente i loro disegni. Alcuni consigli Provinciali da essi ispirati avevano già fatti voti per l'incameramento dei beni ecclesiastici; senonchè il Governo nel 1852 si pronunciava solennemente contrario a tale confisca. Da quel punto però si erano incominciate a promuovere petizioni a questo fine, e una Giunta incaricata presentava alle Camere quella di cento Consigli Comunali, di trentadue consigli delegati e di 20.213 cittadini, che domandavano l'incameramento dei beni ecclesiastici, la riduzione dei Vescovadi, l'abolizione dei conventi, e dell'esenzione di tutti i chierici dal servizio militare. Quella Giunta dichiaravasi favorevole a tali istanze; facendo notare, i beni della Chiesa, compresi quelli dei beneficii semplici, delle confraternite, dei legati e delle opere pie, [172] ascendere a 15 milioni di rendita, con un capitale di circa 380 milioni; e che questa somma sarebbe stata un gran ristoro per le finanze dello Stato.

                A questi armeggi i Vescovi pubblicarono utilissime istruzioni, dimostrando che tale confisca era una gravissima ingiustizia, un vero sacrilegio. La stessa legge fondamentale dello Stato riconosceva alla Chiesa: il diritto di proprietà. L'ART. 2 diceva: “Il Re si gloria di essere protettore della Chiesa e di promuovere l'osservanza delle leggi di essa nelle materie che alla potestà della medesima, appartengono”. E l'ART. 25 aggiungeva: “La Chiesa, i Comuni, i pubblici stabilimenti, le società autorizzate dal Re, ed altri corpi morali si considerano come altrettante persone e godono dei diritti civili sotto le modificazioni determinate dalle leggi”[7]. - Eziandio lo Statuto dichiarava: garantita la libertà individuale, il domicilio inviolabile, e inviolabili pure le proprietà senza alcuna eccezione.

                Ma tutte queste ragioni furono messe in non cale. I conventi tolti ai religiosi, col pretesto del coléra, non erano stati restituiti. Da mille indizii avevasi la certezza essere imminente la legge d'incameramento, e i Cattolici Piemontesi vivevano in gravi apprensioni.

                D. Bosco sentivasi intanto ispirato e spinto a cercar di impedire i nuovi attentati contro la Chiesa. Siamo per esporre un fatto memorabile, che getta nuova luce sulla missione che Dio aveva affidata al suo fedel servo. Noi lo racconteremo come lo abbiamo udito dalle labbra di, D. Angelo Savio, il quale non solo ne fu testimonio con [173] altri molti, ma attore principale. Non ci fidiamo tuttavia della sola nostra memoria, ma consultiamo le note da lui corrette, che noi abbiamo scritte sotto il suo dettato.

                D. Bosco adunque, fin da quando erasi incominciato a parlare della soppressione degli ordini religiosi, aveva narrato ai giovani, in un discorsetto della sera, le maledizioni che stavano scritte dagli antichi Duchi di Savoia nelle carte di fondazione dell'Abbazia d'Altacomba contro quei loro discendenti che avessero osato distruggerla od usurparne i beni. Il giovane Savio Angelo nell'udire quella serie di orrende minacce concepì un'idea ardita. D. Bosco, senza dargli consiglio, gliela aveva destramente insinuata; e bastò. Il giovane cercò e trovò copia di quella carta di fondazione, trascrisse tutte le maledizioni in un foglio, si firmò con nome, cognome e qualità, chiuse il suo foglio in una busta e lo indirizzò al Re.

                Vittorio Emanuele, letto un simile documento, intese il motivo di quel foglio a lui indirizzato, e mandò a chiamare il Marchese Domenico Fassati, col quale spesse volte s'intratteneva con grande famigliarità. Questo signore scendeva da una delle più nobili famiglie del Piemonte. Fedele al suo Re, lo aveva servito da prode in pace ed in guerra, e si era segnalato sui campi Lombardi nel 1848 e 49. Pel suo valore militare era insignito del grado di maggiore Comandante delle guardie del corpo, che formava come l'antica coorte dei pretoriani. Era congiunto in matrimonio con Maria De Maistre, figlia dell'illustre Rodolfo e degna nipote di quel Giuseppe che fu diplomatico accorto ed abilissimo, filosofo insigne e profondo, scrittore forbito e sapiente, della cui fama è tuttora ripieno il mondo; donna di sì rare qualità di mente e dì cuore, che la Regina Maria Adelaide, sposa [174] di Vittorio Emanuele II, l'aveva scelta per sua Dama di corte, anzi per sua prima amica ed intima confidente.

                Ora questo uomo di sì alti meriti e di così splendide e rare attinenze era ammiratore e sostenitore dell'Opera di D. Bosco, e sovente veniva all'Oratorio come se vi ospitasse una sua famiglia e vi si portava ad istruire i giovanetti interni ed esterni.

                Il Re adunque avuto a sè il Marchese gli presentò confidenzialmente quella copia dell'Atto di fondazione d'Altacomba e si lamentò con lui di una sgarbatezza, come ei la chiamava, dalla quale sentivasi offeso. Ma chi poteva essere lo scrittore di quel foglio? Il Marchese Fassati, letto il nome di Savio Angelo, intese subito chi fosse quegli che avevalo scritto; tuttavia essendo uomo prudente, non ne fece parola, ma venne a far visita a Don Bosco. Quivi incominciò a lagnarsi con lui dell'ardimento di Savio Angelo; gli fece osservare come fosse riprovevole trattare il Sovrano con tanta insolenza, e quindi il giovane meritarsi una severa riprensione. D. Bosco ascoltò le recriminazioni piuttosto vive del Marchese, suo buon amico; ma non approvò il suggerimento dì far rimproveri allo scrittore di quel foglio; e gli rispose: - La verità in certi casi non si può e non si deve nascondere. Anzi il giovane Savio ha fatto molto bene. Quella lettera non è una sua mancanza di rispetto all'augusta persona del Re, ma indica invece l'amore che egli porta alla famiglia reale. - Il Marchese partì poco soddisfatto dell'esito della sua visita; egli non prevedeva quali avvenimenti stavano per isvolgersi e come quella legge ne fosse il doloroso principio.

                In Corte intanto si credette per un po' di tempo che suggeritore o autore di quel foglio fosse il Canonico [175] Anglesio, il Padre Superiore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, perchè andava dicendo co' suoi famigliari, coi medici e con altri personaggi della città: - A bocce ferme! a bocce ferme, vedremo come certe stelle si ecclisseranno, e certe birbonate a quale esito riusciranno.

                Non tardossi però a sospettare da qual parte venisse simile avviso, sospetto che divenne ben presto certezza.

                Ma se D. Bosco in primo luogo intendeva prendere la difesa dei diritti del Signore, nello stesso tempo desiderava eziandio dar testimonianza di affetto e di riconoscenza verso Casa Savoia, dalla quale i suoi giovanetti avevano ricevute molte beneficenze. Specialmente le regine Maria Teresa e Maria Adelaide erano tutte viscere di carità per i poverelli. Maria Teresa, vedova di Carlo, Alberto e madre del re Vittorio Emanuele II, mandava sovente a D. Bosco non comuni limosine, ora per mano del Sig. Teologo Roberto Murialdo, ora per mezzo del Cav. Sangiusto. Una volta inviò all'Oratorio ben mille lire in suffragio dell'anima dell'augusto suo consorte. In un'altra circostanza, trovandosi D. Bosco in grave bisogno, le scrisse domandandole un qualsiasi soccorso, e la santa donna al domani per tempo gli faceva tenere altre lire mille. In diverse occasioni ella fu per l'Oratoria l'angelo della Provvidenza, e l'ultimo sussidio fu da Lei elargito sul finire del 1854. Riportiamo la relativa lettera.

 

                Intendenza particolare di S. M. la Regina vedova Maria Teresa.

 

                Moncalieri, addì 19 novembre 1854.

 

                               Molto R. Signore Padre Oss.mo,

 

                Nel novero delle elargizioni assegnate dalla pia munificenza di S. M. la regina Maria Teresa, mia Augusta Signora, in contemplazione [176] della presentanea ricorrenza del santo Giubileo, avendo eziandio voluto che venissero compresi alcuni corpi morali e stabilimenti di pubblica beneficenza ed istruzione di questa Capitale particolarmente raccomandati dal proprio instituto, mi ha perciò ordinato di far mettere a di lei disposizione la somma di lire quattrocento per essere erogata per la concorrente di lire 200 in aiuto alle spese di mantenimento dell'Oratorio e ricovero di giovani pericolanti in Valdocco, e per altra simile somma in aiuto alle spese delle scuole festive negli Oratorii di S. Luigi a Porta Nuova, e dell'Angelo Custode a Porta di Po, in quel modo che Ella crederà più conveniente.

                Nel porgere a di Lei notizia questa benefica disposizione della M. S. onde possa disporre pel ritiramento di detta somma dall'ufficio dell'Intendenza particolare, mediante analoga ricevuta di scarico, profitto dell'incontro per dichiararmi con sensi della più sincera divozione

                Di V. S. Reverenda

 

Il Proc. Gen. della M. S.

Sangiusto di  San Lorenzo.

 

                D. Bosco adunque anelava a dissipare una minacciosa nube che andava sempre più oscurandosi sulla Real Casa.

                Egli in una notte verso il fine del mese di novembre, aveva fatto un sogno. Gli era parso di trovarsi ove è il portico centrale dell'Oratorio, costrutto allora solo per metà, presso alla pompa idraulica fissa al muro della casetta Pinardi. Era circondato da preti e da chierici: ad un tratto vide avanzarsi in mezzo al cortile un valletto di Corte, col suo rosso uniforme, il quale, con passo affrettato venuto alla sua presenza, gli parve che gridasse:

                - Grande notizia!

                 - E quale? gli chiese D. Bosco.

                 - Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte! [177]

                D. Bosco a questa improvvisa comparsa, a questo grido, restò come di sasso, e il valletto ripetè: - Gran funerale in Corte! -D. Bosco allora voleva domandargli spiegazione di questo suo ferale annunzio, ma quegli erasi dileguato. D. Bosco, risvegliatosi, era come fuori di sè e, inteso il mistero di quell'apparizione, prese la penna e preparò subito una lettera per Vittorio Emanuele, palesando quanto gli era stato annunziato, e raccontando semplicemente il sogno.

                Dopo il mezzogiorno egli entrava in refettorio pel pranzo, e molto in ritardo: i giovani ricordano ancora, come essendo in quell'anno il freddo acutissimo, Don Bosco avesse le mani in guanti vecchi e sdrusciti, recando un fascio di lettere. Si formò crocchio intorno a lui. Erano presenti D. Alasonatti, Savio Angelo, Cagliero, Francesia, Turchi Giovanni, Reviglio, Rua, Anfossi, Buzzetti, Enria, Tomatis ed altri, la maggior parte chierici. D. Bosco prese a dir loro sorridendo: - Stamane, miei cari, ho scritto tre lettere a personaggi di grande importanza: al Papa, al Re ed al carnefice. - Fu uno scoppio di risa generale all'udire accoppiati i nomi di questi tre personaggi. In quanto al carnefice però non fece loro meraviglia, conoscendo come D. Bosco avesse amicizia con i custodi delle carceri, e come quest'uomo fosse veramente un buon cristiano. Egli esercitava: la carità coi poveri il meglio che poteva, scriveva le suppliche che i popolani volevano indirizzare al Re ed alle Autorità; ma soffriva gran dolore avendo un suo figlio dovuto ritirarsi dalle scuole pubbliche, respinto dal ribrezzo che di lui provavano i compagni, quando conobbero l'ufficio di suo padre.

                In quanto al Papa non se ne ignoravano le corrispondenze per lettera, Quindi ciò che aguzzava la curiosità [178] loro, era di conoscere ciò che D. Bosco aveva scritto al Re, tanto più che sapevano cosa egli pensasse intorno all'usurpazione dei beni ecclesiastici. Don Bosco non li tenne in indugio e loro palesò quanto aveva scritto pel Re, perchè non permettesse la presentazione dell'infausta legge. Quindi narrò il sogno, concludendo: Questo sogno mi ha fatto star male e mi ha affaticato, molto. - Egli era sopra pensiero ed esclamava a quando, a quando: - Chi sa?.... chi sa?.... preghiamo!

                Sorpresi i chierici presero allora a discorrere, interrogandosi a vicenda se avessero sentito a dire che nel palazzo reale vi fosse qualche nobile signore infermo; ma tutti conchiusero, non constare in nessun modo questo. D. Bosco intanto, chiamato presso di sè il Ch. Angelo Savio, gli consegnò la lettera: - Copia, gli disse, ed annunzia al Re: Grande funerale in Corte! - E il Ch. Savio scrisse. Ma il Re, come D. Bosco venne a sapere dai suoi confidenti impiegati a palazzo, lesse con indifferenza quel foglio e non ne tenne conto.

                Erano passati cinque giorni da questo sogno, e Don Bosco, dormendo, nella notte, sognò di bel nuovo. Gli pareva di essere in sua camera a tavolino, scrivendo; quando udì lo scalpitare di un cavallo in cortile. Ad un tratto vede spalancarsi la porta ed apparire il valletto nella sua rossa livrea, che entrato fino a metà della camera gridò:

                Annunzia: non grati funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte! -E ripetè queste parole due volte. Quindi ritirossi con passo rapido e chiuse la porta dietro di sè. D. Bosco voleva sapere, voleva interrogarlo, voleva chiedergli, spiegazione; quindi si alzò da, tavolino, corse sul balcone e vide il: valletto nel cortile che saliva a cavallo. Lo, chiamò, chiese perchè fosse venuto a ripetergli quell'annunzio [179]; ma il valletto gridando: - Grandi funerali in Corte! - si dileguò. Venuta l'alba, D. Bosco stesso indirizzò al Re un'altra lettera, nella quale raccontavagli il secondo sogno e concludeva dicendo a sua Maestà “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre la pregava di impedire a qualunque costo quella legge”.

                Alla sera dopo cena D. Bosco esclamò in mezzo a' suoi chierici: - Sapete che ho da dirvi una cosa ancor più strana, che quella dell'altro giorno? - E raccontò ciò che aveva visto nella notte. Allora i chierici, più stupiti di prima, si domandavano che cosa indicassero questi annunzi di morte; e si può immaginare quale fosse la loro ansietà nell'attendere come si sarebbero verificate queste predizioni.

                Al chierico Cagliero e ad alcuni altri svelava intanto apertamente essere, quelle, minacce di castighi che il Signore faceva sentire a chi più danni e mali già aveva arrecati alla Chiesa ed altri stava preparandone. In quei giorni egli era addoloratissimo e ripeteva frequentemente: - Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie. - Tali cose diceva a' suoi alunni per impegnarli a pregare per il Re, e per intercedere dalla misericordia del Signore che impedisse la dispersione eli tanti religiosi e la perdita di tante vocazioni.

                Intanto il Re aveva confidate quelle lettere al Marchese Fassati, che avendole lette, venne all'Oratorio e diceva a D. Bosco: - Oh! le pare la maniera questa di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re ne è rimasto più che impressionato e turbato!.... Anzi montò sulle furie.

                E D. Bosco gli rispose - Ma se ciò che fu scritto è verità? Mi rincresce di aver cagionato questi disturbi al [180] mio Sovrano; ma insomma, si tratta del suo bene e di quello della Chiesa.

                Gli avvisi di D. Bosco non furono ascoltati. Il 28 novembre 1854 il Ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presenta va ai deputati un disegno di legge per la soppressione dei conventi. Il Conte Camillo di Cavour, Ministro delle finanze, era risoluto di farlo approvare a qualunque costo. Questi signori stabilivano come principio incontrastato e incontrastabile, che fuori del gran corpo civile, non v'ha e non può darsi società a lui superiore e da lui indipendente; che lo Stato è tutto, e che perciò nessun ente morale, e neppure la Chiesa Cattolica può sussistere giuridicamente senza il consenso e riconoscimento dell'autorità civile. Perciò tale autorità non riconoscendo nella Chiesa universale il dominio dei beni ecclesiastici, e attribuendo questo dominio a ciascun ente delle corporazioni religiose, sostenevano essere queste creazione della sovranità, civile e la loro esistenza modificarsi od estinguersi per volontà della sovranità medesima, e lo Stato, erede d'ogni personalità civile che non abbia successioni, divenire solo ed assoluto proprietario di tutti i loro beni quando fossero soppresse. Errore grossolano perchè tali patrimonii, per qualsivoglia causa una Congregazione Religiosa cessasse d'esistere, non rimanevano senza padroni, dovendo essere devoluti alla Chiesa di G. C., rappresentata dal Sommo Pontefice, per quanto gli statolatri perfidiassero a negarlo.

                L'annunzio di siffatta presentazione cagionò vivo dolore ai buoni cattolici, vivissimo a D. Bosco. Egli, per ottemperare ai voleri del Cielo, aveva replicatamente ammonito il Sovrano, ed era quello un atto pericoloso, del quale non potevansi prevedere tutte le conseguenze. Un altro [181] uomo, per quanto d'animo freddo e risoluto, in mezzo a tanti avversarii, non avrebbe potuto a meno che vivere in continua apprensione. D. Bosco invece, sempre imperturbato, attingendo vigore nel Cuore SS. di Gesù in Sacramento e nell'aiuto della celeste Madre, mentre preparavasi alle sante esultanze del Natale, disponevasi ad annunziare la parola di Dio alle popolazioni.

                Scriveva pertanto al suo antico maestro il Teol. Appendino, Amministratore parrocchiale a Villastellone.

 

                Torino, 21 Dicembre 1854.

 

                               Car.mo Sig. Teologo,

 

                Per mia norma avrei bisogno che V. S. car.ma mi dicesse in qual tempo cominci e finisca l'ottavario che mi sono assunto di fare a Villastellone, e ciò per fissare il tempo ad esercizii spirituali in altro luogo.

                Intanto buone feste a Lei, alla signora sua sorella e copiose benedizioni del Signore mentre con rispetto e con gratitudine mi dico

                D. V. S. Car.ma

 

Obbl.mo allievo ed amico

Sac. Bosco Gio.

 

 

CAPO XVIII. 1855 -Discussione nella Camera dei Deputati sulla legge d'incameramento - Morte della Regina Maria Teresa Avviso al Re - Morte della Regina Maria Adelaide Testimonianza della predizione di queste due morti Una carità generosa e prudente guadagna a D. Bosco Potenti protettori - Giovani raccomandali dai Ministri e dalla Casa Reale - Prediche a Villastellone - Anche viaggiando D. Bosco attira anime a Dio.

 

                INCOMINCIAMO l'anno 1855, e proseguendo ad esaminare la vita di D. Bosco, passeremo di meraviglia in meraviglia. Il professore sacerdote D. Turchi Giovanni, spettatore giudizioso dei fatti nei primi tre lustri dell'Oratorio, e alunno, volle ricordarne alcune in varie sue pagine, loro premettendo un'osservazione, eco della testimonianza de' suoi compagni. “Quando Dio, così egli esprimevasi, è largo de' suoi doni verso qualche uomo, e lo eleva al grado della santità, ciò fa principalmente per manifestare la sua gloria; la quale, se risplende mirabilmente nella vita dei Santi finchè sono in vita, non è a dire in quale immensa proporzione cresca, allorquando, passando questi agli eterni gaudii, sogliono i posteri [183] leggerne scritte le memorabili e sante gesta, lodare Dio, che di ogni dono è dispensatore, e calcare le vie dai suoi servi fedeli battute; per cui camminando si migliorano gli uomini, si moltiplicano i santi, e si riscuotono i popoli alla ricerca del vero bene. Laonde il dovere che a tutti incombe di promuovere la gloria di Dio, quello è che mi spinge a dar di piglio alla penna, e registrare alla meglio che mi fia possibile quelle cose, che mi paion più luminose e degne di menzione intorno alla vita di D. Giov. Bosco, mio venerato superiore, acciocchè non vadan sepolte nell'oblio tante azioni degne non so se più d'essere ammirate o imitate”.

                Noi facendo nostra questa dichiarazione, ripigliamo il corso degli avvenimenti.

                Il progetto di legge contro i conventi non era stato ancor discusso nella Camera dei Deputati; tuttavia se ne era già discorso in due sedute in quella cioè del 27 dicembre e del 2 gennaio. All'Arcivescovo di Genova ed ai Vescovi dì Annecy e di Morienna, che erano andati a Roma, il Ministero aveva caldamente raccomandato, se la cosa fosse parsa loro possibile, di procurare pratiche colla S. Sede, per la cessione allo Stato di beni ecclesiastici. Ma erano lustre. Si voleva ad ogni costo conculcare i diritti della Chiesa. Il S. Padre erasi mostrato disposto a venire in aiuto delle finanze del Piemonte, e poneva condizioni molto ragionevoli a questa concessione. Il Governo però per tutta risposta aveva mandato a Roma una copia della proposta di legge: il che fu come rompere evidentemente ogni pratica per tutta la durata del presente Ministero. Intanto da tutte parti giungevano petizioni al Parlamento, perchè rigettasse la legge. Due indirizzi dell'Episcopato del regno, per dignità e forza di ragionamento [184] degni veramente dei personaggi che li sottoscrissero, furono presentati alle Camere.

                I Cattolici, che potevano avere influenza nella cosa pubblica, si andavano preparando alla lotta. A quando a quando alla sera, personaggi fra i più segnalati di Torino andavano al Convitto Ecclesiastico e si intrattenevano a conferenza con D. Cafasso, durante la cena dei convittori. Venivano a lui per rassodare le loro convinzioni, armarsi di coraggio, e ricevere da' suoi lumi un indirizzo esatto a fine di evitare seduzioni ed inganni. D. Cafasso, stando sempre nel giusto termine, sapeva indicare con precisione il da farsi, ed a tutti raccomandava l'unione, l'obbedienza, il rispetto al Papa e la fermezza nell'adempimento dei doveri di buon cristiano. Erano, tutti costoro, amici di D. Bosco; fra questi il Marchese Fassati, il quale conosceva ciò che D. Bosco metteva in opera in quei giorni per la buona causa, e certamente non senza intesa con D. Cafasso. Anche il Conte Clemente Solaro della Margherita veniva ogni settimana da quel santo Direttore per attingere la fortezza d'animo colla quale poi sosteneva i diritti della Chiesa nella Camera Subalpina.

                Intanto il 9 gennaio 1855 nella Camera dei Deputati si poneva mano alla discussione sull'incameramento dei beni ecclesiastici. Sulle bocche dei liberali risuonarono queste pellegrine frasi: - La podestà civile ha diritto d'ingerirsi nella proprietà ecclesiastica, quando con quella non, si ottiene più il suo fine. La Chiesa non ha diritto di possedere. Sui beni della Chiesa han diritto i poveri, e quando la nazione è povera doversi questa rifare su di essi. Le comunità religiose devono riconoscere la personalità civile unicamente dalla sovranità del paese cui appartengono. - Il Conte della Margherita confutò con eloquenza e coraggio [185] senza pari tutti quegli spropositi, e non temè di qualificare la proposta di Rattazzi per un sacrilego latrocinio, e conchiuse il suo caldo discorso presagendo guai al Piemonte, se la legge fosse approvata. Altri deputati e il giornalismo cattolico, l'Armonia di Torino e il Cattolico di Genova, combattevano valorosamente quel progetto.

                Le cose trovavansi in questi termini quando un doloroso avvenimento sopraggiungeva ad interrompere la discussione. Il 5 gennaio la Regina Madre Maria Teresa quasi improvvisamente erasi ammalata, e benchè nella notte fosse crucciata da una gran sete non bevette per potersi comunicare il giorno dell'Epifania; ma non si potè alzare. Il Re Vittorio Emanuele scriveva al generale Alfonso La Marmora: “Mia madre e mia moglie non fanno che ripetermi che esse muoiono di dispiacere per causa mia”[8].

            L'augusta inferma moriva il 12 gennaio poco dopo il pomeriggio, in età di cinquantaquattro anni; la Camera per significare al Re la sua mestizia sospendeva i suoi lavori. Grande sventura fu pel Piemonte la perdita di Maria Teresa, che spandeva quotidianamente sugli infelici beneficenze senza numero. Il lutto fu universale, come universali erano le benedizioni che da ogni parte si mandavano alla sua cara memoria.

                Mentre si chiudeva quel feretro, giungeva all'indirizzo del Re un'altra lettera misteriosa, che diceva senza nominare alcuno: “Persona illuminata ab alto ha detto: Apri l'occhio: è già morto uno: se la legge passa, accadranno gravi disgrazie nella tua famiglia. Questo non è che il [186] preludio dei mali. Erunt mala super mala in domo tua. Se non recedi, aprirai un abisso che non potrai scandagliare”.

                Il Sovrano, letto questo foglio, rimase sbalordito, e in preda a viva inquietudine non poteva più aver riposo.

                L'avv. Enrico Tavallini accenna a questo stato di animo del Re, minacciato dei castighi del cielo da continue lettere di prelati[9].

 

                I solenni funerali di Maria Teresa si celebrarono la mattina del giorno 16; la salma venne trasportata a Soperga con una temperatura rigidissima che fece ammalare _molti soldati ed anche il Conte di Sangiusto, scudiere della Regina. Ma la Corte non era ancora ritornata dal rendere gli estremi uffizi alla madre di Vittorio Emanuele, che si mandò in fretta ad invitarla affinchè accorresse pel viatico della nuora della defunta. La Regina Maria Adelaide nel punto della morte di Maria Teresa trovavasi nel quarto giorno del puerperio, avendo dato alla luce felicemente un bambino. Ed essa, che tanto amava la suocera, fu colpita da sì vivo dolore, che colta da una metro-gastro-enterite si ridusse a pericolo di vita. Alle 3 pom. le fu portato il Santissimo Sacramento dalla Regia Cappella della Sindone. Folla immensa accorreva in tutte le chiese per il ristabilimento della sua salute. L'intiero Piemonte si associava ben di cuore alle pene della famiglia reale, verificandosi l'antica massima che in Piemonte le sventure del Re sono sventure del popolo. Ma il giorno 20 fu amministrato l'Olio santo alla Regina, e verso il mezzogiorno l'augusta inferma, entrò in agonia; alla sera verso le ore 6 spirava nel bacio del Signore, a soli 33 anni di età. [187]

                Nè qui finivano i lutti di casa Savoia. La stessa sera fu dato il Santo Viatico a S. A. R. Ferdinando duca di Genova, già logoro di sanità, fratello unico del Re Vittorio Emanuele era immerso nel più straziante dolore.

                Il giorno 21 la Camera dei Deputati si radunava alle ore tre pomeridiane, e udita la triste notizia della morte della Regina, deliberò di prendere il lutto per 13 giorni e la sospensione delle sedute per 10 giorni.

                I funerali di Maria Adelaide furono celebrati il 24 gennaio e la salma veniva tumulata a Soperga.

                I chierici dell'Oratorio erano esterrefatti nel vedere avverate in modo così fulmineo le profezie di D. Bosco, e tanto più ne rimanevano colpiti per essere andati ai singoli accompagnamenti funebri. Circostanza particolare; il freddo era così penetrante, che il gran cerimoniere di corte al trasporto della salma della Regina Adelaide permise al clero di indossare il soprabito e di coprirsi il capo.

                Per l'Oratorio fu anche quella una grande sventura, e i chierici dicevano a D. Bosco: - Ecco avverato il suo sogno. Sono stati proprio grandi funerali come le annunziava il valletto di corte!

                - È  vero, rispose D. Bosco, sono proprio imperscrutabili i giudizi di Dio. E non sappiamo se con questi due funerali sarà paga la giustizia divina.

                D. Bosco infatti doveva, conoscere molto più di quello che non aveva palesato. La contessa Felicita Cravosio-Anfossi ci mandava la seguente testimonianza da lei sottoscritta: “Correva l'anno 1854 e pregai D. Bosco di accettare nell'Oratorio un fratello da latte di mio figlio, rimasto orlano di padre e di madre. Egli accettollo mediante la condizione che, essendo io ammessa alla Corte, mi fossi presentata alle Regine,:per ottenere dalla loro carità, due mila [188] franchi di cui aveva bisogno, onde poter pagare un debito urgente. Io promisi ed era risoluta di adempiere la mia promessa; ma poi sorsero delle difficoltà che mi fecero differire la visita alle auguste signore, le quali frattanto si erano allontanate da Torino e abitavano allora nella villeggiatura del Conte Cays di Giletta. Andata ancor io in campagna, ritornai alla città in autunno avanzato, e mi recai a trovare D, Bosco, il quale subito mi disse: -Ha accettato il suo protetto, ma lei non ha tenuta la sua promessa: non ha parlato alle Regine del mio debito col panattiere. - È  ben vero, risposi un po' confusa, ma stia certo che appena le Regine saranno di ritorno in Torino, non mancherò di eseguire la promessa fattagli.

                Mentre io parlava, D. Bosco faceva col capo un movimento, che indicava negazione, e con un sorriso alquanto mesto mi disse: - Pazienza! Possono accadere tante cose, che lei forse non parlerà mai più alle Regine.

                - Perchè mi dice questo? -Tant'è; lei non vedrà più le Regine.

                Dopo una quindicina di giorni trovandomi in una casa patrizia, appresi il ritorno delle Regine a Torino e che la Regina Maria Teresa stava assai male e che aveva ricevuti i Santi Sacramenti. Abbiamo avuto ben presto la notizia della sua morte. Otto giorni dopo morì la giovane Regina Maria Adelaide: tutte e due compiante e venerate come due sante Regine. Allora solamente mi ricordai delle parole del servo di Dio e non dubitai punto del suo spirito veramente profetico”.

                Intanto un atto gravissimo aveva luogo in quei giorni; l'arrivo in Torino dell'Allocuzione Pontificia del 22 gennaio. Pio IX, con quella franchezza che non gli venne mai meno, dimostrava quanto aveva fatto per alleviare i mali della Chiesa in Piemonte, esponeva i molti decreti coi quali [189] quel Governo vessava la Religione, provava come la nuova legge d'incameramento fosse del tutto ripugnante al diritto naturale, divino e sociale, e come aprisse la strada agli errori perniciosissimi del socialismo e del comunismo; e ricordava le censure che avrebbero colpiti i fautori dell'ultima legge e chiunque avesse usurpati i beni ecclesiastici.

                Era universale il desiderio di leggere la parola di Pio IX. Il Ministero diviso sulle prime di affettare noncuranza. Il Ministro Rattazzi fe' anzi distribuire ai deputati una copia dell'Allocuzione Pontificia; ma intanto di celato mandò ordini severissimi alle province, acciò intendenti e sindaci processassero quanti parrochi ardissero parlare o alludere semplicemente a quell'allocuzione.

                Il Pontefice però, sempre mite e misericordioso, scriveva il 26 gennaio un'affettuosissima lettera di condoglianza al Re, per la morte delle due Regine, dandogli alcuni moniti qual padre al suo figliuolo.

                Nello svolgersi di questi avvenimenti desta sorpresa l'avvisare come il coraggio di D. Bosco, nel fare nota la verità ai governanti, non estinguesse punto in que' giorni l'amorevole loro stima verso di lui. Ma lo stupore cessa ben tosto al riflettere che oltre alla protezione da Dio concessa al suo servo, ed era il più, tutti, anche gli avversarii riconoscevano in lui una potenza di carità che legava i cuori; ed egli di questa seppe valersi per tutto il tempo della sua vita. Per quanto crescessero i bisogni dell'Oratorio, D. Bosco non rimetteva punto della sua beneficenza.

                Allorchè in qualche paese succedesse una catastrofe, affrettavasi a far sapere al Prefetto della provincia, e per mezzo di lui al Sindaco, di essere disposto ad accettare nel suo Oratorio giovanetti rimasti orfani. Ora erano incendi, che avevano distrutto una borgata; ora il crollo di [190] un muro, che aveva travolti e uccisi operai sotto le macerie; era un'epidemia, che desolava una città; ora una frana, che aveva sepolti varii contadini; ora una valanga di neve, che aveva schiacciato un abituro sui monti, rimanendo vittima un capo di famiglia. E l'offerta di Don Bosco era accolta con viva gratitudine, e si tributava gran lode alla sua generosità.

                In questi anni poi, 1855 e 1856, la miseria di molte famiglie faceva moltiplicare le domande di accettazione di poveri giovani nell'Oratorio. Mancando il posto, il più delle volte davasi bensì una dolorosa negativa; ma talora l'abbandono di certi ragazzi e i pericoli dell'anima e del corpo, in cui versavano, erano di tal fatta, che a D. Bosco non reggeva il cuore di rispondere con un rifiuto.

                Anche il Municipio[10] ed il Governo, con espressioni [191] di gran deferenza, molto di spesso gli raccomandavano, ora il figlio di un impiegato, ora l'orfanello di un militare; e ora un giovanetto derelitto, o di famiglia incapace a mantenerlo, o un altro la cui condotta non era ancora così biasimevole da meritare un luogo di correzione, ma che tuttavia faceva assai temere per l'avvenire se non gli si provvedeva un'educazione morale. Per ciò col crescere del numero degli alunni si gravavano le spese, e si facevano ingenti i debiti, specialmente verso il panattiere.

                Questo stato di cose riusciva assai gravoso per Don Bosco; tuttavia se qualcuno de' suoi collaboratori gli diceva che mancando egli di mezzi non era opportuno d'ingolfarsi in tante spese con nuove accettazioni, calmo e sorridente rispondeva: - Maria SS. mi ha sempre aiutato e continuerà sempre ad aiutarmi! -Egli però non condonava l'intera pensione se non a quelli che erano veramente poveri, ed esigevala con una ragionata risolutezza, chiunque fosse il protettore, da chi poteva pagarla. Soleva dire: - Io non sono il padrone, ma semplice distributore dei tesori che mi affida, la Divina Provvidenza; e non è giusto che mangi il pane del povero chi tale non è.

                Un prezioso vantaggio però ritraeva realmente dall'accettazione e ricovero dei giovani a lui raccomandati dalle autorità. Il Ministro della Guerra, Alfonso Ferrero della Marmora, riguardava con benevolenza l'Oratorio: il Ministro dell'Interno, Rattazzi, e quello dell'Istruzione pubblica, Cibrario, sappiamo già in quale conto tenessero.

                Bosco; il comm. Bona Bartolomeo, senatore del regno e, direttore generale dei lavori pubblici, non aveva tardato a divenire suo grande amico.

                Perciò, D. Bosco era bene accolto allorquando si recava negli uffizii di qualche Ministero, e non solo dai capi [192] ma anche dagli impiegati subalterni; e queste visite gli recavano una grande utilità morale. Era suo principio che gli uomini quanto più si avvicinano tanto meglio si conoscono, e con ciò svaniscono i sospetti, le animosità, le impressioni avverse ispirate dai malevoli, e quindi facilmente si appianano le difficoltà che sogliono frapporsi alla soluzione dei varii negozii. Chi trattava con D. Bosco restava preso dalla sua schietta giovialità ed umiltà, dalla semplicità de' suoi ragionamenti, e si persuadeva non esservi in lui sentimenti ostili contro nessuna persona d i qualsivoglia partito. Ed è questo il motivo pel quale non si offendevano nel conoscere che egli risolutamente, ma senza acrimonia, anzi con molta cortesia e bontà, sosteneva principii e una causa contraria alla loro. Più d'uno di essi veniva in Valdocco per informarsi di qualche suo raccomandato e per osservare D. Bosco in mezzo alla moltitudine dei fanciulli. Era uno spettacolo ben differente da quello che presentavasi a chi visitava altri istituti. L'Oratorio dava una testimonianza manifesta, che si trova giovialità e tripudio solo ove è innocenza dì vita e pace e gaudio della coscienza. Quivi la disciplina era facile, perchè insinuata dall'amore, lo studio e il lavoro lieto e piacevole perchè dettato dal sentimento del dovere e dell'onore. Queste constatazioni, che si presentavano spontanee alla mente di quei signori, finivano con dissipare ogni pregiudizio che fosse ancor rimasto contro D. Bosco, sicchè essi divenivano suoi affettuosi ammiratori. Lo stesso Vittorio Emanuele non poteva disconoscere le rette intenzioni di D. Bosco, e passati questi giorni nefasti e di così grande turbamento, lo vedremo continuare le sue largizioni all'Oratorio, e fissare sussidii per que' giovani dei quali faceva raccomandare l'accettazione dagli ufficiali della reale sua Casa. [193]

                In questo frattempo D. Bosco nel mese di febbraio si disponeva ad annunziare fuori di Torino la parola di Dio, non ostante e la grave questione agitata nella Camera dei Deputati, che tenealo in angustia, e la cara convivenza co' suoi alunni, e le strettezze finanziarie dell'Oratorio. Queste invero si facevano molto sentire quando egli era assente, perchè i benefattori portando elemosine volevano deporle in sua mano; oppure egli stesso ne doveva andare in cerca, fiducioso di ottenere le somme occorrenti. Nè il suo zelo si restringeva per questo.

                Così egli aveva scritto al Teol. Appendino, in Villastellone:

                Torino, 6 Febbraio 1855.

 

                                Carissimo sig. Teologo,

 

                Siamo all'ottavario, ed io mi accingo per adempire la promessa. Vorrei soltanto fare una proposta, se pure è effettuabile. Potrebbe Ella od altri fare la prima predica sabato? Giungo a tempo Domenica partendo di qui pel vapore delle 2 e mezzo pomeridiane? Queste due risposte, se affermative, aggiusterebbero tutte le cose del mio Oratorio.

                Abbia la bontà di farmi due linee di riscontro, e comunque siano, io farò di adattarmi.

                Mi ami nel Signore e mi creda in quel che posso

                Di V. S. Car.ma

 

Aff.mo alunno

Sac. Bosco Giov.

 

                Egli partiva per Villastellone. Allontanandosi però dall'Oratorio soleva usare la precauzione di non dir nulla della sua partenza ai giovani, i quali perciò ignoravano se fosse in casa o fuori. Se ne accorgevano solamente coloro che avrebbero voluto confessarsi e non lo trovavano al confessionale. Per lo più non lo palesava neppure ai [194] Superiori, ad eccezione del Prefetto che doveva prendere il suo posto nella direzione. Così pure taceva eziandio il giorno del suo ritorno. Ma dal momento della sua uscita dall'Oratorio a quello del suo rientrare esercitava un vero apostolato, non solo sul pulpito, ma per le vie e nelle case nelle quali doveva soffermarsi. Non lasciava sfuggire alcuna occasione per dare con grande carità avvertimenti spirituali, eziandio a persone non mai prima d'allora conosciute; e qualche sacerdote o chierico che lo accompagnava, rimaneva stupito dell'affetto che poi tutti gli dimostravano Talvolta si vedevano giungere all'Oratorio uomini che si erano incontrati con D. Bosco viaggiando; e da lui esortati a confessarsi, venivano per soddisfare la fatta promessa. Fra questi fu il cocchiere di una pubblica vettura. D. Bosco, sedutosi presso di lui, soffriva tanto nell'udirlo assai frequentemente bestemmiare. Egli però non tacque, ma con bel garbo lo pregò di cessare. Rispose quegli che tale era l'abitudine contratta, e che non sperava di riuscire a correggersi. Allora D. Bosco gli disse:

                - Se voi di qui fino alla prima muta dei cavalli, cioè dove si fermerà la vettura, non pronunzierete più una bestemmia, vi pago da bere un litro.

                Da quel punto dal labbro del vetturino non si udì più ripetere il nome di Dio invano.

D. Bosco mantenne la parola e poi gli fece osservare:

                - Se per un premio così da poco avete potuto vincervi per questo tempo, perchè non potrete tralasciare affatto, di bestemmiare, pensando al paradiso che vi aspetta ed anche all'inferno nel quale potreste cadere da un momento all'altro?

 

 

CAPO XIX. Alleanza del Piemonte colla Francia e coll'Inghilterra contro la Russia - Morte del Duca Ferdinando - La legge sui Conventi è approvata dalla Camera dei Deputati Il Marchese Domenico Fassati catechista in Valdocco Un santo e lieto carnovale nell'Oratorio - Saggia osservazione sugli Oratorii festivi.

 

                DON Bosco ritornava da Villastellone mentre, passati i giorni di lutto, si riaprivano le aule della Camera dei Deputati e del Senato. Un fatto però, di gravissima importanza, interrompeva la discussione sull'incameramento dei beni ecclesiastici e sull'abolizione dei conventi.

                Il Ministro Cavour aveva aderito alla lega colla Francia e coll'Inghilterra contro la Russia, allettato dalla speranza di un futuro ingrandimento di territorio del regno sardo; e il 10 gennaio 1855 sottoscriveva il trattato, riserbandosi di chiederne l'approvazione alle Camere. Era stabilito che per questa impresa in Crimea sarebbero spediti 15.000 soldati, e che tal numero, con rinforzi successivi, sarebbe sempre conservato. Il Piemonte doveva sostenere tutte le spese del suo esercito. Le discussioni nel Parlamento [196] incominciarono il 3 di febbraio, e il 10 febbraio venne approvata l'alleanza. Erasi affrettato questo voto per non perdere tempo nel proseguire a discutere le proposte di Rattazzi.

                Poche ore dopo, nella notte dal 10 all'11, moriva il principe Ferdinando di Savoia Duca di Genova, fratello del Re, nell'età di 33 anni. Così per la terza volta si dovevano sospendere quelle infauste sedute. I funerali del principe ebbero luogo il 14 del mese, e la salma fu portata a Soperga e deposta accanto a quelle degli avi suoi. I chierici dell'Oratorio ne seguirono il feretro.

                Questa incalzante serie di sciagure avrebbe dovuto convincere il Re che da quelle lettere misteriose eragli stata annunziata la volontà di Dio. E per vero, incominciava a riflettervi seriamente. Non era mai avvenuto, nemmeno nelle pestilenze più crudeli, che in meno di un mese si aprissero tre tombe, per accogliervi le salme di principi, così strettamente uniti in parentela col Sovrano. Non pure i cattolici ma molti dei liberali vi scorsero un avvertimento venuto dal Cielo a Vittorio Emanuele dì non proseguire più avanti per la via nella quale si era inoltrato.

                Ma il 15 febbraio con una deplorevole pervicacia, nella Camera dei Deputati si riaperse la discussione sulla legge Rattazzi, che occupò ben diciassette sedute. Si domandava l'approvazione del progetto, perchè il Papa lo aveva condannato!! Intanto il 23 febbraio e il 3 marzo i due solennissimi funerali, celebrati nella Metropolitana per le anime delle due auguste defunte, dovevano ricordare a qualcuno la profezia di D. Bosco; ma il 2 marzo la legge di soppressione era approvata da 117 Deputati contro 36. Rattazzi presentavala allora al Senato, al quale [197] i Cattolici mandavano suppliche firmate da ben 97.700 cittadini perchè la respingesse. Il Governo però di sottomano ne promoveva altre in favore, che ebbero 36.6oo sottoscrittori.

                Mentre gli animi dei cittadini erano contristati riflettendo sulle conseguenze della guerra e della legge anticristiana, l'Oratorio di Valdocco godeva i favori di Dio e degli uomini. D. Bonetti Giovanni ne' suoi Cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano, scrisse una bella pagina intorno a questo anno 1855, e noi qui la riportiamo:

                “Se prima di questo tempo molte persone del Clero e del laicato si mostrarono affezionatissime verso l'Oratorio, d'allora in poi i benevoli crebbero e di numero e di zelo. L'opera di carità, l'assistenza prestata dai giovani ai colerosi durante la terribile epidemia, e la pubblica lode tributata dal Municipio di Torino, fecero vie meglio conoscere l'Istituto di D. Bosco, la sua natura e il benefico scopo. Per altra parte la straordinaria, per non dire prodigiosa, preservazione dal primo all'ultimo dei suoi giovani dal morbo fatale, mostrò ad un tempo un tratto di specialissima protezione e benevolenza del Cielo verso l'opera del sant'uomo. Di qui ne venne che gli antichi benefattori continuarono ed accrebbero le loro sollecitudini a pro dei figli suoi poverelli, e molti altri ne imitarono l'esempio.

                Avrei qui da registrare varii nomi di persone benemerite, che furono per D. Bosco gli strumenti della Divina Provvidenza; ma riserbandomi di farne parola a luogo più opportuno, ricordo in quella vece il signor Marchese Domenico Fassati. Per più anni nelle feste e in tutti i giorni della Quaresima egli recavasi assiduamente nell'Oratorio a fare il catechismo ad una classe numerosa [198] di poveri artigiani, trasferendo persino ad ora più incomoda la sua refezione. Una volta che vi giunse un po' tardi, e trovò un altro catechista a suo posto, l'umile non meno che nobile signore disse: “Ho commesso un fallo e ne debbo fare la penitenza”. Ciò detto si pose a sedere sulla panca tra i ragazzetti, e vi stette insino alla fine ad ascoltare il catechismo come uno di loro.

                Singolare era lo zelo, mirabili le industrie che adoperava per rendere i giovani attenti ed assidui, e per farli progredire nella scienza della religione. Assuefatto all'ordine, egli da buon soldato disponeva i suoi giovanetti in modo di averli tutti sotto gli occhi, interrogava or questo or quello alla spicciolata e come all'improvviso, affinchè nel timore di essere domandato a rispondere niuno si divagasse. In un foglio teneva registrato il nome e cognome di tutti i suoi catechizzandi, ne segnava le assenze e la più o meno buona condotta. Di quando in quando distribuiva imaginette, medaglie, libriccini e simili ai più diligenti. Quantunque tenesse coi giovani un aspetto serio e da militare, pure questi lo amavano tanto, che quando lo vedevano giungere in classe ne davano vivi segni di gioia, e difficilmente vi mancavano. Insomma il Marchese Fassati manteneva i fanciulli in sì bell'ordine di disciplina e li ammaestrava sì bene da essere proposto a modello. Desideroso di perfezionarsi ognor più nell'arte d'istruire i piccoli, il nobile uomo non disdegnava di assistere alle conferenze che D. Bosco teneva di tratto in tratto ai suoi catechisti. Soleva poi dire che niuna conversazione, niun convegno, niuna serata anche la più brillante tornavagli di tanta soddisfazione, quanto una mezz'ora di catechismo fatto ai giovani dell'Oratorio. Esempio questo e parole assai edificanti, e ben meritevoli [199] che ne faccia tesoro ogni buon cattolico specialmente nei giorni che corrono.

                Nè il sig. Marchese mostrava la sua benevolenza solamente a parole, ma bensì con certi fatti non tanto facili ad essere dimenticati. Uno di questi fu nell'ultimo giorno di carnovale del 1855, nel quale si compieva l'esercizio di buona morte in suffragio delle Anime del Purgatorio. Ciò saputo il Marchese Fassati disse: -I figli di D. Bosco l'ultimo giorno di carnevale sogliono consolare le anime purganti, coll'offrire in loro sollievo la Confessione, la santa Comunione ed apposite preghiere, ed io voglio rallegrare essi medesimi; - e così fece. Era il 20 febbraio. Al mattino oltre un centinaio di giovanetti dell'Ospizio e molti altri dell'Oratorio festivo udirono la Messa, si accostarono ai SS. Sacramenti, risposero alle preghiere della buona morte recitate da D. Alasonatti, ed offersero a Dio per le anime sante non solo quelle pratiche di pietà, ma la pena di un freddo intenso, che intirizziva le membra. Ma all'uscire di Chiesa essi trovaronsi un premio inaspettato; ed erano due buone pagnotte, -accompagnate da una grossa fetta di salame. Pareva che le Anime purganti li ricompensassero, per mano del signor Marchese,del sollievo loro portato coi loro suffragi.

                 Ma fuori di ogni usato fu il pranzo allestito in quel giorno medesimo. Il caritatevole signore oltre ad una buona pietanza volle che i giovani fossero serviti di agnellotti. Ne occorrevano oltre a 100 dozzine; onde fu necessario che nella vigilia vi lavorassero attorno la buona mamma Margherita, e parecchi giovani sotto la sua guida. “Ma gli agnellotti vanno bagnati”, disse il provvido signore; e quindi spedì all'Oratorio una buona quantità di ottimo vino delle sue vigne del Monferrato. [200] Si compiacque poi di assistere egli stesso in persona al convito, dicendo: -Voglio vedere cogli occhi miei l'effetto, che producono nei giovanetti due bicchieri di buon vino e il vide e l'udì con sua grande soddisfazione. Dopo cinque minuti che ne avevano bevuto il primo, i giovani non potevano più stare nella pelle; le chiacchiere si mutarono in un passeraio; gli evviva al sig. Marchese si succedevano senza interruzione; era uno spettacolo da carnevale, ma onesto ed innocente. Si trattava di mescere il secondo bicchiere; ma in vista della molta allegria giunta ormai al colmo, D. Bosco domandò al sig. Marchese che gli permettesse di battezzare alquanto quel generoso liquor di Bacco, a fine di premunire i giovani dai suoi fumi e dai capogiri. Se in quel giorno gli orfanelli di D. Bosco, furono arcicontenti, la gioia più soave fu quella del signor Marchese. La pietà, la fede, che guidava tutte le sue azioni, gl'insegnava che aveva rallegrato uno stuolo di poveri giovanetti, i quali avrebbero pregato Iddio ad aprirgli un giorno il seno della sua misericordia, e a dargliene in Cielo un premio adeguato ed imperituro; questo pensiero gli inondava l'anima di consolazione ineffabile. Ed io ritengo che in vista di questa carità il Signore gli abbia data quella pazienza, rassegnazione e fortezza d'animo, che sempre dimostrò nelle molte tribolazioni, colle quali in vita lo venne sovente purificando e preparando pel Cielo e in fine una morte preziosa, quale la divina Bontà suol concedere a' suoi prediletti.

                E qui, poichè mi cade in acconcio, giova ripeterlo per norma dei direttori e promotori degli Oratorii festivi. Se si vogliono frequentati dai giovanetti, vi sono indispensabili onesti allettamenti. Senza di questi, la maggior [201] parte dei fanciulli liberi di se stessi, o perchè orfani di genitori, o perchè trascurati dai medesimi, non s'inducono punto ad intervenire alle sacre funzioni e alla istruzione religiosa, che vi s'imparte. Per sua leggerezza e vivacità questa cotal gente rifugge quasi per natura dallo stare ritirata, e dall'assoggettarsi alla sorveglianza. Bisogna quindi attirarvela e prenderla come le mosche, con buoni favi di miele. Quindi affinchè prosperi un Oratorio festivo si richiedono divertimenti, giuochi, trastulli, belle ed amorevoli maniere, e questo sempre; poscia di quando in quando occorrono teatrini, piccole lotterie, regalucci, passeggiatine, colezioni, merenduole e via dicendo. Se vi hanno queste attrattive, si vedranno gli Oratorii gremiti di ragazzi; se no, si avrà il rammarico di vedere nei giorni festivi le piazze, i viali, i dintorni delle città ingombri di monelli, i quali crescono nell'ignoranza della religione e nella scienza di ogni mal fare; si avrà il cordoglio di vedere crescere una generazione senza Dio, senza fede e senza legge; si avrà il dolore di vedere a formarsi famiglie e società, che ripiomberanno il mondo negli orrori del paganesimo e nella barbarie. Se ne veggono fin d'ora luttuosi esempi in molte città d'Italia e di Francia, che non è mestieri di qui segnalare. Si scuotano, adunque i Cattolici più o meno favoriti dì beni di questa terra, e in tanta tristizia di tempi sappiano fare qualche sacrifizio, sappiano privarsi eziandio dei loro onesti piaceri, per attirare al bene tanti scappatelli, per conservarli o ridonarli a Dio, alla patria, al Cielo. Se più si aspetta non saremo più in tempo; chè l'ignoranza, le passioni, le male compagnie faranno di tanti poveri ed incauti giovani le reclute, i gregarii delle società sovvertitrici, i discepoli di coloro, che si gloriano persino di inneggiare [202] a Satana, di raccogliersi a combattere sotto i suoi neri vessilli, gridando: Viva l'inferno.

                I signori badino anche a se stessi, e temano che Iddio tardi o tosto non si serva di qualcuno di questi esseri disgraziati, come di un flagello a punirli di quella loro indifferenza, per cui tanta gioventù cresce empia e scellerata; procuriamo tutti almeno colla carità e colla beneficenza nostra di meritarci la misericordia di Dio nel giorno, forse non lontano, nel quale scoppierà la giusta ira sua”.

 

 

CAPO XX. Letture Cattoliche - Consolazione di D. Bosco pel ritorno di alcuni giovani alla vera religione e pel battesimo di un israelita e di un valdese - Savio Domenico prega per la conversione dei protestanti, e indica a D. Bosco la morte imminente di un apostala - D. Bosco insegna ai giovani il modo di farsi santi nel loro stato - Industrie di Savio per fare del bene alle anime - Il suo amico Massaglia Giovanni - Il Ch. Rua emette i tre voli per un anno - La Madonna di Taggia - Gli esercizi  spirituali nel tempo pasquale.

 

                E LE  Letture Cattoliche? Incominciavano strenuamente il loro terzo anno. Le riscossioni del prezzo degli abbonamenti erano fatte dagli incaricati del Vescovo d'Ivrea[11]. D. Bosco lavorava specialmente intorno alle stampe. I due fascicoli del mese di marzo, stampati da Paravia, erano la seconda edizione di una operetta edita alcuni anni prima: Maniera facile per imparare la storia sacra ad uso del popolo Cristiano, con [204] una carta di geografia della Terra Santa per cura del Sac. Bosco Giovanni. Con domande e risposte brevissime, ma scultorie, ei svolge in trentun capitolo il suo argomento. Aveavi aggiunto la geografia comparata dei nomi che trovavansi in quella storia, e la cronologia dei Patriarchi, Giudici, Re e Pontefici del popolo Ebreo.

                Accennando agli insegnamenti di Gesù Cristo alle turbe, notava ciò che Egli disse sugli onori, sul buon uso delle ricchezze, sulla fuga dei piaceri della terra, sulla virtù della castità, sulla temperanza, contro l'invidia, la collera e l'accidia, e conchiudeva il suo libro: “Per quelli che vivono fuori della Chiesa Cattolica, dobbiamo pregare Iddio che infonda tanta grazia ne' loro cuori, sicchè, superando ogni umano rispetto, entrino nella Chiesa Cattolica, per appagare il vivo desiderio di Gesù Cristo, che amorosamente chiama a sè tutti gli uomini del mondo per formare un solo ovile con un solo pastore in terra, e dare a tutti poi una ricompensa eterna in cielo”.[205]

                Nell'ultima pagina esponeva alcune massime morali ricavate dalla Santa Scrittura; la prima era questa: “A chi ama Iddio riusciranno bene tutte le cose” (Sap. III). E noi vedremo avverarsi in D. Bosco questa grande promessa, specialmente nel raggiungere il suo fine principale: la salvezza delle anime.

                Ne porge una prova l'Armonia nel suo numero del 7 marzo 1855 col titolo: Conversioni al Cattolicismo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

                Non avvi cosa più consolante pei cattolici quanto il vedere ogni giorno crescere il numero dei figli della luce. Noi abbiamo già più volte accennato, come parecchi cattolici incautamente strascinati all'errore, mercè la frequenza agli oratorii per la gioventù di questa città, siano entrati in loro stessi, ed abbiano fatto ritorno alla Religione Cattolica. Sono appena tre mesi, che un giovane israelita, allievo di quest'Oratorio, abbandonava l'ebraismo, e diveniva cristiano.

                Un mese e mezzo addietro pubblicavamo come un certo Michele Trombotti, lusingato dai doni e dalle promesse dei protestanti, aveva dato il suo nome a questa setta. Frequentò qualche tempo l'Oratorio di S. Francesco di Sales, i raggi della grazia divina penetrarono nel cuore di lui e trionfarono. Ora vive da buon cristiano, da fervoroso cattolico.

                Due domeniche fa abbiamo con vera compiacenza veduto ivi due giovanetti, che avevano cessato di frequentare le scuole protestanti (a cui erano allettati da offerte quotidiane), e con cuore pieno di giubilo cominciarono nuovamente a frequentare le pratiche religiose dei Cattolici. Domenica scorsa (4 marzo) abbiamo assistito al battesimo di un valdese.

                Questo giovane, di nome Avandetto, era nato a Torre di Luserna. I suoi genitori il lasciarono crescere nell'abbandono e nel totale oblio della religione e della moralità, affinchè, dicevano essi, giunto all'età competente, scegliesse o si facesse quella religione, che più gli sarebbe gradita. Nella fatale invasione del coléra vennero colpiti ambi i suoi genitori, ed egli rimase [206] orfano, abbandonato, esposto ai pericoli, cui va purtroppo soggetto un giovane di quindici anni senza educazione e senza religione. La divina Provvidenza, però, che veglia sul destino degli uomini, dispose che egli fosse ricoverato nella casa dell'Oratorio di San Francesco di Sales. Ivi ebbe alloggio, vitto, vestito, istruzione. Interrogato quale religione intendesse abbracciare, rispondeva - Io desidero di abbracciare quella religione, che mi può salvare. - Dopo quattro mesi di catechismo apparve abbastanza istruito per ricevere il Battesimo, ed essere ricevuto in grembo, alla Chiesa Cattolica.

                Domenica pertanto, alle tre e mezzo pomeridiane, Monsignor Giovanni Pietro Losana, Vescovo di Biella, si recava all'Oratorio di S. Francesco di Sales per fare la pia funzione. Non sappiamo, se sia più degna d'ammirazione la grande allegrezza che inondava il cuore del catecumeno, o la gioia che traspariva in volto a numerosa schiera di giovanetti che lo circondavano. Padrino fu il cavaliere Marco Gonella, madrina la signora Angela Gonella nata Piacenza, amendue membri di quella famiglia, la quale si trova sempre dovunque havvi un'opera di beneficenza, un atto, di cristiana pietà da esercitare.

                Compiuta la sacra funzione, Monsignore pronunciò un breve discorso, in cui dimostrò quanto esultasse il suo cuore nel rimirare in questi giorni tanti figliuoli delle tenebre abbandonare l'errore per venire a riposare in seno alla Chiesa Cattolica. Deplorò poi con viva commozione come tanti figliuoli della luce, lasciandosi pazzamente trascinare all'errore, e abbagliati dall'idea di novità, abbracciano una religione senza autorità, senza Sacramenti, abbandonata al capriccio di ciascuno.

                Miei cari figli, diceva con forza, credetemi; il protestantesimo è una religione senza Credo, senza Simbolo, perchè ciascun protestante crede quello che vuole, e nel modo che vuole. Non si possono avere due paesi protestanti, nemmeno due famiglie, anzi neppure due individui della medesima famiglia, i quali credano le medesime cose in fatto di religione. Può darsi che ci siano cattolici così privi di senno, che giungano ad abbandonare la loro religione santissima, per tener dietro ad un fantasma religioso, che da ogni lato non presenta altro che capriccio, vanità e disordine? [207] Conchiuse poi coll'ammonire il neofito a farsi ulteriormente istruire nella religione abbracciata, adoperandosi con diligenza, e coraggio a mantenersi fermo nella fede fino alla morte. Volse infine un'apostrofe agli astanti animandoli tutti a vivere da buoni cattolici, per dimostrare colle opere e colle parole che noi professiamo una religione santissima, religione divina, quale si è la Cattolica, Romana, Apostolica, fuori di cui niuno può salvarsi.

                Finalmente il buon prelato, fra concenti musicali eseguiti dai giovani addetti a questo Oratorio, impartiva la benedizione col Santissimo Sacramento.

                Così possiamo annumerare un cattolico di più, e speriamo che vivrà in modo da essere un giorno abitatore del cielo.

                Le preghiere e le comunioni che si facevano nell'Oratorio avevano gran parte nel togliere gli ostacoli a questi trionfi della grazia. Perciò non si può dire quanto fosse piena la consolazione di Mamma Margherita nel vedere un giovanetto che pregasse bene. Un giorno diceva a D. Bosco: - Tu hai tanti giovani buoni, ma nessuno supera la bellezza del cuore e dell'anima di Savio Domenico. - D. Bosco le chiese perchè dicesse questo, ed ella rispose: - Lo vedo sempre pregare, restando in Chiesa dopo gli altri, finite le funzioni comuni; e sovente con un gruppo di compagni raccolti intorno all'altare della. Beata Vergine, recitar il Rosario. Ogni giorno si toglie dalla ricreazione per andare a far visita al SS. Sacramento; più volte, dimentico di recarsi cogli altri a prendercibo, resta innanzi all'altare in orazione e come fuori di sè. Sta in chiesa come un angelo che dimori in paradiso.

                Savio Domenico adunque pregava e molto, ma specialmente per la conversione d  ei protestanti. Più volte fu udito esclamare: - Quante anime aspettano il nostra aiuto in Inghilterra; oh, se avessi forza e virtù, vorrei [208] andarvi sul momento, e colle prediche e col buon esempio vorrei guadagnarle tutte al Signore! - E la sua preghiera era efficace, come lo prova il seguente fatto raccontato da D. Bosco.

                “Un giorno Savio entrava nella mia camera, dicendomi: - Presto, venga con me: c'è una bell'opera da fare. - Dove vuoi condurmi? gli chiesi. - Faccia presto, soggiunse egli, faccia presto. - Io esitava tuttora, ma istando egli, ed avendo già provato altre volte l'importanza di questi inviti, prendo il cappello e lo seguo. Savio esce di casa con passo piuttosto accelerato e s'inoltra di contrada in contrada senza mai fermarsi e senza pronunciar parola. Infine prende la via delle Orfane, entra in una porta, sale una scala, monta al terzo piano e tira con forza il campanello. - È qua, egli mi dice, che deve entrare; e tosto se ne parte, ritornando a casa.

                “Una donna apre l'uscio, ed - Oh! presto, mi dice, presto, altrimenti non è più a tempo. Mio marito ebbe la disgrazia di farsi protestante; adesso è in punto di morte e domanda per pietà di poter morire da buon cattolico. Io mi recai tosto al letto di quell'infermo che mostrava viva ansietà di acconciarsi dell'anima. Aggiustate le partite della coscienza colla massima prestezza, giunge il curato della parrocchia di S. Agostino, che già prima era stato chiamato. Esso potè appena amministrargli il Sacramento dell'Olio Santo con una sola unzione, poichè il moribondo diveniva cadavere. Alcun tempo dopo volli domandare a Savio, come mai avesse egli saputo che in quella casa vi fosse un infermo ridotto a quello stato; ed egli mi guardò con aria di dolore, di poi si mise a piangere. Io allora non cercai più altro, ricordando quelle parole della Sacra Scrittura che dice: “È  cosa buona [209] tenere nascosto il segreto del Re: Sacramentum regis abscondere bonum est” e che alle anime sante riesce più penoso lo svelare i doni che Iddio fa loro, che non i peccati commessi”.

                In mezzo a queste misericordie di Dio erano incominciati nei tre Oratorii festivi i catechismi quadragesimali. D. Bosco in una di quelle domeniche faceva una predica sul modo di farsi santi e si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi: è assai facile di riuscirvi: è preparato un grande premio in cielo a chi si fa santo. Queste parole fecero una grande impressione sull'animo umile di Savio, il quale diceva poi a D. Bosco: - Mi sento un desiderio, un bisogno di farmi santo; io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, voglio assolutamente farmi santo.

                D. Bosco lo confortò nel suo proposito, gli indicò come Dio volesse da lui per prima cosa una costante e moderata allegria; e consigliandolo ad essere perseverante nell'adempimento de' suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandò dì prendere sempre parte alla ricreazione co' suoi compagni. Nello stesso tempo gli proibì ogni rigida penitenza e le preghiere troppo prolungate, perchè non compatibili colla sua età e sanità, e colle sue occupazioni.

                Savio obbedì, ma un giorno D. Bosco lo incontrò tutto afflitto, che andava esclamando: - Povero me! Io sono veramente imbrogliato. Il Signore dice che se non fo penitenza, non andrò in paradiso; ed a me è proibito dì farne. Quale adunque sarà il mio paradiso?

                La penitenza che il Signore vuole da te, gli disse D. Bosco, è l'ubbidienza. Ubbidisci e a te basta. [210]

                - Non potrebbe permettermi qualche altra penitenza? - Sì; ti si permettono le penitenze di sopportare pazientemente le ingiurie, qualora te ne venissero fatte; tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza, e tutti gli incomodi di salute, che a Dio piacerà di mandarti.

                - Ma questo si soffre per necessità.

                - Ciò che dovresti soffrire per necessità, offrilo a Dio, e così diventa virtù e merito per l'anima tua.

                - E niente altro?

                - Adóperati nel guadagnare anime al Signore.

                - Ho capito! - Da quel punto si accese sempre più in Domenico un tale zelo per la salvezza delle anime, da farlo apparire un vero, benchè piccolo apostolo. Per imparare il modo di vie più riuscire bene nel santo esercizio di giovare al prossimo, egli leggeva volentieri la vita di quei santi che avevano lavorato in modo speciale per la salute delle anime, come la vita di S. Filippo Neri, di S. Francesco Zaverio, di S. Francesco di Sales, e simili. Parlava volentieri dei Missionarii, che faticano alla conversione degli infedeli e degli eretici, pregava per essi, e ne invidiava la sorte. Più volte fu udito ad esclamare: - Quante anime non vanno mai perdute, perchè non vi ha chi predichi loro la parola di Dio! Quanti poveri fanciulli forse andranno alla perdizione per mancanza di chi li istruisca nella fede!

                Nè egli si contentava dei desiderii, ma veniva ai fatti. Per quanto lo comportava la sua età e la sua istruzione, si prestava con indicibile piacere a fare il catechismo ai piccoli nella chiesa dell'Oratorio; anzi, se alcuno ne mostrava maggior bisogno, egli si assumeva di buonissima voglia l'incarico di fargli scuola di religione, in qualunque [211] giorno della settimana, e in qualunque ora del giorno. Tutto gli riusciva dolce, quando pensava di cooperare a salvare un'anima.

                Erano veramente mirabili le industrie, che in tempo di ricreazione egli usava per meglio conseguire il nobile fine. Se aveva un confetto, un frutto, una croce, una medaglia, una immagine o simili, egli la riserbava a quest'uopo. - Chi la vuole? chi la vuole? andava dicendo. - Io, io, - da tutti si gridava, correndogli incontro. Adagio, egli soggiungeva allora; io la darò a chi meglio risponderà ad una domanda di catechismo. - Intanto il santo giovane interrogava solo i più discoletti, ed appena essi davano una risposta alquanto soddisfacente, egli faceva loro quel regaluccio. In questo modo e in poco tempo si guadagnava l'animo di tutti gli scapatelli, dai quali era quasi sempre circondato.

                Nè solamente di questa sorta di fanciulli egli cercava la compagnia, ma di un'altra non meno degna di amorevoli sollecitudini. Fra i giovanetti che stavano nell'Ospizio e fra i molti che frequentavano l'Oratorio festivo, alcuni ve n'erano alquanto rozzi, ignoranti e meno educati, i quali per lo più erano dai loro compagni lasciati in disparte. Ora questi erano i più ambiti e più ricercati dal caro Domenico. Egli con uno spirito ed un'intuizione che diremo soprannaturale, non si curava punto delle apparenze, nè secondava le simpatie; ma, avendo in mira unicamente l'anima, si avvicinava a costoro, li ricreava col racconto di qualche esempio, li invitava a passeggiare con lui, li faceva discorrere, li toglieva insomma dall'avvilimento, consolandoli con ogni miglior conforto.

                Una sua industria merita di essere qui rilevata in modo particolare. Quando si accorgeva che taluno da qualche [212] tempo più non si accostava alla Confessione, lo zelante giovanetto usava così: in bel modo procurava di associarsi con lui, si metteva a discorrere o a giuocare insieme e vi tirava innanzi per un po' di tempo; ma ad un tratto rompeva il filo del discorso, sospendeva la partita e diceva all'amico: - Vorresti farmi un piacere? Sì, sì, e quale? - Domenica io vorrei andarmi a confessare; verresti tu a farmi compagnia? - Generalmente il compagno per compiacerlo rispondeva di sì. Domenico ne aveva abbastanza, e riattaccava il filo del suo discorso, o proseguiva il suo trastullo. Al domani praticava il medesimo con un altro; così che al sabato sera o alla domenica mattina era cosa che edificava il vederlo appiè del confessore con due, tre, e talora persino con sette od otto giovanetti de' più restii agli esercizii di pietà, da lui attirati a quella pratica di religione. Questi fatti erano molto frequenti, e tornavano di grande vantaggio ai compagni, e di dolce consolazione a D. Bosco, il quale perciò soleva dire che Domenico Savio gli tirava più pesci nella rete co' suoi trastulli, che non i predicatori colle loro prediche.

                Savio non era però solo in queste sante imprese; fra gli altri se ne notava uno, l'ottimo giovanetto Massaglia Giovanni, suo vicino di paese, venuto contemporaneamente con lui all'Oratorio e come lui desideroso di abbracciare lo stato ecclesiastico con vero desiderio di farsi santo. - Non basta, un giorno Domenico diceva al suo amico, non basta il dire che vogliamo farci ecclesiastici, ma bisogna che ci adoperiamo per acquistare le virtù che a questo stato sono necessarie.

                - È  vero, rispondeva l'amico; ma se facciamo quello che possiamo dal canto nostro, Dio non mancherà di [213] darci grazia e forza per meritarci un favore così grande quale si è diventar ministri di Gesù Cristo.

                Nel fiorire di tante virtù nell'Oratorio, D. Bosco vedeva la mano della Vergine benedetta che le coltivava, sentiva l'efficacia della sua materna, protezione, mentre egli da parte sua cercava di corrisponderle col più ardente impegno. Ecco il movente ed il segreto da cui fu indotto alla prima prova di quello che fu poi la più grande sua opera: l'inizio cioè di quella Pia Società, alla quale aveva sempre rivolti i suoi desiderii. A questo fine dopo aver parlato lungamente in conferenze, ad alcuni suoi chierici più fidi, delle tre virtù che sono oggetto di voto in Religione, invitò il Ch. Rua, che allora percorreva il secondo corso di filosofia, ad emettere questi voti per un anno. Nulla però disse del suo gran disegno. Il buon chierico acconsentì, persuaso che si trattasse solamente di abitare con D. Bosco, e di aiutarlo con maggior efficacia nell'Opera degli Oratorii colla pratica di quelle virtù.

                Il Ch. Rua adunque, alla sera della festa della Annunciazione di Maria SS., nella camera di D. Bosco, senza alcun testimonio, assistito dal buon servo di Dio, in semplice veste talare, inginocchiato innanzi ad un crocifisso emise i primi voti annuali; imitato poco dopo da Don Alasonatti, il quale certamente doveva conoscere qualcosa più dei disegni del santo suo amico.

                In que' giorni, 25, 26, 27, 28 marzo, coll'intervento dell'Arcivescovo di Chambery e dei Vescovi di Mondovì e Casale, nel Santuario della Consolata celebravansi le feste solennissime della definizione dogmatica dell'Immacolata Concezione.

                Ma i sacri riti in Chiesa, la processione e la generale illuminazione in città erano stati rallegrati eziandio dalla [214] fama di un grande miracolo accaduto a Taggia in occasione che ivi festeggiavasi lo stesso glorioso avvenimento. Una statua di Maria SS. in plastica, di composizione durissima, alta circa un metro, colla veste color di rosa ed il manto azzurro, e reggente nella destra un cuore, veneravasi nella chiesa parrocchiale. I suoi occhi vivissimi erano rivolti dolcemente a destra. Ed ecco, l'11 marzo, quegli occhi si mossero fissando amorevolmente una fanciulletta inginocchiata innanzi all'altare. Quindi più volte le pupille si portarono sensibilmente da destra a sinistra ritornando poi alla loro posizione normale; ovvero si sollevavano fino a nascondersi quasi per intero sotto le palpebre superiori, e dopo si abbassavano. Questi moti accadevano ora lentamente, ora con assai celerità, e talora gli occhi si fissavano con insistenza su coloro che avevano davanti. Talvolta spiravano affetto, tal altra maestà. Talora il volto benedetto della Vergine, deposta la naturale dolcezza, atteggiavasi a dolore o mestizia, e svanito il suo colore vermiglio, coprivasi di un pallore sensibilissimo per circa due minuti. Erano frequentissimi questi cangiamenti di fisionomia. Più frequentemente offrivano l'aspetto di una persona assorta in profondi pensieri.

                All'eseguirsi delle movenze, oltre la turgidezza degli occhi, l'increspamento delle palpebre, si osservava animarsi lo sguardo in modo che sulla cornea, più brillante e più morbida dell'ordinario, appariva come l'umore cristallino di un occhio naturale. La fronte e il collo pareva trasudassero; sulle guance si scorgevano come dei moti muscolari; queste variazioni erano ancora più sensibili che non le stesse movenze delle pupille.

                Fanciulli e pie donne furono i primi a constatare il portento, e tosto tutta la città accorreva a contemplare [215] commossa, lagrimando, le meraviglie di Maria Immacolata. Il fatto era evidente, e si ripetè prima quasi tutti i giorni fino al 25 marzo, e si rinnovò molte volte interpolatamente nei mesi di aprile, maggio e giugno. Un severo processo dell'autorità ecclesiastica, istituito sul luogo nell'atto stesso dell'azione miracolosa, dichiarò doversi quella attribuire solamente ad una grazia del cielo, mentre 120 testimoni giurati attestavano la realtà di tanta meraviglia. D. Bosco se ne fece mandar relazione, che noi conserviamo, ne parlò ai giovani magnificando la bontà di Maria e il suo aiuto offerto ai popoli in tempi così calamitosi. Il Teol. Bellasio poi, ritornato da Taggia, ove era stato spettatore del miracolo, confermava entusiasmato nell'Oratorio quanto .aveva già annunciato D. Bosco.

                Così gli alunni dell'Oratorio di Valdocco colla mente e col cuore pieno del pensiero di Maria SS. si preparavano a celebrare la Pasqua, che ricorreva l'8 aprile, e presero parte ai sacri riti della settimana santa, che in quest'anno si incominciò a celebrare con qualche regolarità. Degli esercizii spirituali ai quali assistettero, Don Bosco ne tenne memoria, così scrivendo di Savio Domenico e di Garigliano:

                “Venuto il tempo pasquale, furono assidui cogli altri giovani agli spirituali esercizi con molta esemplarità. Terminati gli esercizi, Domenico disse al compagno: - Voglio che noi siamo veri amici per le cose dell'anima; perciò desidero che d'ora in avanti siamo l'uno monitore dell'altro in tutto ciò che può contribuire al bene spirituale. Quindi se tu scorgerai in me qualche difetto, dimmelo tosto, affinchè me ne possa emendare; oppure se scorgerai qualche cosa di bene che io possa fare, non mancar di suggerirmelo. [216]

                - Lo farò volontieri per te, sebbene non ne abbisogni; ma tu lo devi fare assai più verso di me, che, come ben sai, per età, studio e scuola mi trovo esposto a maggiori pericoli.

                - Lasciamo i complimenti da parte ed aiutiamoci vicendevolmente a farci del bene per l'anima.

                E mantennero con fedeltà la parola.

 

 

CAPO XXI. La Generala - D. Bosco e gli esercizii spirituali ai giovani prigionieri - Ottiene da Rattazzi di condurli a libera passeggiata - Lieto annunzio - A Stupinigi - Zelo affettuoso per i giovani detenuti - Società reale pel patrocinio dei giovani liberati dalla casa di educazione correzionale - Catture prevenute.

 

                LE prigioni continuavano ad essere uno dei campi ove D. Bosco esercitava il suo ministero sacerdotale. Ma fra questi luoghi di pena uno ve n'era pel quale egli nutriva speciale affezione. Si aveva e si ha tuttora in Torino una casa correzionale pei giovani minori, o consegnátivi dai parenti per indocilità, od anche condannati dai consigli di polizia, o dai Tribunali per qualche delitto più o meno grave. Lo stabilimento chiamasi La Generala.

                Fu aperto dal Governo Piemontese nel marzo del 1845, a mezzodì della città; è capace di 300 giovani e dipende dal Ministero degli interni. Sul principio era stata affidata la direzione di quel penitenziario alla Società di S. Pietro in Vincoli, fondata nel 1839 dal Can. Abate Fissiaux sotto gli auspizii di Mons. de Mazenod Vescovo [218] di Marsiglia. Ma cambiati i tempi, questa società venne congedata.

                Nella Generala, molti dei detenuti spettano a genitori che poco o nulla si curarono della loro educazione; altri appartengono a famiglie o cattive, o di sospetta condotta; taluni hanno od ambidue i genitori od uno di essi od,altri parenti già incarcerati; non pochi sono orfani e lasciati in tale abbandono, per cui si macchiarono di colpe che interessarono la polizia. I giovani generalmente, varcati i venti anni, sono incorporati nell'esercito, e quelli che non hanno ancora terminato la loro pena, sono traslocati nelle carceri degli adulti. I detenuti, di notte sono rinchiusi in celle separate, e di giorno vengono applicati,o all'agricoltura, o a qualche arte o mestiere, sorvegliati sempre dalle guardie.

                Quando la Religione vi ebbe il suo posto d'onore e venne fatta conoscere, amare e praticare, la disciplina si rese più facile, migliorarono i costumi e a poco a poco i giovani si trovarono come rigenerati a vita novella. Ma quando poca o niuna influenza vi potè esercitare la Religione, successero in quel luogo deplorevoli disordini. Bisognò punire rivolte giornaliere, litigi, risse, ferite, attentati contro i costumi, ed altre azioni abbominevoli. I sovrastanti dovevano talora sorvegliare colle baionette in canna.

                D. Bosco adunque, finchè i Capi si mostrarono benevoli al prete e finchè i regolamenti carcerarii e le sue, occupazioni glielo permisero, ottenne di potersi recare a quando a quando in mezzo a quei poveri giovani, degni della più alta compassione. Egli col permesso del Direttore delle carceri li istruiva nel catechismo, faceva loro prediche, li confessava, e molte volte s'intratteneva con essi [219] amichevolmente, come praticava co' suoi figliuoli dell'Oratorio. Non occorre dire che i giovani prigionieri, vedendosi trattati con sì bel garbo, riguardavano D. Bosco come un padre, e gli davano ogni volta le più sincere prove di stima e di affetto, e per non disgustarlo si sforzavano di menare una vita, per quanto sapevano, irreprensibile. Una volta operarono, per così dire, un miracolo, e dimostrarono luminosamente quale potere abbia il sistema preventivo per ammansare gli animi, anche i più ostinati e ribelli. Il fatto venne già pubblicato da varii scrittori. Fra gli altri ne parlarono l'abate Luigi Mendre, il dottor Carlo d'Espiney, e il Conte Carlo Conestabile.

                Poco dopo la Pasqua del 1855 D. Bosco aveva dato a que' giovani gli esercizii spirituali, che furono fecondi di benedizioni per le loro anime. La dolcezza e la carità del suo cuore avea guadagnati anche i più discoli ed era riuscito a farli accostare tutti a' santi Sacramenti, un solo eccettuato. Ne' suoi uditori, ne' suoi penitenti aveva riconosciuto una sincera conversione al bene, e nel tempo stesso una affezione profonda ed una riconoscente simpatia per la sua persona. Il santo Prete ne fu commosso, e risolvette di ottenere per essi un qualche allievamento alla loro prigionia. Il primo pensiero che gli venne fu di una bella passeggiata, persuaso che la privazione di moto e di libertà era la più dura e insopportabile punizione. .Si recò pertanto dal Direttore delle carceri della città, e, - Vengo, gli disse, a farle una proposta; vi è probabilità che sia accettata?

                - Faremo tutto quello che potremo, signor Abate, per compiacerla, rispose l'Ufficiale, perchè la sua influenza sui nostri carcerati ci è stata di grande aiuto. [220]

                - Ebbene! la mi permetta, Signor Direttore, che io implori una grazia per questi poveri giovani, la cui esemplare condotta da parecchio tempo non dà motivo ad alcuna lagnanza; la mi permetta di farli uscir tutti per un giorno: li condurrò a fare una gita a piedi a Stupinigi; si parte di buon'ora e si torna a notte: questa passeggiata farà loro del bene per l'anima e pel corpo.

                Il Direttore sbalordito aveva fatto un salto sulla seggiola. -Ma lei non parla sul serio, signor Abate, esclamò!

                - Parlo colla maggior serietà del mondo, ripigliò il prete, e la supplico di prendere in considerazione la mia domanda.

                - E non sa ella che io son responsabile di ogni fuga?

                - Stia sicuro che di fughe non ve ne sarà nessuna; io se vuole affidarmeli questi giovani, mi impegno di ricondurglieli tutti, fino ad uno.

                Lunga fu la discussione: D. Bosco insisteva: il Direttore trinceravasi dietro la inflessibilità del regolamento; finalmente non potendo prendere nulla sopra di sè, acconsentì di parlarne al Ministro.

                D. Bosco intanto recavasi a visitare il Cav. Carlo Farcito di Vinea, che era in quel tempo intendente generale, ossia Prefetto della Provincia, al quale spettava dare il permesso. Ma l'Intendente ascoltata la domanda fu inesorabile nella negativa.

                Il Direttore delle Carceri però manteneva la data parola.

                Era sempre al Ministero Urbano Rattazzi, uomo che, se difettava di qualità morali, aveva però molto ingegno. Riflettè un istante sulla proposta, che il Direttore delle prigioni gli presentò a nome di D. Bosco; poi fece sapere [221] a questi che desiderava di vederlo. Erano per trovarsi faccia a faccia l'avversario e il difensore degli Ordini religiosi. Rattazzi doveva avere, almeno confusamente, notizia delle lettere scritte da D. Bosco al Re, ma non sembra che ne abbia fatta parola.

                D. Bosco si presentò al Ministro con quell'aria semplice ed aperta, che gli era naturale, e che conservava sempre anche alla presenza dei più alti personaggi. Il Ministro lo ricevette con isquisita gentilezza. - Voglio, signor Abate, acconsentire, diss'egli, alla proposta, che in nome della S. V. mi è stata fatta uno di questi giorni. Lei potrà mettere in esecuzione il suo disegno di passeggiata, la quale farà molto bene a questi giovani prigionieri sì dal lato morale come dal lato fisico: darò gli ordini necessarii: da lontano la seguiranno carabinieri travestiti per aiutarla in caso di bisogno a mantener l'ordine, e per far uso della forza, se alcuni recalcitranti rifiutassero la sera di rientrare in prigione.

                Il Ministro aveva pronunciato queste parole con accento fermo, e credeva di aver soddisfatto a tutti i desiderii di D. Bosco. Ma questi aveva sorriso udendo parlare di carabinieri.

                - Eccellenza, rispose egli, io Le sono riconoscentissimo della sua cortesia, ma non metterò in atto il mio disegno che ad una sola condizione, che Ella mi permetta cioè di essere tutto solo coi miei giovani, che mi dia la sua parola di onore di non mandare la forza pubblica sulle mie tracce. Prendo la cosa tutta a mio rischio; e Vostra Eccellenza mi farà mettere in prigione se avverrà qualche disordine.

                Il Ministro fu stupefatto.

                 - Ma, esclamò egli, Lei alla sera non ne ricondurrà nemmeno più uno di quei tristi arnesi. [222]

                - La si fidi di me, rispose D. Bosco; e il suo contegno mostrava chiaramente che non avrebbe ceduto.

                Dunque o prendere o lasciare. D'altra parte Rattazzi era curioso di fare la prova; oltre a ciò, quel prete gli ispirava piena fiducia; e perciò permise a D. Bosco di fare quel che voleva.

                Per altro lato egli avrà pur detto a se stesso: Qualora taluno avesse l'ardimento di prendere la fuga, non sarà difficile ai gendarmi di rinvenirlo tra pochi giorni e ricondurlo in gabbia.

                D. Bosco non tardò a ritornare alla Generala per disporre i trecento prigionieri a godere degnamente del singolarissimo favore loro accordato. La sera innanzi a quel giorno memorando, egli li raccolse tutti insieme e tenne loro un discorso, concepito presso a poco in questi termini:

                - Giovani cari, ei disse, vi ho da dare una notizia, la quale vi farà molto piacere. In premio della benevolenza che mi avete finora dimostrata; in premio della buona condotta che da qualche tempo menate; in premio sopratutto della vostra corrispondenza alle povere mie fatiche nel corso degli Esercizi spirituali, mi sono recato dal signor Intendente generale, indi dal signor Ministro, ed ho ottenuto la licenza di condurvi domani a fare una passeggiata sino a Stupinigi. - Udite queste parole, quei poveri giovani alzarono un grido colossale di maraviglia e di gioia, impossibile a descriversi. Ricondotto dopo alcuni momenti il silenzio e la calma, D. Bosco continuò: - Voi vedete quanto sia grande questo favore; è questa una grazia più unica che rara; e fino ad oggi non fu concessa ancora. - Viva il Ministro! Viva D. Bosco, esclamarono con gran voce i giovani pieni di entusiasmo. - Sì, viva [223] il Ministro, proseguì D. Bosco; ma ora ascoltate, o miei cari, il più necessario: Io ho impegnata la mia parola che voi dal primo all'ultimo vi sareste regolati sì bene,, da non aver bisogno nè di guardie, nè di gendarmi presso, di noi; ho impegnata la mia parola che domani sera dal primo all'ultimo voi sareste rientrati in questa dimora, Potrà io vivere tranquillo sulla vostra condotta? Potrò io stare sicuro che niuno di voi cercherà di fuggire? - Sì, sì, stia sicuro; saremo buoni, saremo buoni; - fu questo il grido unanime. Anzi uno dei più adulti prese a dire: - Pel corpo di mille bombe, se mai qualcuno cercasse di fuggire gli correrò dietro e lo squarterò come un pollo; - ed io, soggiunse un altro non meno violento, con una, pietra spaccherò la testa a chiunque le desse un dispiacere; - non verrà di certo più a casa vivo, gridò alla, sua volta un ercolaccio sui 18 anni, quel furfante che disonorasse la nostra partita. - Basta, basta, disse Don Bosco; questo parlare non istà bene e mi fa pena. Io mi fido di voi tutti; so che mi volete bene, e non mi darete disgusti. Intanto, così per dire, vi noto solo che la città di Torino domani avrà gli occhi sopra di noi. Se mai qualcuno si regolasse male, ne scapiteremmo tutti e ne scapiterei io pel primo, che ho domandato e vi ho ottenuto questo favore, e il pubblico avrà ragione di dire che io, fui imprudente e che mi sono lasciato gabbare; ne scapitereste voi pure, e passereste per giovani, di cui niuno abbia più a fidarsi. E poi che cosa varrebbe il fuggire? A meno che uno mettesse le ali, del resto dopo poche ore, o tutto al più dopo un giorno o due, sarebbe nuovamente arrestato, messo in più dura prigione. Invece se tutti vi diportate bene, e che alla sera rientriate in Casa senza alcuna difficoltà, chi sa che non vi sia in appresso [224] riconceduto questo favore medesimo, e così di quando in quando possiate godere di consimili passeggiate? - Ma tutte queste sono considerazioni umane; una ve ne ha ancora, miei cari giovani, molto più importante. Voi avete ultimamente fatto le più belle promesse a Dio, di essere buoni e di non più offenderlo. Orbene egli vi guarda dal Cielo, pronto a benedirvi adesso e in avvenire, se gli sarete fedeli. Date adunque domani una prova luminosa della sincerità e fermezza delle vostre risoluzioni. Tutti all'ordine; bando alle disobbedienze, agli alterchi, alle risse. Lo promettete? -Sì, sì, lo promettiamo; parola d'onore; vedrà, vedrà. - Ed uno di loro aggiunse - Lei sarà nostro generale in capo, e a nome di tutti i miei compagni l'assicuro, che non mai generale alcuno avrà avuto soldati più docili e più disciplinati.

                D. Bosco così assicurato passò indi ad annunziare l'ora dell'uscita, l'ordine dell'andata, della fermata e del ritorno, e in fine licenziandosi per ritornare in Valdocco disse: A rivederci domattina. - Quei poveri giovani non capivano più in sè per la gioia, e fin da quella sera si mostrarono coi loro custodi così quieti ed ubbidienti quali non erano stati mai.

                Al domani per tempo guidati da D. Bosco prendevano la strada di Stupinigi. È  questo un villaggio di circa mille anime, situato presso il Sangone, a quattro miglia ed a sud - ovest di Torino, dove vi ha un regio parco. Quivi li aspettava il parroco il M. Rev. D. Emanuele Amaretti amico cordiale di D. Bosco e di D. Alasonatti.

                Usciti dalla loro prigione, godevano con riconoscente gioia una giornata di sole e di libertà, preceduti da un somiere carico di provvigioni. L'affettuosa loro tenerezza verso D. Bosco fu commovente. Quando lo videro un po' [225] affaticato pel cammino, in un batter d'occhio tolsero sulle loro spalle le provvigioni di cui era caricato il giumento e, lo costrinsero a salire a cavallo di quell'animale. Due di loro tenevano la briglia. A Stupinigi D. Bosco li condusse in chiesa, celebrò la santa Messa, li trattò allegramente a pranzo e a merenda e durante tutta la giornata li occupò in svariati divertimenti. Descrivere la contentezza che rifioriva su tutti quei volti è cosa impossibile. Godettero un mondo di delizie, nei viali del castello reale, all'ombra delle piante, sulle sponde delle acque, in quei prati vestiti di erbe e smaltati di fiori.

                La loro condotta fu inappuntabile; nessuna contesa venne a turbare la pace di quel giorno, e D. Bosco non ebbe bisogno nè di avvertimenti nè di rimproveri per mantenere la disciplina. La sera rientrarono tutti nella loro triste dimora più rassegnati alla loro sorte e più docili di prima.

                Il Ministro aspettava con impazienza il risultato della spedizione; non ostante la fiducia che gli ispirava Don Bosco, egli non si sentiva del tutto tranquillo. Ma Don Bosco, senza perdere tempo, andò in persona dal Ministro, il quale fu attonito al racconto del prete.

                - Le sono riconoscente, signor Abate, diss'egli, di quanto ha fatto pei nostri giovani prigionieri, ma vorrei sapere dalla S. V. motivo, per cui lo Stato non ha sopra quei giovani l'influenza, che Lei ha esercitato?

                - Eccellenza, rispose il prete, la forza che noi abbiamo è una forza morale; a differenza dello Stato, il quale non sa che comandare e punire; noi parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è la parola di Dio.

                Ed il Ministro dovette comprendere che la Chiesa possiede una forza misteriosa che non attinge quaggiù, e [226] che le persecuzioni degli uomini non fiaccheranno giammai. E disse a D. Bosco: - Voi potete regnare sopra il cuore della gioventù: noi non lo possiamo punto; questo è dominio a voi riservato. - Egli così potè toccare, diremmo con mano la efficacia del sistema preventivo, nella educazione dei giovani, anche i più discoli, come D. Bosco gli aveva dimostrato nell'anno antecedente.

                E se ne ricordò quando più non seppe ove collocare un suo giovane nipote assai dissipato per fargli prendere una buona piega. Per un istante aveva risoluto di metterlo in una casa di corrigendi, ma poi riflettè: - C'è ancora D. Bosco che può insinuarsi nel cuore di questo, povero figliuolo. - E glielo condusse affinchè lo riducesse a buoni sentimenti e a sani consigli. “E D. Bosco lo accettò, attesta D. Rua, ne formò un buon operaio ed un buon Cristiano, quale io conobbi intimamente. Il fatto è noto a tutto l'Oratorio”.

                Di questa gita memorabile fa testimonianza Piano Gio. Batt., ora curato della Gran Madre di Dio in Torino, che udiva parlarne da molti de' suoi compagni, dei quali un bel numero è ancor tra i viventi. La stessa cosa confermò, avendone ricevuto certa notizia, Don Savio Ascanio, che da qualche anno era uscito dalla casa di Valdocco.

                Il commendatore Giuseppe Boschi, senatore e Capo, Sezione al Ministero degli Interni, da cui dipendeva la Generala, zio paterno del Can. Anfossi, narrava a suo nipote quanto abbiamo esposto sopra della passeggiata alla Villa di Stupinigi. E questo signore favoriva quanto poteva l'opera di D. Bosco giudicandola meravigliosa, e parecchie volte gli fece avere sussidii dal Governo.

                Tale fatto è pure ricordato dal Bollettino Ufficiale della [227] Direzione generale delle Carceri, anno XVIII, 1888, fascicolo 1 - 2, pag. 85.

                In ultimo, quasi a suggello di queste testimonianze diremo che quella predicazione di D. Bosco ebbe frutti grandi e duraturi. Quando egli non potè più andare alla Generala, continuò a mandarvi qualche suo prete come confessore ordinario; e poi, per inviti delle Autorità e per esortazioni di lui, i Salesiani da quell'anno continuarono sempre, come tuttora continuano, a prestarsi a pro di quei giovani infelici, colla predicazione degli esercizi spirituali, i quali però non devono impedire il solito orario del lavoro: disposizione disturbatrice, e imprescindibile!

                Ma quali dovettero essere i sentimenti di D. Bosco quando, ritornato da Stupinigi, udì tante voci commosse che lo ringraziavano, e vide chiudersi le porte della prigione dietro le spalle de' suoi disgraziati amici? Oh, la sua soddisfazione fu amareggiata certamente da grande tristezza. Non tutti que' giovani si potevano chiamar colpevoli. Là, nella Generala, vi erano fanciulli dei quali, per sbarazzarsene, genitori senza cuore, avevano accusata come insubordinazione la leggerezza dell'età e la vivacità di carattere. Altri erano stati imprigionati per un primo furto di pochi soldi, o di qualche frutto o pane sul mercato, talora spinti dalla fame. Ora più d'uno di questi miserelli, entrando in carcere, ancor non sapevano che cosa fosse vizio; ma tra non pochi compagni rotti al mal fare, con un regolamento che solo riconosceva la forza come sistema di educazione, correvano rischio di venir depravati quasi irreparabilmente.

                Perciò D. Bosco, sovente e da più anni, allorchè un giovanetto non era stato colpito da sentenza di tribunale, faceva le pratiche necessarie per poterlo restituire in [228] libertà, e quando non aveva alcuno che si interessasse di lui, talvolta lo accoglieva nel suo Ospizio, oppure si occupava di collocarlo presso buoni padroni. In questo caso non lo dimenticava, ma andava a visitarlo per incoraggiarlo al bene, e intanto l'animava e frequentare l'Oratorio, o la parrocchia nei giorni festivi.

                Ma di ciò non ancora soddisfatta la carità di Don Bosco, egli prestava l'opera sua ad una Società stabilitasi in Torino, con regia approvazione, come protettrice dei giovanetti che venivano liberati dal Carcere. Dai documenti, che qui esponiamo, s'intenderà l'importanza e lo scopo di quella.

                D. Bosco riceveva adunque il seguente foglio.

 

Torino, 8 Agosto 1855.

 

                               Preg.mo e Rev.mo Signore,

 

                La commissione di Collocamento in Adunanza delli 23 Luglio p. p. ha nominato il Sig. Sacerdote D. Giovanni Bosco socio operante a Patrono del giovane Luigi Pesciallo di Vacarezza d'anni 16, il quale sarà rilasciato dalla casa di Educazione correzionale sotto li 15 corrente mese.

                Egli attendeva nella stessa casa alla professione di sarto e desidererebbe continuare nella medesima.

                E sottoscritto nel comunicare al prefato Sig. Sacerdote Don Bosco la di lui nomina lo prega di voler dedicare le sue cure a pro del giovane liberando a seconda delle istruzioni annesse al presente foglio[12]. [229]

                Lo prega inoltre di volersi previamente concertare in proposito col signor Intendente Generale Costa segretario della Società e [230] col Sig. Teologo Tasca Rettore del Collegio degli Artigianelli dove il liberando sarà accompagnato, mentre gode dichiararsi con perfetta osservanza

                Del Signor Socio

Dev.mo obb.mo Servitore

Il Vice - Presidente anziano della Società

Presidente della Commissione di Collocamento

Cagnone.[231]

                A nome di D. Bosco così rispondevagli il Prefetto dell'Oratorio:

 

                In osservanza degli ordini del mio sig. principale D. Bosco, al quale V. S. Ill.ma destinava il patrocinio del giovane Luigi Pesciallo, datandolo dall'imminente giorno 15, mi reco a premuroso dovere di comunicarle come il prefato sacerdote di buon grado vi acconsente. Disposto anzi a riceverlo e tenerlo nella casa annessa all'Oratorio sovrindicato, mira di proposito a liberare cotesta benemerita Commissione da ogni responsabilità sull'avvenire del giovane, comechè nondimeno le faccia certezza di farlo continuare nella professione di sarto, e non intenda rinunziare alla consueta pensione ed ai relativi benefizii.

                Non è altrimenti che per l'assenza di lui d'alquanti dì e per l'impossibilità mia di recarmi nuovamente presso la S. V. Illustrissima, che debbo per lettera recarle ragione dell'indugio a venire presso di Lei, onde prendere le intelligenze volute, e che induce necessità di esprimerle in iscritto l'accettazione del patronato sotto le preaccennate condizioni, che ebbi l'onore di rassegnare alla nota di Lei saviezza.

                Nel supplicarla di voler gradire gli attestati della più alta considerazione e del massimo rispetto pel prefato Sig. Sacerdote e pel dovere mio passo a costituirmi con lui

                Di V. S. Ill.ma

                Torino (Valdocco) il 14 agosto 1855.

Umil.mo osseq.mo servitore

Sac. Don Alasonatti Prefetto.

 

                Col giovane Pesciallo D. Bosco accolse eziandio il suo compagno Morgando alle stesse condizioni. M tardi ne trasse alcuni altri da quelle prigioni; ma l'esperienza provò che quasi sempre la profonda corruzione li rendeva incorreggibili.

                Quindi D. Bosco, pel desiderio di salvare quei che poteva da tanto disastro, studiavasi di impedire che [232] fossero imprigionati certi vagabondi privi di chi li sorvegliasse, ed altri dei quali erano state presentate lagnanze alle autorità. Perciò allorchè veniva eletto un nuovo sindaco, tosto scrivevagli, dichiarandosi pronto ad accettare nell'Oratorio que' giovanetti che non si sapesse ove ricoverarli. E la questura molti ne raccomandava. Don Bosco però prima di accoglierli, fissava sempre le condizioni, non volendo correre pericolo di aver talora in casi fanciulli pericolosi.

                E se esistevano parenti responsabili, imponeva loro che riconoscessero dall'Oratorio tale benefizio, e che non mettessero in alcun modo ostacolo alla riforma morale del giovane.

                La sua accondiscendenza all'Autorità era corrisposta dalla benevolenza dei delegati della questura, necessaria in molte circostanze e in specie quando si accendevano nel popolo le passioni politiche.

 

 

CAPO XXII. Letture Cattoliche: I BENI DELLA CHIESA - Proposta dell'Episcopato al Governo per il ritiro della legge sui Conventi - Piazzate, menzogne e tradimenti - Massimo d'Azeglio al Re - Morte di un figlio di Vittorio Emanuele - Il Senato approva la legge -Preghiere nell'Oratorio - Ultimi avvisi salutari al Sovrano Parere de' Teologi Cesaristi - È  apposta alla legge la firma reale - D. Bosco rimprovera un consigliere aulico -Vittorio Emanuele presso l’Oratorio - Sdegnose Parole d'un generale contro D. Bosco - Un amico dì più.

 

                I CATTOLICI vivevano in ansiosa aspettazione per l'esito temuto della legge Rattazzi. D. Bosco aveva già prima pubblicato la carta di fondazione di Altacomba con l'esposizione di tutte le maledizioni comminate a chi osasse espropriare i religiosi di quel convento. Ed ora pel mese d'Aprile colla tipografia Ribotta stampava in due fascicoli per le Letture Cattoliche un libro del Barone Nilinse intitolato: I beni della chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appendice sulle vicende del Piemonte. Sul frontispizio stava scritto:  [234]

                Come i Per nessun diritto si può violare la casa di un privato e tu hai ardimento di mettere la mano sopra la casa,del Signore! S. AMBROGIO. - Molti dei fatti descritti in,detto libro erano anche tolti da autori protestanti. Esponevano i tremendi castighi che nel corso dei secoli caddero sopra tutti coloro, che, regnanti o sudditi, avevano tolti, venduti, comprati i beni consecrati a Dio; e dimostravano che non solo gli spogliatori della Chiesa e degli Ordini Religiosi, ma eziandio le loro famiglie ne andarono colpite quasi sempre, avverandosi il terribile proverbio: “La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla,quarta generazione!”

                Questi due fascicoli levarono un gran rumore e servirono potentemente ad insinuare nell'animo di molti un salutare timore, distogliendoli dall'acquistar tali beni.

                La polizia se ne sgomentò per l'effetto che si temeva potessero produrre nelle popolazioni. Si parlò di sequestrati, ma poi si riflettè essere meglio non farne caso. Brofferio però in mezzo ai deputati giudicò essere quei fascicoli una provocazione insultante contro il potere legislativo, e gridò che bisognava cercarne I' autore e punirlo; ma nessuno appoggiò la sua invettiva, e si finì con mettere la cosa in tacere.

                Intanto il 23 aprile incominciò la discussione in Senato. I pareri erano discordi e le dispute talora degeneravano in contese, per soffocare la stringente eloquenza degli oratori cattolici. Battagliavasi già da tre giorni, quando il Senatore Mons. di Calabiana Vescovo di Casale, per, smascherare l'ipocrisia e sconcertare le trame dei nemici del clero, previo concerto coll'Episcopato, ottenuto il beneplacito della S. Sede, e avvertito il Re, propose di offrire al Governo la somma di 928.412 lire, purchè si ritirasse [235] la legge. Tale somma era stata cancellata dal bilancio del corrente anno, e trovavasi prima assegnata a congrue e a supplementi di congrue dei parrochi delle province di terraferma. Per questa proposta i Ministri restarono impacciati, perchè la ragione sulla quale si erano più fortemente appoggiati per ottenere la soppressione dei conventi, era precisamente quella di aver danaro per queste congrue. Cavour allora pregava il Senato a sospendere le sedute, poichè il Re Vittorio aveva visto di buon occhio questa transazione. La moglie e la madre nell'estremo momento avevano fortemente perorato, presso il marito ed il figlio, la causa della Chiesa perseguitata. Era potente nel suo cuore il ricordo delle morenti, e sentivasi pronto ad accettare le condizioni offerte da Roma. Quando Monsignor Ghilardi, Vescovo di Mondovì, la sera prima di quella proposta fu a visitarlo per dargliene comunicazione e per mostrargli i vantaggi di quella transazione, ne fu così contento che, congedandosi il Vescovo a notte tardissima, lo accompagnò, a capo scoperto e dandogli il braccio, fino a metà della strada che fiancheggiava il duomo. L'indomani però, 27 aprile, i Ministri sì dimettevano. Il generale Giacomo Durando era stato in quel mentre incaricato della composizione di un nuovo gabinetto con queste condizioni: I° Di ricorrere ad uomini che pensassero come gli antichi ministri: 2° Di mettere per patto gli accordi con Roma. Una di queste condizioni distruggeva l'altra, ed erano indizii di un gran turbamento che agitava l'animo perplesso del Re.

                Intanto i settarii cercavano coi loro soliti maneggi di influire sull'animo del Sovrano. I giornali minacciavano un finimondo se accettavasi la proposta di Calabiana e se Cavour non ritornava al potere. Gli studenti della [236] Università facevano gazzarra gridando: Viva la legge Rattazzi! La plebaglia urlava. I Senatori avversi alla legge erano insultati per le vie. La solita turba prezzolata mandava a pezzi i vetri dell'abitazione di Monsignor Anzini presso il quale alloggiava il Vescovo di Casale. Le autorità pubblicavano illegali ed intempestivi manifesti. Dispacci, ogni giorno in gran copia, annunziavano al Re un'agitazione nelle province, che non esisteva. Egli riceveva continue lettere di dimissioni minacciate dai pubblici ufficiali d'alto grado. Era eziandio angustiato per le repentine venute di alcuni capi militari dichiaranti di abbandonare il comando della spedizione di Crimea, che da essi era stata voluta, qualora la Corona si fosse volta ad uomini non di loro gradimento. Uno straordinario apparecchio di forze militari spiegato sotto le finestre del palazzo del Re stava pronto a dissipare ribellioni immaginarie.

                Massimo d'Azeglio, appena seppe che il Re pareva inchinato a troncare l'opera cominciata contro la Chiesa, ne tremò tutto e cercò subito di parlargli. Andò al palazzo, ma non fu ricevuto. Allora osò scrivere al Re una lettera ne' termini seguenti: “Maestà, creda ad un suo vecchio e fedele servitore che nel servirla non ha mai pensato che al suo bene, alla sua fama ed all'utile del paese; glielo dico colle lagrime agli occhi ed inginocchiato ai suoi piedi, non vada più avanti nella strada che ha preso. È  ancora in tempo. Riprenda quella di prima. Un intrigo di frati è riuscito in un giorno a distruggere l'opera del suo regno, ad agitare il paese, scuotere lo Statuto, oscurare il suo nome di leale. Non v'è un momento da perdere. Le dichiarazioni ufficiali non hanno risolta la questione in ultimo appello. S'è detto che la Corona voleva cercare nuovi [237] lumi. La Corona dica che questi lumi le hanno mostrate inaccettabili le condizioni  proposte. Siano considerate come non avvenute…..e le cose prendano il loro corso naturale costituzionale di prima. Il Piemonte soffre tutto, ma l'essere di nuovo messo sotto il giogo pretino, no, per.....

                Veda in Spagna gli intrighi' dei frati colla Regina per farle firmare un concordalo vergognoso a che cosa l'hanno condotta! Questi intrighi hanno rovinato Giacomo Stuart, Carlo X e molti altri. Maestà, lo sa, le cose che le ho predette sono avvenute; mi creda, non si tratta di religione, ma di interessi; Amedeo Il disputò trent'anni con Roma, e vinse. Sia ferma e vincerà anche V. M.” La lettera porta la data del 29 aprile 1855.

                E quest'uomo, essendo presidente del Ministero, sul finire del dicembre 1849 in un convegno per un accordo tra i Ministri e i Deputati della sinistra, era uscito in questa singolare dichiarazione: che egli non s'intendeva molto di Costituzione e non aveva neppure letto lo Statuto[13].

                E fu lui il mal genio che volle ritrarre il Re dalla buona via, lui che non aveva neppur letto l'ART. 29 dello Statuto: Tutte le proprietà, SENZA ALCUNA ECCEZIONE, sono inviolabili.

                Intanto il generale Durando parve si travagliasse inutilmente per otto giorni in ricerche ed in conferenze per formare il nuovo Ministero. Ma era quella una commedia, e il 3 maggio, radunatosi il Senato, il generale Durando dichiarava che gli antichi Ministri avevano ripreso il portafoglio e Cavour la presidenza. Questi chiedeva subito [238] che fosse continuata la discussione della legge Rattazzi e a tal fine stabilivasi il giorno 5 di maggio.

                Senonchè, mentre in senato si discuteva sul malaugurato progetto, il 17 maggio la casa reale fu coperta nuovamente di gramaglia. La compianta Regina Maria Adelaide aveva messo alla luce un maschio gli 8 di gennaio di quest'anno. Il bambino, Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio godeva di ottima salute e prosperava; quando in breve fu ridotto agli estremi ed andò a raggiungere la madre. In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello ed il figlio. Il sogno di D. Bosco erasi pienamente avverato.

                Ciò non ostante, il 22 maggio con 53 voti contro 42 il Senato approvò la legge con qualche modificazione proposta dal senatore Des - Ambrois. Erano soppressi gli Ordini religiosi designati dalla legge col sequestro immediato d'ogni loro proprietà; ma i membri si lascierebbero morire nei conventi obbligandoli però ad abitare in quelle case che sarebbero designate dal ministero e con un assegno corrispondente al reddito netto dei beni ora posseduti dalle loro case; non maggiore però di 500 lire per ogni religioso o religiosa professa e di 240 lire per ogni frate laico o conversa.

                La legge così modificata era cosa certa che il Parlamento si sarebbe affrettato ad approvarla. D. Bosco, deplorando tanto male, aveva fatto pregare in molti Istituti della città, e non solo aveva esortati i suoi giovani a speciali pratiche di pietà, ma eziandio a digiunare a pane ed acqua per un giorno intero. E tutti l'ubbidirono, ci raccontò D. Turchi Giovanni.

                In uno di questi giorni D. Bosco stava in refettorio dopo la cena. Aveva intorno i chierici Turchi Reviglio, [239] Savio Angelo, Francesia, Cagliero, Rua ed altri, e parlandosi di quella legge uscì a dire: - Manca più solo la firma di Vittorio Emanuele perchè molti conventi siano distrutti. Se io potessi parlare al Re gli direi: Maestà, non sottoscrivete questa legge, altrimenti sottoscriverete a molte altre disgrazie su di voi e sulla vostra famiglia.

                Qualcuno dei presenti lo interrogò! - Non sarebbe bene che qualcheduno di noi scrivesse al Re?

                - Certamente; e tu, Savio, ti senti di scrivere?

                - Io sì, rispose Savio Angelo; dica pure.

                - Scrivi dunque così: “Sacra Reale Maestà! Ieri m sono trovato in una conversazione, e tra le persone presenti vi era D. Bosco. Si parlava delle cose del giorno e della legge Rattazzi passata al Senato. D. Bosco disse: Se io potessi parlare al Re gli direi: Maestà, non sottoscrivete la legge soppressiva dei conventi, altrimenti sottoscrivereste a molte disgrazie su di voi e sulla vostra famiglia. Dì ciò vi avverto come suddito fedele, affezionato ed ossequente”.

                Il chierico scrisse e pose la firma: Savio Angelo di Castelnuovo d'Asti.

                Ma spedita questa lettera, D. Bosco non fu ancor soddisfatto; quindi, agitato da una santa impaziente commozione, scrisse un'ultima lettera in latino, nella quale ripeteva la frase: “Dicit Dominus: Erunt mala super mala in domo tua”. Non più scongiurava, minacciava ancor più gravi castighi se avesse posto la sua firma alla legge. Quindi si affrettò a mandarla ad uno dei capi valletti di servizio, uomo che nel palazzo reale aveva moltissimo credito, e la confidenza del Re. Si chiamava Occhiena, era di Castelnuovo, suo amico, un po' suo parente, ed i [240] cui figli frequentavano l'Oratorio. Il Re era partito nello stesso giorno per Susa. Il Sig. Occhiena, ricevuta la lettera: - Sta bene, rispose al latore: di' a D. Bosco che appena il Re sarà di ritorno gli sarà consegnata. Vado a metterla nelle sue stanze.

                - Ma è pressantissima: bisogna che il Re la legga subito.

                - Allora riporta a D. Bosco che stia tranquillo; la lettera sarà spedita all'istante. - E chiamato un valletto, gli ordinò di sellare il cavallo e gli consegnò la lettera. Il valletto raggiunse il Re a S. Ambrogio.

                - Una lettera per Vostra Maestà.

                - Una lettera? Dalla a qualcuno del seguito, la leggerò quando sarò in comodo: ora ho altri affari per le mani.

                - Ma è pressantissima e parla di cose che importano molto a Vostra Maestà.

                - E chi è che me la manda?

                - D. Bosco.

                - Contacc! Ne ha sempre delle nuove costui. Mi scrive cose che mi dánno da pensare. Dammi quel foglio.

                Il Re aperse la lettera, e dopo una rapida scorsa:

                - L'ho detto io, esclamò; sempre così. Riportala, custodiscila, e poi quando sarò di ritorno me la darai. - Così dicendo si avviò; ma fatti pochi passi, si volse indietro, chiamò il paggio. - Ma no, gli soggiunse; dalla a me quella lettera. - E messala in saccoccia continuò il viaggio.

                Il Re ne era stato sconvolto, tanto più che lo addolorava la morte del figlio, come udì il Ch. Cagliero dalla bocca del Marchese Fassati, che aveva vista la lettera dì D. Bosco aperta sul tavolino del Re. Il Sovrano, ritornato [241] a Torino, fece leggere a qualche Ministro la lettera di Don Bosco dicendo: - Guardate quello che mi scrive D. Bosco. Dite voi ora se debbo firmare la legge. - Non sappiamo quale risposta abbiano data que' signori, ma il 28 maggio, ritornata la legge alla Camera dei Deputati, veniva approvata con 95 suffragi contro 23. Essa adunque conteneva cinque disposizioni principali. La soppressione di quei conventi che non attendevano alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi; quella dei benefici e dei capitoli collegiali nelle città che non oltrepassavano i 20.000 abitanti; l'erezione di una cassa ecclesiastica; le pensioni da assegnarsi ai religiosi; e finalmente una tassa speciale da imporre sui corpi morali ed enti ecclesiastici non soppressi.

                Quando la legge venne presentata al Re per la firma egli rispose; - Sospendiamo; lasciatemi che possa pensarci un po' sopra. - È  forse in questa occasione che il generale La Marmora o qualcuno della sua famiglia si presentò a colloquio segreto da D. Cafasso alle due dopo mezzanotte, intrattenendovisi fino all'alba.

                I Ministri pertanto vedendo che la coscienza del Re era turbata e predisposta contro di loro, o per secondare una sua domanda, o per propria iniziativa, gli proposero di radunare alcuni teologi di Corte dei quali aveva stima, i quali giudicassero i suoi dubbi. Il Re acconsentì. In quel momento era così risoluto, che se i teologi lo avessero consigliato bene, o non avrebbe firmato, o almeno la legge sarebbe stata rimandata a tempo più remoto. I Ministri convocarono allora in palazzo quattro ecclesiastici, Dottori in diritto canonico, tutti cortigiani, allievi dell'Università, discepoli e ammiratori di Nepomuceno, Nuytz. Vittorio Emanuele recossi subito in mezzo a loro, [242] propose la questione, e consegnando ad essi le lettere dì D. Bosco perchè le esaminassero, soggiunse che voleva gli fossero restituite. Quindi per non essere d'impedimento alla libera discussione, andò nella sala vicina, ove aspettando la risposta si mise a passeggiare in preda a viva agitazione.

                I Teologi discussero in poco tempo la questione, ed il Re, stato richiamato, rientrò. Ed ecco il responso di quei signori: -Maestà, non si spaventi di ciò che ha scritta D. Bosco. Il tempo delle rivelazioni è passato, quindi non deve tener conto delle profezie e delle minacce di Don Bosco. In quanto alla legge sui conventi dover ritenersi che, per quell'autorità per cui una cosa è creata, può eziandio distruggersi. Dallo Stato procedere il privilegia di potersi costituire una società in corpo morale e quindi essere lo Stato in pieno diritto di ritogliere questo privilegio, colle conseguenze naturali che ne derivano. Perciò il potere civile essere pienamente libero di dare da sè sola quelle disposizioni legislative che da lui saran credute necessarie all'esistenza o no delle corporazioni religiose, degli altri enti ecclesiastici e dei loro possedimenti. Non sussistere il diritto della Chiesa vantato dagli avversarii della legge.

                - Ma insomma, disse il Re, che poco intendeva di quelle frasi: in coscienza posso firmare questa legge?

                - Può firmarla! risposero quei Dottori!!!

                In questo stesso giorno, 29 maggio, il Re la sottoscrisse. Furono Colpiti 35 Ordini religiosi, 334 case e 5406 persone. Nello stesso tempo un Decreto reale dichiarava soppressa l'Accademia di Soperga, che dopo l'espulsione dell'Audisio era rimasta senza convittori; e il danaro che, in gran copia erasi accumulato nella cassa di quell'amministrazione, [243] più tardi con altro Decreto, si spese in assegni temporanei e vitalizi a beneficio di preti spretati e di certi teologi singolarmente benemeriti del governo nazionale. Quante angoscie queste leggi apportarono specialmente alle povere religiose! E molti preti furono processati per aver adempiuto al loro dovere nell'amministrazione dei Sacramenti.

                Il giorno dopo il famoso parere dato dai teologi al Re, uno di questi, canonico in un paese di provincia, incontravasi con D. Bosco presso il Rondò di Valdocco. D. Bosco lo salutò, il canonico rese il saluto e, fermatosi, chiese:

                - Lei è D. Bosco?

                - Per servirla.

                - È  lei che ha scritto al Re certe lettere insolenti? Sì, sono io; ma non erano insolenti, sibbene quali un suddito fedele è obbligato a scrivere al suo Re, per ritrarlo da un mal passo che sta per fare.

                - Ed è lei dunque che si azzarda di imporre le sue opinioni e a dettar leggi, mentre dovrebbe invece obbedire? Stupisco ben bene che abbia osato tanto.

                -Ed il Re ha seguito il mio consiglio?

                - Il Sovrano era nel suo diritto. Si trattava di un privilegio della Corona.

                - E avete riconosciuto nel Re questo diritto?

                 - Certamente!

                 - E lo avete consigliato a firmare?

                 - Senza dubbio.

                  - Mi perdoni: prima di andare avanti, io vorrei farle una interrogazione. Stamane ha celebrato la S. Messa?

                - Ciò non ha che fare con quanto debbo dirle per suo rimprovero. [244]

                - La prego; ha celebrato stamane o non ha celebrato? - Sì, ho celebrato. E perchè no?

                - E prima di celebrare si è almeno andata a confessare?

                - Quale domanda mi fa! E perchè?

                - Come! Osa accostarsi alla sacra mensa, senza aver chiesto perdono al Signore del consiglio ingiusto dato al Re, e riparato in quanto potrà al danno ed allo sfregio che per colpa loro ha ricevuto la Chiesa?

                Il canonico restò offeso a questa invettiva. Per sua scusa trasse fuori tutti gli argomenti coi quali nell'Università Torinese si dava al Re ogni supremazia riguardo a certi diritti che giustamente la Chiesa rivendicava per sè. D. Bosco ribattè una per una tutte quelle false proposizioni e lo lasciò confuso e sbalordito.

                In quel momento il canonico allontanossi assai disgustato con lui, ma non tardò a divenire suo amico e benefattore insigne; e fu tale sino alla morte. Gli errori imparati in gioventù da certi perfidi professori hanno tale veleno da ottenebrare le verità più evidenti.

                Varie altre erano state le lettere confidenziali che D. Bosco aveva scritte al suo Sovrano, e finchè ebbe speranza di ritrarlo da un passo che prevedeva rovinoso, non cessò dallo scrivergli, talmente che il Re un giorno esclamò: - Io non ho più un istante di pace! D. Bosco non mi lascia vivere! - E incaricò una persona di Corte di riferire a D. Bosco queste sue parole.

                Ma questa rimostranza non avendo ottenuto il suo effetto, mentre la questione si agitava nelle Camere, Vittorio Emanuele, preoccupato ed impaziente, dopo i primi e dolorosi casi, volle conoscere personalmente il luogo ove abitava quel prete, causa a lui di tanto sgomento. [245] Pertanto, un lunedì di buon mattino, vestito alla borghese venne in Valdocco a cavallo con un suo aiutante di campo e fece un giro intorno all'Oratorio. Visto il chierico Cagliero lo chiamò a sè e gli chiese notizie di D. Bosco. Il chierico rispose che D. Bosco si trovava in chiesa, ma, stanchissimo per le confessioni, la predicazione e le assistenze ai giovani del giorno precedente. Ciò udito, il Re si allontanò, ma dopo qualche giorno ritornava in carrozza.

                Pochi momenti prima che giungesse sul Rondò, Don Bosco scendeva dalla sua camera e diceva a Goffi che era portinaio: - Io ho molto da fare, e se venisse anche il Re gli dirai che non ci sono. - Ciò detto, ritornò in camera. Ed ecco il generale Conte d'Angrogna sceso dalla vettura reale, viene all'Oratorio e chiede di D. Bosco. Avuta la risposta da Goffi, ritornò presso il Re che lo attendeva. 11 Ch. Francesia, che osservò ogni cosa, lo vide risalire in vettura e questa avviarsi alla fucina delle canne.

                Il Re però aveva parlato al generale con qualche vivacità dell'ardire di D. Bosco nello scrivergli certe minacce, e quegli, uomo d'indole impetuosa, credè suo dovere, chiedere conto a D. Bosco delle supposte offese fatte al Sovrano.

                Il Conte d'Angrogna adunque entrava varii giorni dopo a cavallo nel cortile dell'Oratorio seguito dal suo attendente e balzato a terra, dopo aver chiesto ove fosse D. Bosco, entrò difilato nella sua camera.

                D. Bosco si alzò in piedi.

                - Lei è D. Bosco? gli chiese il generale con modi risentiti.

                - Sono io.

                  - È  lei che ha osato scrivere certe lettere al Re volendogli, imporre il modo di governare il regno? [246]

                - Io in persona ho scritto; ma non ho mai inteso imporre la mia volontà a nessuno!

                Il generale lo interruppe, e prese ad inveire contro D. Bosco chiamandolo impostore, fanatico, ribelle, nemico del Re, del quale l'accusava aver vilipeso l'onore, oltraggiata la maestà, messa sotto i piedi l'autorità sovrana.

                D. Bosco a quando a quando cercava di interrompere quel torrente d'ingiurie e sforzavasi di dimostrargli come le sue lettere non fossero irriverenti, il fine del suo scrivere essere stato di illuminare il Re; sè amare il proprio Sovrano ed essere pronto a qualunque sacrificio per dargli pegno della propria fedeltà. Ma quel signore .smaniava sempre più, e non capiva, o non voleva capir ragioni; perciò alzando la voce: - Orsù, io non sono venuto perchè la questione finisca in sole parole: lei deve dare soddisfazione degli insulti che ebbe l'ardire di indirizzare al Re.

                - E in che modo?

                - In primo luogo, in nome di Sua Maestà, le intimo di non scrivergli più cose che alludano alla sua Corte ed alla famiglia reale. Il Re è adiratissimo, e se lei non obbedisce si ricorrerà a misure dispiacenti. E ora sieda e scriva ciò che io le detterò.

                - Purchè non sia una ritrattazione, una negazione della verità, lo sono pronto, disse D. Bosco; e sedutosi, prese la penna.

                Il generale incominciò a dettare una formola, colla quale chiedevasi umili scuse al Re, pregandolo a tener come non avvenute le minacce e le profezie scritte.

                 D. Bosco posò la penna: - Non è possibile che io scriva simile dichiarazione.

                - E pure lei deve scriverla a qualunque costo. [247]

                - E quando io l'abbia scritta, sarà lei responsabile in faccia a Dio di ciò che potrà accadere?

                - Qui Dio non c'entra, gridò il generale, e voglio che scriva.

                - D. Bosco si alzò: - Ed io non scrivo.

                A questa risposta, il generale furibondo, messa la mano sull'elsa della spada, intimò di pensar meglio ai casi suoi. Pareva volesse sfidarlo a duello. Ma D. Bosco, con una calma ammirabile, gli rispose che egli non aveva armi per difendersi e che le sole sue difese erano la ragione e la religione. - Del resto, signor Conte, io potrei sfidarla a chi di noi due prega di più. Lei pregherebbe meglio e più di me avendo maggior tempo libero, e perciò sicuramente sarebbe sua la vittoria.

                Il Conte però sbuffava scuotendo la spada, ma Don Bosco per finir quella scena, preso un piglio risoluto: - Olà, esclamò: crede lei forse di intimorirmi con queste sue minacce? Glielo dico apertamente: io non ho paura.

                Questa risolutezza non aspettata arrestò alquanto la foga del generale, il quale rispose: - Come? Lei dunque non ha paura di me?

                - No, non ho paura perchè so con chi tratto in questo momento. Lei è un gentiluomo, un soldato valoroso e non vorrà certamente far violenza ad un povero prete, disarmato, il quale poi all'ultimo ha fatto ciò che credeva meglio per il bene dell'anima del suo Re. Io di ciò sono tanto sicuro, signor generale, che se avessi saputo che lei intendeva di recarsi in casa mia, le avrei tolto l'incomodo di questa visita; io stesso sarei andato al suo palazzo, ove con tranquillità avremmo potuto trovare il modo di dar soddisfazione al Re e nello stesso tempo salvare la mia coscienza. Io sapeva lei essere persona così [248] gentile e rispettabile, che al mio comparire avrebbe tirata fuori una bottiglia e avrei bevuto alla sua salute.

                Il generale mirava D. Bosco e non sapeva più nè che dire nè che fare. L'ira si era calmata, e meravigliato del cambiamento dei sentimenti in lui prodottosi mezzo sbalordito, salutò D. Bosco ed uscì. Montò a cavallo, uscì dal cancello, si fermò, rientrò nel cortile, ridiscese e fu di nuovo nella camera di D. Bosco: -Dunque lei dice, ripigliò, che verrebbe in casa mia?

                - Sicuramente.

                - E avrebbe coraggio?

                - Certo che ci vengo.

                - E se la prendessi in parola?

                - Mi prenda pure.

                 - Venga domani alle II.

                  - Non posso a quell'ora, perchè ho un affare di molta importanza. Mi fissi lei un'altra ora e che le sia comoda.

                - Alle tre dopo mezzogiorno.

                - Ebbene: domani alle tre dopo mezzogiorno sarà a riverirla.

                Il generale guardò fissamente D. Bosco, e poi partì.

                Il giorno dopo D. Bosco fu esatto all'appuntamento. Fu accolto con ogni cortesia e con calma si formulò la lettera da mandarsi al Re. D. Bosco la sottoscrisse. In questa dicevasi rincrescere molto a D. Bosco del dispiacere dato al Re, non essendo sua intenzione di offenderlo menomamente: in quanto alle predizioni il Sovrano le tenesse in quel conto, che giudicava più conveniente alla sua tranquillità. Concludeva promettendo che non avrebbe scritte più simili lettere. - È  da notarsi che la legge era già stata firmata, e i fatti avvenuti nessuno poteva negarli. Tuttavia D. Bosco disse poi che non avrebbe mai [249] sottoscritto quel foglio se non fosse stato per evitare un maggior male e disgustose conseguenze.

                La conversazione di D. Bosco col generale durò per lunga ora, sempre più cordiale ed ilare. Il D'Angrogna voleva che D. Bosco si fermasse a pranzo con lui, ma, D. Bosco si scusò col dire di aver già pranzato. Allora il generale, fermando D. Bosco che voleva partire: - Almeno, gli disse, prima di uscire abbia la compiacenza di assaggiare il vino delle mie vigne: voglio che sigilliamo la nostra amicizia.

                Data una voce, comparve il domestico con una bottiglia e con una guantiera colma di biscotti. Riempiuti i bicchieri D. Bosco guardò il generale e sorrise: sorrise pure il generale e preso un biscotto, l'offerse a D. Bosco.

                D. Bosco scherzando domandò: - C'è nessuna materia eterogenea in questo biscotto?

                Il generale pure scherzando: - Oh questo poi! Veda! mangio io metà del suo biscotto. - E così fece. Dopo alcuni minuti si strinsero la mano, si divisero e da quel punto furono amici.

                Il Conte d'Angrogna, volendo poi far battezzare un suo moro che aveva condotto seco dall'Africa, lo consegnò a D. Bosco perchè lo rendesse Cristiano.

 

 

CAPO XXIII. Sempre Progetti per la tipografia - Letture Cattoliche CONVERSAZIONI TRA UN AVVOCATO ED UN CURATO DI CAMPAGNA SUL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE -L'Ospizio di Carità a Pinerolo e i catecumeni - L'onomastico di D. Bosco e una generosa Promessa - La festa di S. Luigi e bontà del Priore - Nuovi decreti per gli insegnanti religiosi.

 

                Don Bosco, per nulla scosso da queste lotte e da questi impicci, continuava la sua corrispondenza col Sig. D. Carlo Gilardi; e gli aveva scritto il 6 maggio, saldando nello stesso tempo i debiti,dei frutti dovuti alla Congregazione dei Preti della Carità, per la somma che riteneva ancora in imprestito dall'Abate Rosmini.

 

                               Carissimo Sig. D. Carlo,

 

                Il tempo pasquale corre galoppando e perciò è necessario mettersi in buona coscienza... Finora non ho scritto al Padre Generale perchè so essere assai incomodato di salute... È  deciso che lo scalo della ferrovia si fa provvisoriamente qui in Valdocco, perciò il valore dei siti qua vicini è notevolmente aumentato: ciò per sua norma. [251] Il Coriasco che è proprietario di quella casetta vicino al sito comperato e veduto da V. S., si trova in caso di dover vendere la detta fabbrica; e mi lascia di significarle che la cederebbe a fr. 7000. L'anno scorso noi gli avevamo già fatta l'offerta di 10.000.

                Voglia la Beata Vergine benedire e conservare la sanità al Padre Generale, a bene della nostra santa Religione, come di cuore prego e pregano anche i miei figli per ottenere questo favore.

                Mi raccomando alle sue preghiere; mi ami nel Signore; mia madre La saluta unitamente ai nostri chierici e mi creda quale odi cuore mi dico

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco Giov.

 

                Nello stesso tempo D. Bosco curava nella tipografia Ribotta, situata sulla piazza della Consolata, la stampa dei due fascicoli di maggio: Le consolazioni del Vangelo al cristiano che vive nel mondo, per T. K. Sono riflessioni concise, vibrate, su tutto il Vangelo di San Matteo. Si dimostra la facilità dell'obbedienza ai precetti di G. Cristo, la santità ed i vantaggi de' suoi consigli, la perpetuità della sua Chiesa, i doveri che a Lei stringono gli uomini, la facoltà che ha ricevuta da Dio di assolvere i peccati, l'efficacia della preghiera specialmente fatta in comune, l'importanza di meditare i novissimi dell'uomo, la misericordia e giustizia di Dio ecc.

                Pel mese di giugno D. Bosco stesso aveva composto un bellissimo libro in due fascicoli: Conversazioni Ira un avvocato ed un curalo di campagna sul Sacramento della Confessione. Il tipografo Paravia ebbe l'incarico di stamparlo.

                D. Bosco così esponeva lo scopo di queste conversazioni: [252] Non c'e alcun dubbio che nei calamitosi tempi in cui viviamo la fede sia accanitamente combattuta. Riescono tuttavia vani gli sforzi dei nemici di essa se prima non allontanano i cattolici dal Sacramento della Confessione. Ecco il motivo per cui volgono tutte le loro armi contro questa pratica salutare. Il Cattolico allontanato dalla Confessione e abbandonato a se medesimo cammina da abisso in abisso, e qual debole pianta senza riparo, esposta alla gagliardia dei venti, va ai più deplorabili eccessi. Per distruggere dalle fondamenta l'idea della confessione i protestanti stampano e gettano di continuo in faccia ai cattolici, che la Confessione non è stata istituita da Dio, perciò doversi riprovare.

                Noi perciò, non colla calunnia, non colle ciancie, o colla mala fede, che sono le armi ordinarie dei nostri nemici, ma col Vangelo e colla storia alla mano proveremo sino all'evidenza che il bisogno della confessione fu riconosciuto dagli stessi gentili; per ordine di Dio fu praticato dal popolo Ebreo; e che tale pratica venne dal Salvatore elevata alla dignità di Sacramento, e stabilita qual mezzo utile ad ogni cristiano e assolutamente necessario a tutti quelli che hanno peccato mortalmente dopo il Battesimo.

                I Protestanti vanno ripetendo che nei primi tempi della Chiesa non si è mai parlato di Confessione, perciò noi sempre colla storia alla mano faremo loro vedere che la Confessione fu costantemente praticata nella Chiesa Cattolica da Gesù Cristo fino ai nostri giorni.

                Per quanto fu possibile mi sono astenuto dal nominare gli autori e le empietà contenute negli scritti dei nemici della Confessione. Ciò feci per due motivi: per non cagionare troppo grave afflizione ai buoni cattolici, che non possono a meno di essere profondamente addolorati nel vedere profanate le cose più venerande di nostra Religione; ed anche per non eccitare per avventura la curiosità di leggere i libri perversi, che contengono tali errori e tali sconcezze.

                Mi sono limitato a rendere chiara la dottrina della Chiesa Cattolica intorno all'istituzione della Confessione, mostrando la verità, e combattendo l'errore senza quasi nemmen nominarlo. Mi pare per altro di aver con certezza risposto a quanto si dice e si scrive contro alla Confessione. [253] Intanto profondamente afflitto pei mali che si vanno ogni giorno moltiplicando contro alla religione Cattolica, io raccomando ai cattolici coraggio e fermezza.

                Sì, Cattolici, coraggio: teniamoci strettamente uniti a quella religione, che fu stabilita da Gesù Cristo, che ha per capo visibile il Romano Pontefice suo Vicario in terra; che in mezzo alle vicende dei secoli fu sempre combattuta, ma che ha sempre trionfato.

                Questa religione di Gesù Cristo trovasi solamente nella Chiesa Cattolica: niuno è cattolico senza il Papa; guai a chi separasi da questo capo supremo! egli è fuori di quella religione, che unica può condurre a salvamento: chi non ha la Chiesa per madre non può avere Iddio per padre.

                Sia adunque tra noi la medesima fede, la medesima legge, i medesimi Sacramenti, la medesima carità in vita e in morte. Ma sopratutto sappiamo approfittare del Sacramento della Penitenza come di un gran mezzo istituito da Gesù Cristo per comunicare alle anime nostre i meriti della sua passione e morte; per rompere le catene con cui lo spirito maligno tiene incatenate le anime nostre; per chiuderci l'inferno ed aprirci le porte del Cielo. Così sia.

 

                In questa conversazione D. Bosco fa narrare al Curato un fatto sul tema del sigillo sacramentale, accaduto a lui stesso in una delle dispute sostenute contro i protestanti.

                “Non è gran tempo in cui si presentò da me un saputello, assicurandomi che egli aveva molti fatti a rimproverare al clero per la violazione del sigillo. Io gli feci osservare che quand'anche accadesse che qualche sacerdote tradisse il suo sacro ministero, non sarebbe punto diminuita la santità di questo Sacramento. Forsechè si possono chiamare profanatori gli Apostoli perchè ci fu un Giuda traditore? Ma egli insistendo sui fatti che diceva di sapere, io venni a questa proposta: - Se [254] voi; gli dissi, o qualche vostro amico, mi potrete addurre un solo fatto di questo genere, ma che sia certo, io propongo di darvi cinquecento franchi. - Apparecchiatemeli, soggiunse l'altro, sabato sarò da voi. - Aspettate, ripigliai; ho già detto la medesima cosa ad altri e non vorrei che lo stesso accadesse a voi, cioè di non venirmi più a vedere. - Verrò immancabilmente, conchiuse l'altro vi dò parola d'onore.

Credete forse che egli sia ritornato?

                Lo attendo da un pezzo; fino ad ora non è ritornato, ed io credo che non verrà più, perchè si trova nell'impossibilità di trovare un fatto siccome aveva promesso. Veramente quelli che ho udito tante volte a schiamazzare contro alla confessione, mi adducevano sempre fatti vaghi, senza indicare il luogo, senza dire il nome del confessore e del penitente, e cominciavano sempre i loro racconti con queste parole: Ho udito a dire”.

                D. Bosco, finito questo lavoro, il 25 maggio si trovava in Ivrea, donde, predicate le lodi di Maria Immacolata, e dopo aver preso alcune disposizioni con quel Vescovo sul buon ordinamento delle Letture Cattoliche, ritornava in Torino per disporre con Paravia la stampa, dei due altri fascicoli per luglio. Il libro aveva per tema: Conversione di una nobile e ricca signora inglese alla Chiesa Cattolica, al tempo che le leggi penali contro i Cattolici erano ancora in vigore in Inghilterra. - Racconto storico tradotto dall'inglese. Eccone un transunto.

                Nel 1772 i sacerdoti cattolici erano costretti a stare nascosti. Chi avesse celebrata la S. Messa incorreva la pena di morte. Chiunque fosse convinto d'averla lasciata celebrare in casa sua era condannato alla confisca dei suoi beni e ai lavori forzati nelle colonie per tutta la [255] vita. Basti questo per dare un piccolo saggio della famosa tolleranza che predicano continuamente i protestanti. E tanta oppressione dei cattolici durava continua da duecento e più anni. In questo libro adunque si legge quanto dovette soffrire quella signora per convertirsi e conservarsi fedele alla vera Chiesa, vivendo in seno alla sua famiglia anglicana; e come il Signore benedisse le sue eroiche virtù.

                Fascicoli di tal natura valevano una sconfitta per i Valdesi, causa l'avversione che destavano nei lettori contro quella setta. Ma se D. Bosco non si stancava di premunire i fedeli, voleva anche per sè la conquista di anime erranti, e specie quelle dei fanciulli. Oltre agli orfani, nati da parenti protestanti che egli aveva ritirati, più tardi altri giovani accettava dall'Ospizio dei catecumeni in Torino, ed ora a lui si rivolgeva l'Ospizio di Carità a Pinerolo. Lo stesso sindaco Sig. Giosserano, ricordando l'esibizione fattagli da D. Bosco nell'anno antecedente, allogò pressodi lui il giovane Plancia, appartenente all'Ospizio, pagando pensione in ragione di 16 lire mensili, pel tempo che starebbe nello stabilimento, solo però sino alla concorrente di lire 400.

                Fra i giovani sopraddetti una parte nutriva vivo desiderio di abbracciare il Cattolicismo, e il compito del catechista era facile; ma l'istruzione religiosa di altri, raccolti, dalle piazze, esigeva sovente una grande pazienza, sia pel tardo ingegno, come per la nessuna educazione, la bizzarria del carattere, e anche l'abituale indisciplinatezza. D. Bosco sapeva a quante nuove cure e nuovi fastidi doveva assoggettarsi per essi, e li accoglieva volentieri come interni, studiandosi di farli entrare in grembo alla vera Chiesa.

                Una lettera rende testimonianza al suo zelo. [256]

                Pinerolo, 22 giugno 1855.

 

                               Molto Illustre e M. Rev. Signore,

 

                Ringrazio la S. V. R. d'avermi, pel canale del degnissimo di lei collaboratore D. Alasonatti, date notizie del Danielino Brunerotto di cui mi lusingo saranno ognora più contenti, avendosi nello stabilimento da Lei diretto mezzi da cavarne buon costrutto pel temporale e per lo spirituale, quali mancano a quest'Ospizio per una persona zotica, come questi. Quando sia eseguita la sua cattolicizzazione voglia, ne La prego, rendermene avvertito, acciò possa farne l'opportuna annotazione nel registro dell'Ospizio.

                In ordine poi al Pietro Plancia, Dio voglia che sia l'ultima sua melensaggine, ma ne temo assai e potei conoscerlo. Del resto se stette tanto tempo nell'Ospizio vi stette mio malgrado e se ritornare vi volesse, ora che io posso non riceverlo, non lo riceverò più certamente. Quindi è che anche senza osservazione io non avrei riferito all'Amministrazione di Carità la sua fuga. Ne parlai però e di questa e del ritorno col Canonico Badariotti Rettore del Seminario, ma non in qualità di Coamministratore, bensì in quella di amico, e col medesimo dovendo recarmi a Torino il 4 del venturo luglio per quindi andare agli Esercizi Spirituali di S. Ignazio, porteremo con noi il mandato colle lire 200, per rimettergliele in questo stesso giorno se avremo il tempo; in difetto il 13 al nostro ritorno. Sarebbe però cosa più spiccia e più sicura, ove non fosse d'incomodo alla S. V. il ritrovarsi alla stazione della ferrovia il mattino del detto giorno 4 luglio, alle ore 8 e mezzo in cui giungeremo infallantemente.

                Gradisca gli attestati della più alta considerazione e profonda stima coi quali ho il pregio rinnovarmi

                Della V. S.

 

Dev.mo ed obb.mo Servitore

Giov. Batta. Fortoul Can. Pen.

 

                Coll'avvicendarsi di tante opere sante compiute da Dio per mezzo di D. Bosco, giungeva il 24 giugno, nel qual giorno il buon padre volle dare un segno di speciale [257] affetto ai giovani della Casa. Fece pertanto loro facoltà di chiedere con un biglietto, oppure col parlargli in segreto all'orecchio, qualunque regalo fosse a lui possibile, promettendo che l'avrebbe concesso. Forse egli ciò faceva eziandio per conoscerli a fondo dalle loro richieste. Ognuno può facilmente immaginare, non solo le serie, ma anche le ridicole e stravaganti domande degli uni e degli altri. Ma D. Bosco accondiscese a tutte le richieste ragionevoli, quantunque costose, come provviste di libri, di abiti, condono di pensione, e via via.

                “Io, narra D. T., ebbi una nuova prova della straordinaria bontà del suo cuore, ed occorrendomi una veste talare nuova (era chierico), fattomi coraggio gliela domandai; ed egli volentieri mi fece comperare la stoffa, pagando anche la fattura”. Savio Domenico però preso un pezzetto di carta vi scriveva solo queste parole: Domando che mi salvi l'anima e mi faccia santo!

                Un giorno segnalato dalla carità fu anche la festa solenne in onore di S. Luigi, per la quale D. Bosco aveva fatto litografare 4000 immagini dell'angelico giovane. Essendo stato eletto Priore il Marchese Fassati, il nobile signore volle procacciare ai giovani una non comune allegria. La sera di quel dì, che fu la prima domenica di luglio, dopo le sacre funzioni, egli provvide pane e salame a tutti i convenuti all'Oratorio, i quali, compreso il gran numero di esterni, superavano gli ottocento. Siccome era molto generoso, così ei volle che il companatico fosse piuttosto abbondante; onde era un divertimento il vedere i giovani che, ricevuta la propria porzione, se la mettevano dinanzi agli occhi, e mirandola gridavano in tono di giubilo: Non si vede Soperga, non si vede Soperga. È  questa una frase famigliare per dinotare la grossezza [258] di una fetta di salame o di cacio: in quanto che se lascia vedere Soperga, collina al nord - est di Torino, è segno che è sottile e trasparente; se no, è prova che è spessa ed opaca, e vi ha molto a godere. E tale appunto era quella che fu regalata dall'amorevole

                Questi ed altrettali atti di carità, esercitati ora da questo, ora da quell'altro dei signori di Torino, erano di efficace stimolo ai giovanetti esterni ad intervenire al catechismo e alle religiose funzioni dell'Oratorio. Essi vi scorgevano come un avveramento di quella sentenza del santo Vangelo: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato per giunta. Ricevendo a quando a quando questa giunta in modo loro adattato, attendevano più spesso e volentieri alle cose di Dio e dell'anima, a poco a poco si fondavano nella religione, si fortificavano nella virtù, e così rendevansi buoni cristiani, savii ed onorati cittadini.

                Ma alla gioia di queste feste succedeva una nuova prova. Il 29 giugno Giovanni Lanza, Ministro della Pubblica Istruzione, intimava al Provveditore agli studi l'esecuzione della legge sulle patenti, per la quale veniva proibito d'insegnare a chiunque (uomo o donna) non si sottomettesse ad un esame e non ne uscisse coll'approvazione del governo; e più non si ammettessero eccezioni per le monache, le cui scuole dovevano sottostare alla vigilanza dell'Autorità civile. Era questa una nuova pastoia e non lieve che doveva impacciare e rendere ognor più difficile la direzione e la conservazione degli istituti religiosi. Anzi alle monache si interdiceva l'insegnamento, poichè loro si imponevano tali condizioni, alle quali esse non avrebbero potuto adagiarsi.

                La Santa Sede però rendeva meno funeste tali conseguenze [259]. Interrogata, rispondeva al Vescovo di Novara: “L'autorità laica non poter derogare ai diritti della Chiesa sull'insegnamento; perciò i decreti del Governo che tendono a menomarli, non poter essere nè riconosciuti nè approvati. Ma per non venire agli estremi, precipitando la chiusura delle case religiose insegnanti, doversi almeno di fatto esercitare la sorveglianza che compete al Vescovo sull'istruzione religiosa e morale. Quando gli effetti di tale sorveglianza non siano per essere attraversati, si possono tollerare gli esami e l'ispezione del Governo”.

 

 

CAPO XXIV. L'Oratorio sempre in necessità di soccorsi - Ricorso alla Pia Opera della mendicità istruita - Renato d'Agliano e una grazia ottenuta - Piccola lotteria di alcuni quadri Autorizzazione concessa - Piano della lotteria - Appello alla pubblica carità -Il Marchese di Cavour annuncia a D. Bosco la gravissima infermità di Rosmini il quale poco dopo muore - Verbale dell'estrazione della Lotteria - Annunzio della medesima ai benefattori.

 

                LA spedizione in Crimea di i 5 mila soldati Piemontesi in aiuto dei Turchi, dell'Inghilterra e della Francia contro la Russia minacciosa; la così detta crittogama o malattia delle uve, che da alcuni anni intisichiva i più floridi vigneti del Piemonte; la continuata scarsità delle raccolte nelle campagne; la ricomparsa del coléra nella Sardegna, e più altri malanni servirono pure alla lor volta a peggiorare la condizione dei ricchi e dei poveri. Laonde il nostro Ospizio, che viveva di carità, ebbe a trovarsi in gravi bisogni e in dolorose strettezze[14]. [261]

                Ma di tratto in tratto Iddio dava a divedere che non avrebbe abbandonati i suoi poverelli. Appunto in uno di quei giorni, mentre D. Bosco stava per uscire in città in cerca di qualche soccorso, gli si presenta il Conte Renato d'Agliano, nobile gentiluomo di Torino, illustre non meno per sangue che per sentimenti di cristiana pietà, e gli dice: - Ho mia consorte gravemente ammalata, preghi e faccia pregare i suoi giovanetti per la sua guarigione; [262] e in così dicendo gli rimette una limosina, che corrispondeva alla metà del debito del pane. D. Bosco ringraziò il caritatevole signore e lo esortò a confidare, notandogli che con quell'opera di carità, compiuta prima ancora di ottenere la grazia, egli obbligava in certo qual modo Iddio a concedergliela. Intanto, dalla sera stessa, alle orazioni comuni D. Bosco fece aggiungere un Pater ed Ave per una malata, e raccomandò che altrettanto si facesse nei giorni seguenti fino a nuovo avviso. Ma il terzo giorno ritorna all'Oratorio il nobile Conte e, con parole di profonda gratitudine, racconta che con alto stupore del medico la moglie sua era fuori di ogni pericolo e come guarita. Pieno di riconoscenza a Dio pel favore così inaspettatamente ottenuto, egli rilasciava a nome di lei un'altra offerta per ringraziamento. La Divina Provvidenza, sempre ammirevole nel suo governo, aveva disposto che questa seconda limosina fosse eguale alla prima; così che Don Bosco in capo a tre di potè saldare appieno il suo debito col panattiere.

                Questi atti di beneficenza, che avevano piuttosto dello straordinario e prodigioso, infondevano grande fiducia nella bontà di Dio, e nel tempo stesso ispiravano a Don Bosco le più amorose industrie, per provvedere a tutti i bisogni de' suoi cari. Le relazioni che avemmo in proposito sono concordi nel mostrarlo in quel tempo come una povera ma sollecita madre, che, vedendosi circondata da numerosa famiglia e temendo che per la penuria i suoi bimbi abbiano in qualche modo a soffrire, non si dà posa affinchè nulla venga a loro mancare del necessario alla vita.

                A quest'uopo egli, per non istancare la generosità dei soliti benefattori, divisò di fare ricorso alla carità pubblica. [263] Pertanto, essendo sopravanzati alcuni quadri della lotteria precedente, D. Bosco ne ideò una terza più piccola, come appendice delle prime due, con biglietti al prezzo di una lira l'uno. In tale occupazione durò quasi sei mesi. Egli diceva: “Due anni sono, siamo ricorsi alla carità dei fedeli per la fabbrica della chiesa e della casa; ora vi ricorriamo per la fabbrica dell'appetito”. Con questo intento egli stabilì un apposito Comitato di caritatevoli signori e signore di Torino ed una Commissione direttiva e responsabile; quindi domandò le facoltà opportune all'Autorità civile, presentandole il piano della lotteria, i nomi dei membri della Commissione che dovevano essere approvati per firmare i biglietti, il modello di matrice pel biglietto stesso e il catalogo dei quadri.

                La domanda di D. Bosco era concepita in questi termini:

 

22 marzo 1855.

 

                               Ill.mo Signor Intendente generale,

 

                Il sottoscritto espone rispettosamente alla S. V. Ill.ma, come egli nel bisogno di procacciare pane ad alcuni poveri giovani abbandonati e pericolanti che, in numero di circa 100, sono ricoverati nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di cui in gran parte sono stati fatti orfani nella fatale invasione del colèra nello scorso anno 1854, avrebbe divisato di fare una lotteria di alcuni dipinti, per far fronte alle urgenti ed indispensabili spese che occorrono.

                Per tale oggetto ricorre a V. S. Ill.ma, a voler prendere in benigna considerazione lo stato di abbandono di questi poveri giovani, approvando la Commissione nei Membri sotto descritti e delegare quel perito che meglio crederà per la perizia di tali dipinti ed accordare in pari tempo tutte le altre facoltà, che son necessarie per l'esecuzione dell'unito piano di lotteria.

                Attesa poi la tenuità della lotteria, il ricorrente supplica che si voglia riconoscere il timbro della Commissione di cui avvi il [264] modello nel qui unito biglietto e così essere dispensato dal bollo delle R. Finanze, come per speciale favore fu dispensato l'anno scorso.

                Che della grazia

 

Per la Commissione

Sac. Giovanni Bosco.

 

                I quadri messi in lotteria erano undici, del valore dei quali aveva dato giudizio il benemerito M. Cusa, professore e segretario dell'Accademia Albertina. Eccone il catalogo che ci risveglia il caro ricordo dei donatori, i quali appartenevano all'Oratorio, o per abitazione o per famigliarità.

                I. Grande ancona a olio su tela rappresentante l'Incoronazione di Gesù Cristo. Lavoro del celebre Padovanini, dono del Conte Carlo Cays.

                2. Dipinto su tela a olio rappresentante la Maddalena, con cornice dorata, dono del Dottor Viriglio.

                3. Dipinto su tela a olio rappresentante il S. Cuore di Gesù, con cornice dorata, lavoro del professore Gastaldi e dono del Teol. Can. Gastaldi Lorenzo.

                4. Dipinto su tela a olio rappresentante il S. Cuore di Maria, con cornice dorata, lavoro e dono dei medesimi;

                5. Dipinto su tela rappresentante Maria Vergine, lavoro dell'artista Carlo Tomatis allievo dell'Oratorio.

                6. Dipinto su tela rappresentante S. Giovanni Battista, con cornice dorata, lavoro e dono del medesimo.

                7. Dipinto a olio su tela rappresentante Maria Vergine che allatta il Bambino, con cornice ottangolare dorata, dono del Sac. Alasonatti Vittorio.

                8. Dipinto a olio su tela rappresentante S. Francesco d'Assisi, con cornice dorata, dono del Sac. Pietro Merla.

                9. Dipinto a olio;su tela rappresentante Carlo Alberto e Vittorio Emanuele, anonimo. [265]

                10. Bassorilievo in carta pesta rappresentante la Fede, dono della signora Margherita Gastaldi nata Volpatto.

                11. Bassorilievo in cera rappresentante Leonardo da Vinci, con cornice dorata, dono di S. E. il Duca Litta Visconti.

                Riconosciuto il valore di questi oggetti dalla Regia Intendenza generale della Divisione di Torino, si autorizzava la lotteria col seguente decreto:

 

                Visto l'avanti esteso ricorso in un coll'annesso piano della lotteria di oggetti che l'ivi indicata Commissione intende di aprire a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in questa città; risultando dalle assunte informazioni che i prezzi attribuiti a ciascuno degli oggetti offerti per essere destinati in premi rilevanti a L. 5300 non sono esagerati:

                S'autorizza l'apertura della predetta progettata lotteria e la divisata emissione di n. 7000 (settemila biglietti) al prezzo di un franco caduno, i quali prima d'essere staccati dal registro a matrice, dovranno essere firmati da due de' signori membri della Commissione sottoscritti al ricorso, ed improntati dal marchio esistente presso l'Ufficio del Regio Lotto nel Ministero delle Finanze, alla cui superiore approvazione è riservato il presente decreto.

                La lotteria sarà annunciata al pubblico innanzi che incominci la distribuzione dei biglietti, mediante analoga notificanza che contenga il tenore del contesto stesso, del relativo piano, e del presente decreto.

                L'estrazione avrà luogo il 12 pross. venturo luglio con intervento della Commissione e colla assistenza del sindaco di Torino specialmente incaricato di sorvegliare l'esecuzione e farne quindi l'opportuna relazione a questo Ufficio generale.

                La Commissione farà constare che l'intiero prodotto della vendita dei biglietti e di quelli che saranno invenduti, venne erogato unicamente a beneficio dell'opera, a favore della quale è autorizzata la lotteria stessa.

                L'inosservanza di alcune fra le imposte condizioni renderà [266] nulla e di niun effetto l'impartita autorizzazione, indipendentemente dalle pene che possono incorrersi per contravenzione alla legge.

 

                Torino, li 20 aprile 1855.

 

L'intendente generale

Farcito.

 

                Alcuni giorni dopo, per domanda ripetuta di D. Bosco, l'Intendente rilasciava la seguente concessione.

 

                Visto nuovamente in un col dispaccio del Ministero delle Finanze in data del 21 Aprile corrente, si dichiara dispensata per questa sola volta la Commissione della lotteria dall'obbligo di farne sottoporre i biglietti al marchio del Ministero predetto ed autorizza invece l'apposizione del bollo dello stesso Istituto.

 

                Torino, li 23 aprile 1855.

 

L'intendente generale

Farcito.

 

                D. Bosco, ottenute queste facoltà, si diede attorno nel maggio a diffondere il Piano della lotteria, così formulato.

 

                I. Lo scopo di questa lotteria è di sopperire alle indispensabili spese che occorrono pel mantenimento dei giovani ricoverati nella casa annessa all'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Valdocco.

                2. La lotteria è composta di alcuni dipinti posti in esposizione in una camera di quest'Oratorio fino al giorno dell'estrazione.

                3. 1 biglietti saranno al prezzo di i franco e saranno staccati,da un quaderno a matrice, muniti del bollo dell'Oratorio e se da due membri della Commissione.

                4. L'estrazione avrà luogo il 12 luglio in una sala dell'Oratorio in presenza dell’Ill.mo signor Sindaco di questa città e dei membri componenti la Commissione. Si farà l'estrazione in tanti; numeri quanti sono gli oggetti descritti nel qui unito Catalogo. [267] Il primo numero estratto vincerà l'oggetto segnato n. uno e così successivamente. I numeri estratti saranno pubblicati nei giornali.

                5. La distribuzione dei biglietti è affidata ai membri della Commissione e a quelle benemerite persone che si vorranno adoperare a favore di quest'opera di beneficenza.

                6. I premi vinti verranno distribuiti nell'Oratorio suddetto otto giorni dopo l'estrazione, e coloro che dopo tre mesi non ritireranno gli oggetti vinti si intende che vogliano farne dono all'Oratorio medesimo.

 

                Quindi esponevasi il Catalogo dei, quadri e l'elenco dei membri della Commissione approvata per segnare i biglietti, dei quali ecco i nomi:

 

                Presidente: VALLAURI Dottore FRANCESCO.

                Vice - Presidente: FRANCESETTI DI MEZZENILE cav. CESARE.

                Segretario: D'AGLIANO DI CARAVONICA cav. LORENZO.

                Tesoriere: CAYS Di GILETTA Conte CARLO.

                BIANCO Di BARBANIA barone CARLO GIACINTO.

                Bosco Sacerdote D. GIOVANNI, Direttore dell'Oratorio.

                D'ANGENNES marchese ENRICO.

                FANTONI conte CARLO.

                FASSATI marchese DOMENICO.

                GALLEANI D'AGLIANO conte Pio.

                GONELLA cav. MARCO.

                LUCERNA D'ANGROGNA conte ALESSANDRO.

                PONTE DI PINO conte GIUSEPPE.

                PROVANA DI COLEGNO conte ALESSANDRO.

                RADICATI Di BROZOLO Conte CASIMIRO.

 

                Fra i nomi di questi signori è degno di speciale osservazione quello del conte d'Angrogna, maggior generale di artiglieria, aiutante, di campo di S.M., lo stesso che [268] abbiam veduto venire a diverbio con D. Bosco per le lettere da lui scritte al Re. Egli aveva accettato con gradimento di essere aggiunto ai membri della Commissione.

                Il piano della lotteria terminava con due dichiarazioni, che avevano lo scopo di dare garanzie agli acquisitori di biglietti.

 

                I. Io sottoscritto acconsento di accettare la qualità di tesoriere responsabile delle somme che saranno per riscuotersi nell'implorata lotteria e della esatta loro applicazione all'oggetto retro indicato nel senso dalla legge voluto.

                Torino, 21 marzo 1855.

 

C. CAYS.

 

                2. Il sottoscritto dichiara che i dipinti sopra descritti furono donati all'Oratorio senza compenso alcuno, e che i medesimi rimarranno depositati in una camera di questo Oratorio fino all'ultimazione di quanto riguarda la presente lotteria.

                Torino, 9 aprile 1855.

 

Sac. Bosco GiOVANNI.

 

                D. Bosco non tardò a smerciare per ogni parte i suoi biglietti e ne mandò a tutte le persone costituite in qualche dignità ecclesiastica o civile, e non dimenticò le persone più o meno benestanti, mettendole così nella dolce necessità di fare un'opera buona a sollievo di tanta povera, gioventù, statagli da Dio affidata.

                Ad ogni pacco di biglietti andava unita una copia di lettera litografata, di questo tenore.

 

Torino, 8 maggio 1855.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                La critica annata ed il gran numero di ragazzi, fatti orfani nella fatale invasione del coléra, mi hanno posto quasi nella necessità [269] di dover considerevolmente aumentare il numero dei giovani, ricoverati nella Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, sicchè il loro numero attuale ascende a cento circa. Pel che ridotto a gravi strettezze, nè sapendo a qual partito appigliarmi per provvedere loro il pane, ho chiesto il parere di alcuni pii e benemeriti signori, nominati nell'Elenco dei Membri della Commissione, i quali proposero di fare una piccola lotteria di alcuni dipinti. Accolta tale proposta, e adempiute le incombenze dalla legge prescritte, tratterebbesi ora di smerciare i biglietti, che ho divisato di affidare a quelle pie persone che in altre occasioni presero parte ai miei bisogni. Per questo mi faccio animo di ricorrere eziandio alla provata bontà della S. V. Ill.ma, unendovi biglietti N….con preghiera di volersi adoperare per ismerciarli presso coloro che giudicherà propensi a simili opere di carità. Qualora però non potesse distribuirli tutti, e non giudicasse di poterli ritenere per sè, La prego di aggiungere novello favore e spedirli otto giorni prima dell'estrazione (12 luglio) a quello tra i membri della Commissione, presso cui le tornerà più agevole il recapito: la qual cosa potrà egualmente fare per la rimessione dell'importo dei biglietti smerciati o ritenuti.

                Avrei ben voluto poter fare a meno di recare a Lei questo disturbo; ma attesa la gravezza delle spese cui debbo far fronte e il gran numero dei ragazzi abbandonati che dimandano pane, ho dovuto appigliarmi a questo espediente. Mi creda: è proprio un dar da mangiare a poveri affamati.

                Mentre poi Le professo la sincera mia gratitudine, l'assicuro che mi unirò coi beneficati miei figli per pregare Iddio buono, affinchè voglia spandere copiose benedizioni sopra di Lei e sopra di tutti quelli, cui Ella desidera in particolar maniera augurare felicità per la vita presente e per la futura. Con pienezza di stima reputo al massimo onore il potermi dire

                Di V. S. Ill.ma

Obbl.mo Servitore

Sac. giovanni bosco.

 

                Gustavo di Cavour accettava esso pure volentieri i biglietti della lotteria. Era andato a passare alcuni giorni [270] presso l'Abate Rosmini gravemente infermo, conferendo lungamente con lui, e rimanendo molto commosso nel separarsi dall'amico, che temeva di non più rivedere. Pertanto scriveva a D. Bosco.

 

Torino, 3 giugno 1855.

 

                               Rev.mo Signore,

 

                Un'assenza da Torino, la quale si è prolungata per alcuni, giorni e varii affari, mi hanno fatto alquanto indugiare a riscontrare la pre.ma di Lei circolare relativa alla lotteria da Lei intrapresa a beneficio della sua interessante e numerosa famiglia. Ora però mi faccio un dovere di parteciparle che in vista dell'eccellenza dello scopo ritengo per me i biglietti N. 50 che mi vennero offerti e qui unito gliene trasmetto l'ammontare.

                Intanto ho il dolore di doverle dire che le notizie che ho recate da Stresa, ove mi portai alcuni giorni addietro, e quelle che ho avute per lettera ancora questa mane sono molto allarmanti. Preghi per l'illustre ammalato che c'interessa tanto, onde il Signore Io conservi per i bisogni della sua esemplarissima congregazione, e di tutta la Chiesa alla quale sembrami che possa giovare ancora assai.

                Colgo l'opportunità onde raffermarmi con sensi di predistinta e particolare divozione

                Di V. Riverenza

 

Dev.mo Obblmo Servo

G. di Cavour.

 

                L'Abate Antonio Rosmini Serbati moriva nella notte dal 30 giugno al i luglio 1855, e D. Bosco faceva suffragare da tutto l'Oratorio l'anima benedetta del suo benefattore.

                Intanto D. Cafasso aveva benevolmente accondisceso che, andati i convittori in vacanza, i quadri della lotteria fossero esposti in una delle sale a S. Francesco d'Assisi, essendo luogo situato nel centro della città. Senonchè omai [271] tutti i biglietti erano venduti e al tempo stabilito si potè procedere all'estrazione dei numeri come risulta dal seguente verbale.

 

                L'anno del Signore 1855 alli II di luglio alla presenza del Sig. Gonella Cav. Mario, Sac. Bosco Giovanni membri della Commissione per la lotteria a favore dei giovani ricoverati nella casa annessa all'Oratorio maschile di Valdocco, ed alla presenza del signor Conte Broglia Alessandro, del signor Can. Ariccio Giuseppe di Carmagnola e del signor Beglia Antonio capomastro, si venne alla estrazione della mentovata lotteria come segue.

                Fu scelta nel palazzo municipale della città di Torino una Bussola, così detta, a composizione; si posero entro la decina delle unità, delle decine, delle centinaia, dei mila; poi si posero solamente le sei prime cifre, perchè il numero dei biglietti monta solamente a sette mila. - Fatto poscia il debito ballottaggio, si venne all'estrazione in una camera dell'Oratorio suddetto, secondo le norme prescritte dall'intendenza generale e secondo l'esposto del piano di regolamento.

 

Teol. Can. GIUSEPPE ARICCIO.

BEGLIA ANTONIO.

Cav. MARIO GONELLA.

 

                D. Bosco affrettavasi allora colla seguente circolare dar notizia ai benefattori dell'esito della lotteria.

 

Torino, 16 luglio 1855.

 

                               Ill.mo e Benemerito Signore,

 

                Mi fo premura di trasmettere a V. S. Ill.ma uno stampino dei numeri estratti nella lotteria alla carità di Lei raccomandata, affinchè possa comodamente verificare se qualche suo biglietto sia stato dalla sorte favorito.

                So benissimo che in ciò ebbe niente di mira il guadagno, ma solo l'opera di carità cioè di venire in soccorso di questi poveri [272] giovanetti dalla Divina Provvidenza in certa maniera a me affidati e questo è doppio motivo per vieppiù ringraziarla di cuore.

                Ora mentre l'assicuro che noi avremo verso di Lei la più sentita gratitudine, La preghiamo di volerci continuare il suo favore e la sua carità nelle sue opere di beneficenza. E poichè non possiamo altrimenti mostrare la nostra gratitudine, io, il sacerdote D. Alasonatti, mio collega, e tutti i figli dell'Oratorio ricoverati, non mancheranno di pregar il Signore Iddio onde La colmi di celesti benedizioni, mentre con pienezza di stima mi dichiaro

                Di V. S. Ill.ma e Benemerita

 

Obbl.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco.

 

 

CAPO XXV. Il pane quotidiano nell'Oratorio - La Divina Provvidenza e D. Bosco - Fallisce il progetto della tipografia - Ottima condotta dei giovani dell'Oratorio nelle scuole privale -Un eroico paciere - Fastidi di D. Bosco,per le vacanze autunnali e suo racconto nella distribuzione dei premi - Un promessa alla Madonna mantenuta e premiata - Avvisi ai giovani che ritornavano al paese - Savio e Massaglia non vogliono allontanarsi da D. Bosco.

 

                L’ANNO scolastico 1854 - 55 ormai terminava, e nell'Oratorio, benchè si vivesse in povertà, non era mancato; un sol giorno il vitto necessario. Il pane di seconda qualità costava settanta centesimi al chilogramma, e D. Bosco non congedò alcuno de' suoi giovani, non ne restrinse il numero e continuò ad accettarne de' nuovi. Anzi alcune volte rallegrò la loro mensa con qualche cosa di particolare. I proventi della lotteria bastarono al bisogno, ed erano stati premio della carità animatrice delle sue fatiche e delle umiliazioni prevedute, che accrescevano il valore de' suoi sacrifizii.

                Perciò la Divina Provvidenza non lasciava di assisterlo, ed egli abbandonavasi nelle sue braccia con tanta confidenza [274], tenerezza e gratitudine, da potersi affermare che passasse tutta la sua vita in continui ringraziamenti al Signore.

                Da ogni circostanza della vita, da ogni evento sia grande sia minimo, sapeva cogliere l'occasione per esaltare ora la bontà di Dio, ora la sua provvidenza, ora la sua sapienza ed onnipotenza. Un giorno nella stagione estiva egli era nelle vie di Torino accompagnato da D. Rua: fermatosi davanti ad un banco di fruttivendole, gli fece notare la varietà, la bellezza, la bontà delle tante sorta di frutta che vi erano esposte, e poi esclamò: - Quanto è mai buono il Signore che provvede con tanta abbondanza e varietà per i bisogni della nostra vita corporale! - Simili parole si udirono uscire le mille volte dall'amante suo cuore.

                In lui non apparve mai ombra d'impazienza nell'attendere quei soccorsi che talora si facevano desiderare, perchè fossero la ricompensa della sua fede: come pure, allorchè vedeva dileguarsi l'effettuazione creduta imminente di un progetto importante e a lui molto caro. Egli infatti prevedeva di dover sospendere il vagheggiato disegno della tipografia, e non poter riscattare il terreno a questo fine venduto. La morte dell'Abate Rosmini aveva mandato a monte tante speranze! Eppur con animo tranquillo egli rispondeva a D. Carlo Gilardi, il quale proponevagli di far vendere, o tutto o in parte, il campo da lui trasmesso all'Istituto della Carità.

 

                                Carissimo Sig. D. Carlo,

 

                Ricevo con grato animo la cara sua lettera che mi dà notizia ufficiale della elezione del P. Pagani a Padre Generale. Sia lode a Dio. Credo veramente che siasi fatta la volontà del Signore me lo saluti tanto da parte mia. [275] Riguardo al sito che si divisa porsi in vendita, c'è veramente un punto favorevole dello scalo provvisorio di Valdocco. Nella scorsa primavera ci erano domande ed offerte assai vantaggiose: ora siamo in un momento di crisi; pochi cercano di comperare, niuno di fabbricare; perciò io sarei di parere di attendere fin verso la primavera del 1856. In questo tempo se mai si presentasse occasione favorevole si potrebbe accettare, ma non precipitare. Dal canto mio non sarei in grado di comperare.

                Intanto io Le porgo i saluti della mia buona madre, dei miei chierici, che conservano viva di Lei memoria: e mentre ci raccomandiamo tutti alle pie di Lei orazioni mi dico nel Signore.

                Di V. S. Car.ma

                Torino, 15 agosto 1855,

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco Giov.

 

                Questa lettera rispecchia la perfetta calma del suo cuore, ispirata dalla fiducia in Maria SS. e rallegrata dall'ottima condotta de' suoi figliuoli. Per Torino era conosciuta ed in onore la loro virtù. Essi avevano continuato a frequentare le due scuole private pel ginnasio inferiore del professor Giuseppe Bonzanino e pel ginnasio superiore del professore D. Matteo Picco. Nella modestia dei loro abiti, nell'umile condizione loro, apparivano puliti, ben educati, cortesi in guisa che i loro compagni di civile e anche di nobile stato si trattenevano volentieri con essi. E ne riportavano da questa amicizia grande vantaggio, coll'emulazione, col maggior ordine e silenzio, colle attrattive della virtù. 1 professori ne benedicevano il Signore, tanto più per avere uno di essi scongiurato un gravissimo disastro.

                Savio Domenico frequentava le lezioni di seconda grammatica latina del prof. Bonzanino, e due discepoli gli diedero occasione di spiegare sino a qual punto lo ardesse [276] il fuoco di amar Dio e il desiderio d'impedirgli delle offese. Venuti un giorno a contesa tra loro, per alcune parole scambiatesi in dispregio delle rispettive famiglie, passarono dagli insulti alle villanie, e finirono collo sfidarsi a far valere le loro ragioni a colpi di pietra. Domenico, giunto a scoprire quella discordia e quella disfida, ne provò vivissima pena e desiderò d'impedirla; ma come riuscirvi, essendo i due rivali maggiori di forze e di età? Si provò di persuaderli a desistere da quell'insano divisamento, facendo osservare ad ambidue che la vendetta è contraria alla ragione ed alla religione; scrisse lettere all'uno e all'altro; li minacciò di riferire la cosa al professore ed anche ai loro parenti; ma talmente erano inaspriti i loro animi, che tornava inutile ogni parola. Allora il suo cuore magnanimo gli suggerì un atto, che sa dell'eroico. Egli li attese, dopo scuola, e parlando ad ambidue disse: - Poichè perdurate nel bestiale vostro divisamento, vi prego almeno di voler accettare una condizione. - L'accettiamo, risposero essi, purchè non impedisca la nostra sfida. - Egli è un birbante, gridò uno di loro. - Ed io non sarò in pace con lui, soggiungeva l'altro, finchè od egli od io non abbiamo rotta la testa. - Il pio giovanetto tremava a quel brutale diverbio; tuttavia nel desiderio di impedire maggior male, si fece coraggio e disse: La condizione che sono per mettervi non impedisce la sfida. - Qual è questa condizione? - Vorrei soltanto dirvela sul luogo, dove volete misurarvi a sassate. - Tu ci minchioni, o studierai di metterci qualche incaglio. Sarò con voi, e non vi minchionerò: state tranquilli. Forse tu vorrai andare a chiamare qualcuno. - Dovrei farlo, ma nol farò; andiamo, io sarò con voi, mantenetemi soltanto la parola.

                - Glielo promisero, e pel luogo dello scellerato combattimento [277] furono scelti i così detti prati della cittadella vicino a Porta Susa, nell'area ove poi venne innalzata la chiesa parrocchiale di Santa Barbara.

                Giunti al luogo stabilito, il nostro Savio fece un atto, che certamente niuno sarebbesi immaginato. Lasciò che i duellanti, muniti ciascuno di grosse pietre, si prendessero le loro posizioni ad una certa distanza l'un dall'altro. Quando li vide in procinto di venire all'assalto selvaggio, disse: - Prima di effettuare la vostra sfida voglio che adempiate la condizione accettata. - Così dicendo, trasse fuori il suo piccolo Crocifisso, che aveva al collo, e, tenendolo alto in una mano, voglio, proseguì a dire, Voglio che ciascheduno di voi fissi lo sguardo su questa immagine, di poi, gettando una pietra contro di me, pronunzi queste parole: “Gesù Cristo innocente morì perdonando a' suoi crocifissori, io peccatore voglio offenderlo e fare vendetta”.

                Ciò detto, va ad inginocchiarsi davanti a colui che mostravasi più infuriato, e gli dice: - Fa il primo colpo sopra di me; tira una forte sassata sul mio capo. - Costui, che non si aspettava simile proposta, tremò, impallidì, e: - No, rispose, mai no: io non ho alcuna cosa contro di te, e vorrei invece difenderti, se qualcuno tentasse oltraggiarti. - Domenico, ciò udito, si alza, corre dall'altro, gli si prostra dinanzi, dicendo le stesse parole. A questo atto, anche colui rimase sconcertato e gridò: - Non mai fare del male a te, non mai.

                Allora il santo giovanetto si rizza in piedi e con voce commossa: - Come, dice loro, voi siete disposti ad affrontare anche un grave pericolo per difendere me, che sono una miserabile creatura, e non siete capaci di perdovarvi un insulto, una derisione, per salvare l'anima [278] vostra, che costò il sangue del divin Redentore, e che voi andate a perdere con questo peccato? - Ciò detto, si tacque, tenendo sempre il Crocifisso alto in mano, e cogli occhi bagnati di lagrime.

                A tale spettacolo di carità e di zelo i due compagni furono vinti. - In quel momento, asserì poscia uno di loro, io fui intenerito; un freddo mi corse per tutte le membra, e mi sentii pieno di vergogna per aver costretto un amico sì buono ad usare misure estreme, per impedire l'empio nostro divisamento. - Pochi giorni dopo i due condiscepoli, già riconciliati tra loro, si andavano pure a riconciliare col Signore, mediante la santa Confessione.

                Intanto D. Bosco vedeva con pena, rinnovata ogni anno, il sopraggiungere delle vacanze autunnali e varie settimane prima incominciava ad avvisare i giovani che il demonio, se non si tenevano attenti, avrebbe fatto strage delle anime loro distruggendo il frutto de' suoi sudori. Ragionava di pericoli che si incontrano nel mondo per i cattivi compagni, le cattive letture, l'ozio e il vivere immortificato. Loro inculcava una gran riserbatezza nel trattare con qualsivoglia genere di persone e deplorava altamente il mal vezzo di certi parenti che lasciavano giuocare insieme ragazzi e ragazze, chiamandolo il naufragio dell'innocenza e la scuola elementare della malizia. Ricordava eziandio che S. Filippo Neri non voleva permettere ai fanciulli neppure di divertirsi colle sorelle.

                Per questi motivi faceva loro intendere che gli avrebbero fatto piacere col non andare in vacanza, o col ritornare presto nell'Oratorio, promettendo di compensarli di quel sacrifizio con ricreazioni, merende, teatrini e passeggiate deliziose. Aveva già tolte le vacanze natalizie e carnevalesche, che nei primissimi anni era stato costretto [279] a concedere a qualcuno perchè ciò usavasi in tutti i collegi; ed ora, e per più anni poi, tollerava le vacanze Pasquali, Ma le autunnali duravano dalle prime settimane di luglio fino circa ai venti di ottobre; e perciò D. Bosco aveva stabilito che alla metà di agosto i giovani fossero richiamati dalle loro patrie per un mese intero per frequentare alcune scuole di riparazione, di ripetizione, preparatorie ai corsi superiori. Era convenuto però che quel giovane il quale, senza motivo legittimo, non si fosse presentato in questo mese, non sarebbe più accettato al principio dell'anno scolastico. Stava intanto fisso nella sua mente di togliere a tempo opportuno anche le vacanze Pasquali e ridurre le autunnali ad un solo mese.

                Tutte queste sue disposizioni e disegni erano suggeriti da un'eroica carità.

                Infatti egli doveva assoggettarsi ad una maggiore spesa, di gratuito mantenimento, che col crescere poi dei giovani fino a più di ottocento, diventò enorme; rinunziava volentieri al riposo, che avrebbe potuto godere almeno in questi tempi dell'anno; e accettava di buon grado nuove fatiche personali e sollecitudini che tutto ciò gli procurava.

                Nella prima metà di luglio, subíti gli studenti gli esami, facevasi la festa della distribuzione dei premii, e D. Bosco soleva coronarla con un suo discorsetto tutto cuore. Un antico allievo ci trasmise memoria di uno di questi che, se non fu pronunciato nel 1855, appartiene a quest'epoca. D. Bosco aveva detto che il primo premio spettava a Maria SS. per tutti gli aiuti che aveva prestati ai giovani in quell'anno, e narrava il seguente fatto - “Era un giorno del mese di Maggio, sacro alla Regina del cielo e destinato in un convitto alla distribuzione dei premii. Parecchie ragguardevoli persone vi erano state invitate per rendere [280] la festa più bella e gioconda. I premii erano d'ordinario oggetti pii, come libri,- quadri, statuette e simili. Nel numero degli oggetti esposti trovavansi pure alcuni vasi di fiori naturali, freschi e odorosi, ivi collocati più perchè servissero di abbellimento, che di premio. Que' giovani da premiarsi che primi sarebbero stati chiamati, avevano il vantaggio di poter scegliere l'oggetto fra tutti il più bello e prezioso, e che più loro aggradiva. Giunge l'ora sospirata e tutto essendo preparato, si dà principio alla distribuzione dei premii. Il primo ad essere chiamato avanzatosi fra quella rispettabile assemblea, scelse l'oggetto più caro e più prezioso. Ve ne rimanevano ancora altri molti a quello non di gran lunga inferiori, ed ecco un secondo giovane, di virtù specchiata e di costumi angelici, è chiamato a scegliersi il premio. Quegli modestamente s'avanza, quindi s'arresta, considera un momento sopra quale oggetto debba far cadere la sua scelta, ma pare .che non ne trovi alcuno di suo gusto. Quand'ecco, contro l'aspettazione di tutti i circostanti, fissa i suoi occhi sopra uno di quei vasi di fiori freschi; va, lo prende e tutto ..allegro e giulivo lo porta tosto ai piedi della statua di Maria nella vicina cappella a Lei dedicata, ed in quel mese divotamente festeggiata. Questo atto devoto, tutto ingenuo quale egli era, fu apprezzato come si doveva dall'assemblea. I giovanetti specialmente ne rimasero commossi e approvarono con replicati applausi la divozione dell'amico. Questo esempio fu imitato da altri giovanetti, i quali tutti in quel giorno dimostrarono quale amore nutrissero nei loro teneri cuori verso la celeste loro madre Maria SS”. E concludeva che il premio che la Madonna desiderava da loro era che mantenessero sempre una condotta veramente cristiana. [281] L'anno scolastico si chiudeva coll'esercizio di buona morte. Il ragazzo Fumero Luigi, amantissimo della musica, era giunto in quell'età nella quale la voce suole mutarsi, e dovendo lasciar presto l'Oratorio andò a confessarsi da D. Bosco. Aveva una bellissima voce; e la prima chiesa tettoia e poi quella di S. Francesco di Sales sembravano mutarsi in un paradiso quando egli cantava. D. Bosco gli disse pertanto che procurasse di aver sempre l'intenzione di dare gloria a Dio, ogni volta fosse invitato ad esercitare la sua arte prediletta; e Fumero gli rispose come egli pregasse la Madonna a conservargli sempre senza alterazione quella soave potenza di voce, promettendole che non l'avrebbe mai impiegata in canzoni profane, in concerti secolareschi ed in teatri. D. Bosco allora lo assicurò che Maria SS. gli avrebbe concessa quella segnalatissima grazia. Fumero mantenne la sua promessa cantando solamente in chiesa e per dar lode a Dio e conservò limpida la graziosa sua voce fino a tarda età.

                Finalmente veniva il mattino fissato per la partenza. Buon numero di alunni, o per affezione sincera ai parenti, o per leggerezza giovanile, ed anche per le vive istanze dei genitori, non avevano rinunziato a rivedere la propria casa. E D. Bosco a costoro raccomandava caldamente di accostarsi ogni settimana ai santi Sacramenti, inculcava loro che giunti a casa tosto si presentassero al parroco, considerandolo quasi un altro D. Bosco; ed esortavali a servire la S. Messa ogni giorno, a non lasciar mai di andare alla predica ne' giorni festivi, e, se già capaci, di fare il catechismo ai fanciulli. Distribuiva poi a ciascuno un biglietto nel quale erano le norme per passare bene le vacanze. Benchè D. Bosco apparisse gioviale e calmo, è un fatto che per ogni giovane che si allontanava era uno [282] strappo al suo cuore. Tuttavia non pochi di questi lungo le vacanze facevano viaggi di dieci e più miglia anche a piedi per venire all'Oratorio a confessarsi da D. Bosco, o chiedergli consigli, o anche solamente per vederlo. Ve ne erano talora parecchi che si erano mossi da Bra, da Asti, da Alessandria e da altri paesi anche più lontani.

                Non mancavano però alunni i quali, per far piacere a D. Bosco e mossi dal desiderio di progredire nello studio ed attendere meglio agli esercizi di pietà, preferirono di rimanere all'Oratorio, e tra questi furono Savio e Massaglia. Sapendo D. Bosco quanto fossero ansiosamente aspettati dai parenti, e quanto essi medesimi avessero bisogno di ristorare la loro stanchezza, disse ad ambidue: - Perchè non andate a passare qualche giorno in vacanza? - Essi invece di rispondere si misero a ridere. - Che cosa volete dirmi con questo ridere?

                Domenico rispose: - Noi sappiamo che i nostri parenti ci attendono con piacere; noi eziandio li amiamo e ci andremmo volentieri; ma sappiamo che l'uccello finchè trovasi in gabbia non gode libertà, è vero; è per altro, sicuro dal falcone. Al contrario se è fuori di gabbia, vola dove vuole, ma da un momento all'altro può cadere negli artigli del falcone infernale.

                Ciò non ostante D. Bosco giudicò di mandarli qualche tempo a casa pel bene della loro sanità, e si arresero al suo volere soltanto per ubbidienza, restandovi quei soli giorni che erano stati loro comandati.

                Altri poi dopo un mese di vacanza obbedivano alla prescrizione di D. Bosco; e nel registro del voto complessivo mensile dei figli della casa secondo la loro assiduità ai proprii doveri e la loro cristiana condotta, nell'anno [283] scolastico 1854-55, troviamo che nell'agosto eranvi nell'Oratorio 35 studenti ed 80 artigiani: totale i 15. Non sono annoverati i chierici e altre persone o ricoverate o addette al servizio della casa.

                E prima cura di D. Bosco nell'agosto e nell'ottobre era di esaminarli al loro ritorno, se avessero seguiti i suoi consigli.

 

 

CAPO XXVI. IL GALANTUOMO, Almanacco nazionale per l'anno 1856 - A' suoi amici - Il principio del 1855 - Il Galantuomo parte per la guerra d'Oriente - La vista del mare La Crimea - Il coléra in Crimea - 1 futuri destini della patria.

 

                DON Bosco, per antivenire lo spaccio degli almanacchi eretici, fin dal mese di luglio incominciava a preparare il Galantuomo. Per iscriverlo, farlo comporre dai tipografi, correggere le bozze e stamparlo si richiedevano almeno due mesi. In questo libretto, oltre il ripetere le indicazioni esposte negli anni antecedenti, notavansi alcune date più solenni della vita di Pio IX, e la distribuzione delle quarantore nelle Chiese di Torino per l'anno 1856. Si narravano episodii ameni, scientifici e religiosi; facevasi cenno di scoperte ed invenzioni moderne; si finiva con una graziosa poesia in dialetto piemontese intitolata: Il vizio del giuoco. La Tipografia De Agostini ebbe l'incarico di preparare tale strenna agli associati delle Letture Cattoliche, e le copie che sopravanzassero dovevano essere messe in vendita. [285]

                Il Galantuomo dei due anni precedenti aveva prodotto un gran bene; ma quello in corso di stampa, letto, destò il più vivo interesse, per certe predizioni che vi erano annunciate. Noi qui le riproduciamo unitamente ad altre pagine che invero non hanno tutte la stessa importanza; ma, essendo scritte da Don Bosco, abbiamo giudicato che serviranno a far conoscere sempre meglio il suo carattere e la sua franchezza nel difendere i principii religiosi. Ci siamo anche indotti a riprodurle perchè non vadano perdute, essendosi da oltre cinquant'anni esaurite le loro copie, e noti intravedendosi probabilità che vengano in qualche altro modo a riveder la luce.

                Così adunque si leggeva nel Galantuomo, almanacco nazionale per l'anno 1856.

 

Il galantuomo a’ suoi amici.

 

IL PRINCIPIO DEL 1855.

 

                A questa la terza volta che ho l'onore di presentarmi a voi, o venerati amici, per parlarvi di nuove vicende. Quest'anno ho tante cose gravi a raccontarvi, e di tale importanza, che mi vedo costretto a dividere la materia in alcuni capitoli. Comincerà ad accennarvi ciò che avvenne sul principio di quest'anno per farmi strada al rimanente.

                Mentre s'incominciava il mille ottocento cinquantacinque era in discussione la legge contro ai frati, alle monache, ed ai preti. Poveri frati, che hanno dato tante scodelle di minestra ai miei ragazzi, e vennero tante volte a vedermi quando era stato ammalato! Ma! sia che il Signore volesse punirci con questa legge, o per altri motivi a noi sconosciuti, fatto sta che i mali si moltiplicarono. La nostra cara regina madre, Maria Teresa, cade ammalata, e dopo alcuni giorni di malattia cede al fatale destino e muore. Passano pochi giorni, e la regina regnante, Adelaide, segue sua suocera nella tomba. Oh! povere regine, erano così. [286] buone, facevano tanta limosina! lo ho pianto molto, e parecchi altri piansero al par di me. Al giorno della loro sepoltura io non ho fatto altro che recitare dei Pater noster e dei Requiem aeternam per le anime loro. È  vero che molti si consolavano dicendo: abbiamo perduto due benefattrici in terra, ma avremo due protettrici in cielo; tuttavia era voce unanime che diceva: Sono morte le madri dei poveri; il mondo diveniva troppo perverso e non meritava di avere due Regine tanto buone. Iddio le tolse affinchè non fossero testimoni di mille iniquità, che si sarebbero fra breve commesse.

                Si piangevano ancora le morti delle due Regine, quando ci assalì nuovo malanno. Il Duca di Genova, quel valoroso che aveva tanto combattuto per l'onore della patria, e che aveva affrontati tanti pericoli nella Lombardia e nella campagna di Novara, sul fior di sua età cessò di vivere. Poco tempo dopo un figlio del Re era pure portato alla tomba. Tutti questi mali avvennero mentre si andava discutendo la legge contro ai frati e contro ai preti. Io non voglio dire che Iddio abbia fatto morire tutte queste brave persone a motivo di quella legge: ma molti l'hanno detto e lo dicono ancora, e si diceva perfino che Dio voleva chiamare a sè i buoni per punire debitamente i malvagi.

                In mezzo a tutti questi mali, avvenne che il nostro governo vedendo la Francia e l'Inghilterra a mal partito nella guerra contro ai Russi, pensò di venire in loro soccorso, e ciò mi pare ben fatto, perchè l'aiutare il prossimo è un'opera di carità, e le opere di carità sono sempre lodevoli.

                Tra que' matterelli che ebbero il prurito d'andar contro i Russi, ci fui anch'io. Ma la mia posizione non mi permetteva di arruolarmi, perchè, come è noto a tutto il mondo, ho quarant'anni, zoppico da un piede, sono alquanto gobbo, sordo da un orecchio, cieco da un occhio, cose che impediscono assolutamente di fare il militare. Pure ci voleva andare: non per la smania che avessi di ammazzare soldati, no, perchè mi sento commosso al solo veder uccidere una pulce; ma desiderava di andare per guadagnare qualche cosa da mangiare per me, e per i miei ragazzi.

                Io mi trovava ridotto alle più gravi strettezze, e non  sapeva più dove voltarmi per avere soccorso, perchè Monsignor Arcivescovo, finchè era qui a Torino, mi dava quasi tutte le settimane [287] qualche sussidio, e l'hanno mandato in esiglio; i frati mi davano, qualche piatto di minestra, e trattavasi di mandarli tutti a casa. Che fare adunque? lo mi sono aggiustato da cuoco con un locandiere delle nostre truppe, che doveva partire per la Crimea,

 

LA VISTA DEL MARE.

 

                Voi, o amici, sarete ansiosi di sapere notizie del mio viaggio, ed io vi voglio appagare! State attenti: sebbene io non sia per raccontarvi fatti atroci e sanguinosi, tuttavia avrete di che ricrearvi.

                Sono partito per la ferrovia di Porta Nuova, ed in poche ore sono giunto a Genova. Qui abbiamo messo un milione di arnesi di ogni genere sopra un bastimento, e poi ci siamo imbarcati. Finchè fui vicino alle rive del mare, tutto andò bene; ma quando mi vidi scomparire dinanzi città, rive, colline e montagne, allora fui vivamente costernato, e dissi: Povero Galantuomo! Chissà se rivedrai ancora questi paesi!

                Quando mi trovai in mezzo al mare cominciai a considerare la forma dei bastimenti. Essi sono fatti come le barche, quali voi avrete già più volte veduto a galleggiare sul Po, ma sono più di cinquanta volte più grosse. Colà ci sono molte camere, ove si può mangiare, dormire, passeggiare, fumar sigari, ed altre, cose simili, che si dánno gratuitamente a chi ha danaro per pagarle.

                Il mare! O quanto mai è grande il mare! Immaginatevi una vastissima pianura non circondata nè da monti, nè da montagne; ove non vi siano nè strade, nè case, nè vigne, nè prati, nè piante, nè selve, e che il confine di quella vastissima pianura vada a perdersi nella pianura medesima: voi avrete così una qualche idea del mare.

                Andava eziandio rimirando con maraviglia le onde, in mezzo, a cui passava il nostro bastimento. Provava il più gran piacere in rimirare i pesci or grossi, or piccoli, che mettevano sempre il loro musetto vicino alle sponde del bastimento. Pareva proprio che quegli animali sapessero che io sono un Galantuomo, e nulla avessero a temere di me. Intanto io mi accorsi che si avvicinava la notte; perciò deponendo ogni pensiero ed ogni [288] sollecitudine pel passato e per l'avvenire, andai in cantina e mangiai un tozzo di munizione con una fetta di salame, bevetti un mezzo litro di vino, dopo andai a coricarmi sopra un pagliariccio per riposare.

                Dormiva saporitamente, quando, o apposta o per isbaglio, un mio compagno, credendo forse di prendere un pezzo di legno da fuoco, prese una mia gamba.

                - Adagio, mi posi a gridare, questa gamba è mia. - Non è vero, è un legno, debbo bruciarlo. - Minchione che siete, gridai forte, bruciate le vostre gambe e non le mie lo pago per esse le imposte, e non voglio che alcuno me le tocchi. - L'altro fece i fatti suoi, e lasciò per me le mie gambe.

                Tuttavia essendomi stato interrotto il sonno, non lo potei più ripigliare. Quasi per prendere un po' di fresco, uscii allo scoperto sopra al bastimento. Allora mi apparve uno spettacolo che pari non vidi mai in vita mia. Alzo lo sguardo all'insù, e vedo un'immensa quantità di stelle; abbasso gli sguardi e quante stelle rimiravo sopra e intorno a me, altrettante ne scorgeva sotto i piedi miei. Mi sembrò in quell'istante di essere divenuto un granello di polvere disperso nell'universo.

                Più alzava gli occhi e li abbassava rimirando l'immensa quantità di stelle che mi circondavano, più mi sembrava di divenire piccolo. Colpito da questa immaginazione, mi posi a gridate: - Povero Galantuomo, tu ritorni al nulla! - Ma intanto mi accorgeva che aveva ancora la testa sopra le spalle, che il mio cuore palpitava, che la mia lingua parlava. Onde compreso della mia piccolezza dissi a me stesso: - Vedi, o Galantuomo, quanto sei piccolo in confronto di tante stelle, così grosse e così distanti l'una dall'altra! Quanto bisogna che sia grande colui che ha fatto tutte queste cose!

                Continuando il cammino da Genova siamo passati per un mare detto Tirreno, ed è tra l'isola di Sardegna e la Toscana. Poi ci siamo trovati in Malta, dove abbiamo fatto alcune provviste di acqua; perciocchè voi certamente sapete, che l'acqua del mare, essendo molto salata, non si può bere, epperciò bisogna far provvista di acqua non tanto salata per servirsene poi in alto mare. Dopo abbiamo sempre camminato per acqua da un mare in un altro finchè siamo giunti a Costantinopoli, [289] che è una grande città, più grande di Torino, ma non tanto bella. Ho voluto fare un giro per le vie di quella capitale, che sono molto storte e poco pulite. Ho visto per la prima volta i Turchi, i quali si dicono valorosi in guerra, ma che a vista paiono altrettanti commedianti. Portano due sacchi per calzoni, una camiciaccia copre loro le spalle, in capo poi hanno un berrettone che contiene tre emine di meliga. Sono poi ignorantissimi; sanno nemmeno il piemontese; cosa che sanno i nostri ragazzi più piccoli.

                Ho domandato ad uno di loro, che mi dicesse le ore: l'altro mi rispose: - Rachid Rachid.

                - Io non domando Rachid; domando quante ore sono.

                 L'altro: - Rachid Rabadam Rabadam.

                Io: - Va, va col tuo Rachid e col tuo Rabadam: ce ne son già tanti Rabadam al mio paese, che non occorre più cercarne qui.

                Ciò fatto io mi portai tosto al bastimento, e giunsi al momento che i nostri si radunavano per ripigliare il cammino pel Mar Nero. Io era ansioso di vedere quel mare, e mi pensava proprio che fosse nero; ma ho veduto che l'acqua è simile a quella degli altri luoghi; e mi fu detto che si dice Mar Nero per la grande oscurità che rappresenta nella sera, ed anche per le dense ed oscure nebbie da cui è coperto buona parte dell'anno.

 

LA CRIMEA.

 

                Dopo quattordici giorni di viaggio, un mattino sul fare del giorno sento gridare: Crimea! Crimea! Esco anch'io in maniche di camicia per vedere la Crimea; e di lontano vidi una punta, che sembrava quasi un uomo immerso nell'acqua col naso fuori.

                Più mi avvicinava, più diveniva grosso; e infine comparve un paese, dove abitano uomini che hanno corpo ed anima come abbiamo noi.

                Io ci ho trovata poca diversità dai nostri paesi. Colà il sole spunta il mattino, tramonta la sera; di giorno è chiaro e di notte è oscuro, ad eccezione quando splende la luna. La gente poi cammina coi piedi, lavora colle mani, mangia colla bocca, parla colla lingua, vede cogli occhi, sente colle orecchie. Colà [290] c'è anche l'uso che per mangiare bisogna lavorare; ad eccezione di quelli, e non son pochi, i quali si dánno a fare il ladro.

                La diversità di questo paese dai nostri sta qui: tra noi le cose di cibo sono care; colà carissime. Un piatto di minestra dieci soldi, una limonata fatta colla massima economia otto soldi; il pane due franchi e cinquanta centesimi il chilogramma; un litro di vino alquanto buono tre franchi, la coscia di un cappone un franco, e così del resto. Quante cose erano care ma per me e pel mio padrone andavano bene, perchè contribuivano a far danaro.

                Però in mezzo a queste prosperità non mancavano cose che venissero a recarci grave molestia. Un caldo eccessivo ci opprimeva di giorno e un freddo incredibile ci gelava di notte. Di giorno ci sono tafani e mosche impertinentissime, che ci pungono senza riguardo; di notte ci sono zanzare, farfalle ed una specie di pulci che non lasciano riposare. Più volte ho udito capitani e generali ad esclamare, che non temevano per nulla i cannoni dei Russi, ma che bisognava cedere a questi anima letti, contro di cui valgono più le unghie di un povero contadino, che la forza e la spada dei più coraggiosi.

                Per avere una giusta idea di quel paese ho interrogato un capitano, che non bontà e cortesia un dopo pranzo m'invitò a passeggiare con lui, e per appagarmi prese a parlare così:

                “Tu, o Galantuomo, desideri di avere notizie esatte della Crimea, ed io di buon grado ti darò un celino, di quelle cose che sono adattate alla tua capacità e condizione.

                “La Crimea, anticamente chiamata Chersoneso Taurico, è una penisola circondata dal Mar Nero, dal mare Azoff e mar Putrido A unita agli stati di terra della Russia dall'Istmo di Perekop, che è una lingua di terra lunga circa quattro miglia.

                “I luoghi a te già alquanto noti sono Balaklava, Alma, lnkermann, Eupatoria, dove gli alleati l'anno scorso riportarono grandi vittorie contro i Russi. - Sulla punta dell'isola, verso il mezzodì, avvi una montagnetta molto fortificata, detta torre Malakoff. Da quella montagnetta si scopre la città di Sebastopoli e dietro alla città vi sono altri forti, che presto cadranno nelle mani degli alleati.

                “Ci sono pochi laghi e pochi fiumi. [291]

                “Un torrente considerevole è la Cernaia, che presentemente divide gli - alleati dalle truppe Russe, che noi presto andremo ad assalire.

                “La popolazione della Crimea monta appena a dugento mila abitanti, quasi tutti tartari, i quali seguono la religione di Maometto.

                “La capitale della Crimea è Simferopoli. I principali porti sono Almeschetta, Balaklava e Sebastopoli, che è il meglio fortificato.

                “Tutto questo paese è poco coltivato. Ci sono molti sabbioni; perciò un caldo insopportabile di estate, con un freddo terribile nell'inverno.

                “I principali prodotti sono le biade in abbondanza, olio, lino, canapa, tabacco; si coltivano le viti con ottimo successo. Dà pure un buon raccolto il fico, l'olivo, il melagrano; i quali frutti però vanno molto soggetti al guasto delle locuste. Ci sono pure numerose mandre di buoi, di cammelli, di capre, di montoni, di cavalli e di asini grossi al par di quelli che vivono nei nostri paesi. Non intendo parlar di te!

                “Ci sono pure città, montagne, fiumi, laghi, riviere, che io ti voglio nominare: Karabi, Jaila, Tkhadyz - dugh....”

                Quel cortese capitano voleva continuare a recitarmi una fila di nomi, che io non solo non poteva tenere a memoria, ma nemmeno pronunziare.

                Però l'ho ringraziato della bontà usatami, e sono andato ad eseguire gli ordini del mio padrone, che appunto in quel momento abbisognava dell'opera mia.

 

IL COLÈRA IN CRIMEA.

 

                Appena giunti in Crimea, parecchi dei nostri soldati andarono soggetti a diverse malattie. La più fatale e che menò maggiore strage fu il Cholèra-morbus Da principio si pretendeva che fosse una malattia ordinaria e cagionata dalla stanchezza de viaggio. Ma presto ognuno potè convincersi che era veramente il coléra, in tutto simile a quello che l'anno scorso aveva flagellato i nostri paesi. Io medesimo ne fui spaventato, ma, ripresi alquanto gli spiriti, dissi tra me: - Coraggio, Galantuomo: [292] la fortuna aiuta i coraggiosi; fa quello che puoi pel tuo prossimo e confida nella divina Provvidenza. - Pertanto mi sono messo di buona volontà a servire il mio padrone, ed anche a prestare agli infermi quell'aiuto che a me era possibile.

                Ma le cose presero un aspetto formidabilissimo. I casi e le morti di coléra moltiplicavansi ogni giorno più. Non vi erano più posti negli ospedali; mancavano medici e medicine. Immaginatevi! Da quella parte dove ero io, non si avea altro rimedio, che sale di canale. Un ufficiale prese un'oncia di questa medicina: ma invece di essere sollevato fu sorpreso da un tal male di pancia, che, come furioso, balzò di letto e corse disperatamente, finchè cadde morto. Io non voglio dirvi di più, perchè tali cose rinnovano grave afflizione a me, e cagionano certamente dolore a voi, che avete tutti un cuor buono e sensibile. Vi basti il sapere, che tutto inspirava terrore e spavento. Mi assicurano che in due mesi dei nostri morirono circa due mila e cinquecento. Quello poi, che porse il colmo alla mia desolazione, fu la morte del mio padrone. Io lo amavo molto ed egli mi voleva molto bene. L'ho assistito fino agli ultimi momenti.

                Quando si accorse che cominciava mancargli la parola, mi chiamò vicino a lui, e mi disse: - Galantuomo, io ti ringrazio della tua assistenza; io non ritornerò più in Piemonte: sono agli ultimi respiri di mia vita. Quivi c'è un sacchetto di scudi, che forma il capitale portato dai nostri paesi; tu li porterai alla mia famiglia. Qua c'è il danaro guadagnato colle nostre fatiche: metà di esso è tua; l'altra metà la darai a que' soldati che tu conoscerai trovarsi in maggior bisogno. Vendi quel tanto che abbiamo qui, il prodotto è pure per te. Tutti i crediti registrati nel libro sieno condonati. Io muoio rassegnato, perchè ho ricevuto i conforti della religione. Continua ad assistermi finchè io sia spirato. Quando poi mi avrai fatta la sepoltura, partiti e ritorna in Piemonte per dare notizia di mia morte a' miei parenti ed amici. Siccome qui non posso fare testamento, perciò la mia roba se la prenda chi ne ha diritto secondo le leggi. Galantuomo! Non abbandonarmi in questi ultimi momenti: il Cielo te ne compenserà: raccomanda l'anima mia al Signore”

                Non potè più continuare. Un violento calore interno congiunto ad una grave oppressione di stomaco in mezzo alle più [293] dolorose agitazioni il tolse di vita. Immaginatevi trista condizione! Io era solo di servizio, due compagni erano già morti per la medesima malattia: dovetti acconciare il cadavere del mio padrone; e poi senza preti, senza accompagnamento alcuno me lo presi tra le braccia e avviluppatolo in una grossa coperta lo sotterrai io medesimo in una fossa scavata a poca distanza dalla nostra tenda. Ciò fatto, per dare un qualche conforto all'afflitto mio cuore mi inginocchiai sopra quella povera tomba e recitai cinque Pater, cinque Ave, cinque Requiem aeternam pel riposo dell'anima del mio padrone.

 

I FUTURI DESTINI DELLA PATRIA.

 

                Aveva eseguito gli ordini lasciatimi dal mio povero padrone; la partenza era fissata al 2 luglio, ed eravi favorevole congiuntura per un bastimento che veniva in Piemonte. Quando alla vigilia dell'imbarco a notte avanzata si presentò da me un uomo sconosciuto, che parlava in maniera da farsi intendere. I suoi modi erano cortesi, il suo parlare inspirava confidenza. - Galantuomo, prese a dirmi, domani tu devi partire per la patria; prima che tu parta di qui, voglio farti vedere cosa, che tu certo non vedi in nessun paese del mondo. Vieni meco. - Io: Dove volete condurmi, e qual cosa volete farmi vedere? - Sconosciuto: lo ti voglio condurre da un Mosul (Direttore), che ci svelerà i futuri destini della guerra e della nostra patria. - La curiosità della promessa, il suo parlare piemontese, l'invito grazioso e la sua fisionomia non mi davano indizio di dover temere cosa alcuna. Io lo seguii. Mi prese egli per mano, mi fece percorrere varie strade; di poi mi condusse in una casa. Oh! là non si finiva più  entro in una camera, traverso un corridoio, poi altre sale, altre gallerie, altri corridoi, monta e cala, finchè, dopo di avere camminato due ore all'oscuro, mi trovai in una grotta bellamente addobbata e risplendente.

                Al primo giungere non mi accorsi, che colà abitasse uomo mortale; già pensava che quello fosse un alloggio destinato per me in quella notte. Ma la guida mi trattenne dall'inoltrarmi dicendo: - Non vedi colui che è assiso a quel tavolino? - Volsi colà il mio sguardo, e vidi un vecchio venerando assiso ad un [294] tavolino. Egli aveva i capelli bianchi come la neve; la faccia alquanto rugosa, ma vegeta, vivace e maestosa; leggeva attentamente in un libro sul cui dorso ho potuto vedere scritto: Esperienza, gran maestro.

                Come si accorse del nostro arrivo, alzò lentamente lo sguardo, e rimanendo tuttora seduto, incominciò a parlare così: - Quale desiderio vi spinse a venire in questo luogo separato dalle abitazioni dei mortali?

                La mia guida rispose: - Noi veniamo qui per offerirti i nostri ossequii e pregarti di svelarci i destini della guerra e di nostra patria.

                Il vecchio: “I destini della guerra e della vostra patria sono solamente noti a Dio, e a chi egli si degna rivelarli.

                “State bene attenti, io vi dirò quel tanto che si può già manifestare agli uomini. La guerra è ancor lunga e sarà accanita. Grandi combattimenti, grande spargimento di sangue. Le stragi ed i danni saranno uguali la vittoria degli alleati. Finchè il genere umano non sarà nel tempo stesso travagliato dalla fame, guerra e peste, il mondo non avrà pace.

                “Tu, Galantuomo, ritornerai in patria. Essa in quest'anno sarà orribilmente flagellata dalla mortalità, e poichè gli uomini attribuiranno al caso questo flagello, così terranno dietro mali estremi. Grandini, siccità, terremoti, carestia, fallimenti di commercio seguiranno. A questi colpi della mano divina gli uomini corrisponderanno con furti sacrileghi, con suicidii, omicidii, bestemmie e con empietà.

                “Perciò sarà sempre peggiore il destino della tua patria. Partecipa a' tuoi amici, che colà si vuol distruggere trono e religione; crollerà il primo, ma nulla varranno contro alla seconda. Se il ravvedimento degli uomini non fa cangiare i decreti di Dio, si vedranno cose inaudite in tutti i tempi andati. La religione sarà difesa col capo e col sangue de' suoi ministri e de' suoi fedeli; molti prevaricheranno, molti saranno costanti fino alla morte. Dopo ciò cesserà il comando degli uomini, Iddio solo comanderà. Allora i malvagi amerebbero meglio di non esistere, ma non è più tempo. Bisogna che Iddio sia glorificato, i malvagi puniti, i buoni sollevati. Dopo vi sarà pace universale”.

                Io voleva parlare, ma il vecchio soggiunse tosto: - Taci, io [295] non debbo mai essere interrotto quando parlo; tu volevi domandarmi quando avverranno tutti questi mali. Sappi, che sono già cominciati: vari si effettuano in quest'anno medesimo, gli altri di poi. E se gli uomini continueranno a disprezzare la divina legge, i flagelli saranno assai più tremendi di quel che sono stati predetti. L'unico mezzo per mitigarli ed ottener miglior destino si è l'abbandono dell'empietà.

                In sentendo tali cose io andava tra me riflettendo se sognassi, oppure fosse reale quanto vedeva cogli occhi e sentiva colle orecchie; non sapeva se dovessi credere o non credere. Voleva fargli anche qualche dimanda, ma fui così sbalordito delle disgrazie che annunziava ai nostri paesi, che non ho più osato parlare. Lo ringraziai, gli feci profondo inchino, e partii. La guida fecemi fare il medesimo cammino di prima. Chiesi più volte che mi dicesse il nome, il luogo della persona, con cui avevamo parlato ei nulla mi volle rispondere in proposito.

                Io non so, amici, se voi crediate a queste cose, che vi ho raccontate del vecchio. Voi fate come volete; io ci crederò di mano in mano che le vedrò avverate. Vi noto solamente, che in generale i vecchi ne sanno più dei giovani, e quelli che parlano sopra l'esperienza, raramente s'ingannano.

                Allora accelerai la mia partenza dalla Crimea, e senza alcun incidente particolare giunsi in patria, dove pur troppo veggo, che si vanno avverando le cose, che quel vecchio mi aveva predetto; e fosse vero che il rimanente andasse fallito. Ma io che sono Galantuomo, e che temo sempre male per me e per gli altri, pavento per l'avvenire. L'anno venturo, se avrò vita, avrò molte cose gravi, curiose e di massima importanza a raccontarvi.

 

                D. Bosco aveva incominciato a scrivere queste pagine nel mese di luglio, ed ecco a proposito ciò che accadeva in Crimea. Nel maggio i Piemontesi sotto il comando del generale Alfonso La Marmora erano sbarcati a Balacklava ove tosto vennero colpiti dal coléra. Molte erano state le vittime, tanto fra i soldati che fra gli uffiziali, e tra [296] questi il prode colonnello dei bersaglieri Alessandro La Marmora.

                Il 6 agosto 50.000 Russi assalivano all'improvviso gli assedianti; ma i Piemontesi presso il torrente Cernaia trattenevano così bene l'impeto dei nemici, superiori di forze, che davano tempo agli eserciti degli alleati di sopraggiungere sul luogo del combattimento ed ottenere un'insigne vittoria.

                L'8 settembre i Francesi, fiancheggiati dagli Inglesi, prendevano d'assalto la torre di Malakoff, baluardo formidabile di Sebastopoli. L'assedio aveva durato quasi un anno, e ogni giorno spaventoso era stato il fulminare delle artiglierie da una parte e dall'altra. Si calcolò che in questa guerra perissero più di 500.000 uomini.

                Finalmente nel dicembre la Russia accettava le proposte di pace che furono discusse a Parigi nel Congresso delle Potenze interessate, e firmate il 30 marzo 1856.

 

 

CAPO XXVII. Un giovane che ama D. Bosco prima ancora di vederlo - Affettuoso incontro - Scherni e sassate - D. Bosco accoglie all'Oratorio alcuni suoi offensori - A S. Ignazio; un giornalista liberale: apostasia e morte - Letture Cattoliche - Lettere di D. Bosco al Conte d'Agliano.

 

                IL NOME solo di D. Bosco era un incanto per quegli stessi giovani che ancora non lo conoscevano di persona.

                Villa Giovanni, nativo di Ponderano su quel di Biella, così ci attestava: “Io m'incontrai con D. Bosco nel luglio del 1855 in Torino; però aveva sentito parlare di lui già dal 1852. Il mio parroco il Teol. D. Ferrero, che morì essendo arciprete del Duomo ove fu traslocato nel 1858, prese in una festa a parlare di D. Bosco dal pulpito, quando si fabbricava in Valdocco la chiesa di S. Francesco di Sales. Egli disse che molti dei giovani Biellesi, i quali vanno a Torino colla secchia per servire i muratori, nelle feste si trovavano senza assistenza ed in pericolo. Saper egli però che un giovane prete, ardente di carità, si era dato a raccogliere tutti quei fanciulli intorno a sè, e, mentre porgeva loro campo a divertirsi onestamente, li [298] istruiva nelle verità di nostra santa religione. Aveva soggiunto, che quel prete stava per fabbricare una chiesa, e ci raccomandava di fare una abbondante elemosina per aiutarlo, persuaso che avremmo assecondata la sua domanda; e che quella carità si sarebbe riversata su tanti figli del nostro paese, che andavano a lavorare a Torino. Ei parlò di D. Bosco con tante lodi, e con tanto entusiasmo magnificò l'affetto che portava ai giovani e il bene che loro faceva, da commuovere l'uditorio. Io, che allora contava 14 anni, ebbi, nell'udire il parroco, una grande idea di D. Bosco, e divenni ansioso di conoscerlo. Tre anni dopo, per circostanze di famiglia, fui mandato da' miei parenti in Torino e mi son fatto premura di andare subito in Valdocco. Al vederlo per la prima volta, alla sua affabilità paterna colla quale mi accolse, riportai una così profonda e consolante impressione in me stesso, che non mi si scancellerà mai dalla memoria. Io mi sentii preso da un immenso amore per lui, che non si estinse più.

                “Feci allora confronto del modo di trattare coi giovani tenuto da D. Bosco, col modo tenuto da preti della mia patria e paesi circonvicini, dai quali non aveva mai avuto accoglienza sì affabile e caritatevole. Nè fui solo a provare questo effetto in me, ma lo avevano sperimentato eziandio tanti altri buoni giovani che attorniavano Don Bosco, coi quali mi unii volentieri. Nel primo incontro D. Bosco mi disse: - D'or innanzi saremo buoni amici, finchè ci troveremo in paradiso! - Queste parole erano a lui così famigliari!

                “Io da quel punto non ho mancato mai di frequentare l'oratorio festivo fino al 1866, ad eccezione del tempo in cui feci il servizio militare. Al paese andava già ai Sacramenti, ma presi allora a comunicarmi quasi tutte [299] le settimane e anche più frequentemente, frutto dei consigli di D. Bosco. Dal 1866 in poi a quando a quando mi recava in Valdocco avendo sempre occasione di parlare col servo di Dio.

                “Ma per ritornare alle mie prime impressioni dirò che conobbi la signora Margherita, tipo di buona massaia, di spirito veramente cristiano. Coi giovani dell'Oratorio faceva veramente l'ufficio di una buona e pia madre; ed in essa noi giovani avevamo tutta la confidenza figliale e tutti erano oltremodo edificati delle sue virtù e della sua esemplare condotta.

                “In secondo luogo aggiungerò che allorquando andai la prima volta in Valdocco vidi circa 200 giovani interni, alcuni dei quali già chierici e un 600 esterni che frequentavano l'oratorio festivo; e quando D. Bosco veniva nel cortile, tutti si assiepavano intorno a lui, fortunato chi poteva avvicinarlo e baciargli le mani. Ed egli a ciascuno, si può affermare, diceva una parolina nell'orecchio, la quale faceva una santa impressione, che non si dimenticherà mai,

                “Vidi che D. Bosco, per attirare i giovani, dava ad essi libertà e comodità di divertirsi, di giuocare, di correre. Più si faceva chiasso nel cortile, e più egli pareva ne fosse contento; e quando scorgeva che eravamo alquanto malinconici, o anche solamente non troppo vivaci, egli stesso si dava attorno per rianimarci con mille industrie, con giuochi nuovi, e così tutti ci riempiva di contentezza. Allo stesso modo adoperavasi per radunarci intorno a sè nelle feste e averci tutti sotto i suoi occhi. Venuto il tempo delle funzioni, egli suonava il campanello, o lo faceva suonare da altri. In un istante cessava ogni giuoco e ci portavamo alla chiesa”. [300] Ma se dentro la cinta dell'Oratorio regnava la carità, lo spirito maligno agitava fuori gli animi dei malvagi o meglio degli inconscienti. Una turba di giovanastri, certamente indettati da qualche settario, avevano apposto a D. Bosco un soprannome ingiurioso, inventato da empii giornalisti, e lo andavano ripetendo, a coro, o singolarmente, con atti di scherno al passaggio dell'uomo di Dio. D. Bosco sentiva come il ridicolo fosse un'arma micidiale per l'effetto che produce su gli ignoranti, e come poteva rendere difficile ed anche vana in certe circostanze la sua parola e il suo ministero.

                Talora li avvertiva con bontà che smettessero; ma quando prevedeva inutili gli ammonimenti, soffriva, taceva proseguendo con tranquillità la sua via. Così narra D. Francesia che lo accompagnava.

                Ma non si appagarono di sole parole. Una schiera di questi fannulloni da parecchi mesi gironzava quasi continuamente intorno all'Oratorio, insultando chi entrava e chi usciva e talvolta molestando i passeggieri e lanciando loro dei sassolini. Nei giorni di festa poi scaraventavano pietre nel cortile di ricreazione, con grave pericolo dei ragazzi che si divertivano.

 

                Ci scrisse Fumero Giovenale: “Mi permetto di raccontare un fatto miracoloso, visto co' miei propri occhi, che merita di essere registrato nella vita del caro e compianto padre Don Bosco. Era un giorno di Domenica d'estate nell'anno 1855, e noi altri giovani interni artigiani e studenti uscivamo dalle funzioni dell'Oratorio verso le cinque della sera. Con noi usciva nel cortile un bello stuolo di altri giovanetti, che venivano soltanto a partecipare alle funzioni festive. Allora il cortile non era ancora cinto intieramente da muraglia. Ed ecco che una banda, [301] detta la Coca di Valdocco che già era solita a perseguitare i giovani dell'Oratorio quando incontravali per le vie attigue, in quel giorno infierì in modo straordinario contro di noi, e incominciò a lanciarci una vera pioggia di sassi.

                “Ciò visto il nostro caro Padre D. Bosco, raccomandò a noi tutti di ripararci dietro le mura; e lui solo con un coraggio ed una calma indescrivibile, si avanzava verso quei mascalzoni, i quali continuavano rabbiosamente a gettar sassi contro la sua persona; e fu un vero miracolo che nessuno di essi lo abbia colpito. Intanto lui pregandoli coi gestì e colla voce, ottenne che cessassero da quella furia”.

                Ma ciò non fu tutto. D. Rua continua: “D. Bosco incontrata poco dopo in giorno feriale una dozzina di quei soggetti che stavano divertendosi al solito modo, con scherzi incivili ed offensivi alle persone, si fermò presso di loro ed interrogandoli amorevolmente perchè non andassero a lavorare, ne ebbe in risposta che nessun padrone li voleva. Allora egli li invitò a venire con lui in sua casa, che esso li avrebbe provvisti di tutto, e avrebbe fatto loro insegnare un mestiere. Accettarono l'invito, e D. Bosco colla sua carità ed eroica pazienza mentre liberò l'Oratorio dai disturbi non lievi di quella masnada, ebbe la consolazione di farne altrettanti buoni operai. Giacchè gli uni si fermarono sei mesi, altri un anno, chi due anni, chi quattro o cinque; ma tutti uscirono dopo essere stati istruiti nella nostra santa religione ed aver imparato un mestiere con cui campare la loro vita. Uno di essi dopo molti anni ritornato dall'America, la prima sua visita la fece all'Oratorio, rammentando con riconoscenza la carità che D. Bosco aveva usato a lui ed a' suoi compagni. Io gli [302] parlai in questa occasione”. D. Rua concludeva: “Troppo a lungo dovrei trattenermi se dovessi esporre i molti casi in cui D. Bosco perdonò e beneficò dei giovani che gli avevano perduto il rispetto ed anche l'avevano oltraggiato”.

                Fra tutte queste vicende l'anno era giunto alla metà di luglio e D. Bosco col Ch. Francesia, il Ch. Turchi e altri loro compagni erano saliti a Sant' Ignazio sovra Lanzo per approfittare dei santi Spirituali Esercizi. A questi prendevano parte molti signori torinesi, e Don Cafasso affidavane a D. Bosco la direzione. In gran numero erano le riforme morali che Iddio compieva per mezzo di Don Bosco, e ciò si può anche argomentare dai doni straordinarii che aveva ricevuti dal cielo e dalla confidenza generale degli esercitandi, i quali lo ricercavano per confessarsi. Basti per ora un fatto.

                Un empio giornalista era andato a fare gli esercizi, forse più per avere alcuni giorni di riposo in quell'aria buona che non per pensare all'anima sua. Egli aveva scritti e pubblicati molti articoli contro D. Bosco, che però non conosceva di persona. Nei primi giorni, o per essere stato solitario, oppure per aver frequentato persone che non conoscevano D. Bosco, non aveva saputo che l'uomo di Dio si trovava in quel santuario. Mosso dalle prediche, decise di confessarsi, e visto che il confessionale di Don Bosco era frequentatissimo si avviò esso pure a quello. Naturalmente dovette manifestare quale fosse la sua professione e in qual modo in questa avesse mancato. Don Bosco lo ascoltò con ogni bontà, gli diede i consigli necessari e gli impose ciò che la coscienza esigeva. Egli aveva inteso benissimo chi fosse quel signore, il quale benchè incantato dalle sue maniere tutte carità, non aveva [303] ancor pensato a chiedere il nome del suo confessore. Baciatagli quindi la mano stava per ritirarsi, quando ad un tratto gli balenò alla mente un sospetto. Tornò indietro e chiese al confessore: -Lei è forse D. Bosco?

                - Sono D. Bosco, rispose il confessore, sorridendo. Il giornalista commosso e meravigliato si ritirò colle lagrime agli occhi.

                A questo fatto ne successe un altro ancor più singolare.

                D. Bosco, la sera dell'ultimo giorno degli esercizi, guidando come era solito le orazioni, recitava il S. Rosario. Stava in ginocchio in un lato del presbiterio, avendo al fianco destro l'altare e al sinistro quasi un centinaio di pii signori torinesi.

                Giunto al fine del salmo De profundis, ad un tratto tace: quindi tentando di proseguire coi responsori e coll'Oremus, incespica, balbetta e non può più continuare avanti. Sembrava che avesse perduta la memoria, ovvero fosse assorto in qualche prepotente pensiero. “Io pensai allora, lasciò scritto D. Turchi, che per qualche distrazione avesse dimenticato momentaneamente ciò che doveva recitare; e per essere il mio posto dietro agli altri, non potei vedere ciò che facesse. Dopo un minuto seguitò la preghiera, ed io mi confermai nella mia persuasione. Usciti di chiesa, ritirandoci nelle stanze, domandai ad alcuni se si era osservata quella interruzione; ma dalla risposta conobbi che si giudicava come cosa indifferente”.

                Non pochi tuttavia espressero il loro stupore, che D. Bosco non avesse saputo recitare una preghiera così comune. I suoi più intimi amici però s'immaginarono che forse in quel momento gli si fosso parato innanzi qualche spettacolo straordinario. Infatti era così. [304]

                Aveva visto comparire sull'altare due fiammelle. Dentro alla luce di una era scritto a caratteri chiari: morte, e dentro all'altra: apostasia. Le due fiammelle partivano dall'altare come se si fossero staccate da quelle delle candele, e movevano verso la navata della chiesa. Don Bosco allora erasi alzato per vedere ove andasse a parare la cosa, e vide che quelle fiamme, fatti alcuni giri sovra la folla, andarono a posarsi la prima sul capo di uno e la seconda sul capo di un altro che stavano inginocchiati in mezzo ai compagni. Il riverbero di quelle luci faceva risaltare la loro fisionomia e D. Bosco potè ravvisarli senza pericolo di ingannarsi. Poco dopo le due fiammelle si spensero. Questa era stata la cagione della sua distrazione.

                Il domani, mentre tutti salivano sulle vetture, il signor Bertagna, di Castelnuovo, procurò di prender posto a fianco di D. Bosco per investigare il sospettato segreto. Eziandio i chierici erano di ciò molto curiosi. Don Bosco interrogato, aspettò che le vetture fossero messe in moto e svelò quel mistero, incominciando: - Ieri sera me ne accadde davvero una bella! - E raccontato il fatto, concludeva: “Uscito di chiesa, io stavo ad osservare se gli altri parlassero di tale cosa; ma siccome nessuno diceva nulla, conobbi che io solo l'aveva veduta e me ne stetti pur io in silenzio. Ora la manifesto a voi e starò a vedere, che cosa sarà di quei tali sui quali si spense il lume”.

                E nello stesso anno la visione ebbe il suo compimento. Un ricco negoziante, che aveva fama di buon cristiano e sulla cui fronte fermossi la fiammella coll'indicazione: apostasia, si fece protestante. L'altro segnato dalla seconda fiamma morì nello stesso anno: era un nobile barone. [305] D. Bosco ne confidò i nomi a D. Francesia che li dimenticò più mai. D. Turchi avendo chiesto, alcuni anni dopo, che cosa fosse avvenuto di colui sul quale si era spenta la prima fiammella ebbe per risposta: Si è fatto protestante.

                E’ certo che altre simili fiammelle, apparse sul capo di varie persone, rivelarono a D. Bosco il loro avvenire.

                D. Bosco, ritornato a Torino, si occupava nell'ultimare la spedizione dei due fascicoli di agosto, stampati dalla tipografia Ribotta. In questi ricompariva l'approvazione della Curia Arcivescovile di 'Forino. Il libro aveva per titolo: Istruzione catechistica sul matrimonio pel Teologo Collegialo Lorenzo Gastaldi. - È  una breve e chiara istruzione, scrivendo egli per il popolo. Il dotto Teologo dava ragione del suo scritto. “Da ogni parte avvi un profluvio di libri e giornali diretti a diffondere falsi principii sulla natura dell'unione coniugale: vi ha professori di università, deputati al Parlamento, senatori e magistrati che per la loro ritrosia nel ricevere gli infallibili insegnamenti della Chiesa si lasciano ingannare da una falsa filosofia e mantengono dottrine erronee sul matrimonio; e quel che è peggio dánno opera a convertirle in leggi civili”.

                Concludeva dimostrando, come corollario del matrimonio cristiano, il diritto che ha la Chiesa di intromettersi nell'educazione dei figli cattolici, i doveri dei padri di allevare i figli secondo le massime ed i precetti del Vangelo, di affidarli a maestri o a collegi veramente cristiani e di lasciar loro piena libertà nella scelta dello stato.

                Aggiungeva: “Quando il Governo civile proponesse qualche legge sul matrimonio, che venisse dichiarata dal Sommo Pontefice o dai Vescovi contraria alle dottrine della Chiesa, tutti i cattolici dovrebbero presentare petizioni [306] piene di energia al Parlamento, perchè tal legge venga respinta”.

                D. Bosco intanto scriveva da Torino al signor Conte Pio Galleani d'Agliano.

 

                               Ill.mo e benemerito Signore,

 

                Ritornato dai Santi Spirituali Esercizi di S. Ignazio, mi faccio dovere di scrivere a V. S. Ill.ma e Benemerita ad oggetto di ringraziarla e mettermi in coscienza.

                Pertanto con sentimenti di vera gratitudine ho ricevuto franchi centotrenta per biglietti di lotteria alla sua carità raccomandati; più ho ricevuto dal prestinaio Fornello Kilogr. 105 di grissino che servirono a dar da mangiare ai giovani orfani e poveri ricoverati in quest'Oratorio; come eziandio ne La ringrazio della carità che si compiacque stabilire di quindici Kilogr. al mese a beneficio di questa casa.

                Queste insigni opere di carità saranno perle preziose che unitamente ad altre ingemmeranno la corona di gloria che V. S. colla prudenza del serpente e colla semplicità della colomba si va ogni giorno preparando e assicurando in cielo.

                Ora mi trovo in un novello bisogno ma d'altro genere. Ho, tra mano un lavoro per le Letture Cattoliche, pel che mi farebbe mestiere allontanarmi qualche giorno da Torino onde potermene di proposito occupare. Mi corse più volte il pensiero di andare a Carraglio e precisamente a casa di V. S. ma prima di entrare domandiamo permesso al padrone. Se Ella adunque mi favorirà un cantuccio ove ripor la mia povera persona con qualche libro ed alcuni quaderni, con qualche cosa ad refocilandam famem, io partirei di qua la mattina del giorno sei agosto e farei ritorno al sabbato della stessa settimana.

                Ella mi dirà: Si pagherà la pensione? Mancomale Divideremo per metà lo stipendio del mio lavoro. Vale a dire: se da quel fascicolo ne ridonderà qualche vantaggio alle anime, io ne cedo la metà dell'utile a Lei per l'ospitalità usatami.

                Intanto io La prego di tutto cuore a voler accogliere questa lettera scritta forse con troppa confidenza; del resto non mancherò [307] di pregare e di far eziandio pregare Iddio buono per Lei, per la sua famiglia; mentre con pienezza di stima e di gratitudine reputo ad onor massimo il potermi dire

                Di V. S. Ill.ma e benemerita

                Torino, 31 luglio 1855.

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Alla risposta di questo buon signore, così replica D. Bosco.

 

                               Benemerito Sig. Conte,

 

                Un uomo pari a D. Bosco montare sulla vettura di V. S. Ill.ma! Si teme di sbalordire tutti i democratici di Carraglio; tuttavia siccome honor est honorantis accetto la graziosa offerta della vettura, specialmente che mi sono affatto sconosciute le strade ed i paesi di queste parti. Io parto pel primo convoglio del mattino; non ho alcun motivo di fermarmi a Cuneo fino al mio ritorno.

                Pieno di gratitudine pei moltiplicati favori che si degna usare verso di me La ringrazio di tutto cuore e mi dico rispettosamente nel Signore

                D. V. S. Benemerita

                Torino, 3 agosto 1855.

Obb.mo servitore

Sac. Bosco GiOVANNI.

 

                D. Bosco adunque recavasi nella villeggiatura del Conte, accolto con mille feste, e lavorava ad ordinare i due fascicoli del mese di settembre nei quali trattavasi di un fatto molto importante - Cenno Biografico intorno a Carlo Luigi Dehaller, membro del Sovrano Consiglio di Berna in Svizzera e sua lettera alla propria famiglia per [308] dichiararle il motivo del suo ritorno alla Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana.

                Due verità fra le altre si facevano risaltare in questo libro: prima, che gli uomini più eletti d'ingegno, di retto giudizio, di cuore e di buoni costumi, nati nell'eresia ritornano al cattolicismo, mentre quei cattolici che si fanno protestanti sono fior di canaglia viziosa. I primi ritornano per patire, gli altri disertano per smania di piaceri. In secondo luogo, si nota l'iniqua intolleranza colla quale i protestanti perseguitavano coloro che ritornavano al cattolicismo, indifferenti d'altra parte se questi stessi cambiassero setta e magari si facessero Buddisti o Turchi.

                D. Bosco ritornato in Valdocco consegnava a Paravia il manoscritto e le bozze di stampa, e scriveva al Conte d'Agliano.

 

                               Ill.mo e Benemerito Conte,

 

                Partecipo con  piacere a V. S. Ill.ma e Benemerita che il mio viaggio da Palasazzo a Torino fu buono e non fu segnato da altro inconveniente se non dall'incontro di due democraticoni, che mi somministrarono temi a discorrere da Cuneo a Torino, però sempre nei limiti della ragionevolezza e del rispetto.

                Il soggiorno di costà mi fu assai proficuo alla sanità corporale mediante una settimana di riposo e di tranquillità, e mi fu anche utile per lo spirituale, specialmente in vedere la regolarità, l'esemplarità e la condotta eminentemente religiosa di tutta la famiglia. Doppio motivo per me di ringraziarla più distintamente.

                Le mando un centinaio di fascicoli sopra la Confessione, che credo facciano del bene qualora siano distribuiti in questi paesi non affatto digiuni di democrazia.

                Una copia delle Letture Cattoliche dal principio fino ad ora per Lei. Altra copia per la pia Signora Contessa.

Altra poi pel Sig. D. Allione. Due copie poi solo per l'anno [309] corrente, pel Padre Guardiano Capp. di Caraglio, siccome era stato inteso col medesimo.

                A rivederci a S. Filomena. Il giovanotto che giudico di condurre perchè aiuti a cantare, vorrebbe cantare il Tantum Ergo del Maestro Corini ad una voce sola. Ciò dico per norma di chi dovesse accompagnarlo, e se mai potesse far imparare i cori dagli altri cantori; di che potrebbesi anche fare a meno qualora essi non si potessero avere.

                Buona festa, caro Sig. Conte, buona festa a Lei e a tutta la sua famiglia, ed anche al Sia. D. Allione. La Vergine beata li benedica tutti, e a tutti ottenga dal suo Divin Figlio tranquillità, pace, coraggio onde perseverare nel bene, per poterla poi un giorno lodare, benedire in Cielo tutti insieme. Così sia.

                Preghino anche per me che con pienezza di stima e con gratitudine mi dico

                Di V. S. Ill.ma e Benemerita

                Torino, 14 agosto 1855.

Obb.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Più tardi egli ritornava a scrivere al detto signore.

 

                               Benemerito e Car.mo Sig. Conte,

 

                Il giovane Menardi fu accettato nella scorsa primavera pel primo Ottobre, ed è nell'Oratorio da sette giorni. Questi è quel medesimo che V. S. raccomandava la scorsa primavera, e che noi ci adopreremo per farlo divenire virtuoso.

                Mi fece profonda sensazione la morte del Sig. D. Cavallo! La morte non rispetta nemmeno i preti giovani; lezione per noi che andiamo invecchiando.

                Vado meditando di fare ancora una gita al Palasazzo, ma non son certo di poterla effettuare, attesa la moltiplicità di faccende che mi caddero addosso.

                Assicuro poi di compiere la seconda promessa di pregare per Lei e per la bella crescente famiglia; alle mie deboli preghiere [310] unisco quelle de' miei beneficati, poveri figli che tra molti biricchini ce ne sono anche dei molto virtuosi.

                La Vergine SS. del Rosario doni a Lei la vera pace del cuore e colmi tutta la famiglia di tutte le benedizioni necessarie per la vita presente e per la futura.

Con pienezza di stima mi dico

                Di V. S. Benemerita e Car.ma

                Torino, 7 ottobre 1855.

 

Obb.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Abbiamo riprodotte queste lettere, perchè dimostrano quale fiducia amorevole e cristiana famigliarità unisse D. Bosco co' suoi benefattori. Della frequenza poi, dei modi e del fine col quale trattava con molti nobili signori delle prime famiglie, diremo nel capo seguente.

 

 

CAPO XXVIII. Attinenze di D. Bosco coi signori - Come si presentasse alle loro case - Motivi per i quali accetta inviti a pranzi e suo contegno -Sua pazienza, giovialità e mortificazione - Affetto, generosità dei benefattori verso D. Bosco e loro desiderio di averlo spesso con sè - Sua modesta riservatezza - Franche ammonizioni - Riconoscenza per i benefizi ricevuti.

 

                NON fare visite e non occuparsi degli affari altrui se non lo reclamasse l'interesse dell'Oratorio, e un motivo o di carità o di gloria a Dio, tale era la regola di D. Bosco per recarsi o meno nelle case dei signori. Ma siccome di spesso queste ragioni s'imponevano, così egli doveva assoggettarsi, e talora con suo incomodo, ad ascendere le scale di persone benevoli. D. Bosco, che amava tanto intrattenersi con fanciulli idioti ed abbandonati, anzichè con illustri signori che frequentemente venivano a lui, presentavasi nei palagi senza ombra di affettazione e colla più squisita cortesia e semplicità. Trattava tutti coi riguardi dovuti, senza però farsi schiavo dell'etichetta, poichè le minuziose cerimonie non si confacevano [312] colla sua schietta affabilità. Interrogato da taluno de' suoi come dovesse comportarsi, allorchè si trovava con certe persone ragguardevoli, rispondeva: - Alla buona e senza ricercatezza! - Un anno mandò un suo chierico a passare le vacanze autunnali nella villeggiatura di nobilissima famiglia torinese, e gli disse alla presenza della padrona di casa: - Va come andresti in casa tua; avendo bisogno di qualche cosa ricorri alla signora baronessa come se fosse tua madre.

                La sua presentazione, specie la prima volta, in un convegno illustre, era un atto di umiltà. Interrogato della sua patria e della sua condizione, non si vergognava di far sapere che era nato povero e che era stato aiutato a studiare da persone caritatevoli. Raccontava con piacere come ei fosse semplice prete, senza alcun titolo di onore o dignità; non aver laurea di teologo, non diploma di professore, e neppure patente di maestro per la prima classe elementare: - lo mi chiamo il povero D. Bosco, diceva; e non ho altro titolo che quello di Capo dei biricchini. - Nel tempo stesso però si faceva premura di onorare le persone coi titoli che loro competevano, amando con S. Francesco di Sales di abbondare in questa dimostrazione di rispetto e di stima anzichè di scarseggiare.

                Egli recavasi parimenti presso i signori per trattare di affari urgenti, pel bene di quelle famiglie. I suoi discorsi miravano sempre a cose gravi ed edificanti; ma non' è a dire quanto le sue visite riuscissero di gradimento, poichè si verificava in lui quanto si legge ne' libri Sapienziali: Se tu sei affabile nelle conversazioni avrai molti amici. Ed è perciò che egli assicuravasi numerosi benefattori all'Oratorio. Il suo pensiero anche là era continuamente rivolto a' suoi giovani, e talora lo dimostrava [313] prorompendo in esclamazioni che potevano sembrar fuori di luogo. Entrando p. es. in un'ampia sala: - Che bella camera! Potrebbero starvi venti letti! - Ma ciò diceva sempre con tutta delicatezza e prudenza. Era quindi naturale che per appagare ogni giusto desiderio di chi affettuosamente lo interrogava, ragionasse quasi sempre di loro e di ciò che aveva compito e faceva in loro vantaggio. In conseguenza non poteva tacere di se stesso e talora anche di fatti per lui gloriosi. Tuttavia narrava sempre quelle cose con una bonarietà ammirabile, senza darsi importanza. Questo giudizio lo udì D. Berto dalla signora Baronessa Gabriella Ricci, la quale diceva: - È  cosa che veramente fa stupire il sentir D. Bosco quando parla di cose anche straordinarie che lo riguardano: ei lo fa come se parlasse di altri.

                Una bella scena rallegrava quelle famiglie signorili se in esse vi erano dei figlioletti. D. Bosco li accoglieva con gran cuore allorchè erano condotti dalle buone madri alla sua presenza; loro sapeva dire certe parole di ammonimento e di lode che li incoraggiava a farsi sempre migliori per far piacere a Dio e dare consolazione ai parenti; sovente s'intratteneva pure a giuocare con essi come se fosse un loro compagno. Dovunque incontrava ragazzi, egli riprendeva le sue usanze dell'Oratorio, con grande compiacenza delle buone madri, le quali non lo lasciavano partire senza prima aver ottenuta la sua benedizione. Così, fra le altre madri, narrava a D. Rua la contessa di Bricherasio. All'annunzio che D. Bosco arrivava in una casa, tutti i fanciulli gli correvano incontro ed egli sapeva rallegrarli con parole e regalucci, che essi, divenuti adulti, ricordavano con vivo affetto e riconoscenza.

                In queste visite egli usava eziandio ogni riguardo per [314] non essere di aggravio o comunque di fastidio, alle persone di servizio. Una volta gli venne offerta dai padroni una, tazza di buon caffè; in più altre circostanze era stato sollecitato a gradirla, ma egli si era scusato. Ora accettò; ma, invece dello zucchero, gli venne presentato un vasello di sale inglese, ossia solfato di magnesia. D. Bosco si servì senza badare alla differenza, ed assorbi l'intiera tazza; si può immaginare con quale gusto; ma non mostrò ripugnanza, per non far rimanere confuso il cameriere, e non mortificare quella famiglia. Nelle anticamere soleva trattare i servitori con molta famigliarità, e s'intratteneva con loro. Li chiamava amici, lasciava lor intravedere l'aver ancor egli un giorno servito; e quelli si stimavano fortunati per la sua venuta e gli avevano un'affezione che non portavano ai loro stessi padroni. Nè questi suoi modi erano simulazione, ma effetto d'umiltà. Ne è una prova l'accoglienza che faceva all'Oratorio a' suoi parenti che venivano a trovarlo in abito di poveri agricoltori; parimenti le feste alla vecchia signora Moglia Dorotea della quale era stato servitore di campagna, quelle non molte volte che lo visitò in Valdocco: l'onorava con tutta cordialità come se fosse stata sua madre e la faceva sedere vicino a sè durante il pranzo.

                Tali visite gli portavano per conseguenza inviti a pranzo, poichè le famiglie stimavano un gran regalo che D. Bosco acconsentisse a sedere a mensa con loro. E D. Bosco non si rifiutava, sia per testificar loro la propria gratitudine pei soccorsi ricevuti, sia per non mostrarsi insensibile alle istanti preghiere di chi gli era tanto affezionato, sia per aver comodità di esporre con calma i bisogni gravi dell'Oratorio e delle altre sue opere. Ma nell'atto di uscir dalla sua stanza e mantener la parola egli sovente disse [315] a Don Rua o al suo segretario: - Se tu sapessi mai quanto mi ripugna dover andare a pranzo fuori dell'Oratorio!... Eppure per ottenere qualche elemosina bisogna fare così. Alcuni generosi signori mettono per condizione che io vada a pranzo da loro, promettendomi una somma di danaro, e dicono: “Venga lei in persona a prendere la nostra offerta... Se ha bisogno di qualche cosa venga a pranzo da noi”. Se non fosse per questo, non accetterei mai simili inviti, che pure sono ispirati dalla carità. Io amo meglio star qui alla nostra mensa frugale e modesta che non fuori di casa con tanta roba e tanti piatti... Mi rincresce molto, ma pure non si può fare altrimenti. -

                E infatti D. Bosco talora sul principio di que' pranzi, spiegando la sua salvietta, ivi trovava ora un biglietto da 100 lire, ora da 500 e anche da 1000: altra volta alla frutta gli era presentato un tondo contenente un bel gruzzolo.

                Tuttavia D. Bosco, non ostante il bisogno continuo che aveva di denaro, urgendo le sue occupazioni di vario genere e specialmente quelle del sacro ministero, schermivasi da molti inviti.

                Aveva promesso molte volte di andare al Castello di Caselette a pranzare col Conte Carlo Cays nel giorno del suo onomastico, 4 novembre; ma non aveva potuto mantener mai la parola.

                Un anno mandò a dire al Conte che sarebbe andato infallantemente.

                - Se D. Bosco viene, io mangio un cane intiero! esclamò sorridendo il conte.

                E D. Bosco saputa la cosa, andò, recando seco alcuni cagnolini di pasta dolce, confezionati da un valente pasticcere. Trattili fuori alle frutta, li pose sulla tavola: [316] -Signor Conte, gli disse; mantenga la sua parola. Qui c'è un cane, e deve mangiarlo tutto intero!

                Il Conte, che non aspettava quella improvvisa facezia, ne rise di cuore.

                Anche il Marchese Fassati si lagnava che D. Bosco andasse di rado a pranzo nel suo palazzo, desideroso di intrattenersi qualche ora con lui. Venne perciò un giorno ad invitarlo accompagnato dalla signora Marchesa. Don Bosco si scusò in bei modi, tanto più che il personale dirigente in quei tempi l'Oratorio era molto scarso. Disse quindi dover egli attendere con sollecitudine al disbrigo di molti affari e aver da correggere le bozze delle Letture Cattoliche. Il Marchese insisteva, ma Don Bosco replicò di essere costretto ad andare in cerca di danaro per pagare le opere di costruzione fatte innalzare presso la casa Filippi (1862). Il Marchese allora risolse di donargli 3000 lire e gli disse: - Venga dunque a pranzare con me, ed ogni volta che verrà, le farò tenere un biglietto da cento lire. Don Bosco allora, stretto dall'urgente necessità, aderì al desiderio di quel nobile signore per quindici giorni nello stesso mese, sempre ricevendo quanto gli era stato promesso. Senonchè il Marchese, quantunque felice per tale frequenza, non volle più oltre cagionare per allora quel disturbo a D. Bosco, e in sul finire del pranzo gli disse: - Vedo che lei si disagia nell'interrompere per me le sue occupazioni; ebbene: prenda il saldo delle 3000 che ebbi intenzione di darle. Se poi potrà venire a pranzo, ma senza suo grave disturbo, mi farà sempre un gran favore. E gli consegnò 1500 lire. Quindi accompagnollo fino al Rondò di Valdocco. D. Bosco cammin facendo gli narrò come avesse ancor diverse liste di più mila lire da pagare che scadevano nel gennaio del prossimo anno, per calce. [317] pietre, mattoni, travi e mano d'opera; e il marchese gli rispose: -Caro D. Bosco, le prometto che a quel tempo terrò pronte per lei diecimila lire, affinchè possa soddisfare i suoi debiti più urgenti. -Il Marchese, veduto intanto sul Rondò Reano Giuseppe che aspettava il suo superiore, ritornò in città; e D. Bosco, discendendo quel tratto di strada che mette all'Oratorio, narrava al giovane quanto eragli occorso in quella sera, conchiudendo: Sia benedetta quell'anima generosa e pia!

                Il Marchese Domenico Fassati, il quale benchè munifico, era stato da lui animato a largheggiare maggiormente coi poveri, era solito a dire: - È  cosa curiosa, ma vera. Più ne dò a D. Bosco e più ne ricevo.

                Altri benefattori di D. Bosco erano però inflessibili nel protestare che egli non avrebbe ricevuto da loro sussidii, per quante circolari o lettere private avesse spedite; e che se li voleva, andasse a prenderli egli stesso a pranzo presso di loro. Fra questi eravi la Duchessa Laval Montmorency. Questa veneranda matrona, amica della Marchesa di Barolo e come lei tutta occupata in opere di carità, era figlia del celebre Giuseppe De Maistre, e aveva accompagnato suo padre quando andò ambasciatore a Pietroburgo. Aveva appreso a perfezione la lingua russa, francese, inglese, tedesca, latina e greca. Ridotta dalla rivoluzione in povero stato e rimasta orfana, il ricchissimo Duca di Montmorency, per consiglio degli amici, aveala sposata, e morto non molto tempo dopo, lasciò a lei tutto il suo patrimonio. Ella meritava per le sue virtù una simile sorte, e soleva con sentimento di viva riconoscenza indicar sempre il Duca col nome di mio benefattore. Per D. Bosco nutriva grande stima ed affetto, e abitando ordinariamente a Borgo Cornalense ne desiderava le frequenti visite. [318] Finchè visse, lo provvedeva di scarpe, le quali molte volte passavano ne' piedi de' chierici; ma trattandosi di dargli sussidii in denaro, essa aveva formolata la sua volontà con questo perentorio dilemma: - O andare in questa occasione a pranzo da lei, o non ricevere più alcun soccorso. - E andando D. Bosco, ella non mancava mai di essere generosa verso i suoi ricoverati.

                Ma perchè tante insistenze per avere D. Bosco con sè?

                Spesso D. Bosco si faceva accompagnare a questi pranzi or da uno or da un altro de' suoi: Cagliero, Turchi, Anfossi, Francesia, i quali furono spettatori di quanto abbiamo detto e di quanto siamo ancora per dire, e tutti convennero in ciò che D. Rua asseriva.

                “Io potei capire, scrisse D. Rua, per qual ragione tanto si desiderasse D. Bosco alle mense, avendo io stesso avuto più volte occasione di fargli compagnia in tali circostanze. Egli a tavola, con un contegno sempre grave e riservato, introduceva discorsi di tanta amenità ed edificazione, che consolava grandemente i commensali: dimodochè, anche in mezzo alle lautezze, la sua conversazione era una vera predica, adattata però al luogo e al tempo. L'impressione che lasciava nell'anima di chi l'udiva era grandissima, incancellabile. Discorreva spesso di Dio, della sua bontà, sapienza, provvidenza e misericordia, con tanto gusto ed unzione, che rallegrava ed infiammava gli animi da far dire essere quella la conversazione di un santo. Parlava volentieri anche d'argomenti utili o curiosi che riguardavano la scienza, le arti, la storia, la letterattura, eccitando la meraviglia dei convitati; ma aggiungeva sempre una buona parola di religione, ovvero induceva gli ospiti a sentimenti pii e caritatevoli, ad aiutarlo nelle sue imprese”. [319]

                Varie volte per ottenere questo suo intimo intento sapeva adoperare opportuni e felici trovati. Un giorno sedendo ad una mensa imbandita di numerose e delicate vivande, esclamava: - Se fossero qui i miei giovani, come trionferebbero di tutto questo ben di Dio! - In altra occasione portata la seconda e la terza pietanza, cessò di mangiare e non volle più pigliar nulla. - Ma, D. Bosco, lei non istà bene, chiese il capo di famiglia. - Sto benissimo, agli rispondeva; ma come vogliono che io mangi tutta questa roba, mentre i miei figli non hanno di che sfamarsi? - Lì su due piedi allora uno dei convitati si alza e dice: - È  giusto; dobbiamo pensare anche ai giovani di D. Bosco! - E va tosto in giro e raccoglie circa 400 lire, le quali consegnò a D. Bosco. Trovandosi a pranzo dal banchiere Cotta e questi vedendolo alquanto pensieroso gli domandò se avesse fastidii. - Ho sul cuore, gli rispose D. Bosco, quel certo peso di parecchie migliaia di lire che lei mi ha dato in imprestito. - Eh là, rispose, il banchiere; stia di buon animo. Il caffè che prenderà dopo il pranzo le aggiusterà lo stomaco. - Infatti, venuto il caffè, il banchiere gli presentò gli obblighi che teneva da lui firmati, condonandogli ogni debito, per cui D. Bosco parti proprio col cuore allegro.

                In questi conviti ciò che dava tanta autorità ed influenza anche a' suoi scherzi era uno spirito di mortificazione e di umiltà, del quale maravigliavano i signori e le persone di servizio. Egli non badava a quanto gli era presentato; badava e pensava a tutt'altro. Il pranzo o la cena erano per lui semplicemente un'occasione per fare del bene. Sotto colore che certe vivande non gli si confacevano, per quanto poteva non servivasi mai di quelle che erano più squisite e più ricercate. [320]    Infatti nella famiglia del Conte De Maistre Francesco era stato ammanito un tal piatto che supponevasi sarebbe stato di suo gusto, e venne portato in sul fine del pranzo. Don Bosco, sia che già avesse preso cibo secondo il suo solito, sia che volesse mortificarsi, cortesemente ricusò la vivanda che gli era stata presentata. Il Conte, vóltosi al Marchese Fassati che gli sedeva vicino, disse: - Vedi D. Bosco? quel piatto è di suo gusto, ma lo rifiuta per spirito di penitenza. - Avendo D. Bosco indovinato ciò che era stato detto sotto voce, gli rincrebbe che si desse di lui tale giudizio onorevole e aspettò che facessero fare al piatto un secondo giro, e quando il servo gli fu presso in atto di oltrepassarlo, come se qualche momento prima la sua mente fosse stata distratta, esclamò: - E a me? Mi sono accorto essere quello un cibo ghiotto, e ne prenderò la mia parte! - Il servo accorse ed egli tirò nel suo piatto una porzione alquanto abbondante. Ma il Conte ed il Marchese allora soggiunsero: - Vedi quanta umiltà! Ne prende perchè non vuole che da noi si pensi che si mortifica. - D. Bosco raccontava  poi a' suoi chierici e preti questo fatto, e concludeva ridendo: - Che cosa vuol dire aver credito. Se non si mangia, si è mortificati; se poi si mangia si diventa umili. - Era questa una gran verità, e una lezione importante per gli ecclesiastici.

                Egli però si cibava così parcamente, che non si poteva credere se non da chi lo osservava con attenzione. Alcuni dei nostri confratelli, e fra questi D. Cerruti Francesco, condotti da lui a questi pranzi, per imitarlo vollero mangiar solamente quanto e come mangiava lui, e dovettero partirsene da quella casa con un grande appetito. E a questo proposito D. Cagliero ci narrava un grazioso aneddoto. “Ricordo che per uno sbaglio di memoria accettammo [321] l'invito a pranzo del Sig. Conte Radicati e della signora Marchesa Dovando, l'uno per le dodici ore, l'altro per le due pomeridiane dello stesso giorno. D. Bosco, riconosciuto l'equivoco, tutto tranquillo mi disse: - Lascia andare che ci faremo onore a tutti e due i pranzi. - Infatti alle dodici, seduti a mensa del Conte Radicati si cominciò a discorrere e, approfittando della conversazione animata dei commensali, D. Bosco prese poca minestra, poca pietanza e pochissima frutta. Partiti alle 2 dai nostri ospiti fummo alla casa Dovando, e per la strada D. Bosco mi diceva, ridendo: - Adesso andremo a terminare il nostro pranzo ed a prendere l'altra metà della minestra, delle pietanze e della frutta, e vedrai che questa sera ci faremo ancora onore alla cena dell'Oratorio”.

                Da ciò si può argomentare come sapesse nascondere il suo spirito di mortificazione. Egli però non veniva meno alle regole della convenienza. I vicini gli versavano il vino nel bicchiere ed egli lasciava fare; lo portava di quando in quando alle labbra rare volte sorbendone qualche goccia e al fin di tavola il bicchiere era ancor pieno. Per non dar troppo nell'occhio o dispiacere a' suoi ospiti, servivasi di taluna delle vivande più delicate; ma sovente non ne mangiava, poichè attraeva così l'attenzione di tutti ai suoi discorsi, che al sopravvenire di un'altra portata il domestico, e talvolta ad un suo cenno, gli toglieva e cambiava il piatto, senza che altri se ne avvedesse.

                Comunemente assidevasi a convegni di famiglia, ma talvolta per qualche fausta ricorrenza assisteva a solenni banchetti. Gli invitati non erano sempre tutti buoni cattolici, certuni non usavano trattare coi preti; ma D. Bosco finiva sempre con riuscire ad essere il re della festa. In lui nulla appariva d'austero, anzi era l'anima della [322] brigata e mai nessuno prendevasi soggezione. Sempre parco allo stesso modo, talora sembrava che gustasse di tutto e invitava i commensali a cibarsi: allegramente. I suoi racconti spiritosi, le sue arguzie saporite, i brindisi che faceva, le risposte che dava agli augurii che gli erano, rivolti, sempre accompagnati da un'idea religiosa, riuscivano graditi pel modo col quale li esponeva. Coloro che erano tutt'altro che gente di chiesa più volte furono uditi esclamare: - E cosa piacevole trovarsi con un santo prete. Noi credevamo che santità e musoneria fossero sinonimi.

                Ma egualmente, grande in lui era la virtù della pazienza. Le sue occupazioni erano tante che esigevano ogni minuto delle sue giornate. Eppure oltre i pranzi protratti a lungo, succedevano le lunghe conversazioni in salotti ove servivasi il caffè. E tutti avevano qualche cosa da chiedere a D. Bosco, il quale sempre grazioso non dava alcun segno di noia. Tuttavia doveva esercitare un gran dominio sovra se stesso. A proposito, raccontò D. Cerruti: “Mi trovai con lui in una casa delle principali famiglie di Torino, quale è la famiglia Radicati di Passerano. Finito il pranzo, si passò nella sala di conversazione, e uno della famiglia del conte si pose al pianoforte. D. Bosco, seduto sopra il sofà si volse a me e disse sottovoce: - Vedi un po' che vita! Ho tanti impegni, eppure debbo star qui a sentir sonare. Ma che vuoi? Se non fo così, come aver danari per comperar pane ai nostri giovani? E d'altra parte questi buoni signori si meritano ogni riguardo per la carità che ci fanno con tanto cuore”

                Ritornato alla sera in Valdocco, tutti i suoi alunni le cento e cento volte dovettero constatare come fosse in lui radicato l'abito della temperanza e della mortificazione, e [323] come egli non facesse distinzione tra mensa e mensa. Assiso nel refettorio comune, mangiava regolarmente e col miglior appetito la sua cena e prendeva la sua povera e stracotta minestra dell'Oratorio, colla stessa ilarità con cui aveva assaggiate le vivande imbanditegli dai signori. Non si udiva mai parlare della quantità e squisitezza dei cibi che erano stati portati in tavola, dei quali, colla sua memoria, pur così felice, certamente più non si ricordava; e ben sovente diceva che dove si trovava meglio per pasti era sempre nell'Oratorio. Solo quando era interrogato, dava un cenno della durata del pranzo e della condizione dei convitati.

                Va pur fatta menzione di altra splendida virtù osservata attentamente e notata con meraviglia in D. Bosco da quanti frequentavano i palazzi e le case signorili, ove egli interveniva. Era il suo tratto amorevolmente cortese colle dame e colle loro figlie unito ad un severissimo riserbo nel contegno e nelle parole, senza che una volta sola si scorgesse in lui la menoma disattenzione, anche in tali circostanze, da parere inciviltà non accettare una gentilezza che pareva conveniente. Qualche volta in questi anni, e specialmente negli ultimi di sua vita, stentando egli a camminare e poco giovandogli la vista, la padrona di casa lo pregava ad appoggiarsi al suo braccio per discendere le scale. Un giorno infatti D. Rua, che lo accompagnava, stava osservando come egli se la sarebbe cavata, ma sicuro del suo rifiuto. D. Bosco, sorridendo, rispose a quell'invito: Sarebbe bella che D. Bosco, il quale è già stato maestro di ginnastica, non fosse più capace di discendere una scala! - E senz'altro, con un po' di sforzo, discese senza l'aiuto d'alcuno.

                Ma D. Bosco, oltre ad esser modello di conversazione, [324] piacevole e cristiana, lo era eziandio di sincerità e carità. Non mai adulava i ricchi o quelli posti in dignità; anzi dava loro, a tempo e luogo, ammonizioni e consigli. Aveva però sempre l'arte di guadagnarsi talmente i cuori, da conquistarsi la loro riconoscenza. Confermavasi il detto dell'Apostolo: Pietas ad omnia ulilis est, promissionem habens vitae quae nunc est, et futurae[15].

                Ed eccoci alla stregua dei fatti. Cominceremo dal dire del buon esempio che dava D. Bosco nel sopportare gli altrui difetti, nel far tacer l'amor proprio offeso e nel mantenersi in calma trattando con persone di naturale troppo vivace ed imperioso. Tale era una signora della più alta nobiltà, generosissima coi poveri, amante della soda virtù, la quale però non poteva soffrire la minima contraddizione. Volendo vincere il proprio naturale, per esercitarsi nella pazienza, teneva presso di sè una donna di compagnia, bisbetica, passandole oltre il vitto e il vestito 3000 lire annue. Benchè ricambiata da questa con rimbrotti e sfuriate, la sopportò finchè visse, la curò, la servì; ma si bisticciavano continuamente.

                Questa dama, adunque, come era solita, nel 1857 venne un giorno a visitare D. Bosco. Assuefatta a vedere al suo passaggio spalancate da' servitori tutte le porte, si fece per entrare nella camera di D. Bosco, la cui invetriata era aperta solo per metà. Usandosi allora dalle signore  il crinolino, riproduzione dell'antico guardinfante, e non essendo per lei abbastanza larga quell'apertura, impaziente al solito, volle entrare forzando la veste; ma si ruppero le laminette d'acciaio, che la tenevano rigonfiata. Allora su tutte le [325] furie, protestò che non sarebbe mai più venuta all'Oratorio. Don Bosco: - Eccellenza, le diceva, non sa ancora che le porte di D. Bosco non sono larghe come quelle del suo palazzo? - Ma quella signora sempre più stizzita non volle udire ragioni, e tirate su alla bella meglio le rotte lastre, fatta avvicinare alla porta del cortile la carrozza, rialzata come potè la veste, tornò a casa.

                Il domani si presentò all'Oratorio la sua cameriera, la quale, premettendo mille scuse per l'ambasciata che era costretta a fare, disse a Don Bosco di venire ella a nome della sua padrona per fargli sapere, che dessa non avrebbe mai più messo piede nell'Oratorio.

                - Va bene; va bene! - rispose D. Bosco tranquillamente. Prima soleva andarla a visitare una volta al mese, ma da quel punto prese a recarsi al suo palazzo tutte le settimane. La seconda volta che D. Bosco andò: - Oh! gli disse la dama, e come va che siete ritornato così presto?

                - Sè lei non viene da me, rispose D. Bosco, bisogna bene che io venga da lei, altrimenti come potrò andare innanzi co' miei poveri giovanetti che mancano di tutto?

                La Signora, che dava sempre larghe elemosine a Don Bosco tutte le volte che si intratteneva con lui, rise e disdisse i suoi proponimenti. D. Bosco però non mancava di ammonirla, perchè si correggesse di que' tratti d'impazienza in cui scappucciava troppo sovente, ed ella che in fondo era umile ascoltavalo in silenzio e riconosceva il suo torto.

                In un mese d'autunno D. Bosco, da lei invitato, non avendo potuto recarsi alla sua villeggiatura, dalla signora irritata ricevette una lettera furiosa, nella quale dessa protestava che non gli avrebbe mai più dato alcun soccorso. [326] D. Bosco alcun tempo dopo si recò da lei, e le disse con tutta pace: - Le riporto la sua lettera, perchè non vorrei che si conservasse pel giorno del giudizio. - La dama nell'udire queste parole senz'altro si abbonacciò.

                Un altro personaggio estimatore geloso dei proprii meriti, insofferente di opinioni contrarie alle sue, era il celebre Tomaso Vallauri, Dottore in Belle Lettere. Parente del distinto medico Vallauri, aveva conosciuto in sua casa D. Bosco, il quale da tempo la frequentava. Il professore adunque aveva stampato qualche suo giudizio sugli autori latini cristiani, biasimandoli coll'asserire che, essendo essi tutti intenti all'insegnamento e alla difesa della Religione, avessero trascurata, anzi deturpata la lingua. Questo scritto venne alle mani di D. Bosco, il quale studiò il modo di correggere l'autore. Non tardò l'occasione, ed essendo il Professor Vallauri venuto a trovarlo, egli così prese a parlargli: - Godo di aver fatta conoscenza con uno scrittore, il cui nome ormai è noto a tutta l'Europa, e che onora tanto la Chiesa co' suoi scritti.

                Vallauri osservando lo sguardo bonario di D. Bosco lo interruppe dicendogli: - Vuole forse darmi una staffilata?

                - Ecco, signor Professore: io rimettendomi al suo giudizio, le dico soltanto ciò che penso: Ella sostiene che gli autori cristiani latini non scrissero con eleganza i loro libri, mentre S. Gerolamo vien paragonato pel suo modo di scrivere a Tito Livio, Lattanzio a Cicerone, ed altri a Sallustio e a Tacito.

                D. Bosco non disse più; Vallauri riflettè alquanto e poi rispose: - D. Bosco ha ragione; mi dica pure quello che debbo correggere: io ubbidirò ciecamente. A la prima volta, veda, che io sottometto il mio giudizio a quello di un altro. - E da quel giorno cominciò a ripetere, [327] parlando di D. Bosco: - Questi sono preti che mi piacciono! sono schietti.

                Colle sue belle maniere riusciva eziandio a ripristinare pratiche cristiane che in molte famiglie erano andate in disuso. Egli, che annetteva molta importanza al segno della croce fatto prima e dopo il pasto, fu invitato alla mensa in una casa di signori nella quale non si badava più a quest'atto di religione. D. Bosco lo sapeva. - Lascia fare a me, pensò; cercherò di dar loro una qualche lezione. Che cosa fa? S'intrattenne alquanto con un loro ragazzetto dopochè avevano già chiamato pel pranzo. La famiglia si era posta a tavola; D. Bosco entrato nella sala disse al ragazzetto: - Adesso facciamo il segno della croce prima di metterci a mangiare. Lo sai bene il motivo per cui dobbiamo segnarci prima di prendere cibo?

                - No, non lo so; rispose il ragazzo.

                - Ebbene io te lo dico in due parole: il motivo si è per distinguerci dagli animali. Gli animali che non hanno ragione non fanno il segno della santa croce, perchè non sanno che il cibo che mangiano è dono di Dio; ma noi che siamo cristiani, che sappiamo che il pane che mangiamo è una grazia del Signore, dobbiamo fare il segno della santa croce in riconoscenza. E poi tu sai bene quanto sia facile morire. Potrebbe darsi che una briciola di pane ci andasse a traverso e ci togliesse il respiro o una spina di pesce si ficcasse in gola; e se noi pregheremo prima il Signore, egli ci libererà da questi mali. Di' adunque con me: Nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: così sia.

                Il padre e la madre e gli altri si guardarono l'un l'altro -e vennero rossi. Dopo quel tempo in quella famiglia invalse la bella usanza di segnarsi prima e dopo il cibo. [328] Allorchè si trattava di offese a Dio e alla religione, D. Bosco non si tratteneva dal far sentire i suoi amorevoli avvisi.

                Egli stesso nel 1855 narrava a' suoi giovani il seguente fatto, confermato da D. Chiatellino. “Non è gran tempo, che visitai una famiglia di civile condizione. Mentre discorreva coi genitori, un loro ragazzo di appena cinque anni si baloccava nella camera stessa, tirando una carrozzella coi cavallini di legno. Non andando per diritto il balocco, ed essendosi rovesciato urtando in una sedia, s'incollerì e pronunciò con dispetto il nome santo di Cristo.

                Lo corresse la madre, ed io lo chiamai a me e gli dissi amorevolmente e con dolcezza: - Perchè hai così malamente nominato il nome di Gesù Cristo? - Mi rispose il ragazzo. - Perchè la mia carrozzina non vuole andar bene. - Ma non sai che non si deve mai nominare Dio, senza un grande rispetto e divozione? Dimmi, sai i comandamenti? - Sì, mi rispose. Ebbene, fammi il piacere di recitarmeli.

                Il ragazzo li cominciò, e giunto al secondo, Non nominare il nome di Dio invano, lo arrestai; e - Sai che cosa vuol dire, soggiunsi, non nominare il nome di Dio invano? Vuol dire, mio caro, che non dobbiamo mai nominar Dio, che ti vuol tanto bene, senza una ragione giusta e senza divozione, altrimenti facciamo un peccato, cioè un dispiacere a Dio, e questo specialmente quando si nomina con collera, come tu hai fatto or ora!

                Il ragazzo abbassò gli occhi mortificato, e rispose: Papà lo dice sempre. A queste parole, il volto del padre si fece rosso come bragia; la madre impallidì, io restai muto. Il padre, uomo di spirito e desideroso di dare una [329] buona educazione al suo bimbo, sedette, lo pose sulle sue ginocchia e gli disse: - È  vero, perdona.... sì, io faccio male quando lo dico, d'or innanzi nol dirò più, ma voglio che questa sia pure l'ultima volta che tu l'abbia detto: sei d'accordo? - Ora so che quella lezione gli ha molto giovato, e fatto dismettere la mala abitudine di bestemmiare, e non è guari che mi ebbi i ringraziamenti di quella ottima sposa e madre per avervi cooperato”.

                Con un altro giovanetto la cosa andò ben diversamente.

                Il figlio di un illustre generale, giovanetto su dodici anni, aveva molte belle doti di mente e di cuore. Il padre, brav'uomo, ma poco sagace nell'educazione, lasciava nel salotto i giornali scritti secondo lo spirito dei tempi. Aveva qualche precauzione d'impedire che il figlio leggesse certi articoli, ma liberamente permetteva che si baloccasse con i periodici illustrati portanti i ritratti de' principali eroi della rivoluzione, magnifiche litografie delle loro battaglie, dei loro trionfi e delle loro sventure, commentate da irreligiosi giudizi su quelle imprese. La mente del giovane era rimasta fatalmente impressionata e, benchè di famiglia veramente cattolica, incominciò a disdegnare la religione.

                D. Bosco un giorno andò a visitare il generale, il quale gli mosse incontro, gli baciò la mano e fece mille feste. Il figlio era presente e stava in sussiego.

                - Su, Carlino, disse il padre: vieni a baciar la mano a D. Bosco.

                Il giovanetto non si mosse.

                - Non sai chi è questo prete? È  D. Bosco, del quale tante volte hai sentito a parlare! replicò il generale.

                - Porcheria' mormorò fra i denti Carlino. [330]

                - Non hai visto che io stesso gli ho baciata la mano! - Io baciar la mano ad un prete? esclamò con disprezzo.

                 Il padre restò mortificato, D. Bosco sorpreso. Si intavolò la conversazione. Se si parlava di storia, di geografia, di indipendenza italiana, di musica, il giovane, che era buon parlatore, di belle maniere, e di cuore amoroso verso i suoi genitori, sapeva a tempo e luogo entrare in discorso; ma se accennavasi solamente a cose di religione, mostravasi estraneo.

                Carlo erasi ritirato, e il padre addolorato per aver,scoperto nel figlio quell'astio contro la Religione, disse a D. Bosco: - Ma come avrà fatto mio figlio a mutar così sentimenti mentre prima era tanto religioso? Possibile! lo non rinvengo dallo stupore. Non sono queste le massime che gli ha insegnato sua madre, non sono questi gli esempi che gli ha dato suo padre. Noi, si assicuri, Don Bosco, lo abbiamo sempre gelosamente custodito, non gli abbiamo permesso di aver relazione con amici sospetti o che frequentasse società pericolose. Come dunque sarà,accaduto da mettergli così in avversione il prete?

                D. Bosco, che conosceva la, bonomia di quel signore,,aveva girato lo sguardo attorno ed aveva visto sul tavolo la Gazzetta del popolo, La Piemontese, Il Secolo e altri fogli di simile risma.

                - Lei, signor Marchese, cerca la causa? Eccola là su quel tavolino.

                - Che cosa vuole che i giovanetti capiscano di certe questioni? E poi mio figlio è obbediente ed ama suo padre; ed io gli ho fatto intendere come non voleva che perdesse il suo tempo con questi fogli. Posso assicurarla che non li ha letti. [331]

                - Eppure, eppure....

                - Gli ho permesso solamente di vedere qualche giornale illustrato, per le belle incisioni che portava di uomini che hanno fatto parlare di sè in questi ultimi tempi.

                - Bene: allora è chiaro che a queste incisioni si deve l'astio che il suo Carlino ha concepito contro le cose di Chiesa. Si persuada che la fantasia di un giovane si riscalda per ciò che predilige e non si scancellano mai più le prime impressioni.

                - E dunque come fare?

                - Sostituire buone stampe alle stampe cattive e tentare con queste di dargli un contravveleno.

                Il Marchese accettò il consiglio.

                Questo povero giovane però a poco a poco fu preso da,cupa malinconia e moriva, senza mutar sentimenti, a sedici anni!

                Riguardo alla modestia in molte circostanze apparve mirabile il contegno di D. Bosco e la sua franchezza nell'ammonire gli sbadati. Andato egli un giorno a far visita ad un benefattore, mentre stava aspettando in anticamera di essere introdotto all'udienza, vide appeso alla parete un quadro indecente. Senz'altro, montato sopra una sedia, volse a rovescio verso il muro tale pittura. Il padrone comprese quel tacito avviso, ringraziò il servo di Dio e tolse dalla stanza quella sconcezza.

                Altra volta era aspettato dalla Marchesa Dovando, solita a beneficare i suoi giovani, la quale per tale occasione aveva fatti numerosi inviti. Molte signore erano intervenute, vestite con molto lusso, desiderose di intrattenersi con D. Bosco. Due di queste furono a riceverlo, mentre già aveva posto piede nel salone d'entrata; ma erano alquanto scollacciate e colle braccia coperte solo [332] per metà. D. Bosco, appena, le vide, abbassò gli occhi e disse: - Scusino; ho sbagliato porta: credeva di andare in una casa, e invece sono entrato in un'altra. - E si avviò per uscire.

                - No, D. Bosco; non c'è sbaglio: è proprio qui dove l'attendiamo.

                - No, riprese egli: non può essere. Io era persuaso che in quella casa ove sono invitato, un prete potesse venirci liberamente. Le compatisco però, mie buone signore; si usa oggigiorno tanta seta e tela nelle falde dell'abito, che non ne resta più per coprire le braccia. E continuava ad andarsene.

                Accortesi allora quelle dame della loro mancanza dì modestia, arrossirono, e confuse corsero a pigliare scialli, fazzoletti ed altri drappi per coprirsi. Così imbacuccate tornarono, pregando D. Bosco, che già era sulla scala, a volerle perdonare e a ritornare indietro.

                - Adesso sì; egli rispose sorridendo: e così va bene. E si fermò, festeggiato dai commensali; e le due signore non si tolsero per tutto il tempo del pranzo quegl'improvvisati abbigliamenti.

                Del resto D. Bosco ovunque andasse aveva sempre qualche parola che faceva del bene alle anime.

                Egli si trovava a pranzo dal Conte e dalla Contessa. Camburzano, e tra gli invitati vi era un generale dei più valenti in ritiro. I pensieri religiosi non avevano mai occupato di troppo il vecchio soldato, ed era quindi piuttosto freddo in cose di pietà. D. Bosco, dopo aver ragionato a lungo sia col Conte e colla Contessa, sia col generale, era in sul ritirarsi, allorchè questi, che nel tempo del pranzo non aveva mai tolto da lui lo sguardo, colpito vivamente dal suo fare, gli si avvicinò dicendogli: - Mi [333] dica qualche parola che io riterrò in memoria della sua visita.

                - Oh, signor generale, gli rispose accortamente Don Bosco, preghi per me, perchè il povero D. Bosco salvi l'anima sua.

                - Io pregare per lei? esclamò il generale scosso da quell'inaspettata raccomandazione. Piuttosto mi suggerisca qualche buon consiglio.

                - Preghi per me! replicò D. Bosco. Come ella ha visto, tutti quelli che mi stanno d'intorno s'immaginano che io sia lì lì per essere messo sugli altari. E non intendono il loro inganno, e che io sono un poveretto. Deh! almeno lei mi aiuti a salvarmi l'anima.

                Ma insistendo il generale per la terza volta, D. Bosco, che ne aveva con queste parole già preparato il cuore, conchiuse:

                - Il mio consiglio è questo: pensi anche lei a salvare l'anima sua.

                - Ah! D. Bosco, esclamò quel signore; grazie delle sue parole; sì, in avvenire voglio pregare e pregherò anche per lei; ma ella voglia ricordarsi di me. - Ah! ripeteva qualche tempo dopo, da D. Bosco doveva venirmi quell'avviso e lui solo poteva parlarmi con simile delicatezza e franchezza. - E infatti quel consiglio produsse in quell'anima grandissimi frutti. Ed egli non tardò molto a mettere in sesto l'affare della sua salute eterna con una franchezza e assennatezza che furono l'ammirazione e la felicità di tutti i suoi amici.

                Altri fatti innumerabili si potrebbero raccontare di questo genere, poichè D. Bosco parlava sempre in guisa da non offendere l'amor proprio di coloro che voleva tirare a Dio. Era di una prudenza, cortesia, finezza [334] ammirabile per far giungere all'orecchio di chi ne aveva di bisogno un motto di bene spirituale.

                Lo zelo di D. Bosco era anche ispirato dalla profonda riconoscenza verso i suoi benefattori. Non è a dire quanto ad ogni istante si manifestasse questa sua virtù e in ogni minima occasione. Si commoveva pei più piccoli servigi che gli fossero resi. Un fanciullo che gli indicasse la strada, un servo che gli accendesse la lucerna, un famigliare che gli recasse un bicchier d'acqua, o facesse ancora meno per lui, era sicuro di essere ringraziato. Sovente: dopo una visita, o una conferenza un po' lunga, lo abbiamo, udito esclamare: Vi ringrazio che abbiate avuto la pazienza di sopportarmi e di ascoltarmi.

                Da tanto si può arguire ciò che sentiva nel suo bel cuore verso quelli che lo aiutavano a promuovere le sue opere con generosi sacrifizii.

                Per i benefattori egli pregava continuamente, e faceva pregare ogni giorno i suoi giovani, ordinando la recita di un Pater, Ave e Gloria nelle orazioni comuni. Sovente raccomandava comunioni; e celebrava e faceva celebrar messe, e in modo speciale durante le loro malattie e dopo la loro morte. Non dimenticava mai le loro beneficenze. Racconta D. Cerruti Francesco che una volta ad Alassio, nell'atto che usciva per celebrare la santa Messa, lo chiamò a sè e gli disse: - Sai! questa mattina intendo di celebrare la Messa in modo particolare per D. Vallega, quel prete tanto pio, il quale fece la tale carità, anni sono, per noi.

                Questa gratitudine la inculcava ai giovani, e la palesava molto spesso con parole di così visibile trasporto, che li entusiasmava. -Vedete, diceva loro talvolta: noi non avevamo più di che comprare il pane, e venne il tal [335] signore, la tale signora, a prestarmi aiuto. Quanto è grande la bontà dì Dio!

                Aggiungeremo che non a sè, ma a' suoi benefattori attribuiva il merito di quanto andava operando. Mille volte si udì ripetere che, se faceva un poco di bene, lo doveva alla carità delle anime buone. - Noi, esclamava, viviamo della carità dei nostri benefattori! - Scrisse Monsignor Cagliero: “Mi ricordo che il marchese. Fassati ed, il comm. Cotta dissero più volte a D. Bosco: Oh Don Bosco! Lei dice che non ha parole bastanti per ringraziarci di quel poco che abbiamo fatto pel suo Oratorio; ma siamo noi che dobbiamo ringraziar lei: prima, perchè domandandoci aiuti per i suoi giovani ci presenta un'occasione di fare un po' di bene; e poi perchè il Signore per le sue preghiere ci benedice e triplica le nostre sostanze”.

                Pei benefattori non rifiutava mai qualunque servizio per quanto potesse parere gravoso a lui ed a' suoi figli. Così p. es. talvolta richiesto di mandare un suo sacerdote a celebrare in siti lontani, con strade incomode, ad ora tarda, non esitava punto, anche quando si dovesse continuare per un tempo assai considerevole. Talvolta qualcuno gli faceva notare che tale impegno recava grande incomodo e disturbo. D. Bosco ripeteva: -Egli è un nostro benefattore: facciamo anche noi un sacrificio per favorirlo! - Infatti, per dare almeno una prova, diremo che alla famiglia Bonier, che aveva provvisto il patrimonio ecclesiastico per due suoi chierici, mandò per molti anni, finchè ne ebbe bisogno, un sacerdote a celebrare alla loro cappella di campagna, tutte le feste autunnali. Egli stesso molte volte fece viaggi per celebrare, o per predicare, soddisfacendo ai pressanti inviti di chi soccorreva i suoi giovanetti. [336] Ricordiamo pure che era molto sollecito per ottenere dalla S. Sede favori spirituali di indulgenze per essi e per le loro famiglie, benedizioni dal Sommo Pontefice ed altre simili grazie.

                Nella moltitudine di domande, che specialmente negli ultimi anni riceveva per nuove fondazioni di case, aveva sempre riguardo, coeteris paribus, a dar la preferenza a quelle che gli venivano fatte da benefattori insigni.

                A questi e ad altri molti spediva sacre immagini, portanti scritto di sua mano: Dio benedica i benefattori delle opere salesiane. E i suoi augurii si avveravano in un modo sorprendente, come vedremo nel corso della sua vita.

                Varie volte li soccorse nelle disgrazie che li avevano incolti. Due coniugi senza prole gli avevano dato a varie riprese, nell'occasione che si costruiva la chiesa di Maria Ausiliatrice, lire seimila. Senonchè alcuni anni dopo, in seguito ad affari andati a male e sovratutto per fallimento di banche presso cui avevano depositata buona parte del loro capitale, erano caduti in miseria, a tal segno che vivevano in una soffitta a Milano, dove si erano ritirati. D. Bosco venne a saperlo, andò a trovarli e si offerse di restituir loro la somma che gli avevano data. Il marito si rifiutò piangendo di accettarla, protestando che egli aveva fatto quella largizione, per dare un'elemosina.

                - Ebbene, replicò D. Bosco; ella riceva dunque dalla Madonna quello che lei le ha dato, nella misura che avrà bisogno.

                Da quell'istante egli mandò loro ogni mese cento lire. Compiuta la restituzione delle seimila lire, il marito morì, la vedova trovò dopo poco tempo un eccellente partito di matrimonio e riprese a fare elemosine per Maria SS. Ausiliatrice. Così D. Bosco stesso narrava a D. Franc. Cerruti. [337] Era continua la sua corrispondenza coi benefattori. Se scriveva lettere senza numero, per avere sussidii, queste stesse largizioni dei benefattori gli raddoppiavano la fatica del tavolino. Ei non lasciava mai di rispondere, ringraziando e facendo conoscere quanto apprezzasse le beneficenze ricevute e ciò per animare tanti buoni cristiani a perseverare nella loro carità. Questo è uno dei ricordi che ripeteva sovente a' suoi figli. Se l'offerta era anche solo di pochi centesimi, con un suo biglietto di visita accusava ricevuta; ma se la elemosina giungeva alle due lire e anche a una lira e mezzo, non mancava mai di scrivere una lettera autografa di vivi e cordiali ringraziamenti. In ciò egli non ravvisava solamente un dovere di gratitudine, ma eziandio un mezzo per moltiplicare i soccorsi a vantaggio della sua Opera. Nessun può immaginare quanto pesi ai benefattori la trascuranza nel rispondere, e quanto loro torni gradito il sapere che la loro elemosina giunse a destinazione, e che i beneficati sono riconoscenti. Moltissime volte coloro che si vedevano ringraziati per poche lire, ne spedirono dopo pochi giorni centinaia e migliaia, riputandosi favoriti se D. Bosco le accettava.

                Egli poi non la sciava sfuggire occasione per dimostrare la memoria che teneva viva dei benefizi ricevuti. Scriveva ai benefattori biglietti consolanti in ogni fausta circostanza, di onomastico, di matrimonio, di nascite, di onorificenze ottenute, o di fortune acquistate; come pure attestati di condoglianza suggeriti dalla fede quando loro accadeva qualche sventura o la morte toglieva loro qualche cara persona. Pel capo d'anno consumava un intero mese a mandare da ogni parte lettere autografe d'augurio. Noi a suo tempo riporteremo alcune delle lettere sopraccennate [338] e di vario argomento, che sono veri modelli di semplicità, brevità, sentimento cristiano, che gli procuravano, sempre nuovi sussidii.

                Più volte all'anno invitava i singoli suoi giovanetti a scrivere lettere di cordiali ringraziamenti a coloro che ave vano fatto o facevano loro del bene; e in altre circostanze, preparata un'attestazione di riconoscenza, la faceva sottoscrivere ora da una classe di alunni, ora da quanti erano in casa.

                Alla Banca Nazionale, per una largizione accordata, mandava il seguente foglio nel gennaio del 1869:

 

                “I giovani della Casa detta Oratorio di S. Francesco eli Sales unitamente al loro Direttore, Sac. Bosco, offrono i più sentiti ringraziamenti alla benemerita Amministrazione della Banca Nazionale, che eziandio, in quest'anno elargì a loro favore la somma di fr. 250.

                Quest'atto di beneficenza merita speciali ringraziamenti e per l'aumento dei giovanetti ivi ricoverati e per alcune circostanze particolari che concorrono a rendere più sensibile il bisogno e la necessità del soccorso.

                Pertanto tutti unanimi con grato animo pregano dal cielo copiose benedizioni sopra i benemeriti amministratori della Banca Nazionale e sopra tutti quelli che in qualunque modo concorrono al loro bene morale e sociale”.

 

                Ne di ciò si contentava. Nei casi di amministrazioni pubbliche, ricorreva anche al giornalismo per dare maggior lode e fama al benefizio.

                Un altro mezzo adoperava ancora per palesare il grato suo animo, e che più tardi raccomandava a tutti i Direttori delle sue case. Allorchè qualche persona, in prova d'affetto, mandavagli in regalo di cose rare o prelibate, lungi di servirsene per sè o per i suoi, ne faceva tosto la [339] distribuzione a quelli dei benefattori ai quali per vicinanza di luogo, o per facilità di comunicazione, poteva con prestezza farli pervenire. Erano primizie di frutta o di legumi, lepri, galline, aranci, limoni, paste dolci, bottiglie di vini preziosi, certi volatili molto ricercati per la cucina, che sapeva tornare di gradimento a que' personaggi e alle loro famiglie. Così egli fece costantemente, e fu un reciproco contraccambio d'affetto che dava magnifici risultati.

                Un tartufo, venuto nelle sue mani e regalato per la sua straordinaria grossezza, passò in dono da una famiglia ad un'altra, sicchè in ultimo dalla marchesa Fassati, che nulla sapeva della sua prima provenienza, ritornò a Don Bosco. Il primo che aveva ricevuto il tartufo aveva mandata all'Oratorio la sua offerta, e D. Bosco spedito il prezioso frutto ad una ricchissima signora di Marsiglia, ne ebbe poi in contraccambio qual segno di gradimento una somma vistosa. Un'altra volta un simile dono gli aveva fruttato 12.000 lire.

                Così pure avendo ricevuto in dono una grossa scatola di tali túberi, li ripartì e li mandò a diversi capi stazione di ferrovia, sindaci e persone di riguardo in vari paesi, perchè avevano favoriti in qualche modo i suoi giovani o cooperato alle sue lotterie. Erano queste gentilezze che guadagnavano a lui molti cuori. Più tardi raccomandava ai Direttori di collegi ed ospizii sparsi in regioni diverse che vicendevolmente a simili scopi si facessero scambio delle rarità più apprezzato di quelle terre.

                Nè hassi a tacere come D. Bosco conosciuti certi desiderii de' suoi buoni amici, se poteva, si faceva premura di appagarli. Una distinta signora, per contentare i suoi bambini, desiderava avere alcuni uccelletti, e D. Bosco le mandò una nidiata ancora implume. Quella famiglia restò [340] tanto commossa al dono inaspettato, che si mise in ginocchio intorno alla mensa sulla quale era stato posto il nido, e pregò per D. Bosco. Quindi allevò quegli uccelletti, e quando ebbero messe le piume e furono atti a volare, diede loro la libertà, mandando nello stesso tempo una elemosina all'Oratorio.

                E qui noi, svolto sommariamente il nostro argomento cogliendo qua e là alcune prove nell'intera vita del nostro caro fondatore, ritorniamo al 1855.

 

 

CAPO XXIX. Abiura di due protestanti - Lettera di Savio Domenico a suo padre - Singolare scoperta di un ammalato - Gravissima infermità del Re - D. Bosco non accetta gli oggetti confiscati nei conventi - Letture Cattoliche VITA DI S. MARTINO VESCOVO DI TOURS -LA FORZA DELLA BUONA EDUCAZIONE - La banda istrumentale nell'Oratorio - Gita a Castelnuovo e la festa del S. Rosario - D. Bosco e i figli de' signori accollo nell'Oratorio Gavio Camillo.

 

                SIAMO sul finir dell'agosto 1855. Nel numero dell'Armonia, 27 del mese, trovasi la seguente cara notizia: “ABIURE ALL'ORATORIO DI SAN FRANCESCO DI SALES. È  sempre consolante per noi il poter registrare le nuove prede rapite all'eresia a dispetto di tutta la rabbia libertina per iscreditare i dommi e la morale della Chiesa Cattolica. L'ottimo sacerdote D. Bosco, che così attivamente lavora colle opere e cogli scritti a benefizio della classe popolana, raccoglie sovente i frutti del suo zelo anche nel campo dell'eresia. Eccone un nuovo saggio:

                Sabato diciotto del corrente nella chiesa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, due seguaci di Calvino, padre e figlio, rinunziarono all'eresia per ritornare alla religione [342] cattolica, apostolica, romana, da cui i loro antenati sgraziatamente si allontanarono. Il Sig. Marchese Domenico Fassati era padrino; la pia di lui consorte Marchesa Maria nata De - Maistre ne era madrina”.

                In questo stesso mese il coléra era ricomparso in Torino, ma, grazie a Dio, in modo assai mite. D. Bosco e i suoi giovani erano pronti per l'ufficio d'infermiere e per l'assistenza spirituale, ma non ve ne fu bisogno. I tocchi dal morbo guarivano, e pochi ne morirono.

                Ne scrisse a suo padre il giovanetto Savio Domenico che erasi già restituito nell'Oratorio. Questa lettera noi la conserviamo religiosamente nell'archivio.

 

                               Carissimo Padre,

 

                Ho una novella molto curiosa da scrivervi, ma prima di tutto vi do delle mie nuove. Io ringraziando il Cielo fin qui sono sempre stato bene e ancor godo una perfetta salute, come pure spero di voi e di tutta la famiglia. I miei studi vanno avanti progressivamente e D. Bosco ne è ogni ora più contento. La novella è che avendo potuto stare un'ora, solo, con D. Bosco, siccome per lo addietro non ho mai potuto stare dieci minuti solo, gli parlai di molte cose, tra le quali di un'associazione per l'assicurazione dal coléra. Mi disse che il morbo è in sul principio e se non fosse del freddo che già s'inoltra, forse farebbe un grande guasto. Mi ha anche associato ad una sua compagnia, il che sta tutto in preghiere. Gli parlai anche di mia sorella come voi mi avete detto, e mi disse che la conduciate a casa sua alla festa della Madonna del Rosario per giudicare della sua capacità e delle altre qualità che ha. Quindi v'intenderete. D'altro non mi resta che a salutare voi e tutta la famiglia, il mio maestro D. Cugliero, ed anche Robino Andrea ed anche il mio amico Savio Domenico di Ranello. Sono il vostro

                Torino, 6 settembre 1855

Aff. ed amantissimo figlio

Savio Domenico [343]

 

                La festa della Natività di Maria Vergine si celebrò con affetto dai giovani in Valdocco, e fu rallegrata da una piccola accademia, nella quale si presentarono al Prefetto D. Alasonatti Vittorio alcuni sonetti classici che inneggiavano il celeste avvenimento. Ma in questo giorno la gioia di D. Bosco fu più viva per un fatto alquanto singolare e fors'anco prodigioso.

                In una casa, situata in via Cottolengo non lungi dal pio Istituto del Rifugio, portavasi a lavorare una buona, ma povera donna. Ella vi rimaneva lungo il giorno, e nella sera, eccettuate rarissime volte, ritornava a casa sua. Per comodità di lei il padrone lasciava a sua disposizione un oscuro stanzino presso al solaio, dove quella riponeva qualche oggetto di sua spettanza e prendeva un po' di ristoro. Or bene, il giorno 8 di settembre, Savio Domenico si presenta in quel sito e domanda al padrone: - Vi è forse qui alcuna persona presa dal coléra? - No, per grazia di Dio, qui non ve n'è alcuno, rispose colui. - Eppure qui ci deve essere qualche infermo che sta male, riprese il giovinetto. - Scusa, buon ragazzo, conchiuse il padrone, tu avrai presa una casa per un'altra; ma qui in fede mia siamo tutti sani e fuori del letto. - Ad una negativa così recisa il nostro fanciullo se ne esce di là un momento, dà uno sguardo all'intorno, e poi rientra e dice al padrone: - Mi faccia il favore di osservare attentamente, perchè in questa casa vi deve essere una malata. A questa graziosa insistenza quell'uomo accondiscese a fare una visita per la sua casa. Insieme col giovanetto passa dall'una all'altra stanza, finchè giunge eziandio in quel nascosto bugigattolo. Colà appunto con sua dolorosa sorpresa egli trova rannicchiata quella povera donna, ridotta agli estremi di vita. Credeva il padrone che la sera. [344] innanzi, secondo il solito, ella si fosse recata a casa, ed invece, salitavi forse per un po' di riposo, era stata colpita dal coléra all'insaputa di tutti, e non aveva avuto forza di chiedere soccorso. Le si chiamò subitamente il Sacerdote, il quale, confessata che l'ebbe, ed amministratale l'Estrema Unzione, la vide spirare nel bacio del Signore.

                Intanto nuova disgrazia turbava la Casa Reale. Sua Maestà, nel mese di settembre, venne colta nel castello di Pollenzo da una febbre intensa, con artritide acuta e, diffusa a molte articolazioni. La malattia fu gravissima e mise tutto il regno in grande ansietà; ma come Dio volle si sviluppo un'eruzione migliare che fece il suo regolare periodo, e a poco a poco il Sovrano si ristabilì. Il 27 settembre però era stato obbligato a delegare il principe Eugenio di Savoia Carignano a provvedere in suo nome sugli affari correnti d'urgenza, firmando i decreti reali.

                La legge emanata contro i conventi continuava a portare tristi frutti, poichè non si era dato ascolto alla voce di un suddito fra i più fedeli, il quale per amore dello stesso Re aveva arrischiata la libertà, l'Oratorio, la stessa vita. Tuttavia i ministri nulla avevano mosso contro di lui, perchè troppo importava il silenzio su tale argomento.

                Trovarono però il mezzo, direi, di una rappresaglia, e quasi per ironia, cercarono di fargli accettare una parte della preda tolta ai conventi. Un bel giorno Cavour Camillo mandò in regalo all'Oratorio due carri grossi, carichi di biancheria stata confiscata nel convento dei Domenicani. Benchè D. Bosco si trovasse allora in grandi strettezze, pure comandò che i carri rimanessero in cortile e che nessuno toccasse quella roba. Quindi spedì un dispaccio [345] al Superiore dei Domenicani chiedendo il da farsi. Ebbe per risposta: - Consegnate quella biancheria a chi manderò per ritirarla. - Venne l'incaricato, e D. Bosco fatti riattaccare i muli ai due carri, li mandò ove il Padre Superiore aveva indicato.

                Altra volta giunse un carretto di libri tolti ai frati Cappuccini e fra quelli eranvi i volumi de' Bollandisti. D. Bosco ne avvertì subito i proprietarii e li restituì appena richiesto.

                Egli ebbe sempre ripugnanza a comperare beni dei conventi soppressi. Gli oggetti si vendevano a prezzo vilissimo, ed era il caso di fare un buon mercato. Taluni facevano osservare a D. Bosco come tanti sacri paramenti andassero a finire in mano agli Ebrei, fossero impiegati ad uso profano e quindi la convenienza del riscattarli. D. Bosco replicava:

                - Tutte ragioni belle e buone. Vedo ancor io che sarebbe il momento opportuno di provvedere le mie chiese di tanti oggetti che mi mancano, e che non so quando potrò provvedermeli. Ma io penso che se la mia casa fosse soppressa non vorrei entrare nelle chiese altrui e vedervi oggetti che a me fossero stati tolti. Ciò mi cagionerebbe troppo dolore. Gli stessi sentimenti di angoscia son certo che proverebbero i religiosi, che mi vedessero, vestito delle loro spoglie.

                Così pure non volle mai accettare conventi o monasteri, che ora il governo, ora i municipii, ora i privati gli andavano offerendo, sia in dono, sia per vendita. Si piegò solo a comprarli quando Pio IX, al quale aveva manifestati i proprii pensieri e le proprie ripugnanze, gli disse: - Prendete pure i conventi soppressi. Lo voglio. È  meglio che per mezzo vostro ritornino alla Chiesa, piuttosto che [346] rimangano in mano ai secolari, che ne faranno quell'uso che Dio solo può sapere. Procurate però di ottenere le debite autorizzazioni, e ciò solamente per ovviare complicazioni o dissidii cogli Ordini religiosi che prima ne erano al possesso.

                In mezzo ai suddetti avvenimenti il Tipografo Ribotta aveva stampati i due fascicoli del mese di ottobre. Comprendevano la Vita di S. Martino Vescovo di Tours e tre appendici: I. L'invocazione, le reliquie, il culto dei santi e loro efficace intercessione presso Dio, approvata dalle carte del vecchio e del nuovo Testamento, dalla tradizione e da miracoli senza numero; 2. La morte gloriosa dell'arabo cristiano Geronimo, murato vivo in un bastione di Algeri perchè non volle rinnegare Gesù Cristo; 3. Una nota sul Purgatorio, che accenna quale sia la dottrina della Chiesa Cattolica su tale dogma, e come questa dottrina sia,contenuta nella Bibbia.

                D. Bosco che era autore di questo libro, ne aveva incominciato a scrivere un altro per i due fascicoli di novembre, col titolo: La forza della buona educazione. Curioso episodio contemporaneo. È il giovane Pietro che converte il padre suo coll'ottima e paziente condotta. Il volumetto finiva con litanie tenerissime in suffragio dei defunti, tradotte dall'inglese, e serviva di prova che i Cattolici d'Inghilterra erano d'accordo coi Cattolici d'ogni parte del mondo sul dogma del Purgatorio, al quale tutto quel regno unito credeva fermamente prima della riforma.

                Paravia ebbe incarico di pubblicarlo nel tempo stabilito.

                Ordinate queste cose, D. Bosco verso i primi di ottobre si avviò ai Becchi per la festa del Rosario. Questa passeggiata era anche un premio promesso ai giovani più [347] obbedienti, i quali un nuovo allettamento ebbero in questo anno: la banda musicale.

                D. Bosco avevala organizzata fra gli artigiani come un altro mezzo che giudicava convenientissimo per allontanare i giovani dal male. Diceva: - I ragazzi bisogna tenerli continuamente occupati. Oltre la scuola o il mestiere è necessario impegnarli a prendere parte alla musica od al piccolo clero. La loro mente così sarà in continuo lavoro. Se non li occupiamo noi stessi, si occuperanno da sè, e certamente in idee e cose non buone.

                Alla musica vocale dava sempre il primo posto anche negli Oratorii festivi degli esterni.

                Un giorno trovandosi egli a Marsiglia, venne a visitarlo un religioso che aveva fondato in una città della Francia un Oratorio festivo, il quale gli chiedeva se approvasse la scuola di musica fra i divertimenti dei giovani; e prese a narrargli tutti i vantaggi che dalla musica potevano trarsi per l'educazione, l'occupazione, la ricreazione dei giovani. D. Bosco ascoltò approvando e rispose: - Un Oratorio senza musica è un corpo senz'anima. - Ma, il frate soggiunse, la musica porta i suoi inconvenienti, e non piccoli. - E quindi parlò della dissipazione alla quale induce taluni, al pericolo che i giovani vadano a cantare o suonare nei teatri, nei caffè, nei balli, nelle dimostrazioni politiche e via discorrendo. D. Bosco udì tutto senza dir parola e poi recisamente ripetè: - È  meglio l'essere o il non essere? Un Oratorio senza musica è un corpo senz'anima!

                La musica istrumentale pertanto per la prima volta doveva recarsi a Castelnuovo. Capo ne fu l'alunno interno Cerutti Callisto, eccellente musico, valentissimo nel suonare l'organo, e che esercitava questa sua nobile arte [348] nelle, chiese di Torino. Bersano, suo compagno, era pure, organista e distinto per i suoi studii musicali. La banda, .della quale furono successivamente maestri un tal Giani e poi Bertolini e Massa, musici della guardia municipale, non tardò a far risuonare i cortili colle sue melodie, e: Giuseppe Buzzetti e Pietro Enria vi tenevano i primi posti. Componevasi di soli dodici strumenti, numero che per qualche anno non fu accresciuto.

                Qui crediamo opportuno dar qualche notizia più ampiae più ordinata della gita di D. Bosco co' suoi giovanetti.. In tutto il mese di settembre era un gran discorrere nel Oratorio della passeggiata a Castelnuovo, un discuterei quali giovani sarebbero scelti a farne parte, se e quali paesi si sarebbero visitati: era un pregustare le feste e le vendemmie che li aspettavano sulle ridenti colline, e un narrare le allegrezze godute da quelli che l'anno antecedente avevano accompagnato D. Bosco ai Becchi. Le brillanti fantasie non permettevano di pensare ad altro, richiamavano all'Oratorio molti che erano andati in vacanze, e chi non sperava quel premio faceva serii proponimenti per l'anno venturo. Intanto si ordinavano i necessarii preparativi.

                D. Bosco nelle ultime due settimane di settembre verso le otto del mattino partiva da Valdocco con alcuni giovani, i più bisognosi di riguardi, o per la salute poco buona, o, perchè avevano nessuno al mondo che pensasse a loro. Non potendo provvedere a tutti un posto sull'ominibus, si andava generalmente a piedi. Il suo itinerario era per Chieri, Riva e Buttigliera d'Asti; la prima tappa di questa passeggiata fu sempre la regione dei Becchi. La via era lunga; ma i giovani non se ne accorgevano, perchè D. Bosco aveva l'arte di farla sembrar loro più breve, [349] raccontando ora questo ora quell'altro episodio della storia d'Italia, o della storia ecclesiastica. Avvicinandosi a Chieri, alcuni suoi intimi amici, avvisati prima, fra i quali il Canonico Calosso, gli venivano incontro, e volevano avere il piacere di ospitarlo per il pranzo co' suoi piccoli amici. Dopo qualche ora di riposo, rimessisi in cammino si giungeva alla borgata di Morialdo, ove attendevali il fratello Giuseppe. Il domani D. Bosco faceva visitare a' suoi giovani l'umile catapecchia ove era nato, e soleva dir loro. - Ecco i feudi di D. Bosco!

                La dimora ai Becchi erano giorni pieni di grande edificazione, perchè vedevasi la buona gente dei dintorni venire tutte le sere in bel numero alla novena per ascoltare la predica. Non bastando la piccola cappelletta a contenere tutti i divoti, gran parte stava anche di fuori con molto raccoglimento. Si recitava il Rosari  o, si cantavano le litanie, si dava la benedizione col SS. Sacramento. D. Bosco faticava, ma raccoglieva una buona messe di anime.

                Il grosso della schiera partiva da Torino il mattino del sabato, vigilia della festa del Rosario; il giorno antecedente D. Alasonatti aveva letto i nomi di quelli destinati alla comitiva. Questa, composta di un numero sempre crescente ogni anno, marciava a piedi passando per Chieri. Due di questi portavano sulle spalle i scenarii del teatrino e un terzo uno zaino cogli spartiti della musica. Siccome i giovani non erano tutti della medesima età e forza di camminare, così chi arrivava ai Becchi ad un'ora e chi ad un'altra. Non troppi giungevano in gruppi e riuniti, e più di una volta qualcuno arrivò a notte molto inoltrata. Talora, nei primissimi tempi, vi fu chi poco pratico di quelle vie più immaginarie che reali non giunse che alla [350] mattina seguente, poichè i buoni contadini, incontrandolo smarrito, lo avevano condotto alle proprie cascine per ristorarlo.

                Quando tutti erano giunti, s'aspettava il momento opportuno no per salutar e D. Bosco, il quale dimostrava gran piacere nel rivederli e si faceva dire le vicende del loro viaggio, che venivano raccontate fra grandi risa e tripudio. Quindi conducevali a cena; ma qualcuno incominciava a dormire stando ancora a tavola. Il fratello di D. Bosco, Giuseppe, che aveva coperto con uno spesso strato dì paglia il pavimento di uno stanzone all'ultimo piano, disposto in altro tempo da granaio, dava allora a ciascuno un lenzuolo di tela di bucato, e accompagnati dagli assistenti andavano al luogo stabilito. Altre camere della famiglia erano pur state convertite in dormitorio, e tutti trovavano un letto, se non sprimacciato, certo, bastevole.

                Dopo le orazioni, si faceva un silenzio profondo; nessuno più si moveva fino al mattino, eccettuato alcuno de' più fervorosi che svegliandosi si levava su in ginocchio a pregare stando al suo posto.

                La domenica una grande moltitudine affluiva ai Becchi da tutte le borgate circonvicine, e specialmente da Castelnuovo. Era una festa veramente popolare. Al mattino si celebrava la messa della Comunione generale, preceduta talora e seguita dalle messe di altri sacerdoti venuti con D. Bosco. Nei primi tempi suonavasi un piccolo harmonium che portavasi da Torino. Alle 10 messa solenne, cantata quasi sempre dal buon prevosto, il Teol. Cinzano, che in quel giorno si fermava a pranzo con D. Bosco. La cappella essendo troppo piccola, la musica e il popolo stavano nell'aia. Quivi il mastello per il bucato, capovolto, [351] serviva di pulpito al predicatore che narrava le glorie del Rosario. Data la benedizione, Gastini saliva pure su quella, bigoncia, e tratteneva il popolo colle sue buffonate fino, all'ora del teatro, eretto su di un lato di quell'aia, e che non mancava mai per coronare la festa. Finalmente a notte si facevano partire palloni areostatici, si dava fuoco ai razzi, e a ruote pirotecniche: ed era uno spettacolo incantevole il vedere eziandio nelle circostanti colline innalzarsi le fiamme dei falò di gioia.

                L'indomani del Rosario il Teol. Cinzano esigeva che, D. Bosco e i suoi giovani andassero a restituirgli la visita, e fatti venire i suoi massari e apparecchiato un fornello, posticcio nell'angolo del cortile, si preparava una colossale polenta. D. Bosco era accolto con gran festa nella, Canonica. Mentre i giovanetti stessi aiutavano i preparativi del pranzo, i cantori, per contentare il buon Vicario, che voleva sentire della musica buona e classica, salivano in orchestra per eseguire varii pezzi riservati per quella occasione. Bisognava sempre contentarlo in una sua particolare affezione verso la musica del Mercadante e specialmente per il suo famoso Et unam sanctam. Ed ecco comparire nel cortile la polenta accolta al suona degli istrumenti e al canto di una nota canzone popolare, e i giovani, disposti in giro e seduti chi sopra un mucchio di sassi, chi sopra travi, ricevevano la loro razione e quindi pane, cacio, salame, lesso freddo, uva e mele; e tutto sfumava come per incanto.

                Dopo il pranzo dei giovani, D. Bosco co' suoi chierici erano ricevuti a lieta e più comoda mensa dal Prevosto, che in quel giorno voleva pure avere con sè tutti i preti del paese a fargli onore. Soleva dir loro: - Vedrete, quello che sarà un giorno D. Bosco! Ha la testa da [352] Ministro di Stato! - E D. Bosco trattava il suo Prevosto con umile deferenza e quivi e altrove al cospetto di tutti gli baciava la mano i giovani ammiravano e ricordavano sempre quest'atto di ossequio, che D. Bosco mai non ometteva.

                Veniva finalmente l'ora di lasciar Castelnuovo. Pochi giovani perchè infermicci continuavano a fermarsi ai Becchi mentre gli altri, provvisti di abbondanti cibarie, somministrate dalla carità del Prevosto, prendevano la volta di Torino, dove si arrivava verso le nove della sera. Per lo più facevano una breve sosta a Chieri, e poi in un sol fiato fino all'Oratorio. Erano stanchi, ma contenti perchè recavano con sè una cara reliquia. Avevano sgretolato qualche po' di calcinaccio o di mattone della cameretta in cui D. Bosco aveva vissuto ne' primi tempi di sua vita, per mandarlo poi alle proprie famiglie.

                D. Bosco ritornato in Torino ebbe una lettera dalla Duchessa di Montmorency e noi rileggendola ricordammo il molto bene che D. Bosco fece eziandio ai giovanetti di nobili famiglie per anni ed anni, visitandoli nei loro palazzi, ammonendoli quando venivano a vederlo, e scrivendo loro efficaci biglietti, dei quali un certo numero fu a noi consegnato. Eccone un saggio.

 

                               Carissimo Ottavio,

 

                Si avvicina il tempo degli esami e mi dici che ti raccomandi a S. Luigi, e fai bene. Abbi soltanto viva fede nella protezione di questo santo, ed io ti assicuro che l'esito dei tuoi esami sarà felice. Non mancherò di pregare anch'io pel medesimo fine.

                In quanto all'aumento di memoria non darti pena: coltiva quella che hai e crescerà; se poi sarà bene all'anima tua un aumento speciale, Dio lo farà. [353] Avrei altre cose intorno a cui discorrere, ma spero che dopo i tuoi esami avremo tempo di fare tra noi una buona chiacchierata intorno a quanto occorre. Domani avvi nell'Oratorio di S. Francesco di Sales Indul. Plen.; fa eziandio di acquistarla. Saluta maman e gli altri di casa; amami nel Signore e credimi

                Torino 28 giugno 1855.

Tuo aff.m o

D. Bosco Giov.

 

                I parenti di questi giovanetti erano felici per l'aiuto che loro prestava D. Bosco nell'educazione dei figli; lo investivano, direi quasi, della loro autorità. Alcuni li conducevano a confessarsi regolarmente da lui e fra questi si videro i Provana di Collegno. A lui acconsentivano con giubilo che li trattasse familiarmente dando loro del tu, ciò che non avrebbero mai permesso ad istitutori o professori, e a chiunque altro non appartenesse a nobile lignaggio. D. Bosco accoglieva pure alcuni come ospiti nel suo Oratorio per settimane e talvolta per mesi. I parenti glieli affidavano, perchè si preparassero bene alla prima comunione, o si esercitassero nello studio di quelle materie scolastiche nelle quali agli esami pubblici erano stati trovati deficienti; si ispirassero alla pietà dei giovani dell'Oratorio e ne imitassero le virtù; ovvero riformassero la loro condotta; e per altri motivi. La riuscita corrispondeva ai loro desiderii. Nel corso degli anni sotto lo stesso tetto si videro raccolti coi figli del popolo il marchesino, il contino, il cavaliere e il barone.

                La Duchessa di Montmorency aveva affidato a Don Bosco due fratelli, suoi protetti, appartenenti a nobile famiglia francese decaduta, che essa educava con affetto di madre e in tempo di vacanze ritirava presso di sè a Borgo Cornalense. Per più di un anno erano stati istruiti [354] nell'Oratorio, e la Duchessa, soddisfatta della loro riuscita, scriveva a D. Bosco una lettera, che noi qui riportiamo tradotta dall'originale francese.

 

                               Signor Abate Bosco,

 

                Voi mi avete prevenuta. Io voleva scrivervi, come faccio colla presente, per ringraziarvi delle cure che vi siete preso dei miei allievi, durante la mia lunga assenza. Io li ho trovati in perfetta stato di sanità, anzi più paffuti e nello stesso tempo fatti più grandi; progrediti l'uno nel disegno, l'altro nella lingua latina; e, ciò che è molto più essenziale, tutti e due hanno molto guadagnato in saviezza, specialmente Luigi. Non litigano più e non si battono. Enrico ha fatto progressi maravigliosi nel disegna ed io ne ringrazio il sig. Tommasini e il sig. Peire della loro attenta sorveglianza. Il mio intendente che vi porta questo biglietto è incaricato di ritirare tutti gli oggetti dei fanciulli, eccettuati i cassettoni, i tavolini e le altre piccole mobiglie delle quali voi avete dovuto fare acquisto per essi. Io voglio ancora, che egli saldi il conto delle spese che, li riguardano.

                La vostra visita, sulla quale io conto, signor abate, sarà preceduta dalla mia che voi avrete lunedì prossimo, se il tempo lo permette, perchè quando piove io non mi pongo volentieri in viaggio. Tutti qui stanno bene e fanno una festa per la vostra apparizione. Questo è il vero motto appropriato per indicare le vostre visite che sono un lampo.

                Aggradite, Sig. Abate, l'assicurazione de' miei sentimenti più, rispettosi.

                Giovedì a sera, 22 ottobre 1855.

 

DE MAISTRE D.SSA LAVAL MONTMORENCY.

 

                Intanto all'Oratorio ritornavano i giovani dalle vacanze, e venivano accettati i nuovi. Fra questi Bongioanni Domenico, fratello del già nominato Giuseppe, che poi costrusse, la chiesa di S. Alfonso in Torino, e Giovanni Bonetti di [355] Caramagna, che divenne insigne nella Pia Società Salesiana e che allora, per la sua età di anni diciassette e per le sue maniere, ebbe subito dai compagni il soprannome di papà

                Sul finire dell'ottobre entrava come pensionante nell'Oratorio un giovanetto di Tortona, il cui gran genio per la pittura e scultura avevano risolto il municipio di quella città ad aiutarlo, affinchè potesse venire a Torino a proseguir gli studii per l'arte sua. Egli aveva fatto una grave malattia in patria; e come fu all'Oratorio sia per essere convalescente, sia per trovarsi lontano dalla patria e dai parenti, sia anche per la compagnia dei giovanetti tutti sconosciuti, se ne stava osservando gli altri a trastullarsi, ma assorto in gravi pensieri. Lo vide Savio Domenico, e tosto si avvicinò per confortarlo, e tenne con lui questo preciso discorso.

                Il Savio cominciò: - Ebbene, mio caro, non conosci ancora alcuno, non è vero? - È  vero, ma mi ricreo rimirando gli altri a trastullarsi.

                - Come ti chiami?

                - Gavio Camillo di Tortona.

                 - Quanti anni hai?

                  - Ne ho quindici compiuti.

                  - Da che deriva quella malinconia che trasparisce in volto; sei forse stato ammalato?

                - Sì, sono stato veramente ammalato; ho fatto una malattia di palpitazione, che mi portò sull'orlo della tomba, ed ora non sono ancor ben guarito.

                - Desideri di guarire, non è vero?

                - Non tanto, desidero di fare la volontà di Dio.

                Queste ultime parole fecero conoscere il Gavio per un [356] giovane di non ordinaria pietà, e Savio continuò: - Hai dunque volontà di farti santo?

                - Questa volontà in me è grande.

                - Bene; ed io ti dirò in poche parole ciò che devi fare. Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore; procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d'oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia serviamo il Signore in santa allegria.

                Questo discorso fu come un balsamo alle afflizioni di Gavio, che ne provò un vero conforto. Che anzi da quel giorno in poi egli divenne fido amico del Savio e costante seguace delle sue virtù.

 

 

CAPO XXX. L'anno scolastico 1855 - 56 - Stima di santità che hanno di D. Bosco gli alunni ed i loro parenti - La consegna della lista dei libri che ogni giovane ha Presso di sè La classe di terza ginnasiale ritirata nell'Oratorio - Letture Cattoliche - Breve Catechismo Per I Fanciulli - Lettera al Can. Vogliotti; servizio di chierici per la cattedrale; giovani raccomandati pel Seminario di Chieri - La solennità dell'Immacolata  Augurii ad una benefattrice per le feste natalizie - I Fratelli delle Scuole Cristiane rimossi dalle scuole civiche.

 

                COL ripopolarsi dell'Oratorio, disse il Can. Anfossi, D. Bosco, disagiato sopra una semplice scranna, ripigliava le sue lunghe ore di confessionale, in chiesa o in camera, benchè si facesse sempre coadiuvare da altri confessori, dall'Oblato D. Dadesso, da. D. Giacomelli e talora dal Teol. Borel e dal T. Marengo. Il preferito però era sempre D. Bosco, e quanti si confessavano da lui diventavano migliori.

                Il Teol. Marengo aveva tale stima di D. Bosco, che, dopo aver confessato un giovanetto per due o tre anni, [358] così lo consigliava: “Ora tu hai bisogno d'una direzione più accurata, e perciò è bene che ti scelga D. Bosco stesso per confessore”.

                Le madri scrivendo ai figli, o visitandoli, loro raccomandavano che si avvicinassero sovente a D. Bosco e andassero a confessarsi da lui; e dicevano: - Egli è un santo e saprà aiutarti! - I giovani studenti erano collocati dai loro genitori in Valdocco, - perchè, ripetevano, è la casa di un santo. - Gli alunni scrivendo a casa confermavano sempre meglio questa fama, sicchè le azioni di D. Bosco si narravano anche in mezzo al popolo, ed erano considerate e giudicate anche da persone probe e dotte, come portentose. E i parenti riscrivevano ai giovani incaricandoli di chiedere a D. Bosco preghiere per la conversione di una persona della famiglia, per l’aggiustamento di qualche affare imbrogliato, per la guarigione di un infermo. Li esortavano eziandio a chiedergli consigli, sia pel loro stato presente, sia per l'avvenire, e gli alunni, i quali conoscevano il suo cuore e la sua prudenza, gli manifestavano le domando dei parenti e le proprie. E D. Bosco ascoltava que' fanciulli colla stessa attenzione, colla quale s'intratteneva coi personaggi più gravi e di importanza. “Quando gli chiedevamo ci disse Pietro Enria, qualche consiglio egli rifletteva seriamente prima dì rispondere, e talvolta se non era sicuro del fatto suo non pronunciava sul momento un giudizio. Quando poi lo pronunciava, eravamo sicuri che era giusto”.

                Ma i giovani erano sopratutto persuasi della sua santitá dall'affetto soprannaturale che loro portava, diffuso egualmente su tutti, studenti ed artigiani Desideroso di far, ogni sforzo anche pel bene di questi, alla sera venivano da lui fatti istruire nel leggere, scrivere e tener conti, [359] mentre egli studiava tutti i mezzi per ritirarli dalle officine della città.

                Anche per gli studenti aveva presa D. Bosco una importante risoluzione. Alla loro entrata si mise in guardia, perchè non entrassero con essi i nemici più terribili delle case di educazione.

                Quindi ordinò che ogni alunno sul principio dell'anno scolastico presentasse al Superiore una lista esatta e da lui sottoscritta di ogni libro che tenesse o avesse portato seco. Tale precauzione era necessaria per assicurarsi che non penetrassero nell'Oratorio opere immorali o proibite dalla Chiesa. Talvolta dopo qualche mese ordinava una seconda lista.

                Non era mai troppa la vigilanza, perchè, anche senza colpa dei giovani, certi parenti per ignoranza involgevano gli oggetti di vestiario in empi giornali. I falsi amici facevano talora ogni sforzo per far giungere ai ricoverati romanzacci e altra lordura di simil fatta. Perciò era con molta attenzione guardato il parlatorio della porteria,,e venivano scrupolosamente visitati i bauli ed i pacchi.

                Chi lungo l'anno avesse ricevuto da casa o acquistate altre opere, senza prima chiedere licenza, doveva presentarle subito perchè fossero esaminate; e poi annotarle nella lista consegnata che era custodita dal Superiore. Se presso un giovane si fosse scoperto un libro celato dolosamente, e in specie se cattivo, non solo era sequestrato, ma s'imputava all'alunno una grave colpa di disobbedienza. Costui non di rado comprometteva la sua carriera, perchè D. Bosco era molto severo coi possessori di tale veleno. Questa disposizione generale entrò forse in vigore questo anno (1855), perchè sotto tale data sono le prime liste che si conservano negli archivi. Abbiamo anche [360] quella di Savio Domenico. Tali costumanze più non cessarono, perchè le pessime letture sono la rovina della moralità e delle vocazioni ecclesiastiche.

                Esaminato adunque l'elenco dei libri presentati dai giovani, ritirati quelli che non facevano per loro, dato, assetto ai laboratori, stabilito il programma degli studi, col principiar di novembre si ordinavano le classi del canto gregoriano. “D. Bosco, afferma il Teol. Piano, il quale amava che tutti lo imparassero, ogni sera veniva ad assisterci nelle singole lezioni”.

                D. Bosco intanto risolvevasi a stabilire le scuole interne nell'Oratorio. Ottime erano quelle del professor Bonzanino per i grammatici, e del Prof. D. Picco per i rettorici; ma l'andata ed il ritorno era pieno di pericoli morali per ciò che vedevano ed udivano i giovani. Procedendo però colla solita prudenza, ai primi di novembre destinò per una scuola la sala della prima cappella; quivi ordinò i giovani appartenenti alla terza classe ginnasiale e loro assegnò per maestro il Ch. Francesia Giovanni, il quale, compiuti i 17 anni, aveva finito in modo splendido, i suoi corsi di latinità. Egli nello stesso tempo avrebbe dovuto proseguire gli studi filosofici, teologici e letterari. Ma D. Bosco conosceva il valore intellettuale e morale del Francesia e anche di altri chierici, che destinava a suo tempo per l'insegnamento. In vari modi li aveva messi alla prova con simultanee e diverse occupazioni; e scherzando faceva loro osservare che i grandi oratori, storici, poeti del popolo romano avevano passata molta parte della loro vita sui campi di guerra, tra i rumori del foro, nelle faccende dello stato, e riuscivano in cose disparate per l'esercizio che perfezionava ogni loro facoltà.

                Quanto al fare la scuola e studiare nello stesso [361] tempo, D. Bosco ricordava la massima di S. Francesco di Sales: - Vuoi imparare? Studia da te con molto impegno. Vuoi imparare molto? Cerca chi ti istruisca. Vuoi imparare moltissimo? Mettiti a far scuola di ciò che vai studiando. - E la splendida riuscita dei maestri di Don Bosco, per l'entusiasmo in questa applicazione, dimostrò la verità di tale assioma. E poi bisognava far così perchè Dio lo voleva.

                Il Chierico Giovanni Battista Francesia, fiducioso nell'aiuto del Signore, pieno di coraggio incominciò le sue lezioni e riesci bene, perchè chi ha imparato ad obbedire sa comandare ed ha l'imperio sulle altrui volontà. Collo spirito di carità appreso da D. Bosco benigno, paziente, seppe amare i fanciulli, farsi amare da essi. Egli ebbe anche la fortuna in quest'anno di aver per discepolo Savio Domenico, il quale per la sua costante sollecitudine nello studio aveva meritato di essere promosso fra gli ottimi.

                Gli studenti di I e II ginnasiale e quelli di umanità e rettorica continuarono a frequentare le scuole private in Torino.

                I chierici dell'Oratorio poi, essendo iscritti nell'albo del Clero Diocesano, andavano regolarmente ad ascoltare le lezioni dei professori del Seminario. D. Bosco aveva chiesto in Curia che ne fosse dispensato il Ch. Francesia, perchè in quelle stesse' ore doveva occuparsi della sua classe di latino; prometteva però che sarebbesi presentato cogli altri compagni a subire gli esami. La Curia rispose non credersi autorizzata a concedere tale dispensa, e che perciò il Ch. Francesia o intervenisse regolarmente alla scuola, oppure si ritirasse dalla carriera ecclesiastica.

                D. Bosco allora disse a què signori: - Ebbene io [362] chiederò questo favore all'Arcivescovo; ma essi abbiano la bontà di non far sapere a Monsignore la nostra difficoltà, prima che io gli abbia scritto. - Promisero e mantennero, e da Lione giunse la sospirata licenza.

                Il Tipografo Ribotta intanto compieva la stampa di quattro fascicoli, destinati pei mesi di Dicembre e di Gennaio. Erano i Trattenimenti intorno al SS. Sacramento dell'Eucaristia per F. Carlo Filippo da Poirino, Sacerdote Cappuccino.

                A quando a quando il buon religioso fa risaltare nel suo scritto l'empietà, la slealtà e l'ingratitudine dei Protestanti verso N. S. Gesù Cristo.

                D. Bosco in questo mentre preparava un Breve Catechismo Pei Fanciulli ad uso della Diocesi di Torino, Preceduto dalle preghiere del mattino e della sera. In quelle della sera fa ripetere tre volte la giaculatoria: Cara Madre Vergine Maria, fate che io salvi l'anima mia! non essendo questa pratica notata nella prima edizione del Giovane Provveduto del 1847.

                Le orazioni erano seguite da un compendio di Storia Sacra in forma di dialogo diviso in 14 capitoletti, gli ultimi dei quali erano intitolati: Il Governo della Chiesa,e Ragionevolezza della fede cristiana; quindi davasi un sunto di catechismo per quelli che si dispongono a ricevere i tre sacramenti, cresima, confessione e comunione, diviso in nove lezioni. In fine disponeva il piccolo catechismo della diocesi, ove al 4. comandamento della legge di Dio aggiungeva le parole: acciocchè tu viva lungamente sopra la terra.

                Ultimato il suo lavoro, mandava il manoscritto al Caponico Vogliotti, Rettore del Seminario e Provicario diocesano con una sua lettera. [363]

 

                               Ill.mo e M. Rev.do Signor Rettore,

 

                Domani manderò il Ch. Reviglio con un compagno pel servizio di S. Giovanni. Dimandi pure liberamente e farò sempre quel che posso per compiacerla.

                Ricevo fr. 24 Oblazione pel giovanetto Cumino. Ho pure il piacere di sentire il savio parere di Lei e del Sig. Can. Fantolini sul Catechismo.

                Il giovane Ellena andrebbe di buon grado nel Seminario di Chieri piuttosto che in quello di Genova, ma la difficoltà è nella pensione. Il giovane è buono e la costante e regolare ed esemplare condotta fa sperar bene di sè. Se può coadiuvarlo, almeno per questi due anni, che il fratello Ch. è tuttora in Seminario, e favorirlo della piccola pensione, esso si vestirebbe da chierico, e andrebbe immediatamente dove V. S. sarebbe per mandarlo.

Con rispetto e gratitudine me Le offro in quel che posso

                Di V. S. Ill.ma e M. R.

 

Obb.mo Servitore

Sac. GIOVANNI Bosco.

 

                Il Can. Vogliotti, revisore arcivescovile, il 3 dicembre 1855 per delegazione di Mons. Arcivescovo approvava il Breve Catechismo di D. Bosco, facendovi alcune poche correzioni che vennero fedelmente eseguite. Non era stata ammessa anche questa volta la sostituzione della parola persona a quella di donna nel nono comandamento, perchè non si voleva mutare una dicitura adottata da anni dall'autorità ecclesiastica.

                Con questo catechismo Don Bosco faceva stampare 8000 copie di una coroncina in onore dell'Immacolata, di 4 paginette in16 dal Tipografo De Agostini, coroncina, che poi inseriva nel Giovane Provveduto. Contemporaneamente erano per lui litografate 1000 immagini dell'Immacolata [364]; e la festa dell'8 dicembre fu solenne quanto il suo cuore la desiderava.

                Intanto l'imminenza delle feste natalizie ricordavagli il dovere della gratitudine verso i benefattori de' suoi giovanetti e fra gli altri scriveva alla benemerita Signora Marchesa Fassati Maria che allora si trovava a Borgo.

 

                               Ill.ma Signora Marchesa,

 

                I poveri giovani ricoverati nella casa dell'Oratorio di San Francesco di Sales per mezzo mio ringraziano V. S. Ill.ma del pane che nella sua carità ha voluto loro somministrare e si uniscono a me per augurarle copiose benedizioni dal cielo nelle prossime solennità del Santo Natale.

                Per dimostrare la comune nostra gratitudine siamo d'accordo come segue: lo celebrerò la messa di mezzanotte secondo le intenzioni di Lei, i giovani l'ascolteranno pel medesimo fine. Ella adunque riparta come giudicherà meglio una messa solenne applicata per Lei e circa quattrocento (credo di più) messe udite. Offra al Sig. Marchese Fassati ed al Sig. Conte e famiglia De Maistre quella porzione che bene giudicherà.

                Io li raccomando tutti a Gesù Bambino ed all'Immacolata sua Madre; Ella poi non manchi di pregare per me, onde possa in ogni cosa fare la santa volontà di Dio. Così sia.

                Torino, 22 dicembre 1855.

 

Obl.mo Servitore

Sac. Bosco G.

 

                Senonchè la gioia delle feste natalizie era stata turbata da nuovi pericoli che sovrastavano alla buona educazione della gioventù in Torino. Il 27 dicembre 1855 il Municipio toglieva ai Fratelli delle Scuole Cristiane le scuole civiche, benchè si fosse riconosciuto che essi erano esattissimi nel loro dovere. Fra i pretesti per legalizzare [365] questo affronto, forse non fu estraneo il fatto di Racconigi. Quivi gli Ignorantelli tenevano un collegio e a qualche alunno avevano distribuito il libro del Barone di Nilinse col titolo: I Beni della Chiesa come si rubino e quali siano le conseguenze, pubblicato dalle Letture Cattoliche. Per questo delitto il Ministro sopra la pubblica istruzione aveva subito ordinato al Sindaco di Racconigi di togliere l'incarico dell'insegnamento ai Fratelli, avvertendolo che altrimenti il collegio sarebbe stato chiuso.

                I Fratelli furono adunque congedati dalle scuole civiche, e se questi buoni religiosi rimasero in Torino a educare i figli del popolo, si fu perchè la Direzione della Mendicità Istruita li mantenne in quelle da essa dipendenti.

                Intanto preti spretati, frati apostati, ecclesiastici rivoltosi contro i loro Vescovi, incominciavano ad ottenere la nomina di Presidi o Direttori di Collegi, e a sedere sulle cattedre come professori e maestri.

 

 

CAPO XXXI. D. Bosco e i suoi alunni - Mirabili mutazioni di costumi -Conversione di un piccolo incredulo - Predizione avverata che trionfa di un cuore ostinato.

 

                I MESI di novembre e dicembre erano da Don Bosco tutti impiegati nel preparare il suo campo nell'Oratorio, acciocchè poi lungo l'anno germogliassero nei cuori le semenze delle più elette virtù. Egli stesso accoglieva i giovani, studiava di guadagnarsi il loro affetto e tutta la loro confidenza, li induceva ad una buona confessione; e le anime si aprivano a lui come i fiori in sul mattino all'apparire del sole. In questi mesi con speciale premura non stancavasi di vivere quanto poteva in mezzo a' suoi cari figliuoli, per renderli risoluti nella via del bene.

                Ed era mirabile l'azione della grazia divina che accompagnavalo sempre. Quanti giovani buoni ed innocenti colla frequente comunione parevano emulare S. Luigi nella purità della vita! Quanti, che nei loro paesi erano caduti nei lacci del demonio, riformavano interamente la loro condotta e nella pietà gareggiavano coi primi! La virtù del sacramento della penitenza era evidente. Giovani [367] disgraziati per inveterate abitudini, alla prima confessione fatta nell'Oratorio, sentivansi come rinati e liberi, anche per anni, da ogni tentazione! Guai però se abusando della grazia si gettavano in qualche pericolosa occasione. Ciò noi abbiamo conosciuto dalla confidenza di molti e molti. Vi erano poi di quei poveretti imbevuti dello spirito anticristiano del mondo, accettati da Don Bosco in prova e talvolta entrati con menzognere raccomandazioni. In essi, la malizia talora superava l'età. E D. Bosco? D. Bosco non precipitava una decisione, si armava di un solerte spirito di sacrificio e prudentemente si adoperava per trarre a Dio quelle anime. E più volte la sua carità ottenne il premio. Egli soleva ragionare. “Siccome non v'è terreno ingrato e sterile che per mezzo di lunga pazienza non si possa finalmente ridurre a frutto, così è dell'uomo; vera terra morale, la quale per quanto sia sterile e restìa, produce nondimeno tosto o tardi pensieri onesti e poi atti virtuosi, quando un direttore con ardenti preghiere aggiunge i suoi sforzi alla mano di Dio nel coltivarla e renderla feconda e bella. In ogni giovane anche il più disgraziato avvi un punto accessibile al bene e dovere primo dell'educatore è di cercar questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto”

                Abbiamo già fatto varie volte cenno qua e là in queste memorie di tale sua perspicace attenzione, e nello stesso tempo di sua ammirabile e circospetta longanimità; e qui ne diamo un'altra prova. D. Bosco un mattino dalla chiesa saliva in sua camera; sul poggiuolo incontrò un signore che lo attendeva. Al suo fianco stava un giovanetto, vestito pulitamente, di graziosa fisonomia, con occhi vivaci che palesavano un'intelligenza non comune. Entrato in camera, quel signore venne introdotto e il giovanetto. [368] rimase appoggiato alla ringhiera del balcone, osservando la ricreazione animata degli alunni in cortile. Quel signore intanto diceva a D. Bosco: - Ha visto quel giovane che ho condotto con me?

                - Sì; l'ho visto e mi ha fatto piacere il vederlo, perchè mi pare di carattere aperto.

                - Ebbene: quel giovane è mio figlio, ma se lei sapesse quanti dispiaceri mi cagiona!

                - Possibile?

                - Ascolti: prima l'ho collocato nel collegio di C... e poi in quello di R... Non so come sia andata la cosa, ma le so dire che è divenuto tanto cattivo, che io non so più come fare a mutare i suoi sentimenti. Ha letto di tutto, ha visto di tutto, parla di ogni cosa senza riguardo, e ne ha fatte di ogni colore. Specialmente contro la religione nutre un astio del quale non so darmi spiegazione, perchè in famiglia la religione è rispettata e praticata. Ma vi è d'altro ancora. Tornato dal collegio in paese per le vacanze autunnali, entrò in casa e non salutò nè padre nè madre e uscito dopo pochi istanti andò difilato al caffè vicino e si mise a giuocare al bigliardo e poi ai tarocchi. Li stette fino a notte avanzata... Non vuole udire osservazioni, risponde insolentemente, rifiutasi con franchezza di obbedire, disprezza le pratiche di pietà e non vuol saperne di chiesa. Io e sua madre siamo desolati. Non sappiamo a quale partito appigliarci. Le misure di rigore, ne siamo certi, non serviranno che ad irritarlo. Come fare adunque? Oh D. Bosco! Io le ho esposto sinceramente lo stato lagrimevole di mio figlio. Ci aiuti lei! Abbiamo pensato che solamente D. Bosco potrebbe riuscire a fargli un po' di bene. Tenti una prova! Se avesse la bontà di riceverlo in mezzo agli altri suoi figliuoli, chi sa che ciò [369] non potesse ricondurlo sulla buona strada. Gli avvisi suoi, gli esempi de' compagni potrebbero influire sopra il suo animo pervertito. Lo accetterebbe?

                D. Bosco per qualche momento rimase pensoso, mentre quel signore lo guardava con viva ansia, e disse finalmente: - Quanti anni ha?

                - Quattordici anni appena, rispose il padre. - Don Bosco riflettè ancora; e poi rispose sorridendo:

perchè no?

                - Oh sì, D. Bosco, faccia la prova lo pago quanto fa di bisogno: non guardo a spesa; con quest'opera di carità renderà felice un povero padre e una povera madre, che si trovano oppressi, da un dolore che non si può immaginare.

                - Ebbene! volentieri! Ma il suo giovanetto vorrà fermarsi qui?

                - In quanto a questo ne lasci la cura a me. Ora glielo presenterò; lo interroghi, gli parli, e quindi io gli farò la proposta. -Quel povero padre allora fece entrare il figlio, il quale si presentò a D. Bosco con disinvoltura, che dopo alcune parole divenne amorevolmente espansiva. D. Bosco non gli fece alcun cenno di ciò che più gli stava a cuore, cioè dell'anima sua, ma prese a parlargli di varie cose che prevedeva avrebbero incontrato il suo genio, e con quell'attrattiva che era tutta sua propria, seppe interessarlo in modo che ne rimase incantato. Rise, interrogò, raccontò e rimase preso di affetto per D. Bosco.

                Nell'uscire il padre gli disse: - Ebbene, figlio m io, ti piace D. Bosco?

                - Se mi piace? Mi ha parlato di tante belle cose! Ne ho visti pochi uomini buoni ed amorevoli come lui! Quanto è diverso dagli altri preti che ho conosciuti in quei convitti! E poi non mi ha detto una sola parola [370] di religione. Davvero che sono rimasto contento d'avergli parlato. - Cosi continuarono ancora quel dialogo per qual che istante, e il padre, vedendo che Don Bosco aveva fatta tanta impressione su di lui, uscì a proporgli il progetto che meditava; e gli disse: - È  necessario che tu non interrompa gli studi. In paese non abbiamo le scuole che ti convengono. Dal collegio, dove quest'anno ti avevo messo, mi hanno scritto non avere più alcun posto per te. Or bene, dimmi, ti piacerebbe questo collegio? saresti contento di stare con D. Bosco?

                - Per me non avrei difficoltà.

                - E se io davvero ti mettessi qui con D. Bosco?

                - Per parte mia non ho niente in contrario... anzi... però a tre condizioni.

                - Sentiamo.

                - La prima che non mi parlino mai di confessione la seconda che io sia dispensato dall'andare in chiesa, perchè non vi voglio metter piede; la terza di poter fuggire quando voglio! Altrimenti no.

                Il padre storse un po' le labbra; ma conoscendo con chi aveva da fare, non  credette opportuno opporsi a simile programma. Rientrò pertanto da D. Bosco, e, temendo, una ripulsa, fece note con esitazione le condizioni poste dal figlio. D. Bosco le udì senza punto scomporsi, e sorridendo gli rispose: - Ebbene: dica a suo figlio che accetto. - Il padre era fuori di sè per la contentezza, e lasciò il figlio all'Oratorio esso pure soddisfatto. D. Bosco prese a trattarlo, con tutta bontà, come se fosse uno degli alunni migliori, ma senza dirgli una sola parola di religione, conoscendo che in quel momento sarebbe stato inutile. Tuttavia quel disgraziato, avendo occhi ed orecchie, era costretto a vedere i santi esempi de' suoi [371] compagni e udire i sermoncini della sera e altre ammonizioni che D. Bosco indirizzava alla comunità. Nella prima settimana, quando la campana suonava per andare in chiesa, il giovanetto si ritirava a passeggiare sotto i portici e talora cantarellando canzoni profane.

                Ma siccome nessuno lo rimproverava o invitavalo a stare alla regola, incominciò ad essere quasi stizzito per la noncuranza che parevagli dimostrassero gli altri per i fatti suoi; ed anche a provare noia per la solitudine alla quale egli condannavasi in quell'ora. Quindi, anche per curiosità, si risolse di entrare in chiesa. Senza fare atto di riconoscere la santità del luogo, si piantò in piedi in un angolo e osservava i compagni che pregavano, il confessionale attorniato da penitenti e coloro che andavano alla santa comunione. - Imbecilli! brontolava a voce sommessa, ma in modo che qualcuno l'udì: Imbecilli! - Egli a questo modo voleva dimostrarsi di spirito indipendente e fors'anco cercava ribellarsi ad un nuovo sentimento che faceasi strada nel suo cuore, e al quale voleva resistere ad oltranza. Così la cosa procedette per un po' di tempo, continuando egli ad andare in chiesa, ma sempre con un contegno indifferente o sprezzante. Alcuni giovani però, fra i più adulti della compagnia di S. Luigi e fra i più sodi in virtù, se l'avevano preso in mezzo conversando e giocando con lui per farselo amico e per tenerlo isolato da chi avrebbe potuto riceverne scandalo. D. Bosco intanto pregava, e faceva pregare per lui.

                I consigli dei nuovi e leali amici, alcune di quelle parole di Don Bosco che lasciavano nel suo cuore una incancellabile traccia, a poco a poco lo fece rinsavire. Aveva posto tanto amore in D. Bosco, che gli sembrava di non poter vivere senza di lui. Incominciò a ragionare fra sè: [372]

                - I miei compagni vanno in chiesa, si confessano, si comunicano e sono tanto allegri e si divertono tanto di cuore! Ed io... - Riflettè seriamente, risolse, andò in chiesa con quelli della sua classe e pregò.

                Ed ecco un giorno lo si vide avvicinarsi a poco a poco al confessionale ove era D. Bosco, ed inginocchiarsi. Viene il suo turno e si confessa, quindi si ritira dal confessionale come trasfigurato e gli occhi aveva pieni di lagrime. La sua fisionomia naturalmente molto bella, aveva presa un'espressione tale, che sembrava quella di S. Luigi. Ritornato in chiesa al suo posto, pregò a lungo, si confessò ancora due o tre volte e finalmente si comunicò con molto fervore.

                Da quell'istante egli divenne un alunno fra i più esemplari.

                Altro caso simile aveva suo epilogo sul finire del mese di dicembre. Un alunno studente era ritornato dalle vacanze autunnali, le quali avevano recato danno notevole a' suoi costumi. Quanto era cambiato da quel di una volta! Don Bosco, esauriti tutti i mezzi che gli seppe suggerire il suo zelo, dovette scrivere al padre dolorose notizie.

 

Torino, 17 dicembre 1855.

 

                               Preg.mo Signore,

 

                Gli anni scorsi Le scrivevo per darle buone nuove di Giovannino; questa volta per darne delle cattive. Dacchè venne, dalle vacanze io non ne ho più potuto cavare alcun costrutto.

                Non vuole più saperne di divozione; al mattino non è più possibile a farlo levare di letto, e quando si leva non va in chiesa, esce di casa senza licenza, nella scuola si fa poco onore: e quello che è più non dà più ascolto ai miei avvisi. - Insomma io lo veggo ad un punto di dare gravi dispiaceri a me e gravi disgusti a Lei. [373] La lettura di quei tali giornali nel corso delle ultime vacanze gli hanno guastata la testa e Dio voglia che non gli abbiano guastato il cuore. Provi a scrivergli una lettera in cui lo rimproveri della sua cattiva condotta; che se egli non si correggesse io mi troverei nella spiacevole circostanza di non poterlo più tenere in casa. Ho stimato bene di prevenirla prima che le cose diventino peggiori.

                Caro signore! Se sapesse qual tristo seme siano le cattive letture nel cuore della gioventù! Non mancherò di fare quel poco che posso per suo figlio. Raccomandiamo ogni cosa al Signore, e mi creda quale mi dico rispettosamente

 

Dev.mo Servitore

Sac. Bosco Gio.

 

                Fu recapitata al giovane una lettera del padre, nella quale gli erano fatti serii rimproveri e gravi ammonizioni, ma il figlio non ne fu punto commosso. Si aggiunse a suo carico che nella lista, che dovette dare dei libri recati con sè al principio dell'anno ne aveva ommessi alcuni dei più pericolosi per l'inesperta età. Conosciuto il suo malizioso inganno, D. Bosco riscriveva al padre:

 

                               Car.mo Signore,

 

                La sua lettera unitamente a quanto ho saputo dire al figlio Giovanni non fecero alcuna impressione sopra di lui. L'ho fatto venire qui in mia camera in questo momento e gli ho detto quanto ho saputo. Egli tace e dice niente, o mi dice una serie di bugie. Ha letto i libri più sconci e proibiti per cui s'incorre nella scomunica; e ciò anche in tempo di messa e di predica.

                Domani 24 dicembre dice che va a casa; conchiuda ciò che vuol fare; io non posso più tenerlo in casa. Il suo professore mi ha mandato a dire che non l'accetta più nella scuola se non accompagnato da una lettera. Le ragioni sono che studia poco e spesso manca da scuola. [374] Mi rincresce molto a darle queste notizie, ma non voglio ingannarlo. Se in qualche cosa gli posso essere utile conti pure sopra di me che di tutto cuore mi dico sempre

                Torino, 23 dicembre 1855.

 

Dev.mo Servitore

Sac. Bosco Gio.

 

                Questo caso sembrava disperato, eppure tale non fu. Nell'Oratorio si viveva, e tutti ne erano persuasi, in un ambiente nel quale il sovrannaturale divino aleggiava in modo sensibile. Infatti il 24 dicembre compievasi una predizione, che D. Bosco aveva annunziata circa due anni prima, e che aveva tenuti continuamente sospesi gli animi di tutti gli alunni in aspettazione del suo adempimento. Nessuno poteva sottrarsi all'evidenza del fatto. Ne parleremo nel capo seguente. Il nostro giovane ne provò una stretta violenta e salutare; chiese perdono, pregò D. Bosco, e fu ritenuto nell'Oratorio. Quindi mutò interamente condotta, e attenne.

 

 

CAPO XXXII. I sogni di D. Bosco giudicali da D. Cafasso Il sogno delle 22 lune -Morte di Gurgo Secondo Divozione di D. Bosco per le anime del Purgatorio Morte di Gavio Camillo - Avveramento di altre predizioni sulla fine di varii giovani.

 

                I GIOVANI dell'Oratorio erano di già persuasi che Don Bosco avesse ricevuti dal Signore doni spirituali straordinarii. Aveva egli, fra le altre cose, predetta la morte di parecchie, persone ed altri avvenimenti contingenti ed umanamente imprevidibili. Ma nell'anno 1854 rimasero sempre più impressionati, quando incominciò ad esporre sogni che si possono realmente definire come celesti visioni, perchè in questi Iddio faceva vedere a D. Bosco, quello che voleva da lui e dai giovani e sovratutto ciò che occorreva al bene spirituale dell'Oratorio. D. Bosco annetteva a questi sogni grande importanza, temperata però da una sincera umiltà, essendo evidente che nel parlarne ai giovani non cervava per sè gloria di sorta; anzi nell'esordire in tali narrazioni, per allontanare da sè ogni ombra di merito e di privilegio, sceglieva sempre fra due pensieri il più ordinario e il meno proprio [376] a farle risaltare, e sovente ricorreva a qualche descrizione giocosa e palliava i punti più brillanti, che si presentavano però naturali e spontanei in chi l'udiva.

                Ma la loro importanza D. Bosco la dimostrava coi fatti, giacchè egli in questi casi non risparmiava fatica alcuna come predicare, confessare, dare udienza, anche ad uno ad uno dei giovanetti, che andavano a domandargli conto di ciò che aveva saputo sul loro presente o sul loro, avvenire. L'effetto immancabile di tali racconti era un salutare orrore al peccato, quale non avrebbe incusso un corso di esercizi spirituali. Tutti si confessavano con particolare compunzione, molti facevano la confessione generale, e le comunioni erano assai più frequenti, con indicibile vantaggio delle anime. E non poteva essere altrimenti vedendo avverate predizioni colle scrutazioni dei cuori.

                “Tuttavia, ci disse una volta D. Bosco, parlandoci in confidenza d'amico, nei primi anni io andava a rilento, nel prestare a que' sogni tutta quella credenza che meritavano. Molte volte li attribuiva a scherzi di fantasia. Raccontando quei sogni, annunziando morti imminenti, predicendo il futuro, più volte era rimasto nell'incertezza, non fidandomi dì aver ben compreso e temendo di dire bugie. Talora dopo aver parlato non sapeva più ciò che avessi detto. Perciò alcune volte mi confessai a D. Cafasso di questo, secondo me, azzardato parlare. Il santo prete mi ascoltò, pensò alquanto e poi mi disse: - Dal punto che quanto dite si avvera, potete star tranquillo e continuare. - Però solo anni dopo quando morì il giovane Casalegno e lo vidi nella cassa sopra due sedie nel portico, precisamente come nel sogno, e seppi dell'impegno nel quale erasi messo D. Cagliero di impedire l'avveramento [377] della cosa senza riuscirvi, allora più non esitai a credere fermamente che que' sogni fossero avvisi del Signore”.

                Di questo sogno ne parleremo a suo tempo; ora ripigliamo il filo.

                Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retrosagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo.

                Il sogno fu questo: - Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell'interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell'arnese da carnevale: ma ecco mentre Varia si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi aveano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; da' suoi omeri pendeva una coltre funebre. M'incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto [378] di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice: -Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienlo d'occhio e preparalo! - Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più nol vidi. Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!

                Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non potè a meno di notarlo e proseguì: - Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È  un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d'occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.

                Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perchè stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava: Quante lune vi sono ancora? - E gli veniva risposto: - Venti, diciotto, quindici, ecc. - Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato [379] come studente nell'Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.

                Finì l'anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l'ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell'antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l'aveva raccomandato a D. Bosco perchè lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei, soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l'anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta de' suoi assistiti, con particolare premura. Nell'ottobre lo chiamò a sè e gli disse: -Dove dormi tu?

                - Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero; e di là assisto le altre due.

                - E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?

                - Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po' di umidità: si avvicina l'inverno e potrei prendermi qualche malanno. D'altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.

                - Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.  [380] Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse: - Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.

                Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco: - Quanti siete nella tua nuova stanza?

                Rispose: - Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.

                - Bene, disse D. Bosco; va bene: siete, tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. - E null'altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli: - Il perchè lo saprai a suo tempo. - Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.

                Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell'Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perchè le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l'avveramento.

                D. Bosco in que' giorni aveva chiamato a sè ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità ne' suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perchè siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse. [381] Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicchè Gurgo potè levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poichè, non essendo ancora morto alcuno all'Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressochè guarito contava d'andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l'aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta ed ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l'indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perchè si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po' di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo -più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l'infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l'infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l'assistente: - Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.

                - Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.

                - Io non vado più a casa: non parto più. Prega per [382] me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.

                - Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS.

                Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno  si addormentò. Ed ecco all'improvviso l'infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perchè già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.

                Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell'aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.

                Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune. - Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno! - Quindi soggiunse ancora: -Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocchè potesse continuamente vigilar su di lui. E l'assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un'altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perchè io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perchè Gurgo avesse un custode. Se egli fosse [383] ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.

                “Io, scrisse Mons. Cagliero, intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l'importanza, delle sue parole e dè suoi paterni avvisi”.

                “La sera, vigilia di Natale, narra Enria Pietro, mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse:  il primo giovane che muore nell'Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…..- E non potè più parlare perchè il suo cuore era troppo addolorato. La morte avevagli rapito un figlio”.

                Essendo Gurgo il primo alunno morto nella casa, dal giorno che era stato fondato l'Oratorio, D. Bosco volle fargli un funerale onorevole, benchè con pompa mediocre[16]. In questa occasione D. Bosco trattò col Parroco di Borgo Dora, per intendersi sui diritti parrocchiali, qualora altri giovani fossero chiamati all'eternità. Egli prevedeva con certezza altre morti, alle quali pare che accennasse chiaramente il sogno, benchè non ci consti che [384] desse di tutte avviso agli alunni. D. Gattino usò cortese deferenza verso l'Oratorio nello stabilire le condizioni per il trasporto dei nostri defunti, fissando il costo delle varie classi di funerali, e concedendo agevolezze in quelle spese, che non sui parenti, ma sopra D. Bosco avessero gravato.

                Nelle feste del Natale intanto D. Bosco raccomandava caldamente ai giovani interni ed esterni, che le molte comunioni avessero per fine i suffragi per l'anima del povero Gurgo.

                D. Bosco ardeva di una tenerissima carità verso le anime del purgatorio. Alla morte di un giovane, o di un benefattore o amico della casa, ordinava tosto preghiere pubbliche, comunione generale, recita di una terza parte di Rosario, la celebrazione di un modesto funerale e l'applicazione della messa della comunità in loro suffragio Faceva recitare per i defunti preghiere speciali tutti i giorni, nell'esercizio mensile di buona morte, nell'ultimo giorno di carnevale. La sera di Ognissanti in chiesa, egli assisteva in mezzo ai giovani alla recita del Rosario intiero e sovente la guidava; e il 2 novembre celebrava un ufficio funebre per tutti i fedeli defunti. Raccomandava ai giovani in loro favore l'Atto eroico di carità. Occorrendo una festa in cui si potesse lucrare indulgenza plenaria applicabile alle anime purganti, non mancava mai di notarla. Animava gli infermi e gli afflitti a soccorrere quelle povere anime, coll'offrire per esse a Dio le loro tribolazioni; ed egli offriva le proprie unite a continue preghiere. Quando qualche giovane o altra persona domandavagli un consiglio in modo generico, egli soleva dire: - Fate una comunione o recitate una terza parte del Rosario, o ascoltate la S. Messa in suffragio di [385] quell'anima del purgatorio a cui manca solo il merito di questa opera buona - per soddisfare alla divina giustizia e volare al paradiso. - Queste o altre pratiche di pietà per lo stesso fine ei consigliava, anche non richiesto. La sua fede era vivissima nell'esistenza del Purgatorio. Nelle istruzioni religiose e nei discorsi famigliari si studiava sovente di dare ai giovani un'idea esatta della credenza delle pene del purgatorio; e le descriveva con tanta vivezza di colori, che ispirava in tutta l'udienza una profonda compassione e un caldo desiderio di pregare e patire in suffragio delle anime purganti. Di ciò D. Rua, D. Turchi, D. Francesia, D. Cagliero, tutti insomma ne sono testimonii fin dai primordi dell'Oratorio.

                Seppellito Gurgo, un altro giovanetto era chiamato da Dio all'eternità. Gavio Camillo, nei due soli mesi che visse all'Oratorio, aveva edificati i compagni con un'insigne pietà. Ma la sua malattia antica ricomparve e malgrado le sollecitudini dei medici e degli amici non le si potè più trovare rimedio. Savio Domenico andò più volte a visitarlo e si offerse di passare le notti vegliando presso di lui, sebbene non gli venisse permesso. Dopo alcuni giorni di peggioramento e dopo aver ricevuti con grande edificazione gli ultimi sacramenti, assistito da D. Bosco, rendeva l'anima sua al Creatore il 29 dicembre 1855.

                Quando Savio Domenico seppe che l'amico era spirato, volle andarlo a vedere per l'ultima volta, e mirandolo estinto, commosso gli diceva: - Addio, Gavio, io sono intimamente persuaso che tu sei volato al Cielo; perciò prepara anche un posto per me; io ti sarò sempre amico, e finchè il Signore mi lascierà in vita, pregherò pel riposo dell'anima tua. - Dopo andò con altri compagni a recitare l'ufficio dei morti nella camera del defunto, e si [386] fecero altre preghiere lungo il giorno; quindi invitò alcuni dei più buoni condiscepoli a fare la santa comunione, ed egli stesso la fece più volte in suffragio del caro amico.

                D. Bosco nel registro degli alunni a fianco del nome di Gavio scrisse: Morì in odore di singolar virtù. Da indizii da noi raccolti, certi, benchè non precisati, pare che anche di questo giovanetto D. Bosco abbia preavvisata la morte. Più modesti che per Gurgo furono i suoi funerali[17].

                Oltre la suddetta profezia altre di simil genere furono da D. Bosco annunciate. “Dal 1854 al 1860 parecchie volte, affermò il Can. Anfossi, D. Bosco dopo le orazioni della sera tenendo il solito discorsetto ebbe a dire: - Fra poco (e alle volte determinava il tempo p. e un mese) uno di quelli che sono qui andrà a rendere conto al Signore della sua vita. - È  incredibile quanto grande era l'impressione che queste parole facevano sull'animo nostro, non potendo noi menomamente sospettare a chi si riferisse tale avviso, non essendovi malati in casa; e di più già conoscevamo per esperienza che tale annunzio, altre volte fatto, erasi avverato. Il Cav. Domenico D. Morra Canonico della Cattedrale di Pinerolo, mio compagno nell'Oratorio, da me interrogato confermò pienamente queste profezie”. [387]

                Dal 1860 oltre al 1880, si può dire che quasi ogni mese, annunziando l'esercizio di buona morte, D. Bosco soleva fare simili predizioni; ma narrando con tale precisione le circostanze di quelle morti future da far meravigliare quelli che ne vedevano il pieno avveramento. Il nome di alcuni di questi giovani defunti fu dimenticato; di alcuni sogni verificati i singoli casi e le singole circostanze o non furono scritte, essendo cose consuete, o se ne perdettero in tanti anni i documenti. Però in una sua nota, dice D. Berto Gioachino: “Egli predisse, assai prima che accadesse, la morte di quasi tutti i giovani dell'Oratorio, notando il tempo e le circostanze del loro passaggio all'altra vita. Una volta o due ne avvertì chiaramente il giovane. Sovente lo fece custodire da qualche buon compagno; talora ne disse in pubblico le iniziali del nome. Queste predizioni, per quanto ricordo, posso assicurare che ebbero tutte il loro pieno compimento. Qualche rarissima eccezione vi fu, ma tale che servi di conferma dello spirito profetico di D. Bosco. Io D. Berto testimonio oculare ed auriculare scrivo queste cose”.

 

 

CAPO XXXIII. D. Bosco provvede le diocesi di clero.

 

                Il 1855 lasciava dietro di sè una colluvie di mali che sembravano senza rimedio. Infelici erano le condizioni del Clero in Piemonte. Centinaia di chierici avevano gettato alle ortiche le vesti talari. Le diocesi o erano state private di seminarii, o questi erano quasi deserti. L'irreligione, il mal costume, la falsata educazione, l'odio eccitato dalla stampa contro le autorità ecclesiastiche, i preti pubblicamente vilipesi, taluni di questi gettati in prigione, altri mandati a domicilio coatto, l'abbattimento universale dell'animo de' buoni, una certa diffidenza sparsa nel cuore delle famiglie, la quale ripugnava dal permettere che i loro figli si avviassero per la strada del Santuario, avevano talmente diminuite le vocazioni fra i giovani che nessuno o ben pochi aspiravano alla carriera ecclesiastica.

                Quando Rua Michele, nel 1852, indossava la veste clericale, i chierici in Torino erano diciassette. Nel tempo del primo suo corso di filosofia due soli frequentavano con lui la scuola del Seminario; nel secondo anno ebbe un solo condiscepolo. [389] Per colmo di mali, varie diocesi delle più importanti erano prive del loro Pastore, e altri Vescovi non possedevano i mezzi per provvedere gratuitamente al mantenimento e all'istruzione di un certo numero di giovani, che o potevano essere restii alla chiamata, o che dovevano essere messi alla prova e quindi scelti fra molti.

                D. Bosco però nella sua mirabile prudenza aveva fin dal principio della rivoluzione previsto quale vuoto si sarebbe immancabilmente prodotto nel clero secolare, tanto più che la legge di soppressione dei conventi dava anche un colpo terribile ai sacerdoti religiosi. Provvedere alla penuria di vocazioni sembrava adunque un'impresa umanamente impossibile. Ma egli sentiva in sè avergli Dio affidata la missione di provvedere ai bisogni urgentissimi della sua Chiesa, e non esitò. Abbiamo già visto come da più anni, con improbe fatiche e senza darsi requie, si adoprasse a conservare e promuovere le vocazioni allo stato ecclesiastico. Egli però vedeva la necessità di associare all'opera sua l'azione dei Vescovi e dei parrochi.

                Nel 1852, nel mese di ottobre, D. Bosco raccomandava al Vescovo di Biella un giovinetto suo diocesano perchè lo accogliesse nel suo piccolo Seminario, dando egli speranza di buona riuscita nella carriera ecclesiastica. Il Vescovo gli rispondeva allegando i motivi pei quali in quel momento non poteva dare risposta affermativa; diceva però: “Sempre riti interessano assai li suoi e li miei biricchini e mentre ella fa opera santa nell'iniziarli al retto vivere, io vorrei pure aiutarla a spingerli fino all'apice d'una carriera onorevole per loro, e massime ove fosse utile alla Chiesa”.

                Nel 1853 D. Bosco scriveva al Vescovo di Cuneo Mons. Clemente chiedendogli licenza di far vestire l'abito [390] clericale al giovane Luciano, e il primo ottobre così rispondevagli quel Prelato:

                “Sebbene un poco a malincuore stante il bisogno in cui si trova questa povera diocesi di buoni Ecclesiastici e la mancanza ognor crescente di vocazioni, tuttavolta per far piacere a V. S. Carissima e ad oggetto di procurare la maggior gloria a Dio e il bene delle anime, io non farò difficoltà di lasciarle il futuro chierico Luciano. Con che però sia vestito dell'abito clericale e prosegua nella carriera ecclesiastica per conto di questa diocesi e mi riserbo di inviarle la delegazione di benedirgli e imporgli l'abito quando ella siasi intesa coll'arciprete di Bernezzo al quale scrivo con questo ordinario nel senso sopra espresso”.

                Sul finire del 1854 Lorenzo Renaldi, Vescovo di Pinerolo, mandava a D. Bosco due poveri giovani destinati pel suo Seminario: il Chierico Cavalleris Gio. Battista e lo studente Gora Giuseppe colla licenza di vestir l'abito clericale. “Le ristrettezze del Seminario, scriveva quel Vescovo il 24 ottobre, e i pesi che per altri mi sono già addossato non mi consentono di tenerli in Seminario ad intero mio carico; il perchè ringrazio lei, mio caro signore, della buona disposizione che ha manifestato”.

                Nel 1855 D. Bosco si rivolgeva ad alcuni parrochi acciocchè aiutassero con qualche sussidio un loro parrocchiano candidato per la carriera ecclesiastica e scriveva al Sig. Teologo Appendino arciprete di Caramagna:

 

Torino, 8 giugno 1855.

                               Ill. e molto Rev.do Signore,

 

                Già da qualche giorno meditava di scrivere a V. S. Ill.ma intorno al giovane Fusero Bartolomeo suo parrocchiano, quando [391] il Teol. Valfrè sopraggiunse a darmi eccitamento partecipandomi essere V. S. propensa pel medesimo oggetto.

                Le dico pertanto che questo giovane è veramente deliberato di proseguire la carriera degli studi per la via Ecclesiastica. La sua buona condotta, la sua ritiratezza, la sua frequenza alla pratiche religiose, la sua attitudine agli studii, lasciano niente a desiderare per una buona riuscita. Ma egli è povero: per questi tre anni fu a mie spese; aprirà la Provvidenza qualche strada? La mia speranza e quella del Fusero sono rivolte a Lei. Da quanto V. S. mi scriverà dipende il presentarsi all'esame dell'abito clericale o differire ancora.

                Godo molto di questa occasione per manifestarle i miei sentimenti di stima e di gratitudine offerendomi in tutto quel che posso

                Di V. S. Ill.ma

Obb.mo Serv.

Sac. Bosco Gio.

 

                P. S. Le raccomando la diffusione delle Letture Cattoliche.

 

                E Bartolomeo Fusero indossò la veste clericale nell'ottobre contando 17 anni, per mano del suo parroco; e ritornava nell'Oratorio.

                Intanto cresceva il numero dei giovani educati da Don Bosco per la carriera ecclesiastica, come appare dalle lettere che egli scriveva al Rev.mo Rettore del Seminario Torinese e Provicario Diocesano Canonico Vogliotti.

 

                               Ill.mo Sig. Rettore,

 

                Ecco a V. S. il catalogo de' miei postulanti all'abito ecclesiastico. Ad alcuni mancano ancora parecchi scritti che si attendono dai rispettivi paesi. Di alcuni pure sarà necessario il parlarci personalmente. Ma lasciamo che prendano l'esame e poi vedremo che cosa sarà bene da farsi. [392] Le prove sulla loro condotta e sulla loro capacità attualmente lasciano nulla da desiderare. Tuttavia li rimando alla solita sua bontà.

                Perdoni se anch'io fui portato nel numero dei tardivi a presentare le debite domande; e mentre La ringrazio di cuore mi dichiaro con gratitudine

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 16 agosto 1855.

 

Sac. Bosco Giovanni.

 

                Ma se l'opera di promuovere le vocazioni, benchè desse buoni frutti, finora aveva proceduto alquanto lentamente, in quest'anno incominciava a prendere uno straordinario, sviluppo perchè D. Bosco erasi appigliato ad un nuovo espediente, che fu senza dubbio suggerito da Divina bontà. Egli infatti nel 1875, in una pubblica conferenza a' suoi cooperatori, parlando de' primi anni della sua Istituzione, così diceva: - Dove trovare i giovani pronti a corrispondere ad una chiamata del Signore? L'uomo è un misero strumento della Divina Provvidenza, che nelle sue mani e col suo santo aiuto opera quello che a Lei piace. Or bene in quel tempo Dio fece conoscere chiaramente in qual modo e dove volesse scegliere la sua sacra milizia. Non già tra le famiglie distinte e ricche, perchè queste sono in generale troppo infette dallo spirito del mondo da cui disgraziatamente restano assai presto imbevuti i loro figliuoli; i quali mandati alle scuole pubbliche o nei grandi collegi perdono ogni idea, ogni principio, ogni tendenza di vocazione che Dio ha posto loro, in cuore per lo stato ecclesiastico. Quindi i prescelti da lui a prendere posto glorioso fra coloro, che dovevano avviarsi al sacerdozio, trovarsi in mezzo a quelli che [393] maneggiavano la zappa ed il martello. - Cioè poveri giovani contadini ed artigiani. Non erano però esclusi i giovanetti appartenenti a famiglie di condizione civile, ma decadute dal pristino stato, i quali dessero a conoscere che volentieri si sarebbero applicati agli studi.

                Con questo programma D. Bosco cercavasi un compagno che affrettasse il compimento de' suoi disegni.

                Vicina all'Oratorio di S. Francesco di Sales avvi la Piccola Casa della Divina Provvidenza, due opere che si riguardarono sempre come amicissime, e ambedue suscitate dal Signore a sollievo delle umane miserie e a conforto della religione e della civile società. Ora D. Bosco più volte aveva eccitato e finalmente quasi costretto con santa importunità il Canonico Anglesio, Direttore della Piccola Casa, ad accrescere il numero dei giovanetti appartenenti alla famiglia dei Tommasini, istituita dal Venerabile Cottolengo, collo scopo di promuovere le vocazioni ecclesiastiche. Erano solo dieci ed un sacerdote veniva a far loro scuola dalla città. Bisognava moltiplicarli col fondare un collegio di studenti, il quale avrebbe avuto anche lo scopo di provvedere qualche soggetto stabile per l'esercizio del sacro Ministero verso gli infermi e gli altri ricoverati di quella ammirabile fondazione. Il Canonico adunque persuaso essere il progetto della maggior gloria di Dio, seguì l'esempio ed il consiglio di D. Bosco.

                D. Bosco allora prese con maggior impegno a percorrere, come fece per più anni, i paesi di campagna delle Diocesi di Torino, di Biella, d'Ivrea, di Casale e sovratutto le regioni di Saluzzo e di Mondovì, chiedendo ai parrochi quali dei loro giovanetti più virtuosi, di buona indole e di attitudine allo studio giudicassero potersi avviare allo stato ecclesiastico. Chiamava quindi a sè quelli [394] che gli erano stati indicati e, fatta la proposta ai loro parenti e avutone il consenso, li accettava agli studi per poco o per nulla d'accordo col prelodato Canonico. Condottili quindi con sè a Torino, dopo averli interrogati e udita la loro scelta, li distribuiva parte alla Piccola Casa e parte all'Oratorio.

                A noi ripeteva Buzzetti Giuseppe: “Difficilmente Don Bosco ritornava dalle sue escursioni apostoliche senza condurre con sè qualche orfanello oppure qualche giovane di ottime speranze per la Chiesa. Quanti bravissimi giovani lo seguivano all'Oratorio da Cardè, Vigone, Revello, Sanfront, Paesana, Bagnolo, Cavour, Fenestrelle e da cento altri paesi. Sua madre un giorno gli disse: -Ma se accetti sempre giovani nuovi non ti avanzerai mai nulla per le tue necessità. - E D. Bosco tutto tranquillo le rispondeva: - Mi rimarrà sempre un posto all'ospedale del Cottolengo. - E Margherita accoglieva quei fanciulli con gioia sincera, ed era suo continuo pensiero il loro benessere, dimenticando persino se stessa”.

                Le più cordiali accoglienze faceva pure la Piccola Casa a que' giovanetti che aveanla scelta per loro dimora, e con questa industria il numero degli studenti andò vie più crescendo in ambidue gli Istituti, e nel 1858 e 1859 giungeva a più centinaia. Il Canonico Anglesio procurava a' suoi giovani tutti i mezzi necessarii per riuscire degni ministri del Signore, sicchè il suo mirabile Istituto ebbe anche un buon Seminario, che portò un bene immenso di vocazioni ecclesiastiche non solo all'Archidiocesi di Torino in quegli anni disastrosi, ma ancora oggidì lo porta a questa e a molte altre diocesi d'Italia.

                Intanto D. Bosco, non pago delle sue escursioni, si raccomandava eziandio agli amici perchè gli sapessero [395] indicare fanciulli di ottima condotta. Essendo venuto una volta il Sig. Moglia Giorgio a visitarlo quando la casipola Pinardi non era ancora atterrata, ei gli disse che se conoscesse in Moncucco qualche giovanetto povero e senza genitori glielo conducesse pure, che lo avrebbe accettato. Il Sig. Moglia infatti ritornò con tre fanciulli, che Don Bosco accolse con gran festa.

                Inoltre, qualche tempo dopo prendeva a scrivere lettere prima a molti parrochi del Piemonte e poi a quelli della Lombardia, perchè cercassero le vocazioni nei giovanetti più buoni delle loro parrocchie e borgate e glieli mandassero a Torino per le scuole di latinità.

                Ed era così fisso in questa sua idea, che incontrando o nelle case o per le vie qualche fanciullo, ancorchè a lui sconosciuto, se al suo aspetto aperto ed ingenuo ei poteva supporre che quegli avrebbe ascoltato volentieri le sue parole, lo chiamava a sè, gli donava una medaglia della Madonna e s'intratteneva con lui, interrogandolo se frequentasse i sacramenti, se fosse di buon esempio ai compagni, se andasse a scuola, se avesse desiderio di proseguire negli studi. Finiva talvolta col fargli la proposta di volersi dare al servizio di Dio, accennando alla felicità ed all'onore che procura un simile stato. Se trovava ascolto, aggiungeva pure che se i parenti suoi erano poveri egli avrebbelo provvisto di tutto. Si diede il caso più volte che dopo tale colloquio il giovane seguiva D. Bosco all'Oratorio, e conosciamo qualche sacerdote che in tal modo venne introdotto nella casa di Dio.

                Aggiungeremo ancora che talvolta, costretto per qualche grave motivo a non accettare un giovanetto che eragli stato raccomandato, non lo dimenticava; e anche dopo lungo tempo ne faceva ricerca. Ciò appare da una [396] lettera da lui scritta al Prof. Giuseppe Bonzanino, nella quale egli esprime anche la sua consolazione per la vestizione clericale ottenuta dalla Curia per alcuni suoi alunni.

 

                               Ill.mo e Carissimo Signore,

 

                Alcuni anni sono V. S. Ill.ma e Car.ma mi disse e mi fece di poi vedere un giovanetto della diocesi di Vercelli, che dimostrava una voglia malta di studiare ed abbracciare lo stato ecclesiastico.

                Se mai Ella sapesse dove prenderlo, e continuasse nella medesima volontà, forse presentemente sarei in grado di aprirgli una strada e secondarlo nel suo desiderio. Questo riguarda al giovanetto dalla sua carità raccomandato.

                Giovedì scorso ho veduto D. Picco alla sua campagna colla sua famiglia, e stanno tutti bene.

                Se le cose andranno bene andremo di costà a fare un'esplorazione fino a Castagnetto, ben inteso a casa di V. S. De' miei studenti sette subirono l'esame dell'abito chericale e furono tutti promossi. Tra i suoi allievi c'è Francesia, Cagliero, Morra e Fusero.

                Persuaso che la sua famiglia e V. S. godranno tutti buona sanità, Le auguro dal Signore la continuazione dicendomi con istima e gratitudine

                Della S. V. Ill.ma e Car.ma

Obbl.mo Dev.mo Amico

Sac. Giov. Bosco.

 

                Era una festa per D. Bosco ogni vocazione assicurata, e lasciò scritto: “Ricordiamoci che noi regaliamo un grande tesoro alla Chiesa, quando noi procuriamo una buona vocazione; che questa vocazione, o questo prete vada in diocesi, nelle missioni, o in una casa religiosa, non importa; è sempre un gran tesoro che si regala alla [397] Chiesa di Gesù Cristo. Per mancanza di mezzi non si cessi mai di ricevere un giovane che dà buone speranze di vocazione. Spendete tutto quello che avete, e se fa mestieri andate anche a questuare, e se dopo ciò voi vi troverete nel bisogno, non affannatevi che la SS. Vergine in qualche modo, anche prodigiosamente, verrà in vostro aiuto”.

                Tale era la norma della sua condotta. Il suo cuore fu come quello di Salomone: sicut arena quae est in littore maris. Bisognava trovare i mezzi per gli opportuni locali e per lo studio e pel vitto e pel vestito, pel titolo ecclesiastico e più tardi anche pel riscatto dalla leva militare. Ed egli provvedeva a tutto, andava a cercare la carità per i suoi cari allievi, giudicando di non poter meglio dispensare i tesori che la Divina Provvidenza gli affidava. Il suo ardente desiderio fino agli ultimi istanti di sua vita fu quello di formare molti e santi preti. Centinaia di questi ebbero ciascuno per circa dieci anni cioè fino alle sacre ordinazioni, quanto fu loro necessario, come pure l'ebbero gratuitamente, o quasi, migliaia di giovani per tutto il corso ginnasiale di quattro o cinque anni, cioè fino alla loro entrata nei Seminarii.

                Di questi giovani intanto, allorchè erano all'Oratorio, egli prendevasi una cura speciale nel coltivarli, manifestando egli sempre una somma attitudine come educatore e dando una nuova e gagliarda spinta agli studi ecclesiastici.

                Nei primi tempi, benchè li mandasse alla scuola di D. Picco e di Bonzanino, egli nell'Oratorio procurava che al mattino o alla sera avessero ripetizioni di italiano, latino, aritmetica, storia, che talora succedevansi l'una all'altra, venendo divisi i giovani in varie classi secondo [398] la loro capacità. Nello stesso mentre esortavali a non isgomentarsi innanzi alle difficoltà degli studii e di altre, miserie della vita. Talvolta diceva loro: - Se sapeste quanti stenti ho sofferto per riuscire chierico! Ho sempre avuto bisogno di tutto e di tutti per andare avanti. - E l'amore allo studio, per le sue esortazioni, diveniva e fu sempre, come vedremo nel corso delle nostre memorie, una vera smania d'imparare. D. Bosco però sapeva temperarla, allo stesso modo che equilibrava i divertimenti e le pratiche di pietà. Gli uni non distraevano troppo, le altre non rendevano odiosa la divozione. Così gli alunni dell'Oratorio distinguevansi da quelli di altri Istituti per abilità e costumi religiosi.

                Questi giovani erano poi un potente richiamo per risvegliare altre vocazioni. Quando bene istruiti ritornavano per qualche giorno in vacanza alle loro case, facevano cadere nelle famiglie oneste i pregiudizi e le antipatie per una educazione che i fogli settarii chiamavano per disprezzo di sagrestia, e coll'ottima loro condotta tiravano all'Oratorio altri giovani loro conterranei, dei quali i parenti si auguravano una buona riuscita, lasciando di questa arbitro D. Bosco. E allorquando questi allievi, finito il corso ginnasiale, andavano nel proprio paese a ricevere dalle mani del parroco la benedetta veste clericale, la novità di sì bella funzione risvegliava sempre in qualcuno il desiderio di imitarli.

                E giacchè siamo entrati in questo argomento non si deve tacere un'altra causa la quale indirettamente influiva nel combattere la morbosa influenza che disprezzava la carriera ecclesiastica. Il gran numero di operai, industriali, maestri, impiegati civili, graduati nella milizia, esercenti arti liberali, dei quali non pochi giunsero ad [399] acquistare un nome illustre, usciti dall'Ospizio, o dagli Oratorii di D. Bosco, per l'amore e la stima che gli professavano, per le benemerenze senza numero del clero verso dei popoli da lui udite a narrare nelle prediche e nei discorsi famigliari, per la bontà e lo spirito di sacrificio dei coadiutori di D. Bosco in loro vantaggio, portavano alto l'onore del sacerdozio in ogni luogo ove stabilivano la loro dimora. Così il nome di D. Bosco rendeva simpatico e venerabile il sacerdozio, anche presso quelli che prima l'osteggiavano. E alcuni dei sopraddetti allievi presentando i loro figli a D. Bosco gli dicevano: - Noi non siamo entrati nelle schiere di S. Pietro, ma ecco che mettiamo un cambio. Le consegnamo i nostri figliuoli e, se il Signore li chiama, li faccia preti chè siamo contenti.

                Ma se D. Bosco era premuroso di accogliere ed istruire i giovani, speranza della Chiesa, non si può descrivere lo zelo veramente straordinario col quale li aiutava a conoscere la propria vocazione. Dopo affettuosi eccitamenti per interessarli alla virtù e alla divozione a Gesù e a Maria, parlava loro di questo importantissimo affare. E non una sola volta, ma li voleva a sè più e più volte, interrogava ciascuno sulle proprie inclinazioni, sulla pratica delle opere di pietà e sopratutto come se la passassero, quanto a costumi. Generalmente li preveniva che colui che non fosse veramente chiamato allo stato clericale, piuttosto che mettersi in una falsa strada si facesse operaio. Raccomandava a tutti di avere un confessore stabile, e facevasi volentieri direttore delle loro coscienze.

                Era grande la sua prudenza nel dar consigli a coloro che lo consultavano sulla scelta dello stato, e prima di pronunciare un giudizio ponderava bene ogni cosa, osservava se apparivano i veri segni di vocazione e quindi [400] invocava colla preghiera i lumi dello Spirito Santo. Non decideva se non quando era moralmente sicuro della loro riuscita, e allora parlava senza ambagi, come persona che conosceva di manifestare la volontà di Dio. “Infatti, asseriva D. Francesco Dalmazzo, e con lui Mons. Cagliero e D. Rua, alcuni nostri compagni che non vollero ascoltare il consiglio loro dato da D. Bosco, mi palesarono candidamente di aver essi sbagliato seguendo il loro capriccio e più tardi di aver dovuto deplorare le conseguenze del loro errore. Talvolta, sebbene i suoi consigli non sembrassero conformi alle viste umane, come udii dagli stessi giovani, pure accolti e praticati riuscivano meravigliosamente a mettere la pace ove era turbazione, ad ottenere un consenso che pareva impossibile, a rendere sicuri della retta via i dubbiosi, e i perplessi nella loro vocazione.

                Questa sua mirabile prudenza nello scoprire, sorvegliare, dirigere le vocazioni ecclesiastiche non tardò ad essere conosciuta anche fuori dell'Oratorio e varii Vescovi e Superiori di Ordini religiosi venivano a lui per avere consiglio ed indirizzo. Fra gli altri vi fu il generale dei Servi di Maria”.

                Quando però era interrogato per lettera sopra un affare di tanta importanza, oppure non conosceva chiaramente la volontà di Dio, allora era solito a rimetterli al loro Direttore spirituale o al parroco.

                I chierici di Seminarii diocesani gli chiedevano conforto ed aiuto nelle difficoltà che talora incontravano, gli esponevano dubbii sulla scelta che aveano fatta, gli si raccomandavano perchè suggerisse loro mezzi per far progresso in qualche speciale virtù, ed egli si affrettava a consolarli. Taluno gli scriveva in certe perplessità [401] d’animo, avvicinandosi il tempo delle sacre ordinazioni; e D. Bosco, che seguiva le orme dettate dai teologi più severi, nell'escludere dal Santuario chiunque non è saldo nella Virtù, rispondeva, ma con frasi di tale soavità, che manifestavano in lui l'uomo del Signore. Ecco un saggio della nostra affermazione.

 

                               Amatissimo figlio,

 

                Ho ricevuto la sua lettera; lodo la sua schiettezza e ringraziamo il Signore della buona volontà che Le ispira. Secondi pure gli avvisi del Confessore: Qui vos audit, me audit, dice G. C. nel Vangelo. Si adoperi per corrispondere agli impulsi della divina grazia che Le batte al cuore. Chi sa che il Signore non La chiami a sublime grado di virtù.

                Ma non illudiamoci: se non riporta compiuta vittoria di quell'inconveniente non vada avanti, nè cerchi mai d'inoltrarsi negli Ordini Sacri se non almeno dopo un anno in cui non ci siano state ricadute. Preghiera, fuga dell'ozio e delle occasioni, frequenza dei SS. Sacramenti, divozione a Maria SS. (una medaglia al collo) e a S. Luigi, lettura di libri buoni, ma grande coraggio. Omnia possum in eo qui me confortai, dice S. Paolo.

                Amiamoci nel Signore e Oremus ad invicem ut salvemur e possiamo fare la santa volontà di Dio e mi creda suo

                Torino, 7 Dicembre 1855.

Aff.mo

Sac. Bosco Giovanni.

                S. Ambrosi, ora pro nobis.

 

                               Amatissimo figlio in Gesù Cristo,

 

                Ridotte le cose ai termini espressi nella sua lettera, sono anch'io di avviso di andare ben a rilento ad iniziarsi negli Ordini Sacri. Prima però di prendere una decisione qualsiasi su questo riguardo avrei piacere di potermi abboccare siccome mi fa sperare dopo l'esame dì S. Giovanni. [402] Intanto si metta di buona volontà a studiare per subire un buon esame; ogni sera pensi di quale cosa potrebbe essere rimproverato se dovesse in quella notte presentarsi al tribunale di Gesù Cristo per essere giudicato.

                Dica, spesso durante il giorno: Domine, ne tradas bestiis animas confitentes tibi.

                Preghi per me che di tutto cuore Le sono

                Torino, 16 aprile 1856.

 

Devot.mo amico in G. C.

Sac. Bosco Gio.

 

 

                               Sempre car.mo nel Signore,

 

            Per rispondere direttamente alla preg.ma sua lettera avrei bisogno di sapere il tempo da cui non ci furono più ricadute. Mio sentimento coram Domino sarebbe che non si assumessero, ordini finchè non siano trascorsi almeno sei mesi di prova vittoriosa Non intendo però di proibirlo di seguire il parere delle persone che l'hanno incoraggito di andare avanti. Dio l'aiuti: preghi per me ed io pregherò per Lei mentre con affetto paterno mi dico tutto

                Torino, 28 aprile 1857.

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco Gio.

 

                Ma ritornando col nostro ragionamento all'Oratorio, dobbiamo notare che D. Bosco, quantunque fornito di tanta dottrina, perspicacia, prudenza, conoscimento degli alunni e anche di lumi straordinarii, non si fidava interamente di sè. Per la scelta della vocazione, se trattavasi di giovani che non fossero suoi penitenti, voleva che prima sentissero l'avviso del loro confessore. Sovente, per non dir quasi sempre, li mandava da Don Cafasso ad udire l'ultima parola. Non aveva gelosia che si ricorresse al consiglio di altri sacerdoti prudenti. “Io [403] ricordo, narra Don Francesco Cerruti, che giovanetto e ancora alunno, se non erro, della terza ginnasiale dissi a lui che sentiva piuttosto disposizione ad entrare fra i cappuccini. - Ebbene, mi disse, andremo un giorno al Convento della Madonna di Campagna e là parlerai al Guardiano. - Infatti fu egli medesimo che mi presentò al Padre Guardiano, perchè potessi liberamente parlargli della mia vocazione”. Ed altri ebbero da lui consiglio, licenza di presentarsi ai Superiori di varii ordini, per esempio Gesuiti, Domenicani, Minori Osservanti, Oblati di Maria.

 

                Un venerando sacerdote, antico alunno, narra, ciò che tutti possono testificare i nostri compagni, cioè la diligenza di D. Bosco nel trattenere in due periodi distinti a serii colloqui quelli dei quali era decisa la vocazione. “Il primo, ei diceva, era quando si trattava d'indossare l'abito ecclesiastico. Parlerò di me stesso. Quando stava per finire gli studi ginnasiali, mi ebbe con sè parecchie volte; anzi ricordo che un giorno mi fece uscire in sua compagnia, e la nostra conversazione fu un esame minuto intorno alle disposizioni del mio animo. Il suo discorso non ammetteva alcun motivo umano, era continuamente sulla gloria di Dio e salvezza delle anime a cui insisteva che mi consacrassi tutto; e rallegravasi visibilmente parlando del bene che sperava avrei poi fatto. Il secondo esame intorno alla vocazione D. Bosco lo faceva coi singoli chierici, quando erano per ricevere gli Ordini Sacri. Allora li chiamava ad esaminarsi e a ripetere se nel sacerdozio si sentissero disposti di preferenza, al ministero sacerdotale come parrochi o predicatori, se all'insegnamento, e anche se ad aiutarlo nelle opere sue, facendo vita comune con lui”. [404] Quest'ultima domanda esprimeva un suo vivo desiderio e una grande necessità degli Oratorii, anzi una condizione indispensabile perchè non venisse a mancare l'opera stessa delle vocazioni ecclesiastiche. D. Bosco però non la faceva mai se non a chi era moralmente certo che fosse chiamato dal Signore a far parte della sua Congregazione. Egli professava la gran massima di S. Vincenzo de Paoli: “Spetta a Dio solo scegliere i suoi ministri e destinarli alle varie mansioni; le vocazioni prodotte dall'artificio, e mantenute da una specie di mala fede, recan poi disonore alla casa del Signore”.

                Ma quegli stessi che egli aveva invitati e dai quali egli si riprometteva di poter richiedere una generosa obbedienza e risoluzione, quante volte mandavano a vuoto le sue speranze. Fu questa una croce pesante che dovette portare per anni ed anni, senza però sgomentarsi per un solo istante. Provvedeva i molti per gli altri ed a stento riusciva ad averne alcuni pochi per sè. L'opposizione di un certo numero di parenti, l'incostanza degli individui rendeva scarsi da questo lato le sue eroiche fatiche ed i suoi sacrifizii. Noi l'abbiamo già altrove accennato. “Nessuno, ci narrava D. Bosco, potrebbe immaginare le interne ripugnanze, le antipatie, gli scoraggiamenti, gli adombramenti, le delusioni, le amarezze, le ingratitudini che afflissero l'Oratorio per circa venti anni. Se i prescelti promettevano di rimanere in aiuto di D. Bosco, non era che un pretesto per continuare con agio i loro studi, perchè, finiti questi, esponevano mille pretesti per dispensarsi dalla promessa. Dopo varie prove fallite, in una sola volta si riuscì a mettere la veste talare ad otto giovani, i quali però ben presto se ne partirono tutti dall'Oratorio. Vi furono poi taluni che, proprio il giorno della loro [405] ordinazione sacerdotale o la sera della prima messa, dichiararono francamente non essere fatta per essi la vita dell'Oratorio; e se ne andarono. Per desiderio di una vita più tranquilla e più agiata aspiravano ad una parrocchia, ad un seminario diocesano, ad un ordine religioso anche fuori di Stato. Alcuni dopo qualche anno dì studii teologici deponevano l'abito clericale”.

                Questi abbandoni in gran parte dovettero essere cagionati da turbamento e da agitazioni prodotte dallo spirito delle tenebre, il quale non cessava dall'impedire a Don Bosco dì avanzarsi nella sua via. In quei giovani infatti, anche fuori dell'Oratorio, si mantenne sempre forte l'amore e il rispetto per D. Bosco e se ne ebbero più volte splendide prove.

                D. Bosco, però mentre cercava di attirare a sè alcuni de' suoi alunni e di informarli allo spirito di una società religiosa per averli coadiutori, non fu mai insistente, non impose mai le vocazioni, nè egli nè altri facevano pressione sui giovani per attirarli a tale scopo, ma lasciavali perfettamente liberi nella scelta. Così il Can. Berrone, testimonio più tardi per varii anni.

                Aggiungeva il Teol. Reviglio: “Anzi, benchè D. Bosco vedesse che i chierici non si mantenevano nelle prime disposizioni, ma tuttavia dimostravano vocazione allo stato ecclesiastico, si adoperava con non minor premura a procurare loro i mezzi per arrivare al sacerdozio, lieto di poter provvedere alla Chiesa nuovi preti, di cui specialmente allora se ne sentiva grande bisogno. Io poi sebbene scelto fra i primi a tale fine, quantunque non mi sia sentito l'animo di promettergli l'obbedienza che chiedeva, fui egualmente aiutato da lui a proseguire gli studii e lasciato in perfetta libertà di consacrarmi alla [406] diocesi; ed anzi, per sua raccomandazione speciale, ottenni dall'Arcivescovo Fransoni la mia nomina ad un patrimonio ecclesiastico”.

                Egli non si offendeva di questi abbandoni, come ci narrò il Can. Anfossi, mentre dava la benedizione a quelli che da lui si congedavano, affinchè continuassero nella via della virtù e riuscissero a far del bene alle anime. E soggiungeva il Can. Ballesio: “Per le relazioni che ho avuto con D. Bosco, anche dopo la mia uscita dall'Oratorio, posso assicurare che egli credeva benissimo di aver raggiunto il suo scopo vedendo i suoi alunni o in Seminario o nel ministero di parroco. E per quelli che .si trovavano occupati in questo ufficio pastorale, come dava loro i più savi e pratichi consigli, così mostrava grande affezione e soddisfazione del loro stato.

                “Tuttavia non si può tacere che certi disinganni gli riuscirono molto amari per le defezioni di non pochi che aveva ricolmi de' suoi beneficii, per i quali erasi assoggettato a speciali spese per iniziarli al conseguimento di lauree e patenti con patto almeno implicito che sarebbero rimasti con lui. E alcuni tutto a lui dovevano, scienza, agiatezza, onori e perfino la vita civile. A D. Bosco rincresceva l'ingratitudine come cosa in sè cattiva, ma poi per conto suo non se ne lamentava, e se talora esternava il dispiacere, lo faceva con tutta rassegnazione alla volontà di Dio e per ammonire certi spiriti deboli e volubili nei loro propositi. Ma anche in questi casi egli non cessava di amare gli ingrati, invitarli a fargli visita nell'Oratorio, e all'occorrenza continuare ad essere il loro benefattore”.

                Sovente ricordava quelli che, ritornati alle loro diocesi, erano stati insigniti del carattere sacerdotale, e diceva più di una volta: - Desidero tanto che i miei figli i [407] quali lavorano nel ministero ecclesiastico vengano qualche volta a trovarmi per essere sicuro che continuano nella buona via! - E venendo essi, li accoglieva con gran festa e se faceva d'uopo ricordava gli ammonimenti loro dati quando erano fanciulli. E rammentava talvolta la virtù della povertà, conveniente alla loro condizione. Qualcuno si presentò a lui in guanti, con scarpettine in vernice lucida e larghe fibbie, con polsini candidi come neve, stretti da bottoni di oro. Egli guardavali sorridendo, e dopo replicati avvertimenti dolendogli di vedere nei sacerdoti tanta leggerezza, credette opportuno volgere in ridicolo questo loro portamento troppo mondano, dicendo bellamente: - Oh certo che ne guadagnerai molto presso i tuoi parrocchiani…..Già questo gonfia la maestà. -

                Ed altre cose simili. E con questi scherzi li induceva a smettere.

                Di un altro avendo saputo che teneva in casa troppo lusso di mobili, tappeti e tendine, fece intendere dover un sacerdote provvedere ai poverelli e non alle proprie comodità.

                Intanto si potè constatare il grande trionfo dell'educazione ed istruzione, eminentemente ecclesiastica da lui impartita. Ne fu conseguenza che se la Diocesi di Torino durante la chiusura del Seminario, e le altre diocesi del Piemonte, poterono ancora avere i sacerdoti più necessarii pel ministero parrocchiale, lo si deve certamente in grandissima parte al merito e alla carità di D. Bosco che li preparava: ne furono anche prova le centinaia di giovani aspiranti al sacerdozio che ogni anno egli ebbe attorno a sè.

                Riaperti i seminarii, furono tosto popolati da' suoi alunni, che presentandosi ai loro Vescovi potevano affermare con tutta ragione: - Siamo venuti a prestare l'opera, [408] nostra per la salvezza delle anime: è D. Bosco che ci ha mandati. -E i Vescovi li ricevevano con giubilo e gratitudine. Nel 1865 nel Seminario maggiore di Torino su quarantasei chierici, trent'otto avevano compiuti i loro studii di ginnasio in Valdocco. Nel 1873 su centocinquanta, centoventi venivano dall'Oratorio, come verificò D. Giuseppe Bertello. A questo numero altri ed altri si aggiunsero annualmente, e alcuni sono canonici, sei curati in Torino, quaranta e più parrochi nei dintorni, non contando i preti senza cura di anime, e i missionarii andati all'estero. Nel 1870 Mons. Cagliero visitando con Monsignor Ferrè il Seminario di Casale trovò che, di quaranta chierici che là si trovavano, trentotto erano usciti dalla scuola di D. Bosco; e i tre quarti degli attuali sacerdoti di questa diocesi furono allievi de' Collegi Salesiani. In questi furono educati i due terzi dei parrochi della Diocesi d'Asti, come risulta da un computo esatto di D. Cassetta curato di Costigliole d'Asti. Lo stesso si può dire di altre diocesi subalpine.

                D. Bosco diede anche ogni anno molti chierici alla Diocesi di Milano; e la Liguria conta trecento e più suoi alunni sacerdoti. Anche Roma ne ebbe alcuni insigniti di varii titoli e dignità; e sei Vescovi vissero per anni, essendo fanciulli, ai fianchi di D. Bosco.

                E per tutti questi, la cui vocazione non appariva essere per l'Oratorio, D. Bosco usava le stesse caritatevoli maniere e premure che praticava con quelli che abbracciavano la sua pia Società. Avvicinandosi il tempo nel quale un alunno doveva partire dall'Oratorio per aggregarsi al clero della propria diocesi, ripetutamente lo chiamava a sè per dargli que' consigli che stimava necessarii, perchè potesse riuscire un buon chierico e [409] divenire a suo tempo un buon prete. Specialmente raccomandava loro che conservassero illibata la purezza del cuore, avvertendo che altrimenti andrebbe perduta ogni speranza di felicità e di fruttuoso ministero.

                Così D. Bosco, col suo zelo infaticabile, lavorava a vantaggio della Chiesa Cattolica; e de' risultati di questo e del suo merito fa una viva descrizione ed un magnifico elogio il Rev. Padre Felice Giordano degli Oblati di Maria Vergine, vecchio amico suo e testimonio d'ogni eccezion maggiore, scrivendo da Nizza Marittima a Don Durando nel 1888.

 

                A partire dall'epoca nefasta del 48, i popoli subivano fatalmente una forte scossa nel sentimento religioso, la quale, pur troppo, andò ognora crescendo in detrimento non che della Società, della Chiesa. La Chiesa in conseguenza, da quel tempo in poi, venne ogni anno sempre più scarseggiando di vocazioni, sia pel santuario, sia pel chiostro. Onde è, che poco per volta, tra pei moltissimi estinti e pei ben pochi aggiunti, non aveva più ministri sufficienti pel culto. Frattanto di fianco alla molta zizzania, cresceva più folta la messe, e, non abbastanza braccia a raccoglierla. Allora le anime di gran cuore e di gran fede, rammentando il mandato divino, pregavano il Padrone della messe, perchè si degnasse mandare operai nella sua vigna. Però queste buone anime, con tutte le loro buone intenzioni, non si avvisavano che il Padrone della messe, tuttochè disposto a spedir operai, tuttochè al bisogno così potente, di cavar, se gli piace, dalle stesse pietre i figli di Abramo; ad ogni modo, di via consueta, anche nel fatto di vocazioni, Egli si aspetta il concorso dell'uomo; viene a dire che altri si dia briga e faccenda, e se ne costituisca fortunato strumento. Quindi queste stesse buone anime, questi cuori eccellenti rimanersi in buon'ora, la più parte con gli occhi al Cielo, ma, con in mano le mani, senza nulla adoperarsi, ma, perdersi in astrazioni sole ed eccellenti progetti. Udiamone una di queste anime: una per caso, che, in una eletta di amici, si fa in proposito a dissertare. [410]

                - Ben arrivato, signor Felicissimo! Avevam giusto qui sul tappeto una questione tutta palpitante di attualità, che aspettava Lei a dirimerla.

                - Di che si tratta?

                - Si tratta del come apporsi per fomentare le vocazioni ecclesiastiche.

                - Difficil problema codesto, tuttavia, giacchè tanto mi onorate, sì vi dirò in proposito quel che penso. Innanzi tutto, egli è, secondo me, da por l'occhio sopra i giovani poveri, o del Contado, che, come quelli accostumati dalla lunga ad una vita di sacrifizii, son più capaci dell'Ecclesiastica vocazione. Premesso questo per base, io vorrei che, disseminati su varii punti, se non di tutte le Diocesi, almeno delle più grandi Provincie, o Città, si trovassero de' gran centri, tutti ordinati a raccogliere gioventù povera ed abbandonata. Con questo provvedimento i giovani affluirebbero da tutte parti, e noi avremmo giovani sotto mano nientemeno che a centinaia, a migliaia, tutti s'intende da allevare cristianamente, con l'idea veh! preconcetta di studiarli, notomizzarli, apprezzarne in tempo le disposizioni fisiche, intellettuali, morali, per farne poscia, come fa il giardiniere delle piante del suo vivaio, la cerna, altre pel piano, altre per la collina. Questi non ha testa, nè memoria per nulla, e ben per questi ci accontenteremo di inoculargli le cose necessarie alla salute. Quest'altro non ha volontà, nè attitudine a continuarla sui libri, e ben questi li applicheremo all'arte e mestieri, qual più gli aggrada. Ma poi quest'altro, dall'aria ingenua, dal carattere franco, dalla memoria felice, dall'intelligenza aperta, dagli illibati costumi, ah! questi, come primizia eletta, coltiveremo con maggior cura, perchè metta bene, s'invigorisca, vada in alto. Attenda dunque il mio giovane ad un corso regolare di studi, si renda forte dei primi elementi, più forte nella latina grammatica, ancor più forte nella rettorica. Or bene, con tal cultura mandata innanzi, io metto pegno che come sopravverrà al mio giovane l'età competente, ed egli si farà uom di Chiesa, perchè il Padrone della messe l'avrà scelto ad operare e dissodare la sua vigna. Così a me pare, ed a voi?

                - Togli qua, Felicissimo! Voi con le vostre sortite di progetti felicissimi e così calzanti al bisogno ci sbalordite! Volete [411] voi dunque farei vedere le stelle in pien meriggio? Ma non v'accorgete che i vostri progetti, felicissimi in astratto, sono impossibili nel concreto; e che se mai in tempi migliori sarebbe stato appena fattibile di porli in atto, per fermo, nei tempi che corrono, sono sogni? - Sogni! E chi non avrebbe risposto altrettanto, visto l'impresa, i tempi, le circostanze?

                E pure, pel servo di Dio D. Bosco non furono sogni, ma realtà. Realtà P adunata in centri disparatissimi di gioventù sterminata. Realtà la cerna oculata discernitrice, penetrantissima degli uni a mestieri, degli altri alle arti, degli altri senza fine agli studii. Realtà la coltura delle piante tutte dritte pel Cielo ma quali per la valle, quali per la montagna. Volete sapere quanti centri o stabilimenti simili ha Egli fatto sorgere in mezzo al mondo? Sono da ceincinquanta. Volete sapere a quante vocazioni Ecclesiastico religiose apersero il varco i suoi Collegi? Non io posso dirvelo, perchè oggimai innumerevoli pel corso di 40 anni.

                Domandatene ai Seminari, domandatene ai Chiostri, domandatene alle Missioni.

 

                Infatti nel 1883, noi presenti con D. Dalmazzo, abbiamo udito D. Bosco esclamare: - Sono contento! Ho fatto redigere una diligente statistica, e si è trovato che più di 2000 sacerdoti sono usciti dalle case nostre e sono andati a lavorare nelle Diocesi. Siano rese grazie al Signore e alla sua Santissima Madre, che ci hanno fornito abbondanza di ogni mezzo per fare questo bene.

                Il suo calcolo però non era compiuto. Altri 500 dei suoi giovani si ascrissero al clero prima della sua morte; e poi altri, dei quali egli aveva svolta la vocazione, negli anni seguenti alla sua dipartita da questo mondo, sceglievano per loro porzione il sacro ministero. Aggiungiamo quelli che da tante sue case figliali passarono al Seminario. Non omettiamo i molti che per suo consiglio entrarono a ripopolare le case religiose, e non vi sono Ordini e direi quasi Congregazioni in Italia che non abbiano [412] sacerdoti un giorno figli di D. Bosco. Indirettamente poi non gli si deve negare il merito di aver con varii mezzi accresciuto di nuove forze l'esercito del Cattolicismo. Si può dire che fu dopo il suo esempio, e talvolta per le sue istanze e per la sua cooperazione, che si apersero e si sostennero i piccoli Seminarii. È  da lui che non pochi Direttori di questi e dei grandi Seminarii, venuti a consultarlo, impararono il modo di coltivare gli alunni con amorevole e paterna assistenza, colla pietà e specialmente colla frequenza della Comunione, condizione indispensabile per la perseveranza nella vocazione, sicchè ne ebbe grande vantaggio il clero delle rispettive diocesi; essendo un fatto che prima del 1848 nei Seminarii si teneva un sistema molto diverso. Altre prove del nostro asserto riserbiamo pel corso della storia, dalle quali unite a queste noi possiamo dedurre di non essere lungi dal vero coloro i quali asseriscono aver D. Bosco formati seimila sacerdoti.

                Di quanto abbiamo narrato D. Rua Michele fu testimonio e parte, poichè dal 1850 al 1888 stette a fianco di D. Bosco e lo aiutò in tutte le sue imprese. Ma ciò che egli sovra ogni altra cosa in lui ammirò fu la sua fortezza nei contrasti avuti con avversarii potenti, i quali sistematicamente perseguitavano la sua istituzione per farla cadere. Dicevano a D. Dalmazzo Francesco parecchi tra i primi dignitarii dello Stato e fra questi il commendator Morena, Comissario Regio per la liquidazione dell'asse, Ecclesiastico in Roma: - Mentre noi cerchiamo di disfarci dei religiosi ed impedire le vocazioni Ecclesiastiche, D. Bosco con una costanza degna di miglior causa, ci fabbrica i preti a vapore sotto il naso.

                Abbiamo esposto un gran quadro: questo però nel 1856 era solamente abbozzato.

 

 

CAPO XXXIV. 1856- Sacra missione di D. Bosco a Viarigi -Opposizioni - Prime prediche e annunzio di castighi - Un pazzo Morte improvvisa - Eloquenza ispirala da un feretro - Trionfo della grazia di Dio - Lettera di D. Alasonatti al Can. Rosaz - Grignaschi ritratta i suoi errori - Carità di D. Bosco e morte impenitente di Grignaschi.

 

                NEL mese di gennaio del 1856 il Signore mandava D. Bosco a togliere la zizzania che ingombrava e steriliva un campo evangelico. Per la condanna del Grignaschi e de' principali suoi complici, e per la predicazione dei Vescovi di Casale e di Asti, che pure aveva prodotti frutti copiosi, non erasi spenta interamente a Viarigi quella setta nefasta, che aveva gettate ampie e profonde radici in quella povera terra. Anzi per un nucleo abbastanza numeroso di iniziati fanatici, seguiti da gente ignorante, interessata, durava rigogliosa e più che mai caparbia e sorda ad ogni fatta di ammonizioni de' sacerdoti del luogo e de' missionarii. La sincera conversione del Prevosto di S. Pietro, D. Lacchelli, e di D. Ferraris, che fecero una buona morte, non aveva prodotto in essi alcuna salutare impressione [414]. I così detti Grignaschini non volevano sentir parlare di religione, se non in quanto sembrasse loro di favorire gli errori e la scostumatezza propinata dallo sciagurato maestro. Il nuovo parroco D. Melino Gio. Batt. erasi adoperato invano di far dettare, a varie riprese, esercizi e missioni. Due frati cappuccini avevano tentato di incominciare un corso di prediche, e dovettero partire in fretta senza ottenere alcun bene. Nel 1854 D. Melino recavasi ad invocare l'aiuto di D. Bosco; senonchè dopo matura riflessione, non si credette conveniente di ritentare per allora altra prova; e si lasciarono trascorrere due anni dopo l'ultima missione non riuscita.

                Ma l'ora segnata da Dio alle sue misericordie giunse alfine, e queste furono con tanta larghezza profuse su quel paese, che sorpassarono ogni desiderio de' buoni. Don Bosco aveva deciso col parroco D. Melino di recarsi presso di lui a predicare al suo popolo le verità eterne, insieme col Canonico della Cattedrale di Torino, Borsarelli di Riffredo. Conscio però, come racconta Mons. Cagliero, della difficoltà ed importanza della missione prese anzitutto a pregare egli stesso e a raccomandarsi alle preghiere de' suoi giovani e a quelle di varii istituti religiosi.

                Nella seconda settimana adunque del mese di gennaio giungevano a Viarigi i due predicatori. Tutto il popolo li aspettava, facendo siepe lungo la strada, senonchè varii in attitudine ostile mormoravano fra di loro in modo da essere intesi dai missionarii: - Diran belle cose, ma non sono illuminati. - Vengono a mangiare alle nostre spalle. - Possono ritornare donde son venuti. - Predicheranno ai banchi, perchè nessuno andrà ad udirli.

                Qui vuolsi sapere che non sì tosto pervenne la notizia nel villaggio essere decisa quella missione, i capi della setta [415] eransi radunati a conciliabolo per discutere il modo di regolarsi in questa circostanza. E venne deciso che tutti gli affiliati s'asterrebbero rigorosamente dal frequentare la chiesa, e imporrebbero tale astensione ai loro dipendenti; inoltre risolsero che si dovesse concertare qualche ballo o qualche serata musicale, che si terrebbe nel tempo di missione.

                Furono accontati i suonatori; ed ogni altra cosa di, sposta perchè riuscisse quel maligno contraltare. Anzi alcuni padri di famiglia proposero che i più ricchi di loro, si convitassero alternativamente a vicenda, e all'uopo chiamassero alla loro mensa gli adepti più poveri.

                I due missionarii entrarono in chiesa, ove non trovarono molta gente; ma seppero che già vi aveva preso posto quella serva famosa di Grignaschi di cognome Lana, ossia la Madonna Rossa, che, rilasciata dall'umana giustizia, dopo che ebbe scontata la sua pena, era ritornata, in quel comune. Veniva, spinta dalla curiosità, per ascoltare che cosa fossero per dire i predicatori.

                D. Bosco salì in pulpito per fare la prima predica d'introduzione; e, dato uno sguardo a quella piccola udienza, lungi dal perdersi d'animo, pose più che mai la fiducia in Colui che regge il cuore degli uomini. Incominciò pertanto a parlare. Rallegrandosi con quelli che erano intervenuti, delle loro buone disposizioni, li confortò nel salutare proposito, ed anche li eccitò a condurre quanti più potevano in chiesa. Fra le altre cose toccò, come si suole, del punto gravissimo del dover approfittare della misericordia del Signore, che veniva ad essi offerta, perchè non forse Dio li castigasse col non lasciare più loro tempo di approfittarne un'altra volta. E tanto più esservi ragione di temer che Dio desse mano [416] ai castighi, in quanto si vedeva in alcuni del paese una decisa opposizione alla missione. E potrebbe, soggiunse, il Signore castigare anche con morti improvvise. La notizia di questa minaccia si diffuse rapidamence nel paese, ma senza produrre grande effetto. E la serva di Grignaschi andava ripetendo: - Quel prete predica bene, ma non è illuminato!

                Il domani l'udienza era cresciuta di numero, ma non di molto: in tutto un cento cinquanta persone. I predicatori però continuarono serenamente i loro sermoni, con una costanza ammirabile. Facevano quattro prediche al giorno: D. Bosco due, una al mattino presto e l'altra alla sera tardi.

                Il terzo giorno della missione D. Bosco incaricò i suoi uditori di avvertire la gente del paese che se non volevano venire alla predica Dio li avrebbe fatti venire loro malgrado. Quindi li invitò a recitare un Pater ed Ave pel primo che sarebbe morto nel paese. Tutti quegli abitanti ebbero subito notizia di questo invito, che aveva il tono minaccioso di castigo imminente. Per quella sera uno dei principali proprietarii aveva preparata una gran festa da ballo. Non pare fosse una cattiva persona, senonchè la cecità della mente, le aderenze ad un partito, del quale forse non conosceva tutta l'iniquità, la debolezza di carattere, il rispetto umano, lo spinsero pel primo alle meditate provocazioni.

                Intanto in quel giorno stesso alcuni de' principali fautori e capi del partito Grignaschino erano venuti a visitare D. Bosco, per vedere se fosse ancora risoluto di continuare le sue prediche e per giudicare del suo carattere. Mentre tenevano con lui una conversazione molto lunga ed animata, ecco entrare alcuni bellumori, i quali dissero a D. Bosco: [417]

                - V'è una persona che, se lei permette, verrebbe a farle una visita.

                - Venga pure, mi farà piacere.

                - Ma sappia che è di molta importanza.

                - La riceverò come si conviene.

                - È  nientemeno che l'Eterno Padre.

                - Sta bene.

                - Ma non si trovi paura al suo cospetto: esso non fa male ad alcuno.

                - Non dubitate; starò calmo.

                - Dunque noi gli diremo che venga pure.

                - Sì, io l'aspetto.

                Come la Madonna Rossa, così l'Eterno Padre primeggiavano tra i poveri illusi dalle arti indegne del Grignaschi. Due parodie queste che muoverebbero a sdegno ed orrore, se non muovessero più a pietà que' poveri terrazzani, così grossolanamente abbindolati da un sucido impostore. Eziandio l'Eterno Padre vestiva e parlava coll'intenzione di spacciarsi ciò che il nome assunto significava.

                D. Bosco attendevalo e non andò molto che comparve in sua camera un uomo già vecchio, alto di persona, di forme erculee, che aveva una barba nera e lunga che copriva il petto, un paio di zoccoli ai piedi, di forma strana, ed un cappello in capo, alto un mezzo metro. Teneva un libro sotto il braccio, e procedeva con una sicumera e con una baldanza sorprendente. Quell'individuo era tale da far certamente paura, se apparisse di notte a chi non fosse stato avvertito. Parlava sempre in versi rimati.

Presentatosi a D. Bosco esclamò:

                - Ecco io sono a voi venuto

                - E nessun mi ha prevenuto.

                - E voi dunque siete? [418]

                - Si, io sono il Padre Eterno,

                - E non temo pur l'inferno.

                - E sapete chi sono io?

                - Sì, che il so: abbiamo nosco

                Il famoso prete Bosco.

                Bisognava tenersi per non ridere al cospetto di quel figuro. -Che cosa avete in quel libro?

                Lo aperse; vi erano disegnati in ogni lato di pagina ora preti che battevano diavoli, ora diavoli che battevano preti, poi diavoli a cavallo di uomini, e viceversa. Poi diavoli vestiti da preti, da Vescovi, da Papa. Ogni figura aveva la sua iscrizione. Quell'uomo continuava a svolgere i fogli, e quando D. Bosco vide che incominciavano le pitture immorali: - Basta, gli disse. Ho visto abbastanza. Ed ora parliamo di cose serie. Voi mi sembrate un uomo di senno, che sa riflettere. Quindi se vi interrogherò, chi vi ha creato, son certo che mi risponderete: Mi ha creato Iddio.

                L'altro rispose:

                - Che creato mi abbia Iddio

                - Non ci debbo pensar io.

                 - Ma lasciamo un po' da parte queste stramberie, diceva D. Bosco; ricordatevi che il tempo passa, che la morte viene. La misericordia di Dio ha confine, se il peccatore si ostina.

                Ma ad ogni proposizione l'altro finiva sempre col prendere l'ultima parola, e su questa formava le rime di due versi insulsi e non a proposito.

                - Ah! pensate un po' bene, gli diceva D. Bosco, che presto tutte le cose del mondo saran per voi finite.

                E l'altro: - Tutte cose son finite

                Se coperto è di ferite. [419]

                - Guardate che questo che vi fa il Signore può esser l'ultimo invito!

                - Sissignore, ed io vi invito

                Questa sera a un gran convito.

                - Allora a rivederci a domani se il Signore nella sua misericordia vi avrà lasciato vivo. Io ne ho già abbastanza.

                - Avrà luogo in nostra stanza,

                Questa sera, una gran danza.

                E senza salutare, girando sopra se stesso, come se muovesse sopra un perno, si avviò impettito, ed uscì. D. Bosco non sapeva dire se quell'uomo fosse pazzo, o illuso, o indemoniato.

                Dopo il mezzogiorno alcuni seguaci di Grignaschi aspettavano sulla porta della chiesa la gente quando entrava, o quando usciva dalla predica, dicendo: - Venite, venite stasera da noi: sentirete le belle prediche: là da noi è la verità: - e ridevano. Fra questi colui che aveva preparato il ballo esclamava non valer la pena di andare ad udire i missionarii. - Venite, ripeteva con insipida millanteria, ad ascoltar me, che predico meglio dei missionarii.

                Non si tardò a dar principio alla festa profana. Un convito sontuoso ed il ballo aveva luogo in una casa vicina all'abitazione del Vicario D. Melino, che poteva udire il suono degli strumenti musicali. Ritornata ogni cosa in silenzio, ecco, verso la mezzanotte, si batte replicatamente alla porta del Vicario, e una voce lo chiama perchè corresse alla casa del ballo essendovi uno che moriva. Don Melino temeva un'insidia e stava esitante, ma quel messo insisteva: - Il signor tale, il padrone, fu subitamente assalito da male grave, ed ora si trova in punto di morte: faccia presto per carità. - Il Vicario andò allora in fretta; [420] ma trovò già morto quel disgraziato. Divulgatosi al mattino come un lampo il tristo caso, ognuno rammentava le parole del missionario e vi ravvisava il castigo di Dio. Da quel momento l'intera popolazione corse con un sol cuore a tutte le prediche. Il fatto produsse immensa sensazione anche nei paesi vicini. Quell'infelice che prima sbraitava di predicar meglio del missionario, aveva detto il vero e per sua sventura troppo vero!

                La Madonna Rossa però per più giorni non venne in chiesa, dicendo di D. Bosco: - Quel prete è un diavolo. - Tuttavia la misericordia del Signore non la dimenticava.

                D. Bosco, il mattino dopo quella morte, fece la sua predica senza nessuna allusione. Alla sera spiegò le parole di Gesù Cristo: Estote parati quia qua hora non putatis filius hominis veniet; e provò che colui il quale non è vigilante corre pericolo di non salvarsi, perchè o gli manca il tempo, o la volontà, o la grazia. Finì con dire: Recitiamo un Pater, Ave e Requiem per raccomandare alla misericordia di Dio quel povero nostro amico che è morto stanotte. - E lo recitò lentamente.

                Due giorni dopo, alla sera, la chiesa era piena zeppa, e D. Bosco parlava sul punto terribile della morte, sui rimorsi, sullo spavento, sulle smanie del peccatore impenitente. Ne descriveva l'angosciosa agonia, l'ultimo respiro, e il cadavere deforme immobile sul letto. Ma ad un tratto fu sorpreso da un subitaneo pensiero e prosegui nella descrizione: - Il peccatore morto in disgrazia di Dio, chiuso nella cassa, preceduto dalle confraternite salmeggianti il Miserere, è portato alla chiesa sulle spalle di quattro uomini la bara comparisce sopra la soglia entra in chiesa…..avanti quella cassa…..più avanti…..qui…..in mezzo…..innanzi a me…..su que' due cavalletti…..- La [421] scena era così viva che la gente si mirava dattorno compresa di segreto orrore.

                E D. Bosco prosegui: - Io ho già parlato abbastanza. Un altro deve parlare in vece mia. E chi sarà mai? Il mio compagno? Non è la sua ora! Il signor Vicario? Non tocca a lui! A chi dunque mi rivolgerò io in questo istante perchè faccia sentire la sua parola? Al Crocifisso? Non è tempo di misericordia! Al Santissimo Sacramento? Non è tempo d'amore! Alla Madonna? No, no, cara Madre; non è tempo d'intercessione. A chi dunque mi rivolgerò questa sera? - Tacque; e dopo brevi istanti, ripigliò con voce vibrata: - A te, o cadavere! Scoperchiate quella cassa; alzati! vieni fuori! rispondi! In qual momento ti ha preso la morte? Che cosa ti è mancato per salvarti? Forse le prediche? i Sacramenti? gli avvisi? la grazia? - D. Bosco a tutte queste interrogazioni faceva seguire la risposta particolareggiata, lamentevole, come se il morto stesso parlasse. Questo dialogo continuò lunga ora. L'uditorio era schiacciato, fuori di sè. Due volte il Vicario mandò ad avvertire D. Bosco di cessare, perchè era uno spasimo angoscioso per tutta la chiesa, e D. Bosco concluse: - Che cosa ti è mancato adunque? - Qui fece un'altra pausa. Tutti singhiozzavano ad alta voce. Quindi finì: - Odo la sua voce lugubre che risponde: Mi mancò il tempo... E a voi che cosa manca, o miei uditori? Ne parleremo domani.

                In questi giorni della missione ci fu qualche altro morto nel paese o nei dintorni, e quindi qualche agonizzante da raccomandare alle preghiere dei fedeli. Perciò in tutte le prediche D. Bosco annunziava dal pulpito: Recitiamo un Pater ed Ave pel tale nostro fratello che sta per presentarsi al tribunale di Dio. Recitiamo un Pater, [422] Ave e Requiem pel tale altro che stanotte è passato all'eternità. -Con queste prediche gli animi erano scossi, al punto che non potevano più resistere, e correvano a confessarsi. La benedizione del Signore fu tanta, che di circa tremila persone, quanti contava d'abitanti quella terra, non vi fu un solo tra gli adulti che non si accostasse ai Sacramenti. La misericordia di Dio si estese anche alla Madonna Rossa e al Padre Eterno, i due più manifesti e viventi emblemi della setta. Tra i predicatori e il popolo correva quella simpatia che proviene dalla libertà di parola mossa dall'affetto e dalla stima concepita per l'oratore. Ciò die' causa anche a qualche lepidissimo aneddoto. Un giorno Don Bosco, e senza che volesse alludere a nessuno, faceva la rivista ai vari stati di persone: fanciulli, giovani, zitelle, donne maritate, padri di famiglia, procedendo, secondo il suo costume, colle interrogazioni. Ed ecco che esce a dire: - Dite un po' a quel vecchio dai capelli bianchi: Quando ti risolverai una volta a far Pasqua, a cambiar vita? Non vedi che hai già un piede nella fossa?

                Ed ecco a questo punto alcune voci interromperlo:

                E’ qui, è qui costui del quale lei parla!

                D. Bosco restò un poco sconcertato. Un vecchio era innanzi al pulpito e la gente glielo additava.

                - Ebbene sì, son io, diceva il vecchio ad alta voce; stasera mi confesserò, e tutto sarà finito! - D. Bosco non poteva tener le risa in quell'istante e detto al vecchio un - Bravo, ed io vi aspetto, come si aspetta un amico, - proseguì la predica.

                Intanto i settarii facevano la loro abiura e davano ai missionarii le più consolanti prove che il ravvedimento era proprio opera del Signore. Dal loro canto i due [423] missionarii, sopraffatti dalle straordinarie fatiche nel cogliere tanta messe, furono sostenuti ed abbondantemente compensati dall'immensa consolazione nel vedere quel buon popolo sciolto dal fascino ingannatore della setta: e si può dire che dopo questa missione quella scomparve interamente. Euntes ibant et flebant millentes sentina sua, venientes autem venient um exultatione portantes manipulos suos (PS. 125).

                Questi fatti furono narrati a D. Rua dal parroco stesso D. Melino, dal Sig. Beta e da varii di quelli stessi che erano stati accecati dal Grignaschi.

 

                Il giornale l'Armonia nel numero 27, venerdì i febbraio 1856, così concludeva il suo breve racconto intorno a questa missione.

 

                “Per poter giudicare dell'importanza di questo fatto, converrebbe che i missionarii potessero dire ciò che loro vieta il segreto inviolabile e la modestia; od almeno che noi potessimo raccontare ciò che la prudenza non permette. Tuttavia coloro che sono informati del male grandissimo fatto a quei terrazzani dal Grignaschi e da' suoi secondini, della cecità di quella povera gente, che Asciossi pigliare al laccio di una santità e di un misticismo così poco mistico, e finalmente degli sforzi di parecchi anni tornati inutili per far loro aprire gli occhi, troveranno di che benedire la misericordia del Signore.

                “Giova sperare che colui che cominciò l'opera, ipse perficiet, confirmabit, solidabitque (I PETR. V. 10).Tuttavia conviene che i buoni aiutino quel popolo colle loro orazioni; perchè il tempo si avvicina che il Grignaschi avrà finita la sua pena nel carcere. Quello sciagurato lungi dall'aver mai dato il menomo segno di ravvedimento, dura più che mai ostinato e fanatico nelle sue empietà. E non si tosto sarà posto in libertà, correrà all'antico suo campo per seminarvi la zizzania. Le preghiere dei giusti sostengano i buoni terrazzani di Viarigi sulla buona strada: e tanto più vogliamo sperare la loro perseveranza, in quanto che [424] essi non fuorviarono per tristizia di cuore, ma per inganno della mente: anzi non poterono essere tratti in inganno, se non abusando della loro bontà, ed il lupo non potè entrare nell'ovile, che vestendo la pelle di pecora, anzi pigliando le forme di buon pastore”.

 

                D. Bosco al suo ritorno a Torino fu accolto dai giovani dell'Oratorio come in trionfo, e in quel giorno fu a tutti imbandito un buon pranzo per festeggiare il felice avvenimento.

                D. Alasonatti rispondendo ad una lettera del Reverendissimo D. Rosaz, Canonico della Cattedrale di Susa, ove il Teol. Borel si trovava in que' giorni, fa cenno di questa missione.

 

                               Molto Rev.do e carissimo Sig. Canonico,

 

                Credo che avrà ricevuto i 100 librettini per la Domenica onde tener conto dei giovani che vengono a frequentare le sue istruzioni ed a ricevere giovamento dallo zelo di V. S. Rev.ma.

                La egregia Società di S. Vincenzo de' Paoli, della quale mi chiede notizia, divisa in tante conferenze e diramata per tutta questa città, è la promotrice della sana educazione e della massima parte della moralità che si scorge nel popolo. Essa vuole altresì sapere dove abitano i suoi protetti, con chi, e quando ed in che lavorano: è incredibile il gran bene che fa.

                Abbia la bontà di riferire al Sig. D. Borel che i suoi ordini, saranno eseguiti con puntualità; almeno così mi fu promesso dal giovane cui diedi la nota con dichiarazione apposita; non che di riverirlo colli signori Can. Marzolino, Gey ecc. a nome mio e del Sig. D. Bosco, il quale oggi è reduce da una Terra, dove predicando gli spirituali esercizii riportò i più segnalati trionfi e se ne viene carico delle più gloriose palme. Basti dire che due volto già si era tentato invano di cominciarli nei tempi andati da altri: questa volta presero così bene che per andare in pulpito [425] doveasi persino salire per buche e passare dalla volta della chiesa. E ciò in Viarigi patria del famoso Grignaschi.

                Il Signore benedica Lei e l'opera del suo zelo e mi voglia credere in osculo sancto con perfetta stima e massima considerazione

                Di V. S. Ill.ma.

                Torino, 19 mezzanotte sul 20 del 1856,

 

Oss.mi servitori

D. Bosco e D. ALASONATTI per esso.

 

                D. Bosco però non era pienamente contento del bene fatto se non riusciva a rendere veramente pentito o almeno innocuo il Grignaschi. E colla sua carità tanto adoperossi che finalmente potè da lui, sulle prime riluttante, ottenere in una visita che gli fece nel dicembre 1856 o gennaio 1857, la ritrattazione, per iscritto, de' suoi errori, che fu immediatamente spedita al Vescovo di Novara. Monsignore la trasmise alla Sacra Congregazione del Sant'Uffizio, che, non avendola giudicata completa, ne formulò un'altra più esplicita che dal Grignaschi venne accettata. Mons. Gentile, delegato della Santa Sede si recava al Castello d'Ivrea il 2 aprile 1857, e innanzi a lui inginocchiato il Grignaschi leggeva parola per parola la cedola impostagli di sua abiurazione, confessava l'enormità delle sue colpe, e prometteva con giuramento di detestare le empie dottrine professate, insegnate e promulgate, di aderire pienamente agli insegnamenti e all'autorità della Chiesa, e di accettare tutte le penitenze che gli furono o gli saranno imposte dal Santo Uffizio. Il Vescovo lo assolse allora dalla scomunica riservata al Papa, e quella cedola venne firmata dal Grignaschi, dal Vescovo e da due testimonii, uno dei quali fu il Teol. Antonio Belasio, Missionario [426] Apostolico, dal quale si ebbe il racconto di quanto fece D. Bosco per quel disgraziato. Per ordine di Roma tale ritrattazione lo stesso Grignaschi rendeva testualmente a pubblica cognizione, nel giornale dell'Armonia nel numero 150, 3 luglio 1857, all'uopo di riparare per quanto era possibile agli scandali da lui dati al prossimo. - Questo documento, autenticato dalla Curia Vescovile di Novara, confermò nei buoni propositi i suoi discepoli, convertiti da D. Bosco e dal Can. Borsarelli.

                Però la sua conversione non parve sincera. Grignaschi intanto scontata la sua pena venne a visitare D. Bosco nell'Oratorio. Era vestito da secolare e non riprese mai più la veste da prete. D. Bosco lo accolse come si accoglie il più caro fra gli amici e lo abbracciò strettamente, sicchè pareva non potesse più distaccarlo dal suo cuore. Furono presi in buona parte i suoi ammonimenti e specialmente ottennero da lui promessa che non si sarebbe fatto vedere a Viarigi. Temevasi che tornasse a devastare l'ovile di Gesù Cristo e si è debitori alle esortazioni di D. Bosco se D. Grignaschi più non cercò di far proseliti. Ritiratosi questi per varii mesi in una cascina appartata dell'Astigiano, aveva provato tanta consolazione parlando con Don Bosco, che altre volte ancora venne a visitarlo. Andato poco dopo a nascondersi in un paesetto della Liguria di ponente a Villafranca presso Nizza comprò una casetta e più non fece parlare di sè. Don Bosco ebbe di lui alcune lettere che noi conserviamo, e cercò ancora di avvicinarlo, di aiutarlo anche materialmente e gli mandò l'amico comune Tamietti Giovanni di Cambiano, perchè ne esplorasse i sentimenti e lo confortasse con buoni consigli. Sovente l'infelice ricordava le accoglienze fattegli di D. Bosco ed eslamava commosso: Oh che carità, che [427] carità quell'uomo! Il P. Protasi Gesuita, suo compagno di scuola, aveva fatto eziandio del suo meglio per guadagnare quell'anima a Dio. Sugli ultimi anni Grignaschi protestava di essere buon cattolico, ma il suo cuore era sempre lo stesso. È  spaventoso l'accecamento prodotto dalle cattive abitudini e dalle diaboliche attinenze. Egli moriva nel 1883 senza ricevere i Sacramenti della Chiesa.

 

 

CAPO XXXV. Giovani raccomandali dalle Autorità civili - Sistema di D. Bosco in queste accettazioni - Domanda di un imprestito alle Casse dello Stato - D. Bosco e Rattazzi - Fortezza di D. Bosco nel sostenere apertamente i diritti della verità - Nuove leggi scolastiche - La protezione della Madonna - Voli annuali.

 

                OGNI anno si moltiplicavano le domande a D. Bosco perchè ricoverasse poveri giovanetti nell'Ospizio di S. Francesco di Sales. Oltre quelli che venivano raccomandati o dai parenti o dai parrochi, molti si raccomandavano di per se stessi. Quasi tutte le domeniche tra i giovani che frequentavano o si recavano per la prima volta all'Oratorio festivo, D. Bosco ne scorgeva di quelli i quali si trovavano in tale abbandono, che se non venivano presto ritirati si sarebbero messi infallantemente nella via del male. Nella stessa condizione scorgevansi molti dei fanciulli che si portavano negli Oratorii di San Luigi a Portanuova, e dell'Angelo Custode in Vanchiglia; e or l'uno or l'altro de' due Direttori gliene consegnavano di quelli, che erano veramente degni della più alta compassione. [429] Altri non di rado gli erano raccomandati dalle Autorità civili, dagli stessi ministri del Re e specialmente da quello dell'Interno; ed egli, finchè aveva un bugigattolo, o ripostiglio, non rispondeva mai di no e l'occupava con un letto; anzi nell'estate del 1855 qualcuno aveva dormito nientemeno che in un piano del campanile. Di quest'anno si conservano le seguenti domande.

 

                Gran Magistero dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.

 

Torino, 7 febbraio 1856.

 

                Mentre mi riservo di esaminare se sarà possibile di accrescere l'annua sovvenzione che l'Ordine Mauriziano elargisce alla pia Opera da V. S. Ill.ma e Molto Rev.da fondata e diretta, ben conoscendo i sensi di vera filantropia, ond'Ella è animata e le incessanti cure con cui si adopera a sostegno e vantaggio dei giovani abbandonati ch'Ella raccoglie, debbo pregarla di voler veder modo d'annoverare fra i suoi beneficati certo Vindrola Lorenzo d'anni dodici, il di cui padre Vindrola Antonio, già commesso serviente presso gli Ufficii di quest'Ordine, si rese defunto nell'Ospedale Maggiore Mauriziano addì 28 gennaio scorso, lasciando oltre il Lorenzo un altro figlio d'anni 21, di professione facchino, il quale colle sue fatiche provvede stentatamente a se stesso, e non potrebbe al certo essere di verun aiuto al proprio fratello apprendizzo calzolaio, il quale trovasi così orfano e totalmente abbandonato in età di soli 12 anni. Sembrandomi affatto eccezionale e degno di compassione lo stato di questo sventurato giovanetto, io credo debito mio d'interessare vivamente l'animo benefico di V. S. Ill.ma e Molto Rev.da, onde voglia ammetterlo nell'Istituto ch'Ella dirige, ove, come gli altri ricoverati, sia provvisto del necessario ed incamminato nell'attuale od in altra professione, che gli fornisca un giorno i mezzi di campare onoratamente la vita.

                Nella lusinga che Ella sarà per raccogliere favorevolmente questa mia raccomandazione, Le sarò tenuto di un cenno di [430] risposta, onde possa far avvertire questo giovane che si presenti a V. S. Ill.ma e Molto Rev.da; ed intanto Le confermo i sensi della mia distinta considerazione.

 

Il primo Segretario di S. M.

CIBRARIO.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Gabinetto particolare.

Torino, 25 settembre 1856.

 

                Ill.mo e Preg.mo Signore,

 

                Non volendo che al povero giovane Romano Chiri manchi per avventura il beneficio dell'educazione di codesto benemerito istituto, che io stesso proposi, per difetto dei necessario corredo di cui dovrebbe il medesimo essere provvisto, penso di concorrere in parte io, e trasmetto perciò qui compiegato a V. S. un biglietto di banca di lire 100 con preghiera di volere Ella stessa provvedere al giovane quel tanto di corredo che meglio potrà.

                Colgo questa occasione per professarle i sensi della mia distinta stima e considerazione

                Della S. V. Ill.ma e Rev.ma

Dev.mo Servitore

U. Rattazzi.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO.

 

Torino addì 3 novembre 1856.

 

                Il Capo Usciere Gioachino Fissore resesi testè defunto lasciando nell'indigenza la vedova col peso della prole in tenera età fra cui un ragazzo di anni 9. Non potendo la vecchia ed indisposta genitrice provvedere all'educazione e mantenimento del medesimo, il Ministro sottoscritto, conscio della filantropia ed interessamento che il Rev.do D. Bosco Direttore del Pio Istituto [431] maschile in Valdocco prende per li ragazzi abbandonati od altrimenti privi di mezzi, gli raccomanda il ragazzo Fissore e lusingandosi che possa il medesimo essere ricoverato nel Pio Istituto, gli soggiunge che gli sarà presentato dalla propria madre latrice della presente.

 

Il Ministro

U. Rattazzi.

 

                Da queste lettere traspare anche il prudente modo di procedere adottato da D. Bosco nell'accettazione di certi giovani. Molti parenti, non solo di Torino, ma di altre parti dello Stato, per ottenere più facilmente il ricovero nell'Oratorio dei loro figliuoli, ricorrevano alla autorità civili e queste alla loro volta li raccomandavano a D. Bosco. Egli rispondeva subito con lettera rispettosa e cortese; e se aveva posto disponibile e se credeva opportuna tale accettazione, faceva notare come nulla volesse negare a tali intercessori e come grande fosse la sua fortuna di poter loro rendere servizio. Nello stesso tempo li pregava di far sapere al padre, alla madre, o ad altri protettori di quei fanciulli, che si presentassero al Superiore dell'Oratorio per accordarsi sul tempo e sui modi dell'ammissione. Venuti i parenti, D. Bosco mentre li accoglieva con grande carità, proponeva loro i patti, i quali consistevano nell'invitarli a cercare se potessero ottenere qualche sussidio dai loro congiunti, dagli amici o dai benefattori, acciocchè concorressero anch'essi in quell'opera di beneficenza.

                Regolavasi in questa maniera, perchè le persone raccomandate dalle Autorità, si presentano sempre agli Istituti, come aventi diritti, gloriandosi della raccomandazione ottenuta; e stimavano quindi di non avere contratta obbligazione alcuna verso l'Oratorio. Perciò D. Bosco con tale [432] proposta faceva loro sentire che dipendevano da lui solamente le sorti dei figli e non da altri; che egli solo poteva concedere o negare il favore: e allora si abbassavano le arie, e si desisteva dalle pretensioni. Quindi quella buona gente incominciava a supplicare; e D. Bosco talora prendeva tempo a rispondere, ora faceva proposta del pagamento di una somma annuale molto esigua, ora si contentava che i giovani non altro recassero che il proprio corredo; il più sovente faceva la grazia di accettarli gratuitamente; ma voleva che si riconoscesse a chi fossero debitori del benefizio. D. Bosco poi inculcava a' suoi collaboratori, di seguire sempre in simili casi tale regola, assicurandoli essere la vera per rimanere padroni in casa propria.

                Queste raccomandazioni di persone influenti nella cosa pubblica D. Bosco sapeva anche con fine ingegno provocarle in qualche circostanza, per trarne il vantaggio dell'Oratorio. Quando certi parenti, senza alcun mediatore, gli presentavano i figli, che essi non potevano mantenere ed educare, talora interrogavali per conoscere la loro condizione sociale e le loro attinenze; e poi consigliavali ad indirizzare a nome proprio una supplica a qualche illustre personaggio che egli stesso indicavagli per certi suoi fini, p. e. ad un Ministro, ad un Senatore, ad un Deputato del suo circondario, all'Intendente della Provincia, o al Sindaco del proprio paese, per essere raccomandati a qualche Opera Pia e nominatamente a quella di D. Bosco. Coloro che ricevevano tali suppliche cogli attestati richiesti, le mandavano all'Oratorio, accompagnate da una lettera d'ufficio che le appoggiava; e D. Bosco apriva allora carteggio con questi signori. Sovente era una corrispondenza epistolare complicata, poichè tali dispacci, da [433] un Municipio o da altri protettori si rivolgevano all'Intendente della Provincia e da questi a quello della Capitale, un Ministro le trasmetteva al Sindaco o all'Intendente e via via passavano così per varii ufficii e dicasteri prima di giungere a destinazione. Con quest'arte di prudenza D. Bosco faceva sempre meglio conoscere nelle sfere ufficiali l'esistenza e l'importanza del suo Istituto. Chi proponeva per l'accettazione un giovane veniva in certo modo a rendere omaggio di lode e di fiducia all'Oratorio, corrispondente ad una tacita approvazione per quanto D. Bosco operava a vantaggio della gioventù; le alte dignità dello Stato, trovando D. Bosco accondiscendente alle loro richieste, si mostravano a lui benevole in molte circostanze. D. Bosco accettando quel raccomandato, rendeva in certo modo garanti dell'adempimento dei patti stabiliti coloro che raccomandavano, e a tempo debito sapeva chiedere loro o al governo sussidii, aiuto e la cessazione delle molestie settarie.

                Senonchè le accettazioni di giovani richiedevano più capace edifizio in Valdocco. Perciò D. Bosco, sul principio del 1856, aveva chiesto alle Casse dello Stato una somma ad imprestito per finire la costruzione del suo nuovo fabbricato, rimasto incompleto nel 1853. Strana ed ardita in quei tempi era tale richiesta, ma pure egli indicava alle Autorità civili un modo facile col quale sovvenire a certi bisogni urgenti delle popolazioni. E infatti, senza discapito delle finanze dello Stato, venti e più anni dopo si videro stabiliti per leggi imprestiti ai comuni poveri per l'erezione di edifizi scolastici, ed anche ai privati per riparare alle rovine dei terremoti, a condizione che si pagassero certe esigue annualità colle quali in certo numero di anni venivano ad estinguersi i debiti.[434] D. Bosco però domandava il mille per ottenere il dieci ed ecco la risposta che gli venne fatta.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO

                Divisione 3 N. 283.

Torino, addì 14 del 1856.

 

 

                Lodevolissimo si è il divisamento dell'ottimo Reverendo Sacerdote Giov. Bosco esposto nel memoriale unito a sua lettera delli 8 andante, quello cioè di ampliare l'attuale fabbricato onde poter estendere ad un maggior numero il ricovero dei poveri figli abbandonati e pericolanti, aperto con tanto vantaggio e filantropico impulso nel quartiere di Valdocco di questa Capitale e vedrebbesi ben con piacere che potesse essere mandato ad effetto per il sommo utile che risulterebbe a quella classe di giovani; ma non ostante ogni suo buon volere il sottoscritto non sarebbe in grado di accordargli la chiesta anticipazione di fondi per le suddette spese di fabbricazione, a fronte dell'attuale condizione in cui versano le finanze dello Stato.

                Lo scrivente si augura ed anzi confida che il benemerito Rev.do Sac. Bosco potrà gradatamente trovare i mezzi necessarii al suo intento dalla carità privata e per coadiuvarlo intanto pei bisogni ordinarii, il sottoscritto si è determinato di accordargli una sovvenzione di lire 300 sui fondi del Bilancio di questo Ministero, spiacente che la ristrettezza dei medesimi non consentano una maggiore largizione.

                Si è provveduto per la spedizione del mandato, il quale sarà pagato dalla Tesoreria dell'Interno.

 

il Ministro

U. RATTAZZI.

 

                Questa lettera dimostra come Rattazzi continuasse a pigliar vivo interessamento per D. Bosco e l'opera sua.. Soleva dire che il Governo era obbligato a proteggere tale istituzione, perchè cooperava efficacemente a scemare gli inquilini delle prigioni e a formare savi cittadini. [435] Tutte le carte, di qualunque negozio trattassero, che Rattazzi mandava a D. Bosco, firmavale di proprio pugno e il suo nome era scritto in calce della raccomandazione per giovani da ricoverarsi. Alle domande poi di sussidii, pregiavasi di fare egli stesso la risposta, non valendosi in tale circostanza dell'opera dei segretarii.

                Incoraggiava D. Bosco a proseguire nella sua nobile impresa, e ogni qual volta saliva al Ministero degnavasi fargli sapere che nulla avrebbe a temere da lui; e mantenne la sua parola. Amavalo di sincero affetto, adoperava in suo favore l'influenza che godeva nelle alte regioni dello Stato, e aveva per lui così grande riverenza, che nelle conversazioni chiamavalo un grande uomo. Varie volte venne a visitarlo nell'Oratorio e talora lo chiamava al palazzo del Ministero, per raccomandargli a voce qualche giovanetto abbandonato, per suggerirgli come liberarsi da qualche persecuzione ed anche per altri affari.

                D. Bosco però, benchè sentisse viva la riconoscenza stava in guardia per non restargli obbligato in modo che ne scapitasse la libertà delle sue azioni. Infatti, essendogli stata offerta da lui una cospicua somma a condizione che facesse riconoscere dal Governo il suo Istituto come Opera Pia, D. Bosco espose sue ragioni per non accettarlo, e il Ministro non insistette.

                Quando recavasi all'udienza, Rattazzi usavagli speciale cortesia.

                Le sale di anticamera erano zeppe di persone titolate, di segretarii di varii ministeri, di capi d'ufficio, e di altri signori che occupavano cariche importantissime. D. Bosco doveva essere introdotto per l'ultimo, essendo l'ultimo scritto sulla nota che presentavasi al Ministro. Rattazzi però, letta la nota, senz'altro ordinava: - L'Abate Bosco! [436] Entri. - E con meraviglia di tutti veniva fuori dal gabinetto l'usciere dicendo ad alta voce: - L'Abate Bosco è chiamato dal Ministro! - E Rattazzi diceva a D. Bosco appena entrato: - Lei non ha tempo da perdere!

                Qualcuno giudicò che D. Bosco si avvicinasse troppo a Rattazzi e ad altri personaggi che erano nel campo opposto alla Chiesa, e che fosse con questi in attinenze più strette di quello che convenisse. E D. Bosco non era così tardo d'ingegno da non prevedere certe dicerie; ma, poichè si trattava della gloria di Dio, di fare il bene e di impedire quel male che si poteva, e la sua condotta dimostrava la rettitudine de' suoi principii e delle sue intenzioni, non se ne commoveva punto. Egli infatti era tutto di un carattere cattolico nel dire la verità. Fedele alla Chiesa, senza restrizioni nè riserve, la sua fede era la fede di Pietro, e a nessuno e in nessun luogo occultava le sue ferme, le sue incrollabili credenze. Il rispetto umano non lo vinse mai, e se fu sempre mansueto e indulgente colle persone, quanto ai principii e alla dottrina non transigeva. Giammai fece o simulò di fare, per qualche vile pretesto, causa comune co' nemici di Dio; ed è per questa fortezza, che gli stessi uomini più funesti per la causa della religione, lo trattarono con atti di stima.

                Il Ministro Rattazzi, ci narrò Mons. Cagliero, approfittando della confidenza che aveva con D. Bosco, un giorno dopo l'udienza che avevagli accordata al Ministero, gli domandò, se a causa di quanto aveva, dovuto fare come Ministro dello Stato contro la Chiesa, ne avesse egli proprio incorso le censure. D. Bosco, a quella non preveduta domanda, credette bene non rispondergli subito e chiese tre giorni di tempo, dicendo: - In cose gravi desidero pensare e meditarci sopra un poco. - Dopo tre giorni [437] D. Bosco si recò di bel nuovo dal Ministro, credendo che avesse dimenticato un tale quesito; ma Rattazzi appena lo scorse, dissegli: - Ebbene! Sono scomunicato? - E D. Bosco prontamente: - Eccellenza! Ho studiata la questione ed ho fatto di tutto per poterle annunziare che non aveva incorse le censure, ma con mio dispiacere non ho potuto salvarlo. Non ho trovato alcun autore di Teologia che lo scusi. - Questa schiettezza e libertà di D. Bosco piacquero a Rattazzi, il quale soggiunse: Bravo, D. Bosco! Era certo che lei non mi avrebbe ingannato, ed è perciò che ho voluto saperlo da lei. Finora nessuno volle essere schietto, col dirmelo. Sono contento della sua franchezza e le ripeto ciò che le ho già detto; si rivolga pure a me ogni qualvolta ha bisogno di qualche aiuto pe' suoi fanciulli.

                Talora egli diceva scherzando a D. Bosco: - Preghi per me, che se debbo andare all'inferno, non vada troppo al fondo. -Questo è segno che D. Bosco, aveagli fatta udire qualche parola di vita eterna, che era solito di intromettere in modo diretto o indiretto in ogni suo discorso.

                Un giorno, entrando da Rattazzi, gli fece osservare: -Eccellenza, il suo gabinetto sembra un confessionale circondato dai penitenti in tempo di Pasqua, tanta è la moltitudine che attende nell'anticamera.

                Il Ministro gli rispose: - Con questa differenza, mio caro D. Bosco: che chi parte dal confessore parte contento, colla pace nel cuore, benedicendo il padre spirituale; mentre invece chi parte dal Ministro, che non ha potuto contentarlo accondiscendendo alle sue domande, si allontana da lui pieno di malvolere e maledicendolo!

                Quest'uomo aveva ancor nel cuore un resto di fede, ma pur troppo che cercava di farne tacere la voce. D. Cerruti [438] Francesco un giorno parlando di lui con D. Bosco, gli diceva: -Dunque quando Rattazzi parlava con lei era un ipocrita?

                - No, gli rispose D. Bosco. Era ipocrita quando parlava nella camera legislativa! Egli obbediva alla setta. In lui con deplorevoli qualità andavano congiunti nobili pregi, che in altra epoca o vivendo in altra atmosfera e senza i patti che lo legavano, avrebbero fatto di lui un uomo grande, invece d'un uomo funesto.

                Così fu di altri che appartenevano al suo partito e facevano causa comune per scemare sempre più l'azione della Chiesa anche nelle scuole.

                Nel principio del 1856 Lanza Giovanni Ministro dell'Istruzione Pubblica presentava in Senato un disegno di legge col quale stabilivasi che tutti i Seminarii e i Collegi Vescovili dovessero dipendere dal Ministero. Il Parlamento approvava e i Vescovi protestarono.

                Mentre questa legge ed altre, o già emanate, o che si andavano preparando, mettevano in grandi angustie gli Istituti ecclesiastici, D. Bosco aveva incominciato ad aprire le scuole interne dell'Oratorio. Meditando la vastità de' suoi disegni per l'istruzione e l'educazione della gioventù, prevedeva le grandi procelle che sarebbonsi sollevate contro di lui; ma procedeva sicuro dicendo più volte a' suoi discepoli: - Non dubitate! Passerà la burrasca, tornerà il bel tempo, e fortunati quelli che non piglieranno scandalo da me. È  una promessa che io ebbi da tale che non s'inganna. L'Oratorio non è cosa mia; anzi se fosse mia, vorrei che il Signore la disfacesse subito.

                Ed è perciò che volle mettere il suo primo maestro regolare di lingua latina sotto una speciale protezione di Maria SS. Quindi il Ch. Francesia Giovanni nel 1856, senza [439] alcun esteriore apparato, come aveva fatto l'anno antecedente il Ch. Rua, si legava per un anno a Dio con voti, in servizio dell'Opera di D. Bosco. Egli aveva scritto in latino una memoria di quella prima felice consecrazione e poi la data che era per lui tanto importante. Un giorno D. Bosco lo sorprese mentre ei rileggeva quella pag ina e - Bravo! gli disse; questo ricordo mi fa gran piacere. - Ma quando lesse la data colle calende e cogli idi, gli osservò: - Tu ti sbagli, ti sbagli certamente; quel giorno doveva essere sacro alla Madonna, e da questa carta non appare. - Infatti il Ch. Francesia, verificando trovò che invece di un quinto kalendas si doveva scrivere quarto e coincideva con una bella festa della Madre di Dio. Allora D. Bosco riprese: - Nulla, intendi, nulla si deve fare nell'Oratorio, fuorchè nel santo nome di Maria!!

 

 

CAPO XXXVI. Letture Cattoliche - MANIERA FACILE PER IMPARARE LA SACRA BIBB1A - Circolare di D. Bosco agli associati -Lettera pastorate del Vescovo di Biella - Indulgenze -l'Arciconfraternita riparatrice delle bestemmie e della profanazione delle feste - VITA DI S. PANCRAZIO - Scambio di lettere e dispute di D. Bosco con un protestante.

 

                DON Bosco, continuava la sua associazione di libri popolari. Il fascicolo della seconda metà di gennaio era annunziato in questi termini dall'Armonia del 4 febbraio 1856:

                “Dai tipi di G. B. Paravia veniva pubblicato or ora un libriccino tra le operette delle Letture Cattoliche col titolo: Maniera facile per imparare la Sacra Bibbia ad uso del popolo cristiano, con una carta geografica della Terra Santa, per cura del Sac. GIOVANNI BOSCO. - Il nome dell'autore dice abbastanza, che il libro risponde allo scopo prefisso. Si sa quanto questo ottimo sacerdote sia zelante, operoso, ed insieme intelligente e pratico nell'istruzione del popolo...”

 

                Pel mese di febbraio i fascicoli XXIII, XXIV, stampati da Paravia, recavano: Il libro della Orazione Domenicale [441] scritto da S. Cipriano circa l'anno 252, volgarizzalo dal Conte Coriolano Malingri da Bagnolo. Era preceduto da un breve cenno sulla vita del santo. Questo libro, scritto da un martire, da uno dei primi santi Padri della Chiesa latina, è un documento della fede de' Cristiani di quei tempi, nei quali i Protestanti affermano gli insegnamenti della Chiesa cattolica essere stati ancora incorrotti. Quivi si legge a chiare note la credenza nella presenza reale di Gesù Cristo nell'Eucaristia, nel sacrificio della S. Messa, nella necessità ed importanza delle opere buone e delle preghiere, ecc.

                D. Bosco univa a questo libro una lettera circolare.

 

                               Agli Associati ed ai benemeriti signori Corrispondenti.

 

                Siamo giunti alla fine dell'anno terzo delle nostre popolari pubblicazioni sotto il titolo di Letture Cattoliche; ci sentiamo ora

il bisogno di rivolgere alcune parole ai signori Associati ed ai benemeriti Corrispondenti.

                Primieramente porgiamo vivi e cordiali ringraziamenti agli uni ed agli altri per averci sostenuti col loro concorso, che ci fu un vero conforto in mezzo ai sacrifizì, ai quali abbiamo dovuto sottostare, onde non lasciar mancare al popolo quell'istruzione e quel bene morale, che avevamo in mente ed in cuore di procurargli.

                A nulla, lo sappiamo, tutto ciò che abbiamo fatto, in vista di quanto si abbisogna specialmente nel popolo, questa classe che ci è tanto cara e che noi guardiamo come la pupilla del nostro occhio.

                Per la qual cosa pieni di fiducia negli Associati, nella cooperazione dei benemeriti Corrispondenti, nell'assistenza ed aiuto di Dio, coraggiosi entriamo nell'anno quarto delle nostre pubblicazioni, procurando di apportare tutti quei miglioramenti che possono desiderarsi tanto nella trattazione degli argomenti, quanto nella esattezza e puntualità della pubblicazione e spedizione delle dispense.

                Libri cattivi e pessimi scritti, fatti per corrompere i cuori e falsare l'intelletto dei semplici, si spandono a profusione ed impunemente da una mano ignota, ma scaltra e che specula l'oro. [442] sulle umane passioni a detrimento della fede, dei costumi, preparando alla famiglia, alla società intera danni incalcolabili! È  dunque di tutta importanza, anzi è dover nostro a fine di diminuire per quanto è possibile i tristi effetti di quelli, di opporvi libri buoni per alimentare lo spirito ed i cuori di principii morali;,che siano di piccola mole per non fatigare troppo; e di tenue prezzo per non domandare che un leggiero sacrificio.

                Tale è stato, o Signori, ed è lo scopo delle Letture Cattoliche. Favorire pertanto questo nostro intento, è fare opera eminentemente cattolica e sociale, è fare opera di carità. Ogni padre di famiglia dovrebbe perciò portare la sua pietra per assicurare le basi dell'edificio religioso e civile coll'associarvisi; ogni Parroco dovrebbe proteggerla e promuoverla nella sua Parrocchia; ogni facoltoso non potrebbe meglio impiegare una parte de' suoi averi che associandovisi per distribuire i fascicoli gratis a coloro ai quali mancano i mezzi materiali di farlo. Dal canto nostro crediamo di non aver mancato, avendo nel corso di soli tre anni, e con grave sacrificio, messo in circolazione seicento mila volumetti delle Letture Cattoliche: assai più ancora avremmo fatto, se fossimo stati aiutati a diffonderle in quei villaggi e città, ove pur troppo sono tuttora quasi ignote. Caldamente perciò ci raccomandiamo, e preghiamo gli egregi signori Corrispondenti a volersi adoperare affinchè crescano in numero i loro Associati, e di fare che siano conosciute ove non lo sono, nella persuasione ch'essi anche solo in questo modo si rendono benemeriti della religione e della società.

                Noi speriamo che questo nostro appello non tornerà vano, perchè ci sono abbastanza noti i principi del popolo, l'impegno ed il zelo del Clero, e la generosità dei facoltosi, nei quali tutti è posta dopo Dio la nostra confidenza. La Direzione centrale delle Letture Cattoliche è in Torino, Via S. Domenico, N. II. In quest'ufficio trovansi vendibili le operette già pubblicate nei tre anni precedenti[18].

 

LA DIREZIONE. [443]

 

                Per lavorare intorno alle Letture Cattoliche D. Bosco non toglieva un sol minuto alle molte ore che dedicava continuamente ai catechismi ed al confessionale. Era incominciata la quaresima, che terminava col 23 marzo. Egli non guardava ad incomodi, a moltitudine di penitenti, non a freddo intenso o ad umido penetrante o al caldo che soffocava, non alle punture di moltissimi insetti che generalmente si trovano sempre numerosi nelle grandi radunanze di giovani. Tutto D. Bosco tollerava colla più grande piacevolezza ed invece di lagnarsi ne rideva poi lietamente. Tutt'al più rientrando in camera si ripuliva, disposto a ricominciare al domani il suo lento e prolungato martirio.

                E dal confessionale ritornava al suo tavolino da studio a correggere le bozze di stampa. In quest'anno riduceva a dodici i fascicoli delle Letture Cattoliche, senza però diminuire il numero delle facciate promesse. Il fascicolo di marzo aveva per titolo: La Domenica al popolo, composto dalla tipografia Ribotta, nel quale dominavano questi tre argomenti: - La profanazione delle feste è un delitto contro Dio e contro l'umanità - Ricreazioni e vita di famiglie nei giorni festivi - La bettola e gli eccessi nella domenica. [444]

 

                L'Armonia il 28 marzo stampava:

                Noi abbiamo già raccomandato nel nostro foglio le Letture Cattoliche e troviamo tuttavia opportuno di rinnovare le nostre istanze, or che venne pubblicato il primo fascicolo dell'anno IV intitolato: La Domenica al popolo. Nè sapremmo come meglio impegnare i buoni a consacrarle le loro simpatie, che ripetendo quanto l'Ill.mo e Rev.mo Vescovo di Biella diceva a' suoi diocesani, a questo medesimo scopo, nella sua lettera pastorale per la testè passata quaresima.

                “Una delle opere, scrive egli, di carità più fiorita si è quella che si fa all'intelligenza, ai nostri tempi massime, in cui con tanto ardire ed impegno si cerca dai nemici della Chiesa di pervertirla; quindi è che noi non sapremmo abbastanza raccomandare a tutti gli ecclesiastici e secolari zelanti l'onor di Dio, il trionfo della Chiesa Cattolica e il buon costume, di promuovere con calore particolarmente la diffusione delle Letture Cattoliche, onde opporre un pronto e preveniente antidoto al veleno, che sotto mille colori seducenti si va spargendo dai fogli che stampansi, da cui ne risulta poi nel popolo inganno e pervertimento. Bisogna perciò adoperarsi e procurare secondo il Charitas Christi urget nos, che passino di mano in mano, di famiglia in famiglia, e far si che si leggano e si comprendano, perchè ai nostri giorni questa è carità veramente opportuna, e di beni spirituali fecondissima”.

 

                Intanto un grande sollievo arrecavano a D. Bosco le facoltà chieste alla Santa Sede e concesse per tre anni, di poter benedire crocifissi e medaglie con l'applicazione dell'indulgenza plenaria in punto di morte, e le corone coll'applicazione delle indulgenze dette di S. Brigida[19]. [445]

                Quindi pel mese d'aprile consegnava a Paravia il libretto anonimo, intitolato “La Bestemmia Avvertenza al popolo”. Aggiungendovi egli qua e là qualche fatterello edificante, esponeva sulla fine il Regolamento della Pia Arciconfraternita riparatrice delle bestemmie e della profanazione delle feste. Fondata in Francia dal Sac. Pietro Marche nel 1847, propagata con prodigiosa rapidità, stabilita in quest'anno nella Chiesa delle Orfane in Torino, nel Santuario di N. S. d'Oropa presso Biella e in molte parrocchie con approvazione dei due prelati, contava già più migliaia d'inscritti. Perciò la direzione delle Letture Cattoliche offrivasi di procurare il diploma di aggregazione [446] all'Arciconfraternita, a coloro che non potessero ricorrere direttamente al Sac. Pietro Marche parroco de la Noue a Saint Dizier, porgendo loro il mezzo per goderne i vantaggi e i privilegi concessi dalla Santa Sede.

                Per favorire il più che fosse possibile questa associazione, D. Bosco annunziava eziandio come se ne vendesse il Regolamento dalla Direzione delle Letture Cattoliche a, cent. 30 la dozzina.

                Mentre i torchi imprimevano questi fascicoli, D. Bosco, scriveva il libretto pel mese di maggio, ed era la Vita di S. Pancrazi martire con appendice sul santuario a lui dedicato vicino a Pianezza. Egli amava questo santuario,e talvolta vi andava, ora solo ora accompagnato dai giovani in pio pellegrinaggio. Nel descrivere i fatti gloriosi di questo giovanetto ha di mira la confutazione degli errori dei Valdesi; quindi, come in ogni suo scritto, così in questo prende occasione dall'incontro di S. Pancrazio col Papa S. Caio per far risaltare il primato su tutta la Chiesa dei Sommi Pontefici; e coi miracoli strepitosi da lui operati nel corso dei secoli conferma il dogma cattolico sul culto delle reliquie dei santi e sulla potente loro intercessione presso Dio. Incominciava con un Avviso importante:

 

                Mentre, o lettore cristiano, ti fai a leggere la vita di San Pancrazio martire, ti nascerà forse in pensiero di sapere ove siano state attinte le notizie contenute in questo libretto; e ciò per calcolare quale fede meriti chi ce le ha conservate e mandate alla posterità. Appago di buon grado questo tuo giusto desiderio.

                Per compilare questo libretto lessi e attentamente considerai quanto i più accreditati leggendarii dei santi riferiscono intorno a S. Pancrazio martire. Ho pure letto le opere del Surio e dei Bollandisti nel giorno 12 di maggio ed appendice pag. 680; del Tillemont: Memorie sopra la Storia Ecclesiastica, tom V, e del [447] Padre Giovenale agostiniano scalzo nel libro intitolato Delle maraviglie di S. Pancrazio, libri tre, stampato nel 1655.

                Ho eziandio ricavato alcune notizie dalle Omelìe dì S. Gregorio Magno, di S. Gregorio Vescovo di Tours, nel libro della gloria de' martiri, e da alcuni manoscritti autentici di cui conservasi copia originale. I mentovati scrittori raccolsero da antichi manoscritti quanto avvi di più certo intorno alla vita, martirio e culto di S. Pancrazio martire e da costoro ho ricavato guanto ivi si espone, limitandomi per lo più a tradurre o a popolarizzare quei concetti che per avventura sarebbero troppo elevati per chi non  ha fatto un corso di studio regolare. Stimo per altro bene di notare che le meraviglie operate da questo eroe cristiano sono così grandi in numero e strepitose in se stesse, che io ne ho dovuto scegliere solamente alcune per non fare troppo grossi volumi e fra queste ho pur giudicato bene di trascegliere soltanto quelle che soglionsi dalla divina bontà concedere ai mortali in via ordinaria, omettendo parecchie cose che o non potrebbero reggere ad una critica ragionevole, oppure potrebbero da qualche indiscreto essere poste in burla.

                Del resto, o lettore, quivi avrai un giovanetto, che, in via maravigliosa condotto alla Fede di Cristo, in tenera età sigillò col proprio sangue la fede, da poco tempo abbracciata. La qual cosa è un novello argomento della divinità e santità di nostra religione, poichè Dio solo può infondere tanto coraggio e tanta costanza in un nobile giovine, ricco, lusingato dall'età, dalle promesse, dagli onori e dai piaceri, il quale tutto abbandona, tutto disprezza, e affrontando l'ira di un tiranno ed i più spietati tormenti nella sola speranza dell'eterna ricompensa, va intrepidamente incontro alla stessa morte per la fede di Cristo.

                Vorrei eziandio, o cattolico lettore, che tenessi bene a mente, la sola cattolica religione aver veri martiri, e che l' immensa quantità di martiri i quali l'hanno glorificata, e che ella propone alla venerazione dei fedeli, sono come altrettanti testimoni della verità della medesima religione, che in ogni tempo ed in tanti luoghi la conobbero divina e santa, e col prezzo della lor vita la predicarono e la confermarono.

                Le altre società che si vantano parimenti cristiane, non hanno alcun martire che si possa dire morto in conferma delle verità [448] della loro credenza; neppure hanno alcun santo che abbia operato miracolo, nemmeno un santuario ove si possa additare un segno di miracolo operato, o di grazia ricevuta. Ora il non avere tali sette nè martiri, nè santi, nè miracoli, nè santuari, è cagione che portano con sè un'avversione verso i santi, verso le reliquie e verso i santuarii, dove le reliquie, le immagini dei santi sono dai fedeli con ispecial devozione venerate, e dove Dio ad intercessione dei suoi eletti suole in gran copia concedere i suoi celesti favori. Iddio, che è infinitamente buono e in pari tempo maraviglioso nei suoi santi, inspiri il coraggio ai cattolici a seguire la strada di tanti milioni di santi martiri, confessori, vergini e penitenti che ci hanno preceduto; e a quelli poi che son fuori della Chiesa, a tutti conceda lume per conoscere la verità, forza a scorgere l'errore, coraggio per abbandonarlo, e venire all'ovile di G. Cristo per formare un solo gregge in terra, ed essere di poi con lui un giorno a cantare le sue misericordie eternamente in cielo.

 

                Così D. Bosco con questo libretto, del quale, come di tutti gli altri suoi scritti, si moltiplicarono fino ad otto e dieci edizioni, continuava a combattere l'errore dei Valdesi. Questi eretici erano baldanzosi, perchè allora privilegiati al punto di godere di una piena libertà d'insegnamento nelle loro scuole; se i regii ispettori sugli studi a Pinerolo avessero voluto visitare il loro collegio, o chiedere la patente d'insegnante ad un loro professore, venivano traslocati sull'istante.

                D'altra parte avevano per alleati i giornali settari, e specialmente la Gazzetta del Popolo, che indicava D. Bosco col soprannome di D. Bosio, per insultarlo impunemente con osceni articoli.

                I Valdesi pertanto colla stampa, colle dispute, colle lettere fatte scrivere dagli apostati allo stesso D. Bosco, da noi conservate come documenti d'ignoranza, di sgrammaticatura [449] e di orgoglio, cercavano di confonderlo e di farlo tacere. D. Bosco però era indefesso nella sua impresa; la carità di Gesù Cristo e i modi di S. Francesco di Sales erano le sue armi; e rispondeva senza alcuna acrimonia, dissimulando le ingiurie e rispettando le persone. Anzi per mezzo degli amici cercava di attrarre a sè, inducendoli a fargli visita, que' poveretti che avevano volte le spalle alla vera religione. Era un combattimento spirituale di zelo ardente contro l'intero esercito dei traviati, e nello stesso tempo un singolare certame con molti di essi.

                Di quanto diciamo ecco una prova nella corrispondenza seguente.

 

                               M. R. Sig. D. Bosco,

 

            Chi si pregia d'indirizzare alla S. V. R. la presente è certo ingegnere Giov. Prina Carpani di religione evangelico, impiegato all'uffizio del Catasto, del quale individuo il sig. Pina di lui collega ne ha già tenuto discorso a V. R. Già due volte il sottoscritto si è recato a Lei, insieme col predetto sig. Pina e l'altro ieri da solo e non ebbe il bene di trovarla; perciò ha divisato di scriverle queste righe, per informarla delle proprie intenzioni.

                Premesso che nel sig. Pina trovo un giovane veramente raro pei tempi che corrono e specialmente dotato di un cuore religioso e cristiano; pur sgraziatamente, per l'ignoranza ed i pregiudizi inoculati in lui da una subdola educazione, è incapace non solo di fare, ma neppure d'intendere una logica argomentazione in fatto di religione: così ha stimato bene il sottoscritto di additargli la S. V. R.ma per di lui avvocato di cui, a parte le proprie opinioni, la fama corre onoratissima, e perciò di avere una conferenza con esso Lei, nella quale sia dato allo scrivente di dar conto a questo sig. Pina della propria fede, delle proprie speranze e del fondamento su di cui sono basate. Questa conferenza avrebbe per iscopo d'insegnare cristianamente a questo sig. Pina a non pensare e giudicare colla testa altrui, ma di istruirsi meglio per non fare la figura di uomo del medioevo, cioè di presuntuoso [450] e fanatico. In pari tempo perchè l'avversario sarà assistito dalla S. V. R.ma, così il sottoscritto intende d'essere assistito dal di lui fratello in G. C. Carlo Davite da Lei già conosciuto. E perchè poi i nostri discorsi siano di qualche frutto, si desidera altresì col di Lei beneplacito, che siano presenti, solo come testimoni, due altri nostri colleghi d'impiego i quali, come discretissimi, istrutti e di retto criterio, abbiano dalla forza dei nostri argomenti, a dar gloria a Dio, col riconoscere che la rivelazione è verità, e fuori di quella tutto errore.

                Nella speranza di un favorevole riscontro, si anticipano sinceri ringraziamenti da chi ha il pregio di segnarsi

                Della S. V Rev.ma

                Torino, 18 aprile 1856.

 

Devot. Servitore

Ing. Giov. PRINA CARPANI

 

                D. Bosco rispondeva al sig. Prina Carpani con una lettera che dimostra quale fosse il suo stile trattando con coloro che si erano allontanati dalla verità.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Mi rincresce di non essermi trovato a casa nelle due volte che V. S. Ill.ma ebbe la bontà di passare a mia casa; la moltiplicità delle mie occupazioni fanno che spesso mi trovi altrove, se non son prevenuto di non assentarmi.

                Disposto ad occuparmi in ogni cosa che possa tornare utile al mio prossimo, sono prontissimo ad accogliere Lei co' suoi amici ad una  amichevole conferenza. Ma prima è necessario che La preghi di volermi significare alcuni punti che a me paiono indispensabili, fra due amici cristiani che vogliono parlare di religione.

                I. Dire se lo scopo di Lei e de' suoi amici è di disputare o conferire per conoscere la verità e seguirla malgrado qualsiasi ostacolo. - La sola disputa non produce alcun vantaggio morale, se è disgiunta da questo desiderio di conoscere e seguire la [451] verità. - In questo caso è necessario di pregare con cuore umile, affinchè Dio ci doni i suoi lumi e faccia conoscere le cose come Le farà un dì conoscere, quando ci presenteremo dinanzi al tribunale di Gesù Cristo.

                2. Se Ella intende di servirsi della sola Bibbia od anche della tradizione, e nel primo caso quale Bibbia gradisca di usare: se greca, od ebraica; se latina, od italiana, oppure francese.

                3. Se nel discorrere insorgesse discussione intorno a cui non potessimo andare d'accordo, a chi ricorrere per farlo giudice del nostro dubbio?

                Quando V. S. nella sua bontà mi abbia data tale risposta io sceglierò un tempo che sia comodo a Lei e in cui io vada meno esposto ad essere disturbato dalle cure domestiche e potremo liberamente conferire con Lei e con tutti que' suoi amici che volessero intervenire.

                Intanto io La prego di voler gradire la mia comunque siasi amicizia, assicurandola che io di tutto cuore l'amo in Gesù Cristo, che prego di voler concedere a tutti lumi per conoscere la verità, coraggio e grazia per seguirla e così fare un solo ovile in terra per goderlo di poi eternamente in Cielo.

                Con pienezza di stima mi creda in quel che posso

                Torino, 19 aprile 1856.

 

Devot.mo Servitore in G. C.

Sac. Bosco Giov.

 

                Il sig. Ingegnere non tardava a riprendere la penna.

 

                               M. R. sig. D. Bosco,

 

                La preg.ma di V. S. Rev.ma in data 19 andante mi è stata solo nella mattina del giorno 21 andante recapitata al mio entrare in uffizio, e La ringrazio di cuore del cordiale e cristiano riscontro che Ella si è degnata di farmi. Forse non Le sarà di subito recapitata la presente in riscontro, avendo pure io quasi tutto il mio tempo diviso tra l'impiego, la famiglia, i bisogni temporali della Società Evangelica cui appartengo e più di tutto per gli inesauribili bisogni miei spirituali, essendo, per la grazia di [452] Dio, cristiano di data piuttosto recente. Questo valga anche per avermi per iscusato se la nostra conferenza verrà alquanto aggiornata.

                Rispondendo per punto e per filo alla di Lei preg.ma, Le faccio presente che lo scopo da me prefisso l'ho già espresso nella mia precedente, cioè di mostrare la mia fede, la mia speranza e il fondamento su cui sono basate. Le conseguenze saranno più tosto gli altri che le dovranno seguire, che non io, perchè io so in chi confido, se così piacerà a Lui: che il suo S. Spirito sia in mezzo di noi ed apra i cuori di chi crede seguire la sua volontà e non si accorge di seguire le baratterie degli uomini. Non pertanto mi protesto di non essere l'ostinazione mio carattere, ma qualora fossi vinto, lo confesserò francamente. In quanto poi al seguire i 1 vincitore, Le devo fare osservare che in questa materia vuol lasciarsi in pieno arbitrio del vinto, perchè per forza di argomenti da un parte, e per ignoranza o poca destrezza nell'impiegarli dall'altra, si può ben avere la bocca turata; ma non sempre può venire la convinzione nell'intelletto, e molto meno quella nel cuore, la quale non può con sincerità testimoniarsi se non da colui che sente che lo Spirito del Signore ve l'ha posta. Ho detto questo perchè riputerò sempre per mentitore a se stesso e agli altri, anzi un vero ipocrita, chi dice e mostra, per piacere agli altri, di seguire una religione senza avere la convinzione di mente e di cuore. Ciò valga anche per protestarle che, anche dopo l'esito della nostra conferenza, avrò sempre la medesima stima di prima per gli avversari.

                Riguardo all'esporre ciascuno con sincerità le proprie opinioni come avanti a Colui che non si inganna, io non dubito punto di Lei, perchè se tale non l'avessi creduto, non l'avrei scelto, e in quanto a me e al mio fratello sarà la sola Bibbia che parlerà commentata dalla stessa Bibbia: e da ciò intenderà V. S. R.ma che vado a rispondere al secondo punto, cioè che non posso accettare la tradizione, per ciò che conosco esservi al riguardo nella Bibbia, e che all'uopo dimostrerò e con questo e colla storia. In quanto alla qualità della traduzione della Bibbia sono indifferente a prendere tanto la volgata (toltine i libri che vi ha aggiunti il Concilio di Trento) quanto quella del Diodati, o la francese del Martin ed il testo greco del nuovo testamento per [453] quei punti nei quali vi fosse disaccordo fra i traduttori. Quando finalmente insorgessero tra noi discussioni, nelle quali non potessimo andar d'accordo, se queste saranno filologiche, i dizionari od i pratici della lingua decideranno; se di domma, deciderà la sola Bibbia.

                Prima di chiudere credo bene d'avvisarla che anche il signor Pina tanto presto non potrà disporre di convenire per questa conferenza, essendo occupato in campagna pei lavori d'ufficio. Ciò però non farà andare diserto il nostro desiderio di conferire, ma solo differirà il conseguimento. Fra tanto, a Dio piacendo, nella settimana entrante mi procurerò il favore di fare la di Lei personale conoscenza, e se Le piacerà discorreremo del Regno di N. S. G. Cristo, che è vicino a venire a consolare la sua Chiesa e a definitivamente conquidere Satana, il Diavolo che ci accusa giorno e notte avanti a Dio (GIOBBE, X, 19; Apoc. XII, 10).

                Con profonda stima e pari amore nel nostro Divin Salvatore e Re Gesú Cristo ho l'onore di segnarmi

                Della S. V. R.ma

                Torino, addì 24 aprile 1856.

 

Devot. Servitore

Ing. GIOV. PRINA CARPANI.

 

                Quanti spropositi, quante incoerenze e quali prove di evidente ostinazione nell'errore, questo signore accumula in una facciata. Essa basta per dimostrare essere il protestantesimo talmente contro ragione, che per abbracciarlo bisogna essere o pazzo in mezzo al cervello, o avere un cuore guasto, o l'animo illogicamente superbo contro Gesú legislatore. Di qui l'ostinazione degli eretici. Il disputare con essi difficilmente li porta a conversione. Il loro errore è evidente a chiunque abbia l'intelletto sano. Il fascicolo di marzo del 1838, N. LVII, pag. 281 degli Annali della Propagazione della Fede narra di una disputa pubblica di Mons. Pùrcell Vescovo di Cincinnati con un ministro [454] protestante. Il Vescovo così concludeva: “Io non posso terminar meglio questo discorso se non con un fatto, il quale è a mio parere una risposta a molti dubbi ed a molti rimproveri. Passeggiavano insieme un prete cattolico ed un ministro protestante, quando s'imbatterono in un Rabbino ebreo. - Eccoci tre, disse il protestante, ognuno di religione diversa: chi di noi ha ragione? - Io ve lo dico subito, rispose il Rabbino; ho ragione io se il Messia non è venuto: ha ragione il cattolico se è venuto: in quanto a voi, sia venuto o no, siete egualmente in errore. - E la disputa tra D. Bosco e l'ingegnere ebbe luogo, ma non sapremmo dire con quale esito per l'anima del povero protestante.

                Il metodo che teneva D. Bosco in queste dispute si è quello stesso che noi leggiamo ne' suoi opuscoli, specialmente in quelli intitolati: Luigi, ossia disputa, Ira un avvocato ed un ministro protestante. - Massimino, ossia incontro di un giovanetto con un ministro protestante sul Campidoglio - Severino ecc.

 

 

CAPO XXXVII. Si ripiglia la costruzione della seconda parte dell'Ospizio Fiducia in Dio e nella Madonna - In cerca di soccorsi - Largizione dell'Opera Pia di S. Paolo - Vicinanza pericolosa di chi non si confessa - Lettera di Rattazzi con un'offerta - Debiti col panattiere - Interessi coi Rosminiani - Il Mese dì Maggio nell'Oratorio - Fervore di Savio Domenico e sua logora sanità - La festa dello Statuto - I giovanetti cantori a Susa.

 

                IN vista dell'accrescersi delle miserie e delle domande, D. Bosco aveva presa, come già abbiamo detto, la risoluzione d'innalzare quel tratto di doppia fabbrica, che si estende al presente dal portone di mezzo sino alla chiesa di S. Francesco di Sales. Fece pertanto chiamare un certo sig. Giovenale Delponte, che faceva da ingegnere e da impresario, e gli domandò se avesse danaro per le prime spese.

                - No, rispose quegli.

                - E nemmeno io, soggiunse D. Bosco.

                - E come facciamo?

                Cominciamo egualmente, conchiuse D. Bosco, e prima che sia tempo di pagare gli operai, il Signore qualche soldo ci manderà. [456] Era questa la solita frase che D. Bosco ripetè ai costruttori ogni volta incominciava una delle tante sue fabbriche. - È  necessario questo nuovo edifizio; io non ho danari; ma intanto incominciamo e facciamo presto. Si era calcolato che per quei lavori fossero necessarie 40.000 lire, e Villa Giovanni udì più volte D. Bosco esclamare: - D. Bosco è povero, ma tutto possiamo in Dio; la Provvidenza farà tutto; non facciamo peccati e poi quel Dio che provvede agli uccelli dell'aria provvederà pure a noi. - Diceva eziandio: - Come è mai consolante quel Padre nostro che recitiamo mattina e sera; come fa piacere il pensare che abbiamo in cielo un padre che pensa a noi.

                Nè la sua speranza falliva o solamente diminuiva quando mancavano i mezzi per compire le sue opere, oppure quando trovava difficoltà od anche opposizioni eziandio da persone benevole. Egli sperava contro ogni speranza, tanto era sicuro della sua divina missione. Anche in mezzo alle disgrazie conservava la sua tranquillità. Aveva per sè la promessa della Vergine Santissima. Scrisse e ci narrò D. Rua:

                “D. Bosco fu dotato in alto grado del dono della profezia. Le predizioni di cose future libere e contingenti, e pienamente avverate, sono così varie e numerose da far supporre che il dono profetico gli fosse come abituale. Egli ci parlava sovente di sogni relativi al suo Oratorio e alla sua Società. Fra gli altri ricordo questo. Eravamo verso il 1856. Ci disse una volta: - Mi trovai sognando in una piazza, dove vidi una ruota che pareva la così detta ruota della fortuna, e che io intesi rappresentare l'Oratorio. Teneva il manubrio un personaggio che mi chiamò a sè e dissemi: - Fa attenzione! - Ed in così dire diede [457] un giro alla ruota. Io sentii un piccolo rumore, che non si estendeva gran fatto più in là della mia persona. Il personaggio mi chiese: - Hai visto? - Hai sentito?

                - Si ho visto a dare un giro alla ruota e sentito un piccolo rumore.

                - Sai che cosa significa un giro?

                - Non saprei.

                - Sono dieci anni del tuo Oratorio.

                Così ripetè ancora per quattro volte il suo movimento del manubrio e le sue domande.

                Ma ad ogni giro il rumore cresceva: sicchè nel secondo giro parevami che si fosse inteso in Torino e in tutto il Piemonte, nel terzo nell'Italia, nel quarto nell'Europa, arrivando quel rumore nel quinto giro a farsi sentire per tutto il mondo. E quel personaggio aggiunse finalmente: - Questa sarà la sorte dell'Oratorio.

                Ora considerando i vari stati dell'opera di D. Bosco la vedo nel primo decennio limitata alla sola città di Torino, nel secondo estesa alle varie province del Piemonte, nel terzo dilatarsi la sua fama e la sua influenza nelle varie parti dell'Italia, nel quarto estendersi in varie parti dell'Europa, e finalmente nel quinto essere conosciuta e ricercata in tutte le parti del mondo”.

                Con questa sicurezza, ecco D. Bosco occupato a scrivere lettere ai benefattori. Ne riportiamo una per saggio, indirizzata al Conte Pio Galleani d'Agliano.

 

                               Sig. Conte benemerito, carissimo nel Signore,

 

                Ho molti lavori a compiere che mi paiono necessari per la gloria di Dio e per la salute delle anime e mi mancano i mattoni per terminarli. Se mai nella sua carità potesse venire in mio soccorso con un po' di calce o con alcuni mattoni, l'assicuro che [458] sarebbe proprio un dare albergo al pellegrino, perciocchè questo tratto di fabbrica è destinato a ricoverare i più poveri ed abbandonati.

                Pieno di gratitudine auguro copiose benedizioni del cielo sopra di Lei e sopra tutta la sua famiglia dicendomi colla massima venerazione

                Di V. S. Benemerita e Carissima

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Erasi eziandio rivolto alla Direzione delle Opere Pie di S. Paolo e ne riceveva la seguente risposta:

 

                Torino, addì 19 marzo 1856.

 

                               Molto Rev. Signore,

 

                Questa Direzione assegnò sui fondi delle Opere Pie da essa amministrate la somma di lire cento cinquanta a favore dell'Istituto dei giovani abbandonati, alla cui amministrazione la S. V. degnamente presiede.

                Duole al sottoscritto che i fondi da cui deve essere prelevato un tale assegnamento non abbiano acconsentito di estenderlo a somma maggiore, ed essendosi già provveduto per la spedizione del relativo mandato, si affretta il medesimo a dargliene avviso, onde voglia procurarsene la riscossione da questa Tesoreria.

                Ha frattanto l'onore di dichiararsi con distinta considerazione

 

Devot.mo Servitore

Per il Presidente della Direzione

L. Capello di s. Franco.

 

                Nel mese di marzo 1856 si diede adunque principio ai lavori; si diroccò la vecchia casuccia Pinardi, che ancora restava in piedi come reliquia delle nostre primiere grandezze, e si cominciò il nuovo fabbricato, che compieva il già concepito disegno. Nelle ore di ricreazione i giovani [459] prestavano ancor essi la mano e a rovesciar muri e a portare mattoni, per guadagnar tempo e risparmiar spese. Fra gli altri muratori lavoravano i fratelli Carlo e Giosuè Buzzetti, primi allievi di D. Bosco, che da quel tempo più non abbandonarono il suo servizio. Dotati di una intelligenza e fedeltà a tutta prova, eglino progredirono siffattamente nell'arte edilizia, che si meritarono poi una ben meritata fama tra i primi impresari di Torino. Siccome urgeva di avere il locale a disposizione pel prossimo autunno, così le opere si accelerarono al punto, che alla fine di luglio la nuova fabbrica non solo era coperta, ma, fatte le volte dei quattro piani, lasciava speranza di essere tra poco abitata.

                Mentre fervevano questi lavori, D. Bosco, uscito dall'Oratorio, vide un giorno sulla stradicciuola una condotta di muli fermi; quindi arrestò il passo. 1 mulattieri gli dissero: - Non tema; si fidi, venga avanti; sono animali pacifici. - E D. Bosco rispose con grazia. - Mia madre mi diceva sempre: - Giovannino, non fidarti mai di chi non va a confessarsi. - I mulattieri lo guardarono con un sorriso malizioso, dando a conoscere come avessero inteso essere loro indirizzato questo frizzo. Altra volta andando egli bel bello pel corso ora Regina Margherita, e camminando, senza avvedersene, troppo vicino ad un grosso cavallo attaccato ad un carro, il conducente gli disse di guardarsi da quella bestia perchè avrebbe potuto toccargli un calcio. D. Bosco gli rispose: - L'ho sempre detto che bisogna guardarsi da chi non va a far Pasqua. -Si può ben asserire ogni frase di D. Bosco essere stata un eccitamento alla confessione.

                Intanto fin da principio il Ministro Rattazzi, ad una richiesta di D. Bosco, ebbe la bontà di assegnargli tosto [460] lire mille, per affrontare le prime spese della nuova fabbrica. In data del 9 maggio del 1856 dal Ministero dell'Interno in Torino egli scriveva così:

 

                Il Ministro sottoscritto mentre commenda il divisamento del Sacerdote signor D. Bosco, Direttore dell'Oratorio maschile in Valdocco, di far ampliare l'attuale fabbricato, onde estendere ad un maggior numero il ricovero dei poveri figli abbandonati, gli partecipa che per coadiuvarlo nella rispettiva spesa ha determinato di accordargli una sovvenzione di lire mille sui fondi del Bilancio di questo Ministero. Spiacente chi scrive che le ristrettezze in cui versa l'erario non acconsentano ad una maggiore elargizione, lo previene intanto che detta somma gli sarà corrisposta per la concorrente di lire cinquecento dal Cassiere di questo Ministero, e che gli saranno le restanti lire cinquecento pagate dal Tesoriere della Provincia di questa capitale.

 

Il Ministro

Urbano Rattazzi.

 

                D. Bosco però, non ostante questi soccorsi, si trovava in grande disagio, per i debiti che andavano crescendo e per la paga settimanale ai muratori che non potevasi differire. Perciò non era in grado di essere puntuale nel soddisfare i provveditori di commestibili. Ciò risulta da lettere da lui scritte ad un certo numero di signori torinesi suoi conoscenti.

 

                               Benemerito Signore,

 

                Le caritatevoli espressioni, con cui V. S. Ill.ma dimostrò di gradire quanto si fa in questo Oratorio di S. Francesco di Sales mi dan coraggio di ricorrere a Lei in questo mio particolare bisogno.

                Ho ancora la nota del panattiere del mese di marzo da pagare e non so dove prendere il denaro; se mai Ella può aiutarmi, è proprio un dar da mangiare ai poveri affamati. [461] La nota è di franchi 900, ma io dimando solo un sussidio, e qualsiasi somma che nella sua carità stimasse di offerire, fosse anche della minima entità, io la riceverò colla massima gratitudine.

                Persuaso che vorrà perdonare questa mia libertà, non potendo altrimenti dimostrare la mia gratitudine, Le auguro ogni bene dal cielo, mentre con pienezza di stima mi dico

                Di V. S. Benemerita

                Da casa, 7 maggio 1856.

 

Obbl.mo Servitore.

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                Egli doveva eziandio ogni anno versare all'Abate Rosmini gli interessi delle 20.000 lire che avevagli imprestate al 4%, per la compra di casa Pinardi, e sistemare altri conti, dei quali alcuni riguardavano il campo comprato per la tipografia. La nota di questi egli mandava a Stresa, inclusa in una lettera al sig. D. Carlo Gilardi.

 

                               Carissimo Sig. D. Carlo,

 

                Si ha un bell'aspettare, ma il tempo pasquale è per finire, e bisogna aggiustare i conti.

            L'anno scorso Ella rifece il conto e mi trovò crediti che io ignorava; chi sa che accada ora lo stesso? Ci sono già state alcune domande pel sito, ma le offerte sono piccole: il massimo fu franchi 200 la tavola. Il Rev. Sig. D. Pagani passò qua a vederlo; gli piacque la posizione, e disse che presentemente non è tempo di vendere, se non avvi richiesta alquanto vantaggiosa, la qual cosa si spera questa primavera.

                Mia madre, i miei chierici e molti dei nostri birichini, che si ricordano ancora di Lei, la salutano di cuore, ed io raccomandandomi alle divote di Lei preghiere mi offro in quel che posso

                Torino, 9 maggio 1856.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco GIOVANNI. [462]

 

                Il campo adunque famoso pel sogno, del quale una terza parte ancora apparteneva a D. Bosco, per una causa o per l'altra rimaneva proprietà dei Rosminiani, e come si vide poi, era la Provvidenza divina che impediva quella vendita.

                Intanto il mese consecrato a Maria era segnalato nell'Oratorio per tre fatti memorabili. Il fervore dei giovani nell'onorare la Celeste Madre, la festa dello Statuto e la gita dei cantori a Susa.

                Molti alunni dell'Oratorio cercavano di emulare il giovanetto Savio Domenico, il quale coll'esempio e colle parole accendeva nel cuore dei compagni un vivo desiderio delle cose eterne. Don Bosco col pensiero di figli così buoni trovava un mirabile ristoro nel progredire per quell'ardua via che il Signore gli aveva comandato di percorrere. Di essi puossi affermare colle parole dell'Ecclesiastico al capo XXXIX: “Buttate fiori simili al giglio, spirate odori, gettate amene frondi, e date cantici di laude, e benedite il Signore nelle opere sue”.

                Sul finire dell'aprile Savio Domenico erasi presentato a D. Bosco chiedendogli come avrebbe potuto celebrare santamente il mese di Maria.

                - Lo celebrerai, gli rispose D. Bosco, coll'esatto adempimento de' tuoi doveri, raccontando ogni dì ai compagni un esempio in onor di Maria e procurando di regolarti in modo da poter fare in ciascun giorno la santa comunione.

                - Ciò procurerò di fare puntalmente: ma qual grazia dovrò dimandare?

                - Dimanderai alla santa Vergine che ti ottenga da Dio sanità e grazia per farti santo.

                - Sì! Che mi aiuti a farmi santo, che mi aiuti a fare [463] una santa morte, e che negli ultimi momenti di vita mi assista e mi conduca al cielo.

                Di fatto egli dimostrò tale fervore nel decorso di quel mese, che sembrava un angelo vestito di umane spoglie. Se scriveva, parlava di Maria; se studiava, cantava, andava a scuola, tutto era per amore di Lei. In ricreazione procurava di aver ogni giorno pronto un esempio per raccontarlo ora a questi, ora a quegli altri compagni radunati.

                Per far riacquistare a questo caro e studiosissimo giovane una sanità che andava da qualche tempo continuamente deperendo, D. Bosco fece fare un consulto di medici. Tutti ammirarono la giovialità, la prontezza di spirito e l'assennatezza delle risposte di Domenico. Il dottor Francesco Vallauri, di felice memoria, che era uno dei benemeriti consulenti, pieno di ammirazione: - Che perla preziosa, disse, è mai questo giovanetto!

                D. Bosco gli domandò: - Qual è l'origine del suo malore?

                - La sua gracile complessione, la cognizione precoce, la continua tensione di spirito, sono come lime che gli rodono insensibilmente le forze vitali.

                - Qual rimedio potrebbe tornargli maggiormente utile?

                - Il rimedio più utile sarebbe lasciarlo andare al paradiso, per cui mi pare assai preparato. L'unica cosa che potrebbe protrargli la vita si è l'allontanarlo intieramente qualche tempo dallo studio, e trattenerlo in occupazioni materiali adatte alle sue forze.

                Il Dottor Vallauri aveva dato un esatto giudizio intorno a Savio Domenico. Infatti Iddio si era compiaciuto di favorire questo così pio giovanetto di quei doni celesti, di cui ci somministra esempi a dovizia la vita dei santi. Più volte, dopo la santa Comunione, o mentre stava [464] pregando avanti al SS. Sacramento, egli veniva come rapito fuori dei sensi, e vi rimaneva più ore in aspetto come di estatico. “Mi ricordo, attestò D. Bonetti Giovanni, dì un giorno che mancò dalla colazione, dalla scuola e dal medesimo pranzo; niuno sapeva dove fosse: nello studio non c'era, a letto nemmeno. Erano ormai le due pomeridiane, quando un compagno non vedendolo comparire ne fece motto a D. Bosco. Udito ciò, a D. Bosco nacque tosto il sospetto di quello che era realmente, che fosse cioè in chiesa, come già altre volte era accaduto. Senza fare parola ad alcuno, egli si porta nel luogo santo, va in coro e lo vede colà ritto e fermo come un sasso. Teneva egli un piede sull'altro, una mano appoggiata sul leggío dell'antifonario, l'altra sul petto, colla faccia rivolta verso il tabernacolo, e con uno sguardo così angelico, che sarebbe impossibile a descriversi. Lo chiama, e non risponde. Lo scuote, e allora il santo giovanetto gli volge lo sguardo e dice: --- Oh! è già finita la Messa? - Vedi, rispose D. Bosco, mostrandogli l'orologio; sono le due. - A questo riflesso Domenico si mostrò confuso, domandò umile scusa della trasgressione delle regole, e si mosse per recarsi alla scuola. Ma D. Bosco lo inviò a pranzo, e per liberarlo dalle domande inopportune, che forse gli avrebbero fatte i compagni, gli disse:

                - Se taluno ti domanderà donde vieni, gli risponderai che vieni dall'eseguire un mio comando”.

                Fortunati quei collegi ne' quali s'incontrano simili giovani; e Savio nell'Oratorio non fu il solo.

                Il secondo fatto memorabile è la festa dello Statuto. Narrò Villa Giovanni: “In questa festa, perchè le centinaia di giovani esterni non andassero per le piazze e nei baracconi in città a prendere parte a divertimenti pericolosi, D. Bosco comprò gran quantità di salamotti, di pane [465] e di piccole bottiglie di vino. Queste ed i salami appese nel cortile a lunghe corde, che così avevano aspetto quasi di ghirlande. Indescrivibile fu la gioia di tutti a quello spettacolo. Don Bosco, che nella domenica precedente avevali invitati ad essere puntuali alle sacre funzioni, ora soggiunse: - Un signore mi ha dato un po' di denaro, perchè comprassi candele ed olio con bicchierini colorati, acciocchè l'Oratorio fosse bellamente illuminato nella sera della festa dello Statuto. Ma io ebbi una felice idea. È  meglio contentare gli occhi accendendo lumicini o riempire la bocca de' miei giovani? E perciò io ho pensato di comperare tutte queste cose per voi. Ho fatto bene? - Un subbisso di applausi lo interruppe; egli poi seguitò: - Ora ognuno di voi estrarrà un numero da questa borsa, e, secondo le norme praticate altre volte, la sorte formerà di tutti i giovani tanti gruppi, ognuno composto di tre. Il primo di ogni terno prenderà il pane, il secondo un salame, il terzo una bottiglia di vino. - E così venne fatto con una operazione che intrattenne e divertì per lunga ora quella moltitudine. Quindi, divisi in gruppi di tre, lieti e contenti facemmo la merenda, alla quale parteciparono eziandio con gioia gli alunni interni”.

                Finalmente anche occasione di allegrezza fu una passeggiata a Susa, della quale ci resta memoria in una lettera di D. Bosco al suo amico D. Rosaz, Canonico della Cattedrale di quella vecchia città.

 

 

                                                 , 26 maggio 1856]

 

                               Carissimo Signor

 

                Fra pochi giorni avranno una visita dell'Organista di cui abbiamo parlato e credo che appagherà l'aspettazione. - Per ora non potrei, come desidero, accogliere il giovane calzolaio [466] pel motivo del tratto di casa demolito per essere di nuovo ricostrutto. In quanto al giovane studente forse potrò occuparmi di più: compia il suo corso di grammatica latina; se in qualche congiuntura egli venisse a Torino si lasci vedere; nel decorsa poi delle vacanze coll'aiuto di Dio spero che lo aggiusteremo.

                Confessi pure liberamente in tempo dei divini uffizi, ogni qualvolta ne è richiesto oppure vi sono penitenti che attendono, al confessionale: tale è pure il parere del sig. D. Cafasso.

                Le suonatine le avrà per mano dei nostri birichini quando andranno a farlo sagrinare per la chiusa del mese di Maria.

                Spero di poter fra breve fare una gita a Susa; nella quale occasione ci parleremo di tutti i nostri affari.

                Saluti il Sig. Canonico Vicario Generale, il Sig. Canonico Gey e mi creda sempre con gratitudine e stima

                Di V. S. Carissima

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco Giov.

 

                I giovani dell'Oratorio furono a Susa nella prima domenica di giugno. L'Armonia del giorno 8, dopo aver dichiarato essere impossibile fare una descrizione della solennità di quella chiusa del Mese di Maggio, che non sia di molto inferiore dal vero, proseguiva:

                “Lasciando tutto il resto a migliore penna che non la mia, voglio parlarvi della bella e divota musica, che nelle funzioni di questa giornata venne cantata dai giovani allievi dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di quell'uomo apostolico che è D. Bosco. Nel che dovete osservare che se la musica in se stessa era eccellente, fu però a meraviglia eseguita, perchè quei bravi giovani col loro contegno, colla loro modestia, col loro divoto atteggiamento davano a divedere che sentivano in fonda del cuore ciò che esprimevano col suono della voce. E sapete pure quanto sia straordinario fenomeno un musico [467] laico, che stia in chiesa con rispetto e con divozione. E quindi era una meraviglia ed un'edificazione il vedere quei giovani musici stare con tanto raccoglimento, e sentirli a cantare con tanto affetto. Io desidererei che questa parte dell'educazione della gioventù, così mirabilmente praticata dall'ottimo D. Bosco, fosse più conosciuta e praticata, e che potessimo sbandire dalla Chiesa le profanazioni della musica teatrale e dei musici peggiori della musica”.

 

 

CAPO XXXVIII. L'opera delle Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli - Fondazione di una Conferenza libera nell'Oratorio di Valdocco - Viene annessa al Consiglio Superiore dell'Opera in Torino - Un po' di storia delle Conferenze annesse degli Oratorii di D. Bosco.

 

                NON si è fatto ancora parola di una istituzione, da circa due anni formata da D. Bosco nell'Oratorio a vantaggio dei giovani esterni, e che l'11 maggio di quest'anno riceveva un desiderato coronamento.

                Abbiamo già visto come D. Bosco nel 1850, per onorare e promuovere la pratica delle virtù, e in specie della carità verso il prossimo del suo caro santo Vincenzo de' Paoli, appoggiasse la fondazione dell'Opera delle Conferenze in Torino, ove ancora non esistevano. Egli sul finire del 1853 ebbe la contentezza di noverarne quattro. In seno a queste, nel 1854, per provvedere ai bisogni dei poveri, divenuti anche maggiori per l'invasione del coléra, era stata istituita una speciale commissione, la quale tra il 27 agosto e il 30 novembre aveva soccorse 430 famiglie con una spesa di circa 3000 lire; nel distretto parrocchiale [469] di Borgo Dora, ove più che in altre parti della città fu micidiale la terribile malattia.

                Ma nel distribuire i sussidi aveva constatato esservi tra i poveri non pochi figli della Savoia e della Francia; quindi nel novembre dello stesso anno si costituì regolarmente una nuova Conferenza, destinata in modo particolare a prendersi cura di essi, ed ebbe il nome di San Francesco di Sales. Trovandosi in Torino quell'abate Mermillod, che poi fu Vescovo di Ginevra e Cardinale, questi inaugurò la bella impresa, alla quale D. Bosco non dovette essere estraneo, come non lo fu certamente ai soccorsi dai quali ebbe tanto sollievo Borgo Dora.

                Egli infatti formava un'anima sola coll'infaticabile Conte Carlo Cays di Giletta, primo presidente del Consiglio Particolare della Società di S. Vincenzo de' Paoli, vero padre dei poveri. Si trovavano spesso insieme pei catechismi, negli Oratorii di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia, s'incontravano nelle case dei colerosi per assisterli, si intrattenevano sui modi di fare il bene; e le idee dell'uno erano anche dell'altro. In quanto ai piccoli Savoiardi e Francesi D. Bosco ne conosceva un gran numero che da tempo frequentavano l'Oratorio, sapeva i luoghi dei loro ritrovi, le stanze dove pernottavano, da quali capi dipendessero, e in qual modo fossero da questi trattati; e quando nel 1860 cessò la Conferenza suddetta di S. Francesco di Sales, egli continuò per anni ancora a tenerseli cari ed aiutarli, sia per i bisogni spirituali, come, in quel che poteva, nei materiali.

                D. Bosco però nel 1854 non era stato interamente soddisfatto di quel sollievo recato ai poveri. Quindi, prima che finisse l'anno, istituiva nell'Oratorio di Valdocco una piccola conferenza, consimile a quelle della Società di [470] S. Vincenzo de' Paoli, e questo amabile santo ne fu il primo titolare, S. Francesco di Sales il secondo. Il suo disegno era stato applaudito da quei caritatevoli signori, membri dell'Opera, che da anni venivano a fare il catechismo attirati dal suo zelo. Erano il Marchese Domenico Fassati, il Conte Radicati di Brozolo, il Marchese Scarampi, qualche professore di università e alcuni agiati negozianti.

                D. Bosco aveva letti con attenzione i regolamenti di quella Società, i mezzi che raccomandavano per raggiungere con frutto i fini propostisi, e con ciò diede fondamento al suo disegno. Suo scopo diretto però era di incoraggiare al bene i giovani, non già quello di aiutare i loro parenti.

                D. Bosco annunziò la progettata Conferenza, esortando i suoi alunni a prendervi parte, e un bel numero di essi dei più adulti sia interni che esterni vi si fecero iscrivere. Nella seduta inaugurale furono eletti il presidente, il segretario ed il tesoriere. Fra i primi presidenti fu Serra, poi economo nel Collegio Nazionale di Torino. In anni diversi ebbero l'ufficio di Segretario per stendere i verbali, D. Rua Michele, D. Giulio Barberis, D. Bongiovanni Domenico, e nel numero dei membri indichiamo Enria Pietro, D. Anfossi Giovanni, Villa Giovanni, D. Turchi Giovanni, che citiamo come testimoni della veracità del nostro racconto.

                “Ad ogni accettazione di un nuovo membro della Conferenza, D. Bosco proferiva qualche parola in proposito d'incoraggiamento, narrò il signor Villa Giovanni. Per esempio quando, anni dopo, si accettò Giovanni Garino, egli prendendo argomento da uno scultore in marmo, che teneva il laboratorio in via della Consolata e si [471] chiamava pure Garino, disse fra le altre cose: - Vedi quel marmorino scolpisce belle figure nel marmo, e tu nel cuore e nell'anima degli altri devi scolpire belle massime, santi propositi, buoni esempi. - Soggiungeva poi essere scopo delle Conferenze far del bene agli altri, ma prima farlo a se stessi”.

                Que' giovanetti, in numero di circa venti, dovevano a due a due ogni domenica andare a far visita ad una ed anche a più famiglie povere loro assegnate, portando qualche elemosina, dando consigli opportuni ai genitori, specialmente sulla cristiana educazione dei figliuoli; esortandoli a mandarli al catechismo e ad insistere perchè intervenissero all'Oratorio. Erano accolti con piacere, perchè tali visite, oltre al vantaggio che arrecavano, erano fatte con regolarità, carità e rispetto, come D. Bosco consigliava. Da queste visite ne ritraevano anche grande frutto i benéfici visitatori, poichè imparavano a conoscere e ad amare i modi per sollevare le miserie del prossimo, e usciti poi alla vita del mondo, si potevano avviare con tutta facilità alle grandi Conferenze della Società di San Vincenzo, ove continuavano a trovare mezzi per santificarsi, e buoni amici, benchè di condizione più elevata della loro.

                Si tenevano le radunanze nel refettorio dei Superiori all'una e mezzo circa pomeridiane. Vi assisteva D. Bosco, e talora vi prendevano parte membri distinti delle Conferenze della città, come il Conte D'Agliano o il Commendatore Cotta. Il Conte Cays vi si recava sovente.

                Fatta la preghiera, letto il verbale della seduta antecedente, reso conto di ciò che si era fatto nelle visite alle famiglie dei clienti nella domenica ultima scorsa, sì assegnavano i punti di merito a que' figliuoli dei quali [472] la condotta, secondo le informazioni, era buona. Si raccoglievano i voti da ciascuno meritati: 10, 15, 20 punti. A chi ne aveva di più destinavasi un premio per la fine del mese; p. es. un paio di calzoni, o una giubba, o scarpe nuove. A molti davansi libretti istruttivi e popolari. Sul finir della seduta si faceva la questua tra i membri, ed anche i più poveri di essi trovavano un soldo da offrire, secondando il desiderio di D. Bosco, il quale amava vederli larghi di cuore. Fruttava naturalmente poco tale colletta, eccettuato il caso nel quale il Conte Cays, il Conte di Collegno o altri ricchi signori aprissero il loro borsellino. Anche D. Bosco donava qualche moneta. Così aiutavasi a mantenere la cassetta delle elemosine da distribuirsi. Nel ritornare a far visite ai parenti dei giovani, sceglievasi a preferenza l'ora delle 10 oppure 10 e mezzo dopo le funzioni, poichè i loro figliuoli in quel tempo, erano a ricrearsi nell'Oratorio e non tornavano a casa se non per il pranzo. Quindi con tutta libertà chiedevano e avevano notizie sulla condotta dei proprii clienti. Talvolta i genitori, perchè il figlio avesse un premio, mentivano, lodando chi meritava biasimo. Perciò non di rado si andava anche da padroni di fabbriche o di botteghe per avere informazioni più esatte. Tale clientela era formata dei ragazzi più giovani, inferiori ai quattordici o quindici anni. Ritornati i nostri visitatori all'Oratorio, avevano incarico di ammonire il loro piccolo protetto, se ne avesse il bisogno, o stargli dietro per indurlo amorevolmente alle pratiche indispensabili di pietà, a ricevere colle debite disposizioni i sacramenti, a mostrarsi rispettoso ed obbediente verso i suoi genitori, ad essere più laborioso nell'officina. Per rendere più graditi tali avvertimenti, solo per costoro, facevasi una volta al mese una piccola lotteria. [473] Anche l'Oratorio Festivo di S. Luigi ebbe la sua piccola Conferenza sul modello di quella di Valdocco, ed ambedue, dopo qualche tempo strinsero relazioni figliali con quelle della Società di S. Vincenzo de' Paoli. Di queste nel 1856 se ne trovavano sette in Torino e dieci sparse in varie città del Piemonte; perciò era stato fondato il Consiglio Superiore nella Capitale e ne fu eletto presidente il Conte Cays. L'esimio signore, volendo coadiuvare D. Bosco anche nelle sue Conferenze, le approvò, le prese sotto la sua protezione, e le dichiarò conferenze annesse, nome che sempre ritennero. Nel giorno della Pentecoste 1856 fu inaugurato questo nuovo titolo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales e in quello di S. Luigi; e fra i membri, erano presenti il Ch. Rua, il Ch. Francesia e il Sig. Villa Giovanni. Da quel momento la Società di S. Vincenzo de' Paoli non mancò di far partecipi, in qualche misura delle sue largizioni, le due conferenze annesse.

                Da questa unione Don Bosco ritrasse un altro vantaggio di molta importanza: il principio cioè delle più cordiali sue attinenze coi presidenti dei Consigli Superiori e particolari e con varii membri di conferenze italiane e francesi.

                “In uno di questi anni, racconta il Can. Anfossi, in giorno di domenica, vennero all'Oratorio di Valdocco quattro personaggi della più illustre nobiltà italiana, cioè il Duca Scotti di Milano, il Marchese Patrizi di Roma, il Marchese Fassati di Torino e il Conte Cays. Scopo della loro visita era quello di assistere alla radunanza della Conferenza annessa, i cui socii visitavano i poveri nelle stesse loro abitazioni in compagnia di un membro della Società di S. Vincenzo.

                “D. Bosco li accolse gentilmente; ma per non abbandonare [474] i giovanetti che erano in ricreazione, con tutta semplicità li fece adagiare su di una panca di legno in mezzo al cortile, e finita la ricreazione diede loro un catechismo, assegnando a ciascuno una classe. Que' buoni signori acconsentirono volontieri.

                “Con grande soddisfazione assistettero poi alla radunanza, che si tenne dopo la funzione di chiesa. Il bel numero di giovani, che si videro innanzi, lo spirito, del quale li conobbero animati, e i particolari precetti, coi quali seppero averli D. Bosco istruiti per compiere quell'opera di carità, li persuasero del gran bene che quivi si andava operando. Io pure ebbi la fortuna di assistere a quella visita”. Il Sig. Villa Giovanni ricorda eziandio aver presenziato tale radunanza il presidente delle Conferenze di S. Vincenzo in Roma. Questi indirizzò parole così belle ai soci, che D. Bosco, come ebbe finito, gli disse tutto commosso: - Ma lei parla come un apostolo!

                Varii fatti noi potremmo ancora esporre su questo argomento, ma li riserbiamo pel tempo nel quale accaddero. Qui però non possiamo esimerci dal dare in anticipazione una breve notizia sinottica, acciocchè i nostri lettori possano vedere, ad un'occhiata, il sorgere, lo svolgersi, il cessare delle Conferenze annesse, le quali da Don Bosco ebbero vita, finchè la Società di S. Vincenzo, cresciuta di numero, altrimenti provvide ai bisogni di quelle regioni, ove erano stabilite.

                ANNO 1859. Sono fondate le Conferenze annesse degli Oratorii dell'Angelo Custode in Vanchiglia e di S. Giuseppe a S. Salvatore in Torino; quest'ultimo proprietà del Sig. Carlo Occelletti.

                ANNO 1860. Cessa la Conferenza annessa all'Oratorio di S. Luigi a Porta Nuova. [475]

                ANNO 1864. Cessano le Conferenze annesse degli Oratorii dell'Angelo Custode in Vanchiglia e di S. Giuseppe.

                La sola adunque, che rimase al suo posto, fu quella fondata per la prima in Valdocco e che durò ancora per anni nel compimento della sua missione: fra i nomi dei soci figurano quelli dì Albera Paolo, Costamagna Giacomo Rinaudo Costanzo, Jarach Luigi, Lazzero Giuseppe, Provera Francesco. In un documento, che sembra scritto nel 1872, si legge ciò che continuavano a fare i suoi membri, si ha prova novella di quanto noi abbiamo narrato, e si aggiunge un cenno delle ultime vicende della Conferenza. È  una specie di prefazione ufficiale che precede un verbale di radunanza. Per non interpolare quel foglio, anticipiamo notizie importanti, rimettendo ai loro anni certi fatti che quivi sono accennati.

 

                Società di s. Vincenzo de' Paoli.

 

                Conferenza annessa di S. Francesco di Sales.

 

                Scopo principale della Conferenza è di istruire e soccorrere i fanciulli poveri che intervengono alle funzioni che si fanno nella Chiesa di Maria Ausiliatrice specialmente dal Borgo Dora e Valdocco.

                Per riguardo all'istruzione si fa il Catechismo dalle ore 3 alle 4 pomeridiane in ogni Domenica e festa di precetto. Il Catechismo vien seguito dal canto dell'Ave maris Stella e del Magnificat, dopo cui si fa la predica appositamente per loro che vien seguita dalla benedizione del SS. Sacramento.

                I giovani che intervengono sono circa 200. Gli stessi confratelli sono i catechisti di questi giovani. Per allettarli, oltre i soccorsi di cui si dirà, si distribuiscono medaglie, Letture Cattoliche, libri di preghiera, come sono il Giovane Provveduto, La Chiave del paradiso ecc.

                Ad ogni mese vi sono le confessioni e la Comunione per quelli [476] che sono promossi. In detti giorni D. Bosco dà a tutti la colazione, pane e companatico. Per sfortuna un buon numero dei più grandicelli va a lavorare al mattino della Domenica e non possono che raramente accostarsi ai Sacramenti. Il numero ordinario di coloro che intervengono alle confessioni mensili si può calcolare che ascende a 100.

                Per riguardo al soccorso si scelgono i più bisognosi tra i giovanetti che assiduamente intervengono al Catechismo e costoro restano ammessi al patronato e visitati a domicilio; e quando abbiano venti bolli d'intervento si dà loro un premio proporzionato alla condotta del giovane ed al bisogno della famiglia. I premi consistono in calzoni, giubbe, scarpe, zoccoli, berretti e cose simili.

                I giovani dei quali in questo modo si prende cura il Patronato sono 50 all'incirca, ed i confratelli in media sono 30, quasi tutti giovani appartenenti all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Non potendo colle loro questue sopperire alle spese che occorrono pei premi dei catechismi e delle lotterie e dei regalucci che si conferiscono di tanto in tanto ai giovanetti per attirarli alle pratiche di pietà, sopperisce D. Bosco nostro comune padre.

                La conferenza si tiene ogni domenica alle ore 2 pomeridiane d'estate ed alle i e mezzo d'inverno in apposita sala nell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

                Diversi buoni signori della città intervengono anch'essi di tanto in tanto alle conferenze e fanno crescere la questua che ordinariamente non ascenderebbe che a trenta o quaranta centesimi per Domenica, essendo i confratelli poveri giovani che abbisognano essi stessi di soccorso.

                Questa conferenza D. Bosco aveala costituita fra i giovani fino dal 1854. Il Conte Cays presidente delle Conferenze di San Vincenzo de' Paoli in Piemonte aveva sempre protetto questa di D. Bosco, e, aggregandola alle sue, somministravale i buoni da distribuire alle famiglie dei giovani dai membri di essa visitate. Non mancava eziandio di concorrere con aiuti straordinari. Molti nobilissimi signori di quando in quando venivano ad assistere a questa nostra conferenza, la quale per ora non era modellata su quelle dipendenti da Parigi, poichè il suo scopo diretto erano i giovani. Cosi durarono le cose per molti anni. I [477] giovani dell'Oratorio ascritti a questa conferenza andavano a visitare le famiglie che erano sotto il loro patronato.

                Ma al Conte Cays succedette nell'ufficio di Presidente il signor Ing. Ferrante, il quale, rigorista nell'osservanza delle regole, non volle più riconoscere la conferenza dell'Oratorio e quindi cessò di provvedere i buoni e a poco a poco si ritirarono quei signori che venivano ad assistere a queste nostre sedute: nel 1871 vennero Soli il Conte Collegno e il Cav. Pulciani. Infine la nostra conferenza rimase isolata. Tuttavia il successore del Conte Cays e altri due che succedettero a questo, Baron Ricci e Falcone, furono sempre benevoli verso D. Bosco e verso l'Oratorio.

 

 

CAPO XXXIX. La Compagnia dell'Immacolata - Suo regolamento - Bene che apporta agli alunni - Lettera di D. Bosco ad un giovanetto -Nuove indulgenze - La festa di S. Luigi - Giovani insidiali e difesi - Letture Cattoliche.

 

                DOPO la conferenza annessa di S. Vincenzo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, si organizzava nel 1856 una nuova Compagnia. Da qualche tempo in alcuni allievi erasi raffreddata alquanto, in un colla pietà, la diligenza negli studi; e pareva che la Casa non procedesse con quella regolarità di prima, stante il numero cresciuto dei giovani di varie indoli, educazione e province. Un mattino, di giorno feriale, cosa insolita, nessuno erasi presentato alla balaustra a fare la Santa Comunione; e D. Bosco, che celebrava la santa Messa, scoperta la pisside, aveva dovuto senza più racoprirla e riporla nel tabernacolo. Il giovane Celestino Durando, entrato nell'Oratorio l'ultimo giorno di aprile, e che, studente di umanità, frequentava in questo anno il ginnasio del Collegio Nazionale al Carmine, accompagnatosi con Bongiovanni Giuseppe, che avviavasi alle scuole private, gli disse giunto al Rondò: - Hai visto stamane? D. Bosco [479] ne avrà provato gran dispiacere! - E ritornati ambidue a casa, stabilirono coi compagni Bonetti, Marcellino, Rocchietti, Vaschetti e Rua di formare fra di loro un'unione i cui membri scegliessero un giorno feriale della settimana per accostarsi alla sacra mensa, in modo che tutte le mattine vi fossero alcuni comunicandi. E così venne fatto con gran consolazione di D. Bosco. Va però notato che alla domenica, la comunione poteasi dir sempre generale.

                Savio Domenico aveva aderito con slancio a questa pia unione, e pensò, consigliato da D. Bosco, a renderla durevole. Guidato egli adunque dalla solita industriosa sua, carità, scelse alcuni de' suoi fidi compagni e li invitò ad unirsi insieme con lui per formare una Compagnia detta dell'Immacolata Concezione.

                Lo scopo era di assicurarsi la protezione della gran Madre di Dio in vita e specialmente in punto di morte. Due mezzi proponeva il Savio a questo fine: esercitare e promuovere pratiche di pietà in onore di Maria Immacolata, e la frequente comunione. D'accordo co' suoi amici, ed aiutato efficacemente da Bongiovanni Giuseppe, compilò un regolamento, e dopo molte sollecitudini, nel giorno 8 di giugno 1856, nove mesi prima di sua, morte, leggevalo con loro dinanzi all'altare di Maria SS. Lo trascriviamo di buon grado, nel pensiero che possa servire ad altri di norma a fare altrettanto. Eccone adunque il tenore.

 

                Noi, Savio Domenico, ecc. (segue il nome di altri compagni) per assicurarci in vita ed in morte il patrocinio della Beatissima Vergine Immacolata e per dedicarci intieramente al suo santo servizio, nel giorno 8 del mese di giugno, muniti tutti dei Santi Sacramenti della confessione e comunione, e risoluti di professar verso la Madre nostra una figliale e costante divozione, protestiamo davanti all'altare di Lei e col consenso del nostro [480] spiritual Direttore, di voler imitare, per quanto lo permetteranno le nostre forze, Luigi Comollo. Onde ci obblighiamo:

                I. Di osservare rigorosamente le regole della casa.

                2. Di edificare i compagni ammonendoli caritatevolmente ed eccitandoli al bene colle parole, ma molto più col buon esempio.

                3. Di occupare esattamente il tempo. A fine poi di assicurarci della perseveranza nel tenor di vita, cui intendiamo di obbligarci, sottomettiamo il seguente regolamento al nostro Direttore.

 

                N. I. A regola primaria adotteremo una rigorosa obbedienza ai nostri superiori, cui ci sottomettiamo con una illimitata confidenza.

                N. 2. L'adempimento dei proprii doveri sarà nostra prima e speciale occupazione.

                N. 3. Carità reciproca unirà i nostri animi, ci farà amare indistintamente i nostri fratelli, i quali con dolcezza ammoniremo, quando apparisce utile una correzione.

                N. 4. Si sceglierà una mezz'ora nella settimana per convocarci, e dopo l'invocazione del S. Spirito, fatta breve lettura spirituale, si tratteranno i progressi della Compagnia nella divozione e nella virtù.

                N. 5. Separatamente per altro ci ammoniremo di quei difetti, di cui dobbiamo emendarci.

                N. 6. Procureremo di evitare fra noi qualunque minimo dispiacere, sopportando con pazienza i compagni e le altre persone moleste.

                N. 7. Non è fissata alcuna preghiera, giacchè il tempo che rimane dopo compiuto il dover nostro, sarà consacrato a quello scopo che parrà più utile all'anima nostra.

                N. 8. Ammettiamo tuttavia queste poche pratiche:

                    § I. La frequenza ai SS. Sacramenti, quanto più sovente ci sarà permesso.

                    § 2. Ci accosteremo alla mensa Eucaristica tutte le domeniche, le feste di precetto, tutte le novene e solennità di Maria SS. e dei Ss. Protettori dell'Oratorio.

                    § 3. Nella settimana procureremo di accostarvici al giovedì, eccetto che ne siamo distolti da qualche grave occupazione. [481]

                N. 9. Ogni giorno, specialmente nella recita del Rosario, raccomanderemo a Maria  la nostra società, pregandola di ottenerci la grazia della perseveranza.

                N. 10. Procureremo di consacrare ogni sabato in onor di Maria qualche pratica speciale od atto di cristiana pietà in onor dell'immacolato suo concepimento.

                N. 11. Useremo quindi un contegno vie maggiormente edificante nella preghiera, nelle divote letture, durante i divini uffizi, nello studio e nella scuola.

                N. 12. Custodiremo colla massima gelosia la santa parola di Dio, e ne rianderemo le verità ascoltate,

                N. 13. Eviteremo qualunque perdita di tempo per assicurare l'animo nostro dalle tentazioni che sogliono fortemente assalirci nell'ozio; perciò:

                N. 14. Dopo aver soddisfatto agli obblighi che appartengono a ciascun di noi, consacreremo le ore rimaste libere in utili occupazioni, come in divote ed istruttive letture o nella preghiera.

                N. 15. La ricreazione è voluta o almeno permessa dopo il cibo, dopo la scuola e dopo lo studio.

                N. 16. Procureremo di manifestare ai nostri superiori qualunque cosa possa giovare alla nostra morale condotta.

                N. 17. Procureremo eziandio di fare gran risparmio di quei permessi, che ci vengono largiti dalla bontà dei nostri superiori, imperciocchè una delle nostre mire speciali è certamente un'esatta osservanza delle regole della casa, troppo spesso offese dall'abuso di codesti permessi.

                N. 18. Accetteremo dai nostri superiori quello che verrà destinato a nostro alimento senza mai muovere lamento intorno agli apprestamenti di tavola, e distoglieremo anche gli altri dal farlo.

                N. 19. Chi bramerà far parte di questa società, dovrà anzi tutto purgarsi la coscienza col Sacramento della Confessione e cibarsi alla mensa Eucaristica, dar quindi saggio di sua condotta con una settimana di prova, leggere attentamente queste regole e promettere esatta osservanza a Dio ed a Maria Santissima Immacolata.

                N. 20. Nel giorno di sua ammissione i fratelli si accosteranno alla santa Comunione pregando Sua Divina Maestà di accordare [482] al compagno le virtù della perseveranza, dell'ubbidienza, il vero amor di Dio.

                N. 21. La società è posta sotto gli auspizi dell'Immacolata Concezione, di cui avremo il titolo e porteremo una divota medaglia. Una sincera, figliale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di Lei, una divozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso di noi, amorevoli col prossimo, ed esatti in tutto.

                Consigliamo inoltre i fratelli a scrivere i SS. Nomi di Gesù e di Maria prima nel cuore e nella mente, poi sui libri e sopra gli oggetti che ci possono cadere sott'occhio.

                Il nostro Direttore è pregato di esaminare queste regole e di manifestarci intorno ad esse il suo giudizio, assicurandolo che noi tutti intieramente dipendiamo dalla sua volontà. Egli potrà far subire a questo regolamento quelle modificazioni, che gli apparranno convenienti.

                E Maria? Benedica essa i nostri sforzi, giacchè l'ispirazione di dar vita a questa società fu tutta sua. Elle arrida alle nostre speranze, esaudisca i nostri voti e noi coperti dal suo manto, forti del suo patrocinio, sfideremo le procelle di questo mare infido, supereremo gli assalti del nemico infernale. In simil guisa da Lei confortati speriamo di essere l'edificazione dei compagni, la consolazione dei superiori, diletti figliuoli di Lei. E se Dio ci concederà grazia e vita di poterlo servire nel sacerdotal Ministero, noi ci adopreremo con tutte le nostre forze, per farlo col massima zelo, e diffidando delle nostre forze, illimitatamente fidando del divino soccorso, potremo sperare che dopo questa valle di pianto, consolati dalla presenza di Maria, raggiungeremo sicuri in quell'ultima ora quel guiderdone eterno, che Iddio tien serbato a chi lo serve in ispirito e verità.

 

                D. Bosco lesse il sopra esposto regolamento di vita, e dopo di averlo attentamente esaminato lo approvò colle seguenti condizioni:

 

                1. Le mentovate promesse non hanno forza di voto.

                2. Nemmeno obbligano sotto pena di colpa alcuna.

                3. Nelle conferenze si stabilisca qualche opera di carità. [483] esterna, come la nettezza della chiesa, l'assistenza od il catechismo di qualche fanciullo più ignorante.

                4. Si dividano i giorni della settimana in modo che in ciascun giorno vi siano alcune comunioni.

                5. Non si aggiunga alcuna pratica religiosa senza speciale permesso dei superiori.

                6. Si proponga per iscopo fondamentale di promuovere la divozione verso Maria SS. Immacolata, e verso il SS. Sacramento.

                7. Prima di accettare qualcheduno gli si faccia leggere la vita di Luigi Comollo.

 

                Savio Domenico era il più atto ad istituire tale compagnia. Ognuno era suo amico; chi non lo amava, lo rispettava per le sue virtù. Egli sapeva poi passarsela bene con tutti. Era così rassodato nella virtù, che fu consigliato di trattenersi anche con alcuni compagni alquanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli approfittava della ricreazione, dei trastulli, dei discorsi anche indifferenti per tirarne vantaggio spirituale. Tuttavia quelli che erano inscritti nella società dell'Immacolata Concezione erano i suoi amici particolari, coi quali si radunava ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà. Queste conferenze tenevansi con licenza dei superiori; ma erano assistite e regolate dagli stessi giovani, i quali erano scelti tra i più virtuosi ed assennati allievi interni di ogni classe, benchè vi prendessero parte eziandio alcuni chierici e talora qualche prete. Il chierico Rua ne fu eletto presidente per consenso di tutti, perchè fin d'allora stimato il più fido, il più esemplare tra i figli di D. Bosco. Tenevasi radunanza una volta alla settimana, e colla lettura di alcuni periodi di un libro spirituale si apriva la seduta. Un segretario era incaricato di redigere i verbali delle deliberazioni. Queste vennero inaugurate nella novena di Maria SS. Consolatrice. [484] In esse conferenze trattavano del modo di celebrare le novene delle maggiori solennità, si ripartivano le comunioni, che ciascuno avrebbe avuto cura di fare in giorni determinati della settimana, si assegnavano a vicenda quei giovani che avevano maggior bisogno di assistenza morale e ciascuno lo faceva suo cliente, ossia protetto.

                Le norme pratiche di tale assistenza si ispiravano a prudenti riguardi. Si faceva l'elenco di quei giovani che erano dissipati, negligenti nei loro doveri, trascurati nella frequenza dei sacramenti e nelle altre pratiche di pietà, sospettati di tener cattiva condotta; studiavansi i naturali e le inclinazioni dei custodiendi, e poi si raccomandavano a quelli la cui indole più si confaceva col loro carattere. Ed ecco all'opera i membri della Compagnia dell'Immacolata, i quali sapevano adoperare tutti i mezzi che suggerisce la carità cristiana per avviare alla virtù un giovane; e nella conferenza della seguente settimana davano relazione intorno a quell'uno o più giovani che loro erano stati dati in custodia. Esponevano ciò che si era ottenuto, ricevevano consigli per continuare con maggior profitto la loro assistenza, e conferivano cogli altri attorno alle cose che sembravano più convenienti al buon andamento dell'Oratorio. La Compagnia era una società come quella degli Angeli Custodi, che opera e non si vede. Ciascuno di essi non perdeva d'occhio l'anima affidatagli, le girava intorno, cercava di farsela amica, senza che gli altri quasi se ne avvedessero, e neppur quegli che era oggetto delle sue cure. Gli era al fianco se gli pareva che avesse formato un crocchio sospetto, osservava che cosa leggesse, gli imprestava o regalava buoni libri, si trastullava di preferenza con esso. Guadagnatosi il suo cuore colla dolcezza dei modi e, se era d'uopo, coi più industriosi e generosi sacrifizi, [485] veniva ai consigli ed alle esortazioni, lo eccitava al bene o, scelto il momento opportuno, lo consigliava e poi lo invitava ad andarsi a confessare.

                Con tale arte, quante anime si salvarono. E quei della Compagnia non erano accusatori delle mancanze, ma i protettori dei deboli nella virtù, ed anche dei cattivi, se talora ve ne fossero stati, i quali venivano resi da essi innocui. Attenuavano le loro colpe presso i superiori, si rendevano responsabili in faccia a Dio della loro condotta futura, talora si offrivano a subire il castigo da quelli meritato, e tentavano d'intercedere quando vedevano minacciata l'espulsione del loro protetto. Era insomma un apostolato dei più sublimi, ma che richiedeva una robusta e prudente virtù. Se il cliente era infermo, se bisognoso d'aiuto, o per la scuola o pel laboratorio, se qualche contrarietà lo teneva mesto, o se gli accadeva qualche disgrazia, poteva certamente contare sulla segretezza e sull'aiuto di un amico sincero, che lo amava per Gesù Cristo. Tale era questa sacra legione, posta da D. Bosco a vegliare, perchè non penetrasse l'inimicus homo nell'Oratorio; ad essa ei diceva: - La moralità! Ecco quello che soprattutto importa! “Non si può dire, afferma D. Rua, di quanto vantaggio nel corso di un gran numero dì anni, riuscisse, la Compagnia dell'Immacolata pel buon avviamento dei giovani; e udii in questi ultimi tempi (1895) parecchi antichi allievi ripetere che, se avevano potuto rimanere all'Oratorio ed applicarsi con profitto ai loro doveri, lo dovevano alle caritatevoli premure loro usate dal tale e dal tal altro compagno, che io sapeva precisamente essere stati membri della Compagnia suddetta”.

                Questi, animati dallo spirito di D. Bosco, non si contentavano dei clienti, ma formavano il nerbo, l'anima [486] direttiva della casa. Sparsi fra la moltitudine dei giovani rumorosa e gioviale, coll'esempio e colle buone parole, erano elemento di docilità, di pace e di ordine. Gli alunni, divisi in gruppi, passeggiavano o giuocavano, e in mezzo a ciascuno di questi gruppi vi era uno, che appariva come il centro intorno al quale gli altri si stringevano. Costui, senza averne l'aria, faceva sì che non si mormorava, non si bestemmiava, non si parlava male, non si rissava. Tutti gli volevano bene, e se parlava e se narrava qualche esempietto lo ascoltavano attentamente. Non si usava allora mettersi in fila per andare da un luogo all'altro, ma appena suonato il campanello per la scuola, o per il laboratorio, o per la chiesa, o per lo studio, repentinamente cessavano i giuochi ed i clamori; e si vedevano i capannelli dei giovani, muoversi, come se fossero un solo, circondando un loro compagno cui erano rivolti, ed al quale obbedivano senza quasi avvedersene.

                Gli iscritti alla Compagnia prendevansi eziandio cura speciale dei giovanetti che entravano nell'Oratorio. Talora la melanconia e mille tristi pensieri travagliavano la mente e martellavano il cuore del poveretto, che forse per la prima volta era uscito dal paese nativo. Ma un compagno gli si avvicinava, gli chiedeva di sue notizie, lo faceva discorrere e passeggiare, lo distraeva, lo confortava, lo invitava a giuocare, gli serviva di guida per impratichirsi della casa, insinuava nel suo cuore buone massime, lo conduceva in chiesa a recitare un'Ave innanzi all'altare della Madonna, gli dimostrava qual padre amoroso fosse Don Bosco, e lo avviava alla frequenza dei Sacramenti.

                Così, non solo impedivasi il male e si rafforzavano i buoni, ma un grande vantaggio spirituale ne proveniva agli stessi membri della Compagnia. D. Bosco, come aveva [487] già fatto ad altri negli anni antecedenti, suggeriva a questi di scegliersi tra i compagni più zelanti qualche monitore segreto, cui dovevano pregare ad usar loro la carità di avvisarli dei loro difetti, ogni qualvolta ne avessero scorto il bisogno. “Ed io stesso, attestò D. Rua, ebbi a provare dì quanta utilità ci fosse tale spirituale industria del nostro buon padre, poichè, avvisato nella mia fanciullezza, da chi mi ero scelto per monitore segreto, imparai a conoscere il pregio del tempo e cominciai ad occuparlo più utilmente”.

                Nell'anno adunque nel quale Pio IX estendeva a tutta la Chiesa la festa del Sacro Cuore di Gesù e prescriveva che dappertutto si celebrasse l'ufficio e la messa di questa festa, nel mese stesso dedicato al Sacro Cuore, fondavasi la Compagnia dell'Immacolata Concezione, nella quale crebbero i primi membri della Pia Società di Francesco di Sales. Così il mese di giugno arrecava esso pure le sue gioie a D. Bosco, come le aveva apportate il mese di maggio.

                Egli riceveva una lettera dal giovane Ruffino Domenico, studente di rettorica a Giaveno, anima tutta del Signore, del quale D. Bosco aveva la certezza dì poterlo annoverare fra i suoi campioni più valenti nell'Oratorio. Quindi gli rispondeva.

 

                               Carissimo figlio,

 

                Hai fatto bene a scrivermi; se dici colle parole quello che hai in cuore, avrai in me un amico che ti farà tutto il bene che potrà. Offri i tuoi lavori a Dio: sii divoto di Maria; venendo a Torino ci parleremo.

                Il Signore ti benedica; prega per me che ti sono di cuore

                Torino, 13 giugno 1856.

 

Aff.mo Sac. Bosco Giov. [488]

 

                Altra consolazione l'ebbe da Roma. Nel giorno 10 di giugno il Sommo Pontefice concedeva indulgenza plenaria a chi visitasse la chiesa dell'Oratorio nelle feste principali della Beata Vergine, e in quella di S. Francesco di Sales e del Transito di San Giuseppe; nel giorno 13 l'indulgenza di sette anni e sette quarantene una volta al mese a que' fedeli che avessero assistito all'esercizio di Buona morte, nella chiesa suddetta[20]; e nello stesso [489] giorno 13 un terzo Rescritto, coll'indentico formolario del secondo, elargiva l'indulgenza di sette anni e sette quarantene a tutti quei fedeli che intervenissero nella notte del Santo Natale alle funzioni religiose nell'Oratorio. Non è a dire con qual profonda riverenza e viva contentezza D. Bosco ricevesse tali inestimabili favori.

                Altra causa di gioia, fu il 15 giugno, l'arrivo in Torino dell'esercito reduce dalla Crimea. Dopo aver i soldati assistito in piazza d'arme alla messa dell'Arcivescovo di Vercelli Mons. d'Angennes e cantatosi il Te Deum mentre tuonava il cannone, alcuni di quei prodi, compagni nell'Oratorio Festivo, e fra questi il giovane Morello, e pei quali si era tanto pregato, venivano in Valdocco a salutare D. Bosco, accolti festosamente.

                Entusiastica fu anche la festa di S. Giovanili e quella di S. Luigi, per la quale D. Bosco aveva fatte imprimere da Paravia 7500 immagini dell'angelico giovane.

                Dal programma della seconda festa che pubblicò il 28 giugno l'Armonia si ha l'ordine della stessa. [490]

                Domani 29 giugno, si celebra colla solita solennità e divozione la festa di S. Luigi Gonzaga nell'Oratorio di S. Francesco di Sales del Sac. Giovanni Bosco. Pubblichiamo qui l'orario delle funzioni di quella chiesa, persuasi che la pietà dei fedeli non può avere uno spettacolo più edificante di quello che presenta in tal giorno quel sacro luogo pieno di tanta fiorente gioventù, atteggiata a raccoglimento e divozione.

 

                Indulgenza Plenaria a chi, confessalo e comunicato, visiterà questa,chiesa, pregando secondo l'intenzione del Sommo Pontefice.

Decr. di S. S. Pio IX, 28 settembre 1850.

 

Orario.

 

                Messe e frequenza dei SS. Sacramenti.

                Ore 9. Ricreazione.

                Ore 10. Messa solenne.

 

Dopo mezzodi'

 

                Ore 3. Vespro solenne - Panegirico - Processione - Benedizione del SS. Sacramento.

                Ore 5. Lotteria per gli adulti.

                Ore 6. Lotteria per tutti.

                Ore 7. Concerto musicale ed altri trattenimenti.

 

                Ma il demonio doveva fremere nel vedere la pace regnante nell'Oratorio e nell'osservare il bene che operava la Compagnia dell'Immacolata. Il cortile non era ancor cinto talmente da mura, che non vi potessero penetrare gli estranei. Perciò per più anni di quando in quando i suoi emissarii comparivano in mezzo ai giovani, e all'apparenza dovevano appartenere alla setta valdese, o meglio alla scuola di Giuda. Sceglievan di preferenza quei giorni nei quali D. Bosco non era in Torino, ed eccoli col sogghigno sulle labbra avvicinarsi a qualche crocchio per incominciare qualche velenoso ragionamento. Fra gli altri vi [491] era un giovanotto, la cui vita fu un tessuto d'iniquità, di aspetto signorile, di modi cortesi e amabilissimi, di sguardo seducente, astuto, ipocrita, empio, le cui parole avevano un incanto tutto affatto singolare; e la sola sua presenza come una calamita gli attraeva attorno in folla tutti quei giovani che non erano avvisati. Ma vegliavano ansiose le sentinelle della Compagnia e con buone maniere allontanavano gli allievi da que' serpenti.

                Una volta in tempo di ricreazione accadde che un uomo si avanzò in mezzo ai giovani che si divertivano; e voltosi ad uno di loro prese a discorrere, ma con voce alta che tutti i circostanti potevano udire. L'astuto, per trarli vicino a sè, da principio si diede a raccontare cose strane da ridere. I giovani spinti dalla curiosità in breve gli furono attorno affollati, e attenti pendevano dal suo labbro nell'udire quelle stranezze. Appena si vide così circondato, fece cadere il discorso su cose di religione, e, come suol fare tal sorta di gente, gettava giù degli strafalcioni da far inorridire, mettendo in burla le cose più sante e screditando tutte quante le persone ecclesiastiche. Alcuni degli astanti, non potendo soffrire tali empietà e non osando opporsegli, si contentarono, di ritirarsi. Un buon numero incautamente continuava ad ascoltarlo. Intanto per caso sopraggiunse il Savio. Appena potè conoscere di che genere fosse quel discorso, rotto ogni rispetto umano, subito si rivolse ai compagni: -Andiamocene, disse, fasciamo solo quest'infelice; egli ci vuol rubare l'anima. - I giovani, ubbidienti alla sua voce, tutti quanti si allontanarono prontamente da quell'inviato del demonio. Questi, vedutosi così da tutti abbandonato, se ne partì senza più lasciarsi vedere.

                Un altro giorno avvenne che un giovanetto estraneo [492] alla casa portò seco un giornale sopra cui erano figure sconce ed irreligiose. Una turba di ragazzi lo circonda per vedere le meraviglie di quelle figure, che avrebbero fatto ribrezzo ai turchi ed ai pagani medesimi. Corre pure il Savio, pensandosi di lontano che colà si facesse vedere qualche immagine divota. Ma quando ne fu vicino fece atto di sorpresa; poi, quasi ridendo prese il foglio, e lo fece in minuti pezzi. Rimasero i suoi compagni pieni di stupore, sicchè l'uno guardava l'altro senza parlare.

                Egli allora disse: - Poveri noi! Avete forse dimenticato quello che tante volte fu predicato? Il Salvatore ci dice che dando un solo sguardo cattivo macchiamo di colpa l'anima nostra; e voi pascete i vostri occhi sopra oggetti di questa fatta?

                - Noi, rispose uno, andavamo osservando quelle figure per ridere.

                - Sì, sì, per ridere, intanto vi preparate per andare all'inferno ridendo... ma riderete ancora se aveste la sventura di cadervi?

                A quelle parole tutti si tacquero e niuno più osò di fargli altra osservazione.

                Intanto pel mese di giugno e di luglio era uscita dalla Tipografia diretta in Ivrea da G. Tea la Lettura Cattolica intitolata: Brevi considerazioni sulla conformità con la santa volontà di Dio. Era anonima. Questo libro, pieno di dottrina, dì conforto, di soavità e di affetto, produsse grande bene alle anime, facendo conoscere che la volontà del Signore è sempre in nostro vantaggio, e che in essa l'uomo deve trovare la sua pace e la sua perfezione.

 

 

CAPO XL. LA STORIA D'ITALIA. Suo scopo - Encomii della stampa e di personaggi illustri - Omaggio di questo volume al Papa ed a benefattori - Proposta non accettata del Governo - Altre edizioni - Vantaggi recali alla società da questa storia - Sua traduzione in inglese.

 

                IN QUEST'ANNO 1856 i giovani dell'Oratorio, anzi tutta la gioventù italiana riceveva da D. Bosco un dono, che sarà monumento imperituro della sincerità dell'amor suo verso di questa speranza della Chiesa e della patria. I nostri lettori non potranno non fare le più alte meraviglie al sapere come, in mezzo a tanti travagli di mente e a tante fatiche di corpo pel governo di sua numerosa famiglia, D. Bosco abbia ancora trovato tempo per comporre e dare alle stampe una Storia d'Italia, quale è una delle opere più belle ed importanti uscite dalla sua penna.

Un consiglio di D. Giuseppe Cafasso aveva affrettato il compimento di questo lavoro. D. Bosco erasi presentato a lui con due quaderni, sopra ciascuno dei quali eravi scritto un titolo, e gli aveva chiesto: [494]

                - Debbo comporre una Storia d'Italia, ovvero un Metodo per confessare la gioventù?

                A Don Bosco sembrava meglio scrivere intorno al secondo argomento, poichè certuni non davano V importanza dovuta a queste confessioni. Il pregiudizio che fosse quello tempo perduto, l'impazienza e la noia cagionata dalla leggerezza e dall'ignoranza di moltissimi fanciulli, la mancanza di esperienza, in più luoghi, riducevano a piccol numero que' sacerdoti che sapessero o volessero confessare i giovanetti. Le loro confessioni erano ascoltate solo a Pasqua.

                D. Cafasso, udite le ragioni di D. Bosco, senz'altro gli disse:

                - Scrivete la Storia d'Italia!

                D. Bosco obbedì. Egli d'altra parte vedeva in que' giorni con alto rammarico perfidi scrittori, per mezzo di Epiloghi, di Sommarii, di Compendii, di Storie patrie e via dicendo, fare barbaro scempio della Storia Italiana, rimettere in luce viete e già le mille volte confutate calunnie contro i Papi, dipingerli siccome nemici d'Italia, travisare, torcere in cattivo senso, o tacere i fatti più gloriosi, per dare in quella vece come storiche verità prette invenzioni od opinioni di cervelli balzani, purchè fossero di sfregio al Papato; anzi gli stessi Romani Pontefici, che erano in grido dei più benemeriti della penisola, tradurre quali fautori di sue sciagure e simili. E quel che era peggio, tali storie nazionali incominciavano ad adottarsi in varie scuole come libri di testo. Si aggiunga che i Protestanti in tre loro periodici combattevano fieramente il Papato, e il giornalismo settario ne assaliva il dominio temporale falsandone l'origine e lo scopo e negando che fosse basato sul diritto. [495] Questi tradimenti della verità, questo avvelenamento delle giovani menti rivoltava l'animo a D. Bosco e si accinse ad apprestarvi quell'antidoto più efficace che per lui si potesse. Il Ch. Rua Michele scrisse tutta la Storia, d'Italia sotto la sua dettatura; e il giovanetto Melchior Voli, che fu poi avvocato, sindaco di Torino e senatore del regno, aiutò D. Bosco a tracopiarla trovandosi con lui in Casa Roasenda, poichè il manoscritto originale era coperto di correzioni. Nel 1855 Paravia ne aveva incominciata la stampa. Queste pagine contengono una vera difesa della Chiesa e dei Papi, dimostrano i beneficii resi da loro alla civiltà e specialmente all'Italia, e sostengono con argomenti perentorii il dominio temporale dei Papi, necessario per il libero esercizio della loro autorità spirituale.

                L'orditura dell'opera è distinta in quattro periodi dì tempo. Mentre però tutti gli storici dividono la parte che riguarda la Storia Romana in tre epoche: i Re, la Repubblica e l'Impero, D. Bosco, la divide in due: l'Italia pagana e l'Italia Cristiana. In ciò si spiega sempre più il sentimento profondo che aveva nel cuore: Gesù Cristo, il suo Vicario, la sua Chiesa.

                La prima epoca o periodo adunque incomincia dai primi abitatori d'Italia, e si estende fino al principio dell'era volgare quando tutto l'Impero Romano passò sotto la dominazione d'Augusto. La seconda epoca dal principio del Romano Impero fino alla caduta del medesimo in Occidente nel 476, perchè in tale spazio di tempo il Cristianesimo fu propagato e stabilito in tutta l'Italia. La terza epoca incomincia dalla caduta del Romano Impero in occidente fino alla scoperta dell'America fatta da Cristoforo Colombo nell'anno 1492: la storia del Medio Evo. [496] La quarta comprende il resto della storia sino al 1855, comunemente appellato Storia Moderna. Quasi tutti i capitoli si chiudono con una sentenza del libro dei Proverbi.

                D. Bosco a mano a mano che il suo lavoro progrediva portava le bozze di stampa al Professore Abate Amedeo Peyron pregandolo a leggerle e a dare il suo giudizio su quel lavoro. Il Professore, volendo fargli un buon servizio, correggeva, correggeva, ma alla fine rileggendo si avvide non essere possibile far meglio. Quindi cancellò le correzioni e lasciò il libro come era stato dettato da D. Bosco. Così ci narrò il Prof. D. Garino. Ma in questa occasione Peyron diede un ammonimento a D. Bosco che non fu mai dimenticato.

                Tra le altre brevi biografie degli uomini illustri aveva pur messa quella di Vittorio Alfieri. Il Peyron disse a D. Bosco: - E perchè in un libro destinato ai giovanetti mette la biografia dell'Alfieri, di uno scrittore sì guasto di costumi, di idee così perniciose e che ha fatto tanto male co' suoi scritti e colle sue tragedie? Tolga questa biografia. Dell'Alfieri si dovrebbe far perdere perfino la memoria. Se lei lo nomina o lo biasima, o peggio ne tesse qualche lode, nei giovani si desterà la curiosità di andarne a comperare e a leggere le opere, con grande loro danno. Lo tolga, lo tolga!

                E D. Bosco così fece. E poi avvisava i professori che si guardassero bene dal nominare o citare autori cattivi e molto meno farne elogio in quanto alla lingua o ad altri pregi.

                Eziandio al suo antico Professore D. Pietro Banaudi, aveva dato ad esaminare la sua storia, forse per ciò che riguardava i giudizii sui fatti ecclesiastici. [497]

 

                               Car.mo Signor Professore,

 

                Eccole due altri quaderni della nostra comunque siasi storia d'Italia, che io raccomando alla sua bontà siccome fu compiacente di fare nei quaderni antecedenti.

                Presentemente è in corso di stampa e presto spero di essere in grado di mandarle il rimanente fino a' nostri giorni.

                La ringrazio di cuore, mi ami nel Signore e mi creda con gratitudine sincera

                Di V. S. Car.ma

                Torino, 5 dicembre.

 

Obbl.mo allievo

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                E nella metà del 1856 usciva alla luce la Storia d'Italia raccontala alla gioventù, da’ suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata di una carta geografica d'Italia dal sacerdote Bosco Giovanni. Questa prima edizione era di 2500 copie.

                Sono preziose le parole colle quali egli espose lo scopo che si prefisse nello scrivere quest'opera, parole che meritano di essere qui riportate, perchè rivelano come la sana educazione della gioventù fosse il continuo suo pensiero, l'oggetto precipuo di ogni sua fatica.

 

                “Egli è un fatto universalmente ammesso, così egli, che i libri devono essere adattati all'intelligenza di coloro a cui si parla, in quella guisa che il cibo deve essere acconcio alla complessione degli individui.

                Giusta questo principio io divisai di raccontare la Storia d'Italia alla gioventù, seguendo nella materia, nella dicitura e nella mole del volume le stesse regole già da me praticate per altri libri al medesimo scopo destinati. Tenendomi pertanto ai fatti certi, più fecondi di moralità e di utili ammaestramenti, tralascio le incerte, le private congetture, le troppo frequenti [498] citazioni di autori, come pure le troppo elevate discussioni politiche, le quali cose tornano inutili e talvolta dannose alla gioventù

                Posso nondimeno accertare il lettore, che non iscrissi un periodo senza confrontarlo cogli autori 'Più accreditati, e, per quanto mi fu possibile, contemporanei, o almeno vicini al tempo, cui si riferiscono gli avvenimenti. Neppure risparmiai fatica nel leggere i moderni scrittori delle cose d'Italia, ricavando da ciascuno quello che parve convenisse al mio intento. Ho fatto quello che ho potuto perchè il mio lavoro tornasse utile a quella porzione dell'umana società, che forma la speranza di un lieto avvenire, la gioventù. Esporre la verità storica, insinuare l'amore alla virtù, la fuga del vizio, il rispetto all'autorità e alla Religione fu intendimento finale di ogni pagina.

                Le buone accoglienze fatte dal pubblico ad alcune mie operette altra volta pubblicate mi fanno sperar bene di questo comunque siasi lavoro. Se a taluno riuscirà di qualche vantaggio, ne renda gloria al Dator di tutti i beni, cui intendo di consecrare queste mie tenui fatiche”.

 

                Fin qui D. Bosco.

                Appena quest'opera fu messa in vendita, uomini competenti in materia ne fecero grandi elogi.

                D. Trusso nostro antico allievo ed insegnante narrava che un distinto professore siciliano, avendo preso a leggere questa storia, finita che ebbe la lettura esclamò: - Chi ha scritto questo libro è un santo!

                I dotti scrittori della Civiltà Cattolica levandola al cielo la chiamarono un libro che nel suo genere non ha forse pari in Italia; e nel loro periodico, anno 13, serie 5 Vol. 3 pag. 474 ne esternavano quest'altro giudizio: “Sotto la penna dell'ottimo D. Bosco, la Storia non si tramuta in pretesto di bandire idee di una politica subdola o principii di una ipocrita libertà, come pur troppo avviene di certi altri compilatori di epiloghi, sommarii, compendii che corrono l'Italia e brulicano ancora per molte scuole godenti [499] riputazione di buoni. Alla veracità dei fatti, alla copia della materia, alla nitidezza dello stile, alla simmetria dell'ordine l'autore accoppia una sanità perfetta di dottrine e di massime vuoi morali, vuoi religiose, vuoi politiche”[21].

            Qualche spirito melanconico sentissi punto da queste lodi e andava ripetendo nelle conversazioni, essere caduto [500] in mano a D. Bosco il manoscritto, trovato in una biblioteca, di un Gesuita, e averlo egli pubblicato sotto il suo nome. D. Bosco taceva, ma il Prof. D. Picco prese le sue parti: - Che Gesuita, che Gesuita! rispondeva a chi gli dava la peregrina novella. Ma se io ho visto foglio per foglio quanto D. Bosco ha scritto! E nell'atto stesso che li scriveva!.... Oh! Si vede che non conoscete D. Bosco!

                D. Bosco intanto non aveva tardato nel far presentare al Sommo Pontefice una delle prime copie di questa storia convenientemente legata, e da Roma gli perveniva il desiderato riscontro.

 

                               Ill.mo Signor D. Bosco,

 

                In conformità ai desiderii che V. S. Ill.ma mi manifestava col suo foglio del 7 corrente rassegnai di buon grado al S. Padre l'esemplare del Corso della Storia d'Italia raccontato alla gioventù da Lei compilato. Mi reco pertanto a premura di significarle che il S. Padre accolse con gradimento questa dimostrazione di ossequio verso la sacra ed augusta di Lui persona e Le comparte per mio mezzo l'Apostolica sua benedizione.

                Io poi me Le dimostro obbligatissimo per l'altro esemplare dell'opera stessa che si compiacque destinarmi in dono e nel porgerle i debiti ringraziamenti mi pregio di dichiararle i sensi della mia distinta stima.

                Di V. S. Ill.ma

                Roma, 18 settembre 1856.

 

Servitore vero

G. Card. ANTONELLI.

 

                Nello stesso tempo D. Bosco ne mandava altre copie in dono a varii amici e benefattori, fra le risposte dei quali noi sceglieremo la seguente: [501]

 

                               Molto Rev. e carissimo D. Giovanni,

 

                Ho tardato a ringraziarla del pregevole dono che Ella mi ha fatto di un suo accurato lavoro nel compendio storico dell'Italia nostra, partendo dai più remoti tempi e venendo ai giorni nostri; ho tardato, dico, a compiere questo mio dovere, perchè fin qui non trovai tempo di assumerne lettura e cognizione. Ora pertanto che mi trovo nella quiete campestre e lungi dalle continue e troppe mie occupazioni cittadine, lo adempio con riconoscenza più animata, e con ammirazione per un lavoro che Le deve essere costato molta fatica nel ridurre a compendio le vicende del nostro bel paese che sempre nelle arti e nelle scienze emerge a gloria nostra sopra gli altri. Ammiro l'accurato studio che con risultato ottimo Ella pose nel ridurre il molto in poco senza tradire la verità storica, e senza nessuna vicenda omettere delle più famigerate e notevoli, a cui nei casi avversi soggiacque Italia e primeggiò nei felici. Ella si merita la gratitudine della gioventù torinese, alla quale Ella dedica con tanto amore le sue provvide cure, e direi anche della gente tutta italiana, cui debbe interessare di trovare in un libro di piccolo formato epilogata la origine nostra insieme colla serie delle vicende che il bel paese ove il sì suona ebbe a sostenere.

                Colgo eziandio il favorevole incontro per ringraziarla assai assai dell'essersi occupata a fare eseguire dai buoni suoi allievi i deboli miei componimenti musicali caratteristici, che ebbero costì prospera fortuna senza averne il merito.

                Mi perdoni la lunga lettera che passa i confini della discrezione, mi conservi nella, da me pregiatissima, sua memoria e mi creda disposto a servirla ove il possa onde dimostrarmele con riconoscenza e quale mi pregio di dirmi

                Milano, 29 ottobre 1856.

 

Dev.mo Obbl.mo Servo

CESARE DI CASTELBARCO.

 

                In seguenti edizioni D. Bosco vi aggiungeva un Capitolo sulla guerra del 1859, ossia la conquista della [502] Lombardia, e più tardi un sommario cronologico dei principali avvenimenti dalla pace di Villafranca (1859) alla morte di Napoleone III (1873). Vi inserì eziandio alcune nuove biografie di uomini illustri, di Carlo Denina, Giuseppe De-Maistre, Antonio Canova, Antonio Cesari, Vincenzo Monti, Cardinal Mezzofanti, Silvio Pellico, Antonio Rosmini, Carlo Boucheron, Pier Alessandro Paravia, Amedeo Peyron, Alessandro Manzoni.

                Di Alessandro Manzoni, dopo aver lodato i suoi scritti e specialmente i Promessi Sposi, fa qualche osservazione su questo romanzo. “La stima, ei scrive, che abbiamo di quest'opera non ci tratterrà tuttavia di biasimare altamente il ritratto che ci porge di D. Abbondio e quello della sgraziata Geltrude. Il Manzoni, che voleva dare all'Italia un libro veramente morale ed ispirato da sentimento cattolico, poteva, certo, presentarci migliori caratteri; gli stessi romanzieri d'oltre Alpe ben altra idea ci porgono generalmente del parroco cattolico. Il giovane poi, che fin da' suoi primi anni ha imparato, coll'amore ai genitori, la venerazione al proprio parroco, dovrà necessariamente ricevere cattiva impressione nella mente e nel cuore dopo siffatta lettura”.

                Quindi non consigliavane ai giovanetti, perchè inesperti e impressionabili, la lettura, e solamente la tollerò quando fu nelle scuole prescritta dal Governo. Da ciò si argomenti che cosa D. Bosco pensasse degli altri romanzi. Ei diceva continuamente, che i libri, anche non cattivi, ma leggeri ed appassionati, sono pericolosi, in specie per la moralità.

                Questa storia fu per que' tempi e in appresso una provvidenza, stimata dai buoni e anche dai non sospetti di troppo cattolicismo. Dio solo sa il bene che arrecò alla [503] gioventù e il male da cui la preservò. Non appena conosciutine i pregi, i padri di famiglia, i maestri, gli istitutori, che desideravano avere figliuoli e discepoli eruditi nella storia patria, ma non attossicati, andarono a gara per loro provvederla.

                Nel corso di trent'anni se ne spacciarono oltre a 70.000 copie.

                In principio lo stesso Ministro della Pubblica Istruzione, che era Giovanni Lanza, la fece esaminare, gli piacque molto, l'onorò d'un premio di lire mille, e mostrò desiderio che venisse adottata nelle scuole governative. Per ciò vi fu chi da parte del Governo venne a promettere a D. Bosco che sarebbe stato emanato un decreto per approvare questa storia come libro di testo nell'insegnamento, purchè D. Bosco, non già correggesse il suo lavoro, ma togliesse alcuni periodi che gli sarebbero indicati. Egli però nulla volle mutare, e non si curò di un progetto che pure gli avrebbe fruttato un lucro grandissimo. Anzi era pronto a soffrire con gioia l'ira dei settarii, che lo avean preso in sospetto di reazionario e capo di reazione, in favore del Sommo Pontefice.

                I giovani dell'Oratorio intanto leggevano con assiduità quella storia, e talora ne recitavano a memoria dei capi intieri; e lo stesso D. Bosco per animarli distribuiva ai migliori lodi e premii, come saviamente praticava con quelli, che meglio sapevano recitare il catechismo, o gli squarci più belli di Storia Sacra o di Storia Ecclesiastica.

                Un altro vantaggio di grande importanza arrecò la Storia d'Italia alla società. Ella servì di modello ed esempio a non pochi autori a scrivere libri sullo stesso argomento e così togliere dalle mani della gioventù storie grandemente in voga e molto pericolose anche per la moralità. [504]

                Un fatto dobbiamo ancora aggiungere, cioè che il nome di D. Bosco, ancor vivente, a sua insaputa fu da questa opera fatto conoscere in Inghilterra, perchè adottata colà come libro scolastico. I nostri confratelli di Londra trovarono sopra un banchetto, ove si vendevano libri in seconda mano, un magnifico volume inglese, col titolo: “Compendio della Storia d'Italia di Giovanni Bosco, traslato dall'italiano da un ex Ispettore Governativo delle scuole I. D. Morell, LL. D.”. Era edito dalla tipografia Longman, Green una delle principali ditte editrici di Londra, nel 1881.

                Il traduttore così scriveva nella prefazione: .......

 

                Durante la mia residenza di parecchi inverni in Italia, rivolsi naturalmente la mia attenzione alla storia di quel paese. E pensai soventi volte che un buon sommario di storia d'Italia in inglese, specialmente adatto alla gioventù, colmerebbe una vera lacuna.

                Noi abbiamo numerosi lavori sulla storia antica d'Italia, cioè della repubblica romana e dell'impero. Alcuni di essi diffusi, altri brevi adattati agli studenti di scuole inferiori e superiori. Ma appena arriviamo alla caduta dell'impero romano di occidente, e entriamo nel medioevo, quest'abbondanza, in servigio dello studio di questa parte della storia d'Italia, cessa subito.

                Non è per nulla facile trattare tutti questi complicati fatti politici combinando la brevità colla chiarezza, e farne un passabile sommario di storia italiana: è questo un lavoro niente affatto agevole.

                Il presente compendio è in massima parte tradotto dal lavoro di Giovanni Bosco (un dotto prete italiano) intitolato La storia d'Italia raccontata alla gioventù.

                Il compendio della storia d'Italia del Bosco comincia dalla fondazione di Roma. La prima parte (che inchiude la storia generalmente detta romana) era inutile a tradursi, perchè contiene la materia dei manuali inglesi usati in tutte le nostre scuole e collegi.

                Riguardo alla traduzione in sè, devo premettere che il libro, fu scritto (come il titolo esprime) per la gioventù d'Italia, cioè. [505] per uso delle scuole superiori di quella nazione. Ha già avuto cinque edizioni, ed è largamente usato come testo approvato.

                Lo stile è estremamente semplice, e vi sono intrecciate varie spiegazioni, che non sarebbero punto necessarie in libro destinato a lettori più istruiti. Ho tentato in qualche modo riprodurre nella traduzione la leggiadra semplicità dello stile: delle spiegazioni accennate sopra, alcune le ritenni, altre le tralasciai come non necessarie. Devo anche dichiarare che siccome l'autore è un prete della Chiesa Cattolica molto zelante, si trovano sparsi nelle sue pagine molti sentimenti ed opinioni che non accorderebbero punto colle nostre idee inglesi e sopratutto protestanti. Io mi tenni giustificato in modificarle od ometterle secondo il caso....

 

 

CAPO XLI. Memoriale di D. Bosco sull'andamento dell'Oratorio in questo anno - Lettera ai parrochi per raccomandare i giovani in vacanza - Un giovanetto fuggito di casa e ricoverato da D. Bosco - Giovani beneficati dell'Oratorio festivo Chierici che domandano consigli sulla vocazione - Don Bosco e la Conferenza annessa - D. Bosco a Sant'Ignazio e sue lettere all'Oratorio - Il fulmine - Un Te Deum al ritorno di D. Bosco in Torino - Letture Cattoliche -  Predicazioni - Studenti di scuola normale nell'Oratorio - Lettera alla Duchessa di Montmorency - Altra Indulgenza - La festa dell'Assunta.

 

                DESCRITTI i felici successi di D. Bosco colla pubblicazione della Storia d'Italia, ci è caro dare qualche notizia in generale sull'interno dell'Oratorio, tanto più che ne abbiamo il più autorevole documento.

                Da un grosso memoriale dell'anno scolastico 1855 - 1856, tutto scritto dalla mano di D. Bosco, pieno di note di vario genere, di conti per somme da esigersi e da pagarsi, si trovano registrati i nomi di 153 alunni, dei quali, 63 sono studenti e 90 artisti. Questo numero però non è completo, [507] come attestano antichi allievi di quei tempi, mancandovi qualche categoria, che attendeva a scuole superiori di arti o scienze in Torino e altra di quelli che erano nell'Oratorio solo di passaggio. Pochi hanno osservazioni in margine, e da queste si conosce che gli insolenti incorreggibili, i gravemente sospetti di furto, e coloro che non volevano sottomettersi ai regolamenti, erano licenziati dalla casa. È  pur notato alcuno che si ritirò volontariamente. Di Gastini Carlo si legge: Andò ad abitare da sè nel mese di maggio.

                Alcuni nomi, specialmente di artigiani, ricordano poveri orfani che in quest'anno erano passati all'eternità. Per le privazioni, gli stenti ed altre cause, avevano portato con sè nell'Oratorio il germe distruttore. All'Ospedale Cottolengo di Torino nei primi mesi del 1856 morivano Picena Giovanni di anni 17 di Cremolino, e Pesciallo Luigi di Vacarezza di 15 anni, e nell'Ospidale Mauriziano spirava Raggi Bernardo di 16 anni; a Cremolino, un altro Picena, fratello minore del sopranotato. D. Bosco visitava affettuosamente i suoi alunni, che i medici avevano fatti trasportare agli ospedali e li preparava a terminare santamente la loro vita.

                Finito l'anno scolastico, dopo l'esame e la distribuzione dei premii, una parte dei giovani studenti andavano a casa per le vacanze; ma D. Bosco studiavasi che non rimanessero senza sorveglianza, e quindi loro dava una lettera da consegnarsi al parroco. Eccone il tenore.

 

                               Ill.mo e molto Rev.do Signore,

 

                Raccomandiamo rispettosamente questo nostro allievo alla benevolenza del suo Sig. Parroco facendogli umili preghiere di assisterlo in tempo delle vacanze, e nel suo ritorno tra noi [508] munirlo di un certificato in cui si dichiari: - I) Se nel tempo che passò in patria si accostò ai Ss. Sacramenti della Confessione e Comunione; - 2) se frequentò le funzioni parrocchiali e se si prestò a servire la santa Messa; - 3) se non ha frequentato cattivi compagni e non ha altrimenti dato motivi di lamenti sulla sua morale condotta.

                Colla speranza di ricevere buone notizie del nostro allievo, La ringraziamo di tutto cuore mentre ho l'onore di professarmi

                Della S. V. Molto Rev.da

 

Obbligatissimo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                Ma D. Bosco non poteva patire i posti vuoti nel suo Ospizio.

                La sua carità per i giovani pericolanti era tale, che incontrandone qualcuno, non badava a certe condizioni di accettazione che egli stesso ordinariamente esigeva, ma senz'altro li accettava come figli a lui presentati dalla Provvidenza Divina. Ci raccontava Villa Giovanni:

                “Ricordo che D. Bosco un giorno era andato da un parrucchiere per farsi radere la barba e là vide un giovane garzoncello che aiutava il padrone. Si pose ad interrogarlo affabilmente e seppe da lui, che era nativo di Cavour, fuggito di casa, e che vagando in Torino or di qua or di là in cerca di lavoro, era capitato in casa di quel barbiere, il quale gli dava cinque soldi al giorno pel suo, vitto. D. Bosco allora invitollo a venire con lui all'Oratorio. Quel giovanetto, vedutosi trattare così paternamente, accettò la proposta, si congedò dal parrucchiere e andò con D. Bosco. Il buon prete subito scrisse al padre del giovanetto a Cavour che il suo figlio si era ricoverato presso di lui e gli chiese se fosse contento che continuasse [509] a rimanervi. Il padre, consolato da questa notizia, acconsentì con molto piacere.

                Io conobbi questo giovane che stette nell'Oratorio fino alla sua partenza pel servizio militare; si conservò sempre un galantuomo, ed ora è impiegato onorevolmente in Torino, e presentandomisi l'occasione di parlargli, sempre dimostra la sua riconoscenza a D. Bosco, a cui dice di dovere tutto il merito della sua buona educazione nella gioventù”.

                Egualmente con grande carità amava D. Bosco i suoi giovani dell'Oratorio festivo. Quando dovevano allontanarsi da Torino e recarsi ad abitare altrove, non li dimenticava, ma si interessava sempre del loro bene. Fra le moltissime testimonianze scegliamo la seguente, che ci scrisse il sullodato Giovanni Villa: “Dopo un anno che rimasi in Torino, frequentando sempre l'Oratorio di Don Bosco, dovetti ritornare con mio padre a Biella. Nel luglio 1856 fui avvisato dal mio parroco che D. Bosco gli aveva scritta una lettera, pregandolo di notificare a me ed a mio fratello, che nel tal giorno determinato ci trovassimo all'Oratorio di S. Filippo, dovendo egli portarsi a Biella e avendo tanto piacere di parlarci.

                E noi rimanemmo oltremodo commossi di tanta cara memoria di D. Bosco; ci portammo nel giorno stabilito nell'Oratorio di S. Filippo; ed appena vedutolo, egli ci rivolse subito la sua affabile parola, domandandoci se eravamo sempre assidui nelle pratiche buone, a cui eravamo stati avviati nel suo Oratorio. Quindi mi invitò a venire a Torino. Il padre mio sulle prime non voleva, ma alfine mi diede il consenso. - Venuto in Torino, trovai subito lavoro sicchè ripresi il mio mestiere, frequentando con assiduità costante l'Oratorio di D. Bosco. Quindi io debbo [510] a D. Bosco tutta la mia riconoscenza per la benevolenza usatami e per il gran bene che mi ha fatto. Anche durante il mio servizio militare, per vari anni nell'Italia centrale, D. Bosco mi scriveva direttamente salutari consigli e scriveva al Vescovo di Osimo raccomandazioni in mio favore. Ed ora la mia agiata condizione attuale nel commercio la debbo alla educazione ricevuta da Don Bosco e a' suoi buoni uffici presso quelli che mi aiutarono a conseguire una fortuna. Come di me, così D. Bosco s'interessava di tutti altri che ricorrevano a lui”.

                Intanto D. Bosco preparavasi a partire per Lanzo e così scriveva al Chierico Delprato Giacomo a Savigliano Monasterolo, il quale, ascritto alla Diocesi di Torino, gli aveva chiesto consiglio sulla vocazione, come pur facevano altri suoi compagni.

 

                               Carissimo figlio,

 

                Differiva a scriverle perchè reputava certa la sua venuta agli Esercizi di S. Ignazio. Ieri ho inteso esservi alcuni dubbi e perciò Le scrivo che io domani parto per S. Ignazio e colà mi fermerò durante l'intera muta degli spirituali esercizi. Dopo il 25 del corrente mese sarò di nuovo permanente in Torino. Se Le occorre qualche cosa in tal tempo, per cui Le possa essere utile, conti pure sopra di me come uno che si dichiara nel Signore

                Torino, 13 luglio 1856.

 

aff.mo amico

Sac. Bosco Giov.

 

                In quegli stessi giorni ei tenne radunanza alla conferenza annessa della Società di S. Vincenzo de' Paoli, e tra le cose che raccomandò fu quella dell'orazione. Annunziando che doveva recarsi agli esercizii, promise che [511] nel santuario di S. Ignazio avrebbe pregato per tuffi, e particolarmente per i figli dell'Oratorio. Fece notare che colle preghiere dei Cattolici si può essere causa di gran bene e produrre staordinarii effetti anche in lontanissimi paesi, per es. nell'America: sia per la comunione dei santi, sia perchè, supplicandosi per coloro che non vivono in comunione colla Chiesa, la preghiera dei Cattolici è ascoltata da Dio con quella premura colla quale un padre ascolta la voce de' suoi proprii figliuoli. Nelle false religioni invece la preghiera è sterile, molte volte non è ascoltata dal Signore, e talora è un insulto alla Divinità. Finì con raccomandare caldamente la salvezza della sua povera anima alle preghiere dei congregati, e con espressioni di grande umiltà. In quel mentre entrò nella sala il cavaliere Peyron; salutò D. Bosco rispettosamente, e poi udite le sue ultime parole gli disse in atto di venerazione: - D. Bosco, non si converta neh agli esercizii di S. Ignazio Noti si converta per carità! - Così narrò Reano Giuseppe che era presente.

                Il 14 del mese D. Bosco andava a Sant'Ignazio accompagnato dal Ch. Rua e dai Chierici Rocchietti, Bongiovanni Giuseppe, Pettiva e Momo. Quivi Don Bosco in mezzo alle occupazioni del ministero sacerdotale trovò tempo di radunare que' membri delle conferenze torinesi di S. Vincenzo de' Paoli, che là erano saliti per il loro annuale ritiro. Convennero il Conte Cays, il cavaliere Gonella con altre distinte persone. Si fece pure una colletta, che fruttò 22 lire. Questa somma era destinata per le famiglie più povere dei giovanetti che frequentavano l'Oratorio festivo. Tale notizia fu trasmessa in Valdocco per lettera scritta dal Segretario Bongiovanni Giuseppe, e questa lettera fu letta la terza Domenica di luglio [512] durante un'altra conferenza tenutasi nell'Oratorio e presieduta da D. Alasonatti.

                D. Bosco, cui stavano sempre a cuore i suoi alunni, scriveva eziandio una lettera a D. Alasonatti, nella quale indirizzava due domande a tutti quelli della casa, promettendo che avrebbe fatto un bel regalo a chiunque avesse saputo rispondere. Ecco le domande: - I. Che cosa importa l'aver Iddio data all'uomo un'anima sola? - 2. Come si chiama colui che non procura di salvarla?

                Altre lettere egli scrisse da quel santuario, ma a noi pervenne solo la seguente:

 

                               Carissimo Cagliero,

 

                Anch'io desidero che ti occupi del piano e dell'organo, ma siccome la scuola di metodica è quasi tutta conforme agli studii filosofici a cui attendi, di più essendo cosa solamente di un paio di mesi, desidero che tu preferisca la metodica, spendendo al piano quel tempo che ora potrai; all'un difetto supplirai dopo l'esame.

                Studia sempre di diminuire il numero dei nemici, accrescere quello degli amici, e fare tutti amici di Gesù Cristo. Amami nel Signore, e il cielo ti sia sempre aperto.

                S. Ignazio presso Lanzo, 23 Luglio 1856.

 

Tuo aff.mo in G. C.

Sac. Bosco Giov.

 

                A spiegazione di questa lettera, diremo che D. Bosco aveva impegnato i chierici ad applicarsi nelle vacanze allo studio delle materie necessarie per apprendere a ben insegnare, col fine di presentarli all'esame per le patenti. Il professore D. Rossio si era incaricato d'istruirli.

                Egli adunque scriveva, consultava D. Cafasso sui noti disegni che tutto l'occupavano, e aspettava l'ora di ritornare all'Oratorio. Ma un genio malefico sembrava che a [513] quando a quando tentasse di spegnere un'esistenza consacrata alla gloria della Chiesa. Spuntava l'ultimo giorno degli esercizii 25 luglio, destinato alla partenza per Torino. Alle 3 del mattino il tempo era nuvoloso. D. Bosco si trovava nel corridoio della casa del Cappellano ove alloggiava, vicino alla porta vetrata che metteva sul poggiuolo, chiusa e assicurata con una spranga di legno. A un tratto si ode per aria un fragore spaventoso; la spranga è tolta dal suo posto e gettata con violenza contro D. Bosco percuotendolo nel fianco; la finestra - porta si apre violentemente sotto l'impulso di un vento orribile che strascina seco un diluvio di pioggia; il fulmine cade ove è D. Bosco, lo circonda, strappandogli di sotto ai piedi un quadrello di pietra del pavimento, restando però esso diritto sul calcestruzzo, intronato, confuso. Non tardò tuttavia a riprendere la sua presenza di spirito; accorse gente, ma non ci fu verso di chiudere quella porta, perchè il turbine violentissimo lottava vittoriosamente contro gli sforzi di tutti. D. Bosco non ebbe altro scampo che ritirarsi in sua camera aspettando che cessasse quel finimondo.

                I signori che aveano alloggio nelle stanze attorno al Santuario di nulla si erano accorti e scesi ad ascoltare la S. Messa, si meravigliarono nel vedere D. Bosco andare all'altare zoppicando. Il Marchese Berzetti di Mulazzano, che conosceva a perfezione le rubriche delle cerimonie di Chiesa, non sapeva darsi ragione perchè D. Bosco non facesse le solite genuflessioni. - Come va, brontolava poi, che le cerimonie della messa non sono più come prima? - Ma quando si venne a conoscere il fatto, tutti riconobbero doversi la salvezza di D. Bosco ad un tratto speciale della Divina Provvidenza. D. Bosco era rimasto [514] incolume, non però senza alcuni dolori, che per più giorni, si senti nel capo, nella schiena e poi nelle gambe, e un male al fianco che gli durò per parecchi mesi. Al presente si mostra ancora a Sant'Ignazio la camera ove egli fu visitato dal fulmine.

                Ritornato all'Oratorio la sera dello stesso 25 luglio, vi fu ricevuto con grandi feste. Il 27 poi domenica, Monsignor Foux, cappellano della Duchessa di Genova, che predicò regolarmente ogni sera delle feste per un anno e più, in squisito dialetto piemontese, ai giovani dell'Oratorio, istruzioni ascoltate avidamente per un'ora buona, salì sul pulpito. Egli descrisse ciò che era accaduto a Sant'Ignazio, ed eccitando le turbe giovanili a ringraziare Dio e la Beatissima Vergine per aver conservato così miracolosamente il loro Direttore, s'intonava, un solenne Te Deum. Non si può immaginare con quale entusiasmo i giovani continuassero questo canto. Dopo il Tantum ergo in musica, con apparato di festa si dava la benedizione, e quindi nel cortile la banda musicale, diretta da Buzzetti Giuseppe, suonò in segno d'esultanza, per lo spazio di due ore. D. Rua e Reano tennero memoria di questi fatti, e Mons. Cagliero testifica come di un singolare fenomeno che un anno dopo, quando condensavasi un temporale, tutta la persona di D. Bosco, pareva involta in un leggero vapore e specialmente le mani emanavano odore di zolfo. Si è eziandio osservato nel 1884 che quando l'elettricità delle nubi tendeva a scaricarsi, le mani di D. Bosco si gonfiavano e, scoppiato il fulmine decresceva all'istante e spariva quella enfiagione.

                D. Bosco aveva subito ripreso l'ordinamento dei fascicoli delle Letture Cattoliche. Quel di agosto, stampato dal Ribotta, aveva per argomento: Conversione di Ermanno [515] Cohen Israelita, ora Padre Agostino del SS. Sacramento Carmelitano Scalzo. Era un nuovo miracolo fra le migliaia, i quali, confermano la presenza reale di Gesù Cristo nel SS. Sacramento dell'altare. Il fascicolo di settembre preparavasi ad Ivrea nella tipografia diretta da G. Tea, intitolato: Andrea, ovvero la felicità nella Pietà: Racconto della Signora Cesaria Fazzene, volgarizzalo dal Conte G. Birago. Era scritto per i giovani, e vi si dipingeva, per contrapposto, la sventura di uno di essi, che, sprezzando la santa educazione ricevuta si lascia trascinare dai vizi al delitto con tutti gli orrori dei rimorsi, calmati in fine con una sincera conversione. Si diceva ai giovani: - Quello che ha da rendere un giovane virtuoso e onesto, cioè un vero galantuomo, è l'adempimento di tutti i doveri che l'uomo ha verso Dio, verso se stesso e verso i suoi simili; doveri che voi non potete imparare se non che sotto il magistero della Chiesa, alla scuola del catechismo. - E soggiungevasi: - Sapete voi il vostro catechismo? E per impararlo e intenderlo frequentate voi la vostra parrocchia? Se è così, beati voi! Ancorchè le vostre menti fossero digiune affatto di scienze umane, sino a non sapere neppur leggere e scrivere, tuttavia ne sapete abbastanza per vivere da uomini virtuosi e onorati su questa terra, e rendervi utili a voi stessi e ai vostri simili meglio di tanti dottoroni, i quali san di tutto, eccetto i loro doveri.

                Un terzo tipografo, Paravia, stampava in due fascicoli per l'ottobre e pel novembre la seguente operetta: Trattenimenti morali intorno ai riti ed alle cerimonie della Santa Messa, coll'aggiunta di un metodo per udirla con frutto, per F. Carlo Filippo da Poirino Sacerdote Cappuccino.

                E’ un bellissimo libro, anche contro i protestanti, e confuta i loro errori, le loro calunnie contro la Chiesa, [516] dimostrando i templi, i sacrifizi e riti e vesti sacre essere stati istituiti da Dio medesimo; come pure il S. Sacrificio dei nostri altari, e i riti e le preghiere principali di questo essersi praticate dai primi secoli della Chiesa. Dimostra la ragionevolezza dell'uso della lingua latina nella liturgia romana e insegna con San Leonardo da Porto Maurizio a lodare ed adorare dal principio della Santa -Messa fino al Vangelo l'infinita maestà di Dio; dal Vangelo sino all'elevazione, a chiedere perdono ed a soddisfare alla giustizia divina offesa dai nostri peccati; dalla elevazione sino alla Comunione, a ringraziarlo di tutti i benefizi che abbiamo ricevuto; dalla Comunione sino all'ultimo Vangelo, ad esporgli i nostri bisogni come all'autore e principio di tutte le grazie.

                Non taceremo intanto aver Don Bosco continuate le sue predicazioni apostoliche e che egli, potendo, facilmente accondiscendeva a tali inviti. Non potendo, lasciava speranze per altra occasione.

 

                Al  M. R. Sig. Ch. Giacomo Delprato. Gassino.

 

                               Amico mio,

 

                Al giorno che si celebra la festa di M. V. Addolorata, io sono a Castelnuovo d'Asti per la novena dei Santo Rosario; sicchè non posso accondiscendere al grazioso invito del discorso dell'Addolorata. Altra volta.

                Godo che stia bene: il Signore l'aiuti e La conservi. Saluti suo fratello, il Sig. Vicario Foraneo, il Sig. Teol. Gilio, Don Bertoldo. Preghi per me, ed io raccomandandola di tutto cuore a Gesú ed a Maria mi dico

                Torino, II agosto 1856.

 

Aff.mo in G. C.

Sac. Bosco GIOVANNI. [517]

                D. Bosco era alquanto più libero di sè per l'aiuto continuo che prestavagli D. Alasonatti Vittorio nella direzione dell'Oratorio festivo e dell'Ospizio, il quale, benchè fosse tempo di vacanze, era sempre abitato da molti inquilini. Vi erano preti e chierici della Diocesi d'Ivrea, mandati dal Vescovo, i quali si preparavano all'esame di scuola normale, istruiti da valenti professori di metodo che venivano nella città. Si numeravano circa 150 alunni, perchè una parte degli studenti ritornava dopo un mese di vacanza ad occuparsi negli studi per trenta giorni, e quindi restituivasi per l'ottobre alle proprie case. Vari giovani erano eziandio raccomandati ed ospitati perchè avessero speciali ripetizioni, per arti o per scienza. Di uno di questi, appartenente a nobile famiglia, così Don Bosco scriveva a S. E. la Duchessa de La Val Montmorency - De Maistre, Villastellone Borgo:

 

                Benemerita Signora Duchessa,

 

                Al mio arrivo dagli Esercizi di S. Ignazio ho trovato la venerata lettera di V E. insieme col petit Henry. Ho seguito i suoi avvisi tanto nello studio di pittura e di catechismo, come eziandio per la camera. Il profitto che ha fatto in questo tempo, Tomatis mi dice essere molto considerevole. In quanto alla pietà, va benissimo: Domenica ha fatto le sue divozioni; e mi piace assai che quanto vede farsi di bene dai più virtuosi della casa tosto s'adopera d'imitarli. Una cosa che La farà certamente stupire si è il vedere quanto sia venuto grande in questo poco di tempo. Sono andato con Henry alla Fruttiera.

                La Signora Contessa de Maistre, Dam. Filomena, Francesca, Emanuele stanno bene; D. Chiatellino ebbe alcune febbri, che ora cessarono, ma lo lasciarono molto prostrato di forze. Severina è quasi sempre nel medesimo stato. Lungo il giorno sta fuori del letto; ma dovendosi muovere deve andare saltellando o servirsi delle stampelle.  È  così allegra che pare in continuo [518] festino. Preghiamo che il Signore le doni quanto nei suoi decreti vede meglio per l'anima di Lei.

                La divina Provvidenza ci ha tolti due insigni benefattori; uno nella persona del dottor Vallauri, che mori santamente il 13 luglio ora scorso; l'altro nella persona del Cav. Moreno fratello del Vescovo d'Ivrea. Veda in quante maniere il Signore mi vuole provare. Critiche le annate scorse; non migliori sono quelle che corriamo; Iddio si piglia gran numero di benefattori; pure il Signore Iddio essendo padrone bisogna lasciarlo comandare, perchè ciò che fa è sempre meglio di quanto possiamo desiderare noi. Tuttavia non cesso di raccomandarmi alla sua provata carità onde continui ad aiutarmi sia per la spesa degli Oratorii festivi, sia anche per dar pane ai ragazzi ricoverati, come eziandio per aprire una scuola diurna ad Ognissanti. Ciò tutto ad unico oggetto di guadagnare anime a Gesù Cristo, specialmente in questi tempi che il demonio fa tanti sforzi per trascinarle alla perdizione.

                Dal canto mio non mancherò di pregare il Signore Iddio onde Le conceda il dono della perseveranza Del bene e Le prepari una sedia di gloria in cielo.

                Raccomandandomi alle divote di Lei orazioni, La saluto anche da parte del mio Collega D. Alasonatti e di Tomatis, mentre mi dico con gratitudine

                Di V. E.

                Torino, 12 agosto 1856.

 

Obb.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                D. Bosco però in tante sue occupazioni sentiva a quando a quando il bisogno di una speciale benedizione del Sommo Pontefice e per sè e per i giovani dei tre Oratorii festivi; quindi scriveva:

 

                               Beatissimo Padre,

 

                Il sacerdote Giovanni Bosco, Superiore dell'Oratorio di San Francesco di Sales, per i giovani pericolanti nella città e Diocesi di Torino, con le più devote suppliche, implora dalla Santità [519] Vostra l'Apostolica Benedizione con l'Indulgenza Plenaria tanto per sè, quanto per gli enunciati giovani da lui diretti, che crescono in numero sempre maggiore, contandone da circa novecento.

                Che ecc.

Die 13 Augusti 1856.

 

                Pro gratia serv. servandis.

 

 

PIUS PP. IX.

 

Romae, die 17 Augusti 1856.

 

                Testamur praesens rescriptum esse manu SS. D. N. Pii Papae exaratum.

 

B. PACCA

Magister ab Admissionibus SS.

 

                Questa benedizione veniva a compiere l'allegrezza della festa di Maria Assunta in cielo, che D. Bosco celebrava sempre con grande solennità. Ci contenteremo di rammemorare quella festa con un programma manoscritto di D. Bosco, come egli soleva far sempre, ogni qualvolta si trattasse di radunanze religiose, scolastiche o ricreative.

 

Venerdì 15 del corrente Agosto.

 

Festa dell'Assunzione di Maria SS. al Cielo.

 

                Sua Santità Pio IX, a fine di eccitare nei fedeli cristiani la divozione verso la grande Regina del Cielo, nostra Madre pietosa, concede indulgenza plenaria a tutti quelli che in tal giorno, confessati e comunicati, visiteranno questa chiesa. Decreto dato in Roma 28 settembre 1851.

 

Orario.

 

                Lungo il mattino celebrazione di messe e frequenza dei Sacramenti.

 

Ore 8 ½ - Messa cantata, indi ricreazione. [520]

Dopo mezzogiorno.

 

                Ore 3 ½  - Vespro, discorso, processione, benedizione col Santissimo Sacramento.

                Ore 5 ½  - Lotteria, corsa nel sacco, ricreazione.

 

Lodato sempre sia

Il SS. Nome di Gesù e di Maria.

 

 

CAPO XLII. Rovesciamento del nuovo tratto di fabbrica - Prova della protezione di Dio - Giuseppe Buzzetti e suo amore per D. Bosco - Lettere graziose ai benefattori - Funerali al Dottor Vallauri - Domanda di cappotti militari al Ministero della guerra - Costruzione di una scuola diurna - Circolari ai benefattori - Sussidi del Governo.

 

                IL disegno dell'intera fabbrica dell'Ospizio era eseguito; le tegole del tetto erano a posto, le finestre e le porte e le invetriate venivano messe in opera dai muratori. Ma eccoci addosso un grave disastro.

                Il giorno 22 agosto, verso le 10 antimeridiane, un muratore stava disarmando le volte della nuova fabbrica nella parte che guarda a mezzanotte.

                Nei giorni precedenti egli aveva tolte le armature nei piani inferiori, e in quello toglieva i sostegni nel penultimo. Ormai il suo lavoro era compiuto, quando un travicello gli sfugge dalle mani e cade di punta sulla volta di quel piano; questa si apre e cade sulla volta sottostante, che precipita ancor essa sull'altra, e così di seguito sino alla cantina. In un minuto, i tre piani di quella parte di casa divennero un cumulo di rovine. [522] Questo rovesciamento fu per l'Oratorio una ben grave sciagura per le spese che dovettero ripetersi; ma in mezzo alla disgrazia apparve eziandio visibile la mano proteggittrice della Divina Provvidenza.

                Accenniamo due fatti molto consolanti. Il pian terreno, già da qualche giorno libero dalle armature, siccome luogo comodissimo e di molta frescura, nelle ore di ricreazione era sempre ingombro di giovani, di assistenti e degli ecclesiastici d'Ivrea che si preparavano agli esami per la patente. Alcuni vi s'intertenevano giuocando, altri leggendo,e studiando, taluni discorrendo e sorvegliando. Ma alle ore 9 ½  suona il campanello, ed ognuno con esemplare,diligenza si ritira, quale nella scuola o di ripetizione o di metodo d'insegnamento, e quale nello studio comune. Orbene, appena furono tutti al loro posto, ecco che odono un fragore e rovinío, che li fa trasalire: erano in quell'istante cadute le volte. Se questa rovina succedeva pochi minuti innanzi, avrebbe colto e schiacciato non pochi giovani. Celestino Durando, giovanetto di molta intelligenza,e studioso, faceva ripetizione di lingua latina a Giuseppe Reano, Bongiovanni Domenico e Duvina nel coro della chiesa di S. Francesco, e a quel rombo spaventevole provarono così terrorizzante sensazione, che per più mesi si risvegliava in loro ad ogni rumore improvviso.

                Un fatto non meno mirabile fu quello del muratore, che si trovava sopra la prima volta caduta. Appena ei si accorse che questa cedeva, cercò tosto di mettersi al sicuro, correndo verso il muro di fianco; ma in quell'atto gli mancarono i mattoni di sotto ai piedi, ed egli, gettatosi come per istinto sopra un ultimo tratto di volta, vi rimase colla parte principale del corpo e colle gambe penzoloni per aria. Aveva nei piedi un paio di ciabatte, [523] e queste gli caddero eziandio mescolate coi rottami e col calcinaccio. Era impossibile il non vedere la mano di Dio a sostenere quel pezzo di volta isolato, per cui il poveretto, malgrado che vi si appoggiasse sopra con tutto il suo peso, ebbe nondimeno salva la vita. Parimenti di tanti altri operai, che in quel momento lavoravano attorno alla fabbrica, neppur uno ebbe a soffrire il minimo male.

                Il nostro D. Bosco era in quel giorno fuori di casa. Nella sera essendo ritornato all'Oratorio, come vide il disastro, ne fu molto addolorato e chiese subito: - Rimase sotto qualcuno? - Saputo che salva era la vita di tutti, alunni ed operai, ne ringraziò il Signore, e con aria serena e faceta disse ai giovani che lo attorniavano: - Meno male, che non vi è alcuna vittima! Il resto è nulla.... e voi tanti che eravate a casa, non foste capaci di andare a mettere il dito sotto le volte, ed impedire che cadessero? Oh! buoni a niente! Ma vi compatisco: è Berlich, che ci ha dato una cornata[22]. È  già la seconda volta, che questa mala bestia ci usa la sgarbatezza di gettarci giù la casa; ma non importa. Egli l'ha da fare con Dio e con la Madonna, e non la spunterà. Se le volte sono cadute, noi le rialzeremo e non cadranno più... Quel Signore onnipotente che ha permesso questa prova non ci abbandona... Niente ci deve turbare.

                Ma Buzzetti Giuseppe non poteva sopportare in pace quella rovina, tanto più che si erano scoperte alcune truffe di chi per molto tempo aveva avuto l'apparenza di cercare l'utile dell'Oratorio. Buzzetti non poteva persuadersi [524] che ci fosse gente capace di abusarsi della bontà di D. Bosco; quindi con parole di fuoco inveiva contro quello sleale, mentre D. Bosco cercava di calmarlo.

                - Buzzetti, abbiamo pazienza! Vedrai che il Signore ci aiuterà.

                - Sì, sì, ci aiuterà! Ma intanto Lei veglia, lavora giorno e notte per avere qualche centinaio di franchi, e gli altri le rubano le migliaia di lire in un momento. Bisognerebbe dar loro una solenne lezione.

                - Lasciamo andare! Gliela darà il Signore. - E D. Bosco fu profeta, perchè quel poveretto non fece fortuna, e malgrado che D. Bosco siasi poi limitato a licenziarlo ed abbia cercato in molte guise di sostenerlo, finì nella miseria.

                Ma Buzzetti aveva ben diritto di alzar la voce. Per umiltà e per il dito guasto dallo scoppio della pistola, aveva ripreso l'abito secolare. Tutto sacrificavasi per l'Oratorio. Faceva quante riparazioni occorrevano per la casa, assisteva in refettorio, apparecchiava le tavole, disponeva per la pulizia, moltiplicavasi nei catechismi e nella scuola di musica istrumentale e vocale, e spediva per la posta regolarmente le Letture Cattoliche. Colla sua mente perspicace e la mano pronta, era l'anima di tutte le lotterie, s'impegnava per dar lavoro ai laboratorii, andava ad ordinare il pane e a fare le varie compre. Talora, presentava a D. Bosco la lista di parecchie centinaia di lire da pagarsi. - Come faccio a pagarle ora, esclamava D. Bosco, mentre non posseggo un centesimo? - E allora sorridendo Buzzetti gli presentava la ricevuta del creditore. Egli stesso colle sue industrie e riuscite speculazioni era giunto a mettere insieme tale somma. Faceva la guardia a D. Bosco, accompagnandolo quando si temeva qualche [525] pericolo, andandogli incontro alla sera, e bastava vederlo colla sua foltissima barba rossa perchè i male intenzionati stessero a segno.

                I suoi fratelli muratori più di una volta gli avevano detto: - Poichè non ti rendi sacerdote che cosa fai all'Oratorio? E se morisse D. Bosco, tu senza un mestiere in mano, come camperai la vita?

                E Giuseppe: - D. Bosco mi dice che anche quando egli sarà morto, ci sarà ancora pane per me se a lui rimarrò fedele. Grazie delle vostre premure!

                Qualche anno dopo, venne anche per lui un istante di malinconia e di scoraggiamento. Egli intuiva che l'antica vita patriarcale di famiglia sarebbe stata modificata dal regolamento; vedeva a poco a poco passare in mano di chierici la direzione delle camerate, delle classi e de' vari rami d'istruzione; ad essi affidarsi importanti incombenze, che prima erano a lui commesse, e perciò si decise di uscire dall'Oratorio. Si era quindi trovato un posto a Torino, nel quale era provveduto abbastanza pel suo mantenimento. Andato a congedarsi da D. Bosco, gli manifestò chiaramente come oramai, egli secolare, sarebbe rimasto l'ultimo della casa, egli che era dei primi accolti da Don Bosco; che l'influenza degli altri sulla comunità riduceva a nulla la sua posizione, costretto a sottomettersi a tutti coloro che aveva visti fanciulli; perciò aver preso la sua determinazione, e con vivo dispiacere, per l'amore che portava a D. Bosco, essere costretto ad uscire da quella casa che aveva visto sorgere dalle fondamenta.

                D. Bosco non rispose a queste sue lamentanze, ma gli chiese premurosamente notizie della carriera nuova che voleva intraprendere e se sarebbe stato sufficientemente retribuito. Quindi gli disse: - So che tu non hai danaro [526] per fare fronte alle prime spese. Dimmi quello che hai di bisogno e te lo darò. Non voglio che un mio caro amico debba andare incontro a qualche privazione. Ci siamo sempre voluti bene! E tu spero che non ti dimenticherai mai di D. Bosco. - A queste parole, allo sguardo col quale D. Bosco lo fissava, al suono commosso della sua voce paterna, ruppe in dirotto pianto, dicendo - No, no; non voglio abbandonare D. Bosco; voglio restare sempre con lui. - E rimase nella casa, alla quale continuò ad essere per tanti anni un vero sostegno. Quando Don Bosco non sapeva più a chi affidare un negozio, diceva: - Chiamatemi Buzzetti! - E Buzzetti compariva sempre sorridente, ascoltava i cenni di D. Bosco, che subito e felicemente eseguiva per quanto difficile ne fosse il disimpegno.

                Buzzetti però aveva molti compagni, che amavano grandemente D. Bosco. Questi nell'agosto del 1856, vedendo come la rovina delle volte accresceva di gran lunga la spesa preventiva, non potendo far altro, colle loro fervorose preghiere e comunioni gli ottenero certamente dal Signore i sussidi necessari. E i suoi benefattori di Torino, quando seppero l'accaduto, ne provarono compassione per D. Bosco, e invece di raffreddarsi nel portargli soccorso, si accesero vieppiù di zelo per l'opera sua. Di questi giorni abbiamo una lettera che D. Bosco scrisse in ringraziamento all'illustrissima signora Marchesa Fassati.

 

                               Benemerita Signora Marchesa,

 

                Questa mattina mi fu consegnata la sua venerata lettera con un biglietto di f. 5oo. L'ho nemmeno deposto di mano: l'ho immediatamente mandato al panattiere. - Deo gratias. [527] Dalle quattro alle cinque mi troverò al Convitto Stasera, sarò a sue spese a pranzo e intanto La ringrazierò personalmente de' molti benefizi che Dio Le inspira di fare a favore dei poveri nostri ragazzi.

                Buon giorno a Lei, alla Signora Francesca, al Signor Marchese e il Signore li benedica tutti. Con stima e gratitudine

                Di V. S. Benemerita

                Da casa, 30 agosto 1856.

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco G.

 

                Si vede che le disgrazie non disturbavano D. Bosco e ciò vien provato dalla giocondità di un'altra sua lettera al Sig. Conte Pio Galleani d'Agliano.

 

                               Benemerito Signore,

 

                D. Bosco - Buon giorno, sig. Conte; posso venire a farle una breve visita e parlarle un poco?

                Sig. Conte - Oh D. Bosco! Ciareja. Come sta? È  giunto inaspettato.

                D. Bosco - La mia dimora qui al Palasazzo è molto breve, perciò non l'ho prevenuto.

                C. - Almeno fosse venuto al giorno di S. Filomena! Avrebbe veduta la nostra bella festa.

                B. - Aveva proprio intenzione di venire in quel bel giorno; e aveva già fin cominciata la lettera per domandargli il consenso, poi alcune occupazioni mi hanno fatto cambiar sentimento. Ma di grazia, la Signora Contessa, la famiglia, Giuseppe stanno bene?

                 C. - Si, grazie a Dio, stanno tutti bene. Io però mi sento molto stanco per questo caldo.

                B.- La campagna è andata bene?

                C.- Non c'è male nelle raccolte delle campagne; il grano però ha fallito un poco, ed ha anche avuto un pò di grandine. I bozzoli poi, che in quest'anno erano molto cari, ne ho nemmeno fatto un terzo di quanto aveva speranza dì fare.

                B. - Beppe lavora? studia? [528]

                C. - Sì, comincia a fare qualche cosa. Il bravo T. Broschiero se ne occupa con grande bontà e pazienza. Ma insomma questa sua visita inaspettata ha qualche scopo speciale?

                B. - Una copia della Storia d'Italia che prego di voler gradire.

                C. - Bene: servirà a far leggere alle figlie, ed anche a Beppe: io la ringrazio.

                B. - Non parli di ringraziamenti con me che dovrei farne un libro per Lei.

                C. - I suoi ragazzi, la sua casa, come vanno? E di quattrini? perchè a dirla schietta io temo che si trovi alle strette e che sia venuto a fare questa visita ecc.

                B. - Alle strette sì; se mi fa qualche limosina, non la rifiuto: ma il motivo principale di questa visita era di sapere nuove della famiglia, offrirle questa copia di storia; e ringraziarla di quanto ha fatto, e che spero farà ancora per l'avvenire pei nostri ragazzi.

                C. - Non mancherò di fare quel che posso per i suoi birichini; ma preghi e faccia pregare per me e per la mia famiglia, preghi anche perchè il Signore conservi i frutti delle nostre campagne e mi doni la pace e la tranquillità dello spirito.

                B. - Farò quanto mi dice e fo preghiera speciale al Signore onde possa allevare nella pietà tutta la sua famiglia.

                C. - Non verrà a farci un'altra visita un po' più lunga? Se me lo dice e mi fisserà il giorno, la manderò a prendere a Cuneo.

                B. - Spero di sì e la ringrazio del favore: se potrò disporre di venire, la preverrò. Oh! dimenticava una cosa. Se mai avesse intenzione di stabilirsi un falegname fisso ci sarebbe poi l'individuo. Dunque, sig. Conte, stia bene, buona campagna a Lei e a tutta la famiglia; doni il buon giorno alla Signora Contessa, e mi creda sempre con sentimento di verace stima e gratitudine tutto

                Torino, 3 settembre 1856.

 

Obbl.mo serv.

Sac. Bosco Gio.

 

                E che la sua gratitudine per i benefattori non fosse una sterile parola di complimento, lo dimostra l'Armonia [529] del 12 settembre: “Ieri, II giovedi, nell'Oratorio di san Francesco di Sales in Valdocco fu celebrato un solenne e divotissimo funerale in onore e suffragio del dottore fu Francesco Vallauri.

                Il feretro, posto nel mezzo della chiesa, il canto dei giovanetti, il gran numero di coloro che si accostarono alla Mensa Eucaristica, le preghiere innalzate a Dio prima e dopo la messa, erano oggetti di tenera commozione. Sopra la porta della chiesa leggevasi la seguente iscrizione:

 

ALL'ANIMA

DEL SIGNOR FU FRANCESCO VALLAURI

 

DOTTORE IN MEDICINA E CHIRURGIA

PRIORE EMERITO

DELLA COMPAGNIA DI S. LUIGI GONZAGA

BENEFATTORE INSIGNE

DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES

I GIOVANI A QUEST'ORATORIO ADDETTI

PIENI DI GRATITUDINE

PREGANO DAL SIGNORE

PACE E RIPOSO ETERNO

 

                Cosi la cattolica religione, mentre insegna a conservar durevole memoria delle anime giuste che ci hanno beneficati, porge loro sollievo e conforto anche dopo la tomba”.

                Ma la carità e la gratitudine del nobile cuore di Don Bosco era conosciuta da tutte le classi dei cittadini, ed anche nelle sfere governative, che non rifiutavansi di concedergli qualche soccorso. Egli perciò, mentre si affrettava a riparare i danni sofferti dalla fabbrica, pensava pure al [530] modo per difendere dal freddo del prossimo inverno i figli dell'Oratorio. Altrove abbiamo esposto come il Ministro della guerra gli avesse fatto dono di cappotti da militari. Egli pertanto indirizzava una domanda al generale La Marmora.

 

                               Ill.mo e Benemerito sig. Ministro,

 

                Già altre volte ho ricorso a V. S. Ill.ma e Benemerita per invitarla a venire in aiuto di giovanetti orfani ed abbandonati, dalla divina Provvidenza a me affidati. Nella sua carità mi ha sempre favorito. Quest'anno essendo cresciuto il numero dei ricoverati, ed un complesso di cose indispensabili avendomi aggravato di spese, mi faccio animo di ricorrere nuovamente alla provata di Lei bontà pel medesimo oggetto.

                Il numero dei ricoverati eccede i 137; molti, in numero di, gran lunga maggiore, ricorrono a me per oggetto di vestiario, calze, coperte a fine di coprirsi nell'invernale stagione o mettersi in uno stato da poter essere collocati a lavorare presso ad un padrone.

                Io non domando cose preziose: qualunque oggetto di calzamenta, di vestiario, specialmente camicie, coperte, lenzuola comunque siano logore e rimesse, da me saranno accolte colla massima gratitudine. Ogni cencio farò che serva a coprire i figli del povero.

                Pieno di fiducia che nella nota di Lei carità voglia prendere in benigna considerazione il sopra esposto grave bisogno, La ringrazio di tutto cuore dei favori largitimi pel passato, e mentre Le auguro copiose benedizioni dal cielo, mi reputo al più alto onore il potermi dire

                Di V. Ill.ma e Benemerita

                Torino, 30 settembre 1856.

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI, Direttore.

 

                Nello stesso giorno scriveva un biglietto al Cav. Genova di Pettinengo. [531]

 

                               Benemerito Signore,

 

                Memore dei favori da V. S. Benemerita ricevuti negli anni scorsi ricorro di nuovo in quest'anno con preghiera di volermi continuare i suoi buoni offici presso al signor Ministro della guerra. Ho dato una memoria a questo signore nello scopo di ottenere alcuni oggetti di vestiario e di coperte e di cose simili pei poveri ragazzi ricoverati in questa casa, i quali per le calamità dell'annata scorsa crebbero molto e nel numero e nel bisogno.

                So che ciò dipende da Lei, ed a Lei rispettosamente mi raccomando. Pieno di fiducia nella provata di Lei carità, mi unisco ai beneficati ragazzi per augurarle copiose le benedizioni del cielo e dirmi con pienezza di stima e di gratitudine

                Di V. S. Benemerita

                Torino, 30 settembre 1856.

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI, Direttore.

 

                D. Bosco era sicuro che il Ministro lo esaudirebbe, come di fatto avvenne; e che i più poveri dei giovani esterni dell'Oratorio festivo avrebbero partecipato a questa beneficenza. Non ancor soddisfatto però di quanto operava in loro vantaggio, formò un nuovo progetto, esposto in una circolare alle persone caritatevoli.

 

                               Ill.mo e benemerito Signore,

 

                Alla vista del bisogno ognora crescente di istruire i ragazzi appartenenti alla classe bassa del popolo mi sono determinato di aprire una scuola diurna per accoglierne almeno una parte di quelli che in numero stragrande vanno vagando lungo il giorno, sia perchè i parenti non si dánno cura di loro, sia anche perchè si trovano lontani dalle pubbliche scuole; perciocchè nel circondario Borgo Dora, S. Barbara, Piazza Paesana, Borgo S. Donato, [532] Collegno, Madonna di Campagna trovansi non meno di trentamila abitanti senza che ci sia nè chiesa, nè pubblica scuola.

                Egli è per occorrere al bisogno di questi ragazzi che ho dato mano alla costruzione di una scuola capace di contenerne circa centocinquanta. Ma siccome mi occorrono spese per i maestri, per i lavori di costruzione, per le provviste di scuola e somministranze di oggetti di scuola, così io ricorro alla nota di Lei bontà supplicandola di venire in soccorso di me, che è quanto venire in soccorso di questi giovanetti che si possono chiamare veramente abbandonati, pericolanti e pericolosi.

                La provata di Lei bontà mi dà fiducia che questo grave sopra esposto bisogno sarà preso in benigna considerazione: perciò pieno di gratitudine e stima Le auguro copiose benedizioni dal cielo con dirmi

                Di V. S. Chiarissima e Benemerita

                Torino, I ottobre 1856.

 

Obbl.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

                D. Bosco adunque, prima ancora di ricorrere alla pubblica carità, aveva messo mano all'opera.

                Un portone a due battenti, tinto in verde, largo circa quattro metri, chiudeva il cortile dell'Oratorio sulla via della Giardiniera, ed entravasi per una porticella che, aprendosi in un battente di esso, faceva suonare un campanello. Ora, nello spazio tra questa entrata e la chiesa di S. Francesco, D. Bosco fece innalzare due scuole. Una molto vasta, che nell'angolo sud - est era occupata da uno stanzino con accesso all'esterno destinato al portinaio. La seconda, più piccola, che però avrebbe potuto contenere venti scolari. Intanto pubblicava una nuova circolare:

 

                               Ill.mo e Benemerito Signore,

 

                Espongo rispettosamente a V. S. Ill.ma e Benemerita come sul terminare dei lavori eseguiti in questa casa, già altre volte [533] raccomandata, mi trovo veramente in grave bisogno per saldare le molte spese che mi occorsero a tale oggetto.

                Mi rivolgo pertanto con fiducia alla provata di Lei bontà, pregandola di venire ancora questa volta in mio soccorso, che è quanto dire di venire in aiuto di tanti giovanetti poveri e pericolanti che per favore di Lei in questa casa ricoverati, benediranno per sempre il loro benefattore.

                Pieno di gratitudine e di fiducia La ringrazio di tutto cuore anche a nome dei miei ricoverati, e mi dico

                Di V. S. Ill.ma e Benemerita

                Torino, I ottobre 1856.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco Giovanni.

 

                Eziandio al Ministro Rattazzi erasi egli rivolto dopo la riferita catastrofe, e quegli volle pure concorrere a ripararla; e a nome del Governo faceva tenere a Don Bosco un sussidio, notificandoglielo colla lettera seguente.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO.

 

                Torino, addì 3 ottobre 1856.

 

                Avuto speciale riguardo alle circostanze esposte dal Sig. Sacerdote Gio. Bosco con sua lettera del I° corrente mese, in ordine agli imbarazzi economici in cui trovasi il Pio Istituto sotto il titolo di Oratorio Maschile in Valdocco, il sottoscritto ha determinato di accordare allo stesso Istituto una nuova straordinaria sovvenzione di lire mille sui fondi del bilancio di questo ministero, provvedendo per la spedizione del relativo mandato, in di lui capo, il quale sarà pagato dalla Tesoreria Provinciale.

 

Il Ministro

U. RATTAZZI.

 

                Il giorno dopo che D. Bosco aveva ricevuta questa lettera, con sua grata sorpresa, una seconda giungeva al suo ricapito dello stesso Ministro. [534]

 

Torino 4 ottobre 1856.

 

                               Ill.mo e Rev.mo Signore,

 

                Volendo dimostrare in modo particolare l'interesse, che U Regio Governo prende all'incremento del Pio Istituto maschile di Valdocco, iniziato e sì ben diretto dal M. R. D. Giovanni Bosco, il sottoscritto conscio delle strettezze pecuniarie del medesimo, e conoscendo come la somma di lire mille testè elargita fosse al disotto degli ingenti bisogni in cui versa, con suo Decreto d'oggi ha nuovamente disposto, perchè gli siano fatte corrispondere altre lire mille sui fondi casuali di questo Ministero.

                Facendo seguito alla sua nota di ieri, lo scrivente partecipa al M. R. Direttore dell'Oratorio suddetto la presa determinazione, e gli soggiunge che ha parimenti già impartite le disposizioni in proposito pel rilascio in di lui capo dell'analogo mandato di pagamento della somma anzi citata.

 

Il Ministro

U. RATTAZZI.

 

                D. Bonetti Giovanni ne' suoi Cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano fa alcuni commenti a questa lettera da lui riprodotta. Così egli ha scritto:

                “Ho creduto opportuno di qui riferire questo documento, affinchè si veda come le stesse autorità governative apprezzassero l'opera del nostro Oratorio. Quantunque gli uomini, che sedevano in quei giorni al timone dello Stato, professassero principii ben diversi da quelli di D. Bosco, tuttavia dalla esperienza ammaestrati riconoscevano che la educazione, che egli impartiva ai suoi giovanetti, era un'arra sicura di benessere per la famiglia e per la società. Quindi desideravano la prosperità e l'incremento del suo Istituto, e lo favorivano secondo il loro potere. E meritamente, imperciocchè, chi impiega i suoi talenti e sacrifica sostanze e vita a vantaggio dei figli del popolo, [535] ha diritto al plauso non solo, ma al concorso di qualsiasi Autorità costituita; e secondo la sentenza di Urbano Rattazzi dovrebbe essere “massima consacrata dal Governo, di sussidiare per quanto sta in lui ogni Istituto, che sotto qualsiasi denominazione imprende ad educare il popolo e facilitargli la via a quella educazione morale, che non potrebbe altrimenti procacciarsi.

                Dal canto suo D. Bosco teneva volentieri relazione colle Autorità civili, e con ciò faceva due benefizi: l'uno ai suoi giovanetti, e l'altro al Governo. Mediante siffatta concordia, egli per una parte riceveva dai Ministri del Re, sussidi e appoggio a pro del suo Istituto, e per altra parte, dando ricetto a tanta gioventù povera ed abbandonata, ne tendeva loro il contraccambio; imperocchè avveniva sovente che il Governo avesse da provvedere al collocamento di fanciulli, non cattivi da essere annoverati fra i discoli, e pur tanto bisognosi e pericolanti da meritare di essere messi al riparo in qualche Istituto; e niun altro Istituto a ciò meglio si prestava che quello di D. Bosco. E qui ci corre alla mente una riflessione pur degna di nota, ed è che non ostante le molte vicissitudini di tempi e di persone, pur troppo non sempre benevoli, D. Bosco potè tuttavia tirare innanzi l'opera sua. Questo si deve “certamente alla protezione del Cielo; ma bisogna dire altresì che egli, coll'unico scopo di far del bene ai figli del popolo, si studiò anche di praticare il precetto di Gesù Cristo: Date a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”.

                Son giuste queste riflessioni, ma siamo costretti ad aggiungere che Rattazzi, per una lagrimevole incoerenza di principii, negli Ordini religiosi, che sempre perseguitò, non volle vedere il bene immenso che producevano nello Stato.

 

 

CAPO XLIII. D. Bosco in sua patria e parole del Teol. Cinzano - I giovani dei paesi circostanti ai Becchi - Lettera ad uno studente - L'Ospizio condotto a compimento e sua povertà - Disposizioni materiali - Laboratorio de' falegnami - Maria SS. rimedia ad una grande imprudenza - Iscrizioni sotto i portici - Il Teol. Borel conferma le predizioni di D. Bosco.

 

                DON Bosco partiva colla prima sua squadra per i Becchi, ove incominciava la novena del S. Rosario; e il giorno 28 settembre trasferivasi a Castelnuovo in occasione della festa di Maria SS. Addolorata per farvi la predica.

                Il Teol. Antonio Cinzano era fuor di sè dalla gioia quando poteva averlo in parrocchia. “Si stava cenando nella Canonica, raccontò il giovane Giuseppe Reano, e il Vicario incominciò a lodare le geste di D. Bosco. - Tu,. D. Bosco, hai sempre avuto una memoria di ferro; mi recitavi dei quinternetti interi di teologia! Che pazienza! Non la finivi più! Tu, D. Bosco, sei un portento! Tu, Don Bosco, a Torino fai prodigi, e fra non molti anni scommetterei che farai parlare di te mezzo mondo. - E via di questo [537] passo. D. Bosco ascoltava, e con aria tutta ilare e placida, rispose: - Vi sono dei sarti che fanno dei vestiti elegantissimi e che vanno a pennello alla persona; e ve ne sono di quelli che li rattoppano soltanto; io sono di questi ultimi”.

                I giovanetti ai Becchi furono trenta trai quali G. B. Piano, ora Curato della Gran Madre in Torino, il quale osservò come in queste passeggiate, che duravano due settimane, non avvennero mai inconvenienti di qualche riguardo, per l'attività e la prudenza di D. Bosco nel disporre le cose. Alla vigilia della festa arrivò la banda musicale che, aspettata con vivo desiderio, raddoppiava colle sue armonie l'entusiasmo dei terrazzani. Non era però cosa nuova la musica ai Becchi. Un'orchestrina di violino, chitarra, armonium e flauto, avea rese più belle le sacre funzioni e i teatrini o le accademie negli anni passati, e continuò negli anni venienti. Tomatis, Cerutti e Bersano maneggiavano questi strumenti con molta maestria; ed ora eseguivano fantasie, accompagnavano romanze, ed ora essi stessi cantavano i pezzi di Opera scelti fra i migliori.

                Se gli alunni pel numero non potevano essere tutti alloggiati con D. Bosco, qualcuno di essi albergava presso buoni vicini. Nei primi anni affluivano ai Becchi anche molti giovani d'Asti, di Chieri, di Buttigliera, di Castelnuovo, di Capriglio, di Mondonio e di altri paesi per assistere alla festa. Prendevano alloggio nelle cascine e nelle borgate dei dintorni, e, quando in quei pressi non si trovava posto, quelli de' paesi lontani si cercavano una stanza a Castelnuovo, percorrendo mattino e sera la lunga strada che metteva ai Becchi. D. Bosco per tutti costoro faceva preparare una grossa polenta colla conveniente pietanza. E que' buoni figliuoli si meritavano tale cortesia. [538] perchè andare a prendere parte alla festa con D. Bosco era sinonimo di andarsi a confessare ed a ricevere la S. Comunione.

                Ai Becchi tra le molte altre lettere a D. Bosco ne era stata consegnata una proveniente da Sanfront scritta da uno studente di terza grammatica latina, figlio del signor Avvocato Cav. Roggeri, ed egli rispondeva:

 

Torino, 8 ottobre 56.

                               Car.mo Giuseppino,

 

                Hai fatto bene a scrivermi e ne provai piacere. Quando l'altarino sia aggiustato di tutto punto, io ci andrò a fare una predichetta, come ho promesso, e in quel tempo continueremo a parlare della nostra amicizia e dei nostri affari particolari. Ti ricordi del contratto che abbiamo stipulato e conchiuso tra noi? Essere amici, e unirci insieme per amare Dio con un cuore solo ed un'anima sola.

                Il piacere che mi scrivevi di provare sul divertirti intorno alle cose sacre è buono, e vuol dire che Dio ti vuol bene, e che tu pure dar ti devi grande sollecitudine per amarlo. - Vuole poi dire un'altra cosa che mi riserbo di manifestare a te solo quando giungerai a Torino.

                Mi farai cosa molto grata se saluterai Papà e Maman da parte mia: al Signor Vicario darai un buon giorno, al tuo fratellino farai una carezza.

                Dio vi conservi tutti in sanità e grazia sua, e se tu mi vuoi essere amico va a recitare una Salve alla B. V. per me, che di tutto cuore ti sono

 

aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI

 

                Qualche giorno dopo la festa del Rosario, D. Bosco lasciava i Becchi. Ma passando per Chieri, non di rado recavasi a Moncucco distante due miglia, per visitare la [539] famiglia Moglia, nella quale era stato servo di campagna. L'umiltà teneva viva nel suo cuore una sincera riconoscenza. E da Chieri eccolo coi giovani di ritorno in Torino.

                Intanto, sul principio di ottobre la nuova fabbrica era ultimata, e muratori e falegnami avevano compiuto ogni lavoro. D. Bosco stesso aveva loro indicato le divisioni dei locali, dicendo che nelle case di educazione non si deve trascurare la minima cosa che possa concorrere al bene morale dei giovani; e non volle mai, come ci attesta D. Carlo Ghivarello, che le porte delle stanze intime avessero nessun gancio interno per tenerle chiuse.

                L'edifizio è lo stesso che oggigiorno cinge da tre lati il cortile intitolato D. Bosco, meno i portici che fiancheggiano la chiesa di S. Francesco di Sales, e gli ultimi due vani in punta al braccio di levante. Riuscì quale ei lo volle, della massima semplicità. Non ammise scialo di locali, disapprovò corridoi e scaloni troppo ampli; e i costruttori fecero tali passaggi che non permettessero l'innoltrarsi più d'una persona alla volta. Quando Monsignor Alessandro Ottaviano di Netro Vescovo di Savona venne a visitare questa casa al vedere il corridoio che dava adito agli uffici centrali, si volse a chi lo accompagnava e disse scherzevolmente: - Osservate che grandiosità! Non so se potremo trovare conventi che abbiano scale e corridoi così stretti! - Era presente D. Michele Rua.

                E D. Bosco faceva dar sesto all'intera casa, ed a ciascuna stanza assegnava la destinazione. Per parlatorio nell'inverno, cioè per la sala ove tenere il discorso della sera, stabiliva l'attuale refettorio detto prima dei confratelli, sottratto però lo spazio di due finestre, presso la chiesa, costrutto e destinato a sagrestia nel 1852. A pian terreno dell'altra parte della scala centrale vi erano tre grandi [540] stanze. La prima fu laboratorio per i calzolai, la seconda per i legatori di libri; la terza, la quale comprendeva anche un largo vano sotto le camere di D. Bosco, ove stava la sala da pranzo dei superiori e la cucina, doveva essere occupata dai falegnami. Era una quarta classe d'artigiani, ritirata dalle officine della città e accolta nell'Oratorio. Pel fine dell'anno fu provvista di banchi, di svariati ferri di quel mestiere e di un magazzino di legnami. Il primo capo e maestro fu un certo Corio, il quale imparava la musica, avendo una bella voce da tenore.

                Al secondo piano, una camerata degli artigiani sotto le camere di D. Bosco; esposta a mezzogiorno la sala dello studio; al di là della scala, la stanza di ricevimento per i forestieri, l'ufficio del prefetto, il laboratorio dei sarti; e le scuole mutavano sito secondo l'opportunità.

                Al terzo piano sulla cappella della Madonna era la stanza per la scuola della musica vocale, del Ch. Cagliero, sulla cui porta fece poi scrivere D. Bosco da Reano nel 1859: Ne impedias musicam. Quindi, sempre dalla parte di mezzogiorno, la sala per la musica istrumentale, la dispensa, l'infermeria, l'abitazione di mamma Margherita e delle sue coadiutrici e, nell'ultima estremità, uno stanzone per il vestiario e la biancheria della comunità. Il rimanente della casa a settentrione era occupato dai dormitori, come pure tutte le soffitte, le quali però al sud avevano una fila di cellette per gli insegnanti e per alcuni chierici più anziani.

                Nelle costruzioni del 1853 tra le mura delle fondamenta erasi lasciato il terrapieno, che così rimase per alcun tempo; ma in quelle di quest'anno si scavarono i sotterranei, sicchè a mezzo giorno si ebbe il refettorio dei superiori e a mezzanotte quello più ampio dei giovani, e la cucina [541]

                Molte però di queste stanze non potevano essere abitate per l'umidità delle mura e delle volte; eppure urgeva il bisogno di averle in pronto. Già si avvicinava la cattiva stagione, e che fare? D. Bosco non si smarrì. Troppo dolendogli di lasciare più a lungo esposti nell'abbandono e nella miseria un buon numero di poveri giovanetti già da lui accettati, ottenne coll'industria ciò che indarno avrebbe aspettato dalla natura. Fece pertanto provvedere larghi braceri, e diede ordine che si mantenessero accesi con gran fuoco nelle nuove camere, giorno e notte, affinchè le pareti si asciugassero più presto, e così vi si potesse dormire senza pericolo della sanità. L'operazione riuscì felicemente; ma ci volle la protezione evidente di Maria SS. per impedire una grande disgrazia. In una camera vicino al campanile arse continuamente per quindici giorni un grande recipiente di ferro pieno di carbon fossile. La finestra era sigillata ermeticamente, la porta quasi sempre chiusa. Eppure al mattino alcuni giovani inesperti, non ricordando gli avvisi de' superiori, vi si rintanavano per riscaldarsi, poichè faceva molto freddo; e altri che per lo stesso motivo quivi avevano trasportato la loro materassa continuarono per qualche notte a dormirvi con tranquillità. Fu un vero miracolo, perchè sì gli uni che gli altri, in un'atmosfera asfissiante, nella quale era impossibile fermarsi anche pochi minuti senza morire, non ebbero a patirne il minimo male di testa.

                Per questo grave pericolo e per gli altri motivi di vigilanza doverosa, D. Bosco rinnovò l'ordine che dovessero star chiuse le scuole, le camerate, i laboratori e la sala di studio, usciti che fossero i giovani, specialmente in tempo di ricreazione, e che le chiavi si consegnassero a chi aveva l'ufficio di custodirle. [542] Disposta così ogni cosa per l'ordine materiale, occupato ogni individuo dell'Ospizio il posto assegnato, Don Alasonatti sottentrava a D. Bosco, e d'accordo con lui, ad assestare l'amministrazione interna in ciò che riguardava gli alunni. Perciò aveva affisso sulle mura dei portici il seguente avviso, che noi riportiamo per essere il primo documento conservato di questo genere.

 

                “Al cominciare del primo del mese di ottobre in questa casa vi sarà al primo piano della scala una camera per distribuire e ricevere oggetti reciprocamente tra superiori, allievi e loro attinenti.

                “In questa camera il sabato sera dopo la cena e dopo il pranzo della domenica vi sarà persona incaricata di intendere, ricevere, notare le relazioni che i giovani artisti saranno per avere coi loro padroni o Capi d'arte e le rimostranze loro, non che le varie domande di abiti e di altri oggetti che fossero loro necessari.

                “Da essa camera nella mezz'ora prima di colazione e mezz'ora prima della scuola pomeridiana si forniranno agli studenti le cose occorrenti per lo studio e per le scuole.

                “Di là partiranno pure i conti particolari e i depositi fatti per le minute spese e per le riparazioni di vestiario, di calzoleria di legatoria ecc.”

 

                Ma D. Bosco voleva coronare degnamente quest'opera sua, e scialbati i portici e dato loro il bianco, pensò, in cima agli archi che facevano le volte appoggiandosi al muro maestro e sopra i pilastri, far stampare da Pietro Enria e a grossi caratteri maiuscoli alcune iscrizioni tratte dalla Sacra Scrittura. Voleva che perfino le mura della sua casa parlassero della necessità di salvarsi l'anima. Era solito dire: - Sotto questi portici talora i giovani si arrestano stanchi dal giuoco, ovvero passeggiano. I forestieri che vengono per vari affari all'Oratorio, qui si fermano [543] aspettando il momento di avere udienza. Gli uni e gli altri vedendo le iscrizioni sono presi dalla curiosità di leggere, se non altro per passare la noia, ed ecco un buon sentimento che loro resta scolpito nella mente e può a suo tempo produrre un frutto salutare. - Le iscrizioni erano latine e sotto erano tradotte in italiano.

                Incominciamo dalle nove iscrizioni poste sul muro e dalla prima a fianco della porticella a pie' della scala del campanile e che metteva nella sagrestia della chiesa di S. Francesco di Sales.

 

                I. In ea omnis qui petit accipit, qui quaeriti nvenit et pulsanti aperietur. MATT. VII, 8.

Nella casa del Signore chiunque dimanda riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

                II. Unus autem ex illis qui erat primus sic ait: Quid quaeris et quid vis discere a nobis? Parati sumus mori, magi  s quam patrias Dei leges praevaricari. MACHAB. VI, 2.

                Ma uno dei giovanetti Maccabei che era il primogenito disse: Che cerchi tu, o che vuoi sapere da, noi? Noi siam pronti a morire, piuttostochè trasgredire le leggi paterne dateci da Dio.

                III. Quorum remiseritis peccata remittuntur eis ci quorum retinueritis retenta sunt. JOAN. XX, 23

                Disse Gesù ai suoi Apostoli: Quelli cui rimetterete i peccati, sono rimessi, quelli cui li riterrete sono ritenuti.

                IV. Confitemini ergo alterutrum peccata vestra e/ orate pro invicem ut salvemini: multum enim valet deprecatio justi assidua. JAC. V, 16.

                Confessate dunque l'uno all'altro i vostri peccati e orate l'un per l'altro per essere salvi: imperciocchè molto può l'assidua preghiera del giusto.

                V. Si confiteamur peccata nostra fidelis est et justus Deus, ut remittat nobis peccata nostra et emundut nos ab omni iniquitate. I JOAN. I.

                Se confessiamo i nostri peccati Dio è fedele e giusto per rimetterci i nostri peccati e mondarci da ogni iniquità. [544]

                VI. Et tibi dabo claves regni coelorum et quodcumque ligaveris super terram erit ligatum et in coelis, et quodcumque solveris super terram erit solutum et in Coelis. MATT. XVI, 19.

                E a te darò le chiavi del regno dei cieli e qualunque cosa avrai legata sopra la terra sarà legata anche ne' cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra sarà sciolta anche ne' cieli.

                VII. Donec confiteantur iniquitates suas et majorum suorum quibus praevaricati sunt in me et ambulaverunt ex adverso mihi. LEV. XXVI, 40.

                Fino a tanto che confessino le loro iniquità e quelle de' loro maggiori colle quali hanno offeso me e mi hanno fatto guerra.

                VIII. Delictum meum cognitum tibi feci et injustitiam meam non abscondi. Dixi: Confitebor adversum me injustitiam meam Domino: et tu remisisti impietatem peccati mei. PSAL. XXXI.

                A te il delitto mio feci noto e non tenni ascosa la mia iniquità. Io dissi: Confesserò contro di me stesso al Signore la mia ingiustizia: e tu mi rimetterai l'empietà del mio peccato.

                IX. Et steterunt et confitebantur peccata sua et iniquitates patrum suorum. II ESDR. IX, 2.

                E stando dinanzi al Signore confessavano i loro peccati e le iniquità de' padri loro.

 

                Queste iscrizioni sono un vero trattato sulla confessione. La prima pone in fondamento la preghiera, la seconda la risolutezza di stare in grazia di Dio, la terza l'istituzione del Sacramento e la facoltà sui peccati data da nostro Signore agli Apostoli, la quarta il precetto di confessare i peccati, la quinta la certezza del perdono, la sesta la piena podestà di Pietro sul sciogliere e legare colle censure e colle riserve, la settima e l'ottava la sincerità in confessione, la nona l'uso degli Ebrei di confessare le loro colpe. [545]

                In testa al portico dalla parte della chiesa fu collocata in una nicchia una bella statua della Madonna, innanzi alla quale, adornata con tappezzeria e lumi nel mese di maggio, dicevano le orazioni della sera i giovani studenti nella bella stagione. Sotto la nicchia in un quadro solevansi esporre i fioretti e le giaculatorie proposte per ogni giorno del mese di Maria e delle principali novene. Ma quella nicchia per verità aspettava un'altra statua, che per dieci anni aveva fatta la guardia a casa Pinardi dal 1846 al 1856, ed era scomparsa nei lavori di demolizione. E come era andata la cosa? D. Giacomelli aveva trovato modo di trafugarla. Volendo ritenere per sè ciò che esso chiamava il più insigne monumento della fondazione dell'Oratorio, cioè delle grazie di Maria, la trasportò ad Avigliana nella sua casa paterna, ove da lui e dalla sua famiglia ebbe sempre ed ha anche oggi dopo la sua morte, culto di preghiere, lumi e fiori.

                Nel muro di ricontro alla statua nel portico stesso, innanzi a colei che è tutta pura era quest'altra iscrizione.

 

                Qui faciunt peccatum ei iniquitatem hostes sunt animae suae. TOB. XII.

                Coloro che commettono peccato ed iniquità sono nemici dell'anima propria.

 

                Eziandio ciascuno degli undici pilastri sulla parte interna portava la propria iscrizione. Era il decalogo:

 

                I.... Dominum Deum tuum adorabis ei illi soli servies. MATT. IV.

                                Adorerai il Signore Iddio tuo e servirai a lui solo.

                II... Non assumes nomen Dei tui in vanum.

                               Non nominerai il nome del Dio tuo in vano.

                III. Qui blasphemaverit nomen Domini morte morietur. LEVIT. XXIV.

                               Chi bestemmierà il nome del Signore sarà punito colla morte. [546]

                IV .... Memento ut diem Sabbati sanclifices. EXOD. XX.

                               Ricórdati di santificare le feste.

                               Qui polluerit illud (Sabbatum) morte morietur.

                               Chi lo violerà sarà mandato a morte.

                V..... Honora patrem et matrem tuam ei longaevus eris super terram. EXOD. XX.

                               Onora tuo padre e tua madre e vivrai lungo tempo sopra la terra.

                               Qui maledixerit patri vel matri aut eos percusserit morte moriatur.

                               Chi oserà maledire o percuotere suo padre o sua madre sia punito colla morte.

                VI .... Non occides. EXOD: XX.

                               Non amazzare.

                                Omnis homicida non intrabit in regnum coelorum.

                               Niun omicida entrerà nel regno de' cieli.

                VII ... Non moechaberis EXOD. XX.

                               Non fornicare.

                                Impudici non intrabuni in regnum Dei.

                               Gli impudici non entreranno nel regno di Dio.

                VIII. Non furtum facies EXOD: XX

                               Non rubare.

                                Neque fures neque avari regnum Dei possidebunt.

                               Nè i ladri nè gli avari entreranno nel regno di Dio..

                IX.... Non loqueris contra proximum tuum faIsum testimonium EXOD. XX.

                               Non dire il falso testimonio contro il tuo prossimo.

                               Os quod mentitur occidit animam. SAP. I, II.

                                La bocca che mentisce dà morte all'anima.

                X…  .Non desiderabis uxorem proximi tui. EXOD. XX.

                                Non desiderare la persona d'altri.

                                Qui viderit mulierem ad concupiscendam eam, jam moechatus eseam in corde suo. MATT. V, 28.

                                Chiunque guarda una persona con cattivo fine, ha già commesso peccato in cuor suo.

                XI  ....Non concupisces domum aut servum proximi tui. EXOD. XX. [547]

                                Non desiderare la roba d'altri.

                                Qui volunt divites fieri incidunt in tentationem et in laqueum diaboli. I AD Tim.

                                Quelli che vogliono farsi ricchi cadono nella tentazione e nel laccio del demonio.

 

                Ai piedi della scala centrale a sinistra stava una buca colla seguente scritta:

 

Limosina per l'Oratorio.

 

                Eleemosyna a morte liberal et purgat peccata et facit invenire misericordiam et vitam aeternam. TOB. XII, 9.

                L'elemosina libera dalla morte e purga i peccati e fa trovare la misericordia e la vita eterna.

 

                D. Bosco fu molto contento quando Enria ebbe finita la pittura di queste iscrizioni. Nei sermoni della sera egli soleva spiegarle brevemente; e passeggiando con qualche forestiero sotto il porticato, si dilettava spesso a leggere quelle massime bibliche, qualificandole articoli del suo codice, che costituiscono, come diceva, l'arte di ben vivere e di ben morire.

                Di tutta questa fabbrica ne fu anche pienamente soddisfatto il Teol. Borel, il quale un giorno venne a visitarla, e poi diceva al Ch. Rua: - Vedo proprio che si avvera ciò che D. Bosco mi preannunciava allorquando egli era tenuto per pazzo. Mi diceva di veder già il suo Oratorio ed ora io lo vedo precisamente nella forma che egli mi indicava. E il mucchio di terra sul quale D. Bosco diceva che ivi si sarebbe fondato l'altar maggiore della chiesa di San Francesco di Sales? Passarono sette anni e quel cumulo lo vedevamo sempre là. E finalmente quella terra scomparve e a suo luogo sorse l'altare predetto.

 

 

CAPO XLIV. Il ginnasio inferiore nell’Oratorio - Impressione che fa Don Bosco su due nuovi alunni - Gli studenti dei Cottolengo alle scuole di D. Bosco - La classe elementare diurna degli esterni -Sermoncini: Dio vuole tutti salvi - Predica sui libri cattivi -Letture Cattoliche - Giudizio autorevole sull'operosità di D. Bosco - Morte del Direttore dell'Oratorio di S. Luigi, e conseguenze.

 

                A META’ dell'ottobre 1856 gli alunni dell'Ospizio salivano già al bel numero di 150. In quanto agli studi, nell'anno scolastico 1856 e 57, il Chierico Francesia continuò a reggere la classe di terza ginnasiale e il professore secolare Blanchi, che prestavasi gratuitamente, fu posto ad insegnare alle classi riunite di prima e seconda ginnasiale. Questo professore patentato era una conquista che D. Bosco aveva fatto andando a predicare nel luglio a Foglizzo, invitato dal Prevosto Alberti Matteo, dove dopo quaranta e più anni era ancor viva la memoria della sua predicazione. Tutto il ginnasio inferiore era adunque ritirato nell'Oratorio e solo gli alunni di umanità e retorica continuavano a frequentare le lezioni del Prof. D. Picco. Con questi [549] venne mandato, sembrando meglio in salute, Savio Domenico; e D. Picco, che aveva già più volte udito a parlare delle belle doti che adornavano questo giovinetto, lo accolse gratuitamente nella sua scuola di umanità.

                Tra i giovani entrati nell'Oratorio erano stati iscritti fra gli studenti: Ghivarello Carlo, Cibrario Nicolao, Cerruti Francesco, Bongiovanni Domenico e Boggero Giovanni.

                Due di questi tennero memoria delle impressioni provate entrando nell'Oratorio. Scrisse Cerruti Francesco: - Quando agli 11 novembre 1856 entrai nell'Oratorio di S. Francesco di Sales come studente di seconda ginnasiale, e mi trovai in mezzo a 169 alunni interni, ricordo sempre che mi fece grande sorpresa la vista di D. Bosco. Mi pareva dì trovare in lui alcunchè di diverso, dirò meglio, alcunchè di più di quello che conosceva fino d'allora negli altri preti. La persuasione mia fu quella di moltissimi miei compagni, cioè che D. Bosco fosse una persona straordinaria e santa; e crebbe vieppiù in me, quando potei conoscerlo da vicino, godere della sua conversazione, sentire i suoi consigli individuali e pubblici, e soprattutto quello che mi diceva nella confessione, mirante sempre alla gloria di Dio ed al bene dell'anima mia mediante la frequenza della SS. Comunione. Ammirava poi la sua umiltà nello scegliere che egli faceva a speciale oggetto delle sue cure i fanciulli dell'Oratorio festivo più poveri, cenciosi, senza educazione civile, spesso luridi e pieni d'insetti. Per me ricordo, e fu la prima e più forte impressione che ricevetti, quando entrato nell'Oratorio, andai con altri esterni a confessarmi da lui e lo vidi circondato da una quantità di questi tali, l'uno dei quali puzzava orribilmente. E pareva che egli ci godesse a trovarsi in [550] mezzo di loro. Lo vidi tener da solo intorno a sè nei giorni festivi, e talora anche nei giorni feriali, centinaia di fanciulli discoli ed indisciplinati, riducendoli poco per volta e facendoli buoni e ferventi cristiani. Egli amava particolarmente e si compiaceva di chiamarsi capo dei biricchini di Torino. Per allettarli a venire all'Oratorio li attirava co' bei modi ovunque li trovasse; e colle scuole serali, coi divertimenti, colla musica, coi teatrini, con refezioncelle, col donar loro dei dolci; e con giuochi di prestigio e di destrezza che egli medesimo faceva, li allontanava dai vizi, li guidava alla virtù e alla frequenza de' sacramenti: al qual fine egli stesso si prestava indefessamente. Non si mostrava mai stanco ed annoiato, anzi presentavasi sempre gioviale e di buon umore ai ragazzi che la Provvidenza affidavagli. Aveva eziandio così poca cura di sè e della propria sanità, che molte volte colla febbre indosso continuava le sue ordinarie occupazioni, i catechismi e le prediche, come avrebbe fatto un sano”.

                Aggiungiamo a questa testimonianza quella di Bongiovanni Domenico. “Incominciai a frequentare l'Oratorio festivo nel 1852 e l'Ospizio nel 1855. Nel 1856 chiesi a D. Bosco che mi accogliesse nell'Ospizio. Egli non potendo subito accontentarmi per mancanza di posto mi permise di venire a scuola. Intanto fin dal primo abboccamento, mi raccomandò di fare una novena in preparazione della confessione generale e specialmente per conoscere la volontà di Dio sulla mia vocazione. Vari mesi dopo entrai definitivamente nell'Oratorio e a suo tempo fui studente della seconda ginnasiale, Prima che l'anno scolastico giungesse al suo termine, i miei compagni, tra studenti ed artigiani, furono più di 200. Io [551] ammirava D. Bosco perchè sempre tranquillo, paziente ed ilare. Si diceva che D. Bosco fosse di naturale focoso ed altero; a me pareva invece che avesse sortito un'indole naturalmente buona e mite, per cui avrebbe dovuto violentare se stesso per fare un atto di impazienza”.

                Le cose adunque dell'Oratorio stavano ben ordinate, tanto più che la sola presenza di D. Bosco era per tutti una predica continua ed un eccitamento al bene; e per gli studenti si era aggiunto un potente stimolo di emulazione.

                Il Can. Anglesio, che in quel tempo ancora non aveva professori sufficienti al bisogno, rincrescendogli di mandare i suoi giovanetti alle scuole in città, pregò D. Bosco che li volesse ricevere nelle sue classi all'Oratorio; e Don Bosco acconsentì di tutto buon grado. Quindi dal 1856 sino al 1859 in ogni giorno di scuola, mattino e sera, buon numero di quei giovani venivano nelle ore determinate alle nostre classi, e frammisti coi nostri udivano le stesse lezioni, gareggiando nello studio e nella morale condotta. Tutti si ricordano come fossero alcuni di grande ingegno. Alla fine dell'anno scolastico si faceva la distribuzione dei premi, procurati da ambe le parti. Alla festa, rallegrata dal canto e dal suono della musica, intervenivano sempre parecchi personaggi ragguardevoli, i Direttori dei due Istituti e vari dei loro benefattori. Molti dei nostri condiscepoli dell'Ospizio del Cottolengo fecero in appresso splendida riuscita: alcuni divennero Vescovi, altri sacerdoti esemplarissimi in diocesi, altri missionari zelanti, sicchè D. Bosco fin d'allora si può dir benemerito delle lontane Missioni; ed altri, presa diversa carriera, o conseguirono importanti impieghi civili, o si segnalarono nelle file dell'esercito. [552] Conserviamo un caro ricordo manoscritto di questi primi condiscepoli, educati nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, col quale essi dimostrano la loro riconoscenza al professore dell'Oratorio.

 

                Per l'ultimo giorno dell'anno scolastico 1857, 10 luglio, al Reverendo Chierico Giovanni Francesia maestro di III Grammatica.

 

                Se in questo desiato giorno, e per noi felice, ci sentiamo allegro il cuore, e quasi direi balzante di gioia, ed ebbro di lieta speranza che buono voglia essere l'esito del prossimo esame, chi riputar dovremo autore di questa nostra gioia, e speranza se non te, o nostro benignissimo Professore? E per verità noi per mezzo di te, e mercè la tua pazienza, della quale quantunque indegni, tuttavia finora ci tocca di farne le più alte meraviglie, noi, dico, arricchimmo la mente nostra di moltissime e tanto necessarie cognizioni, per tua mercè apprendemmo lo studio di latinità ed altro ancora, noi da te insomma abbiamo ricevuti benefizi tali e sì grandi, che ci protestiamo incapaci affatto di rendertene in terra le dovute grazie, ma solo potremo, come protestiamo di fare, porgere all'altissimo Iddio calde preci che voglia una volta accoglierti nel suo beato seno, e colassù darti il premio degno delle tue grandi fatiche, per non  sopportate. In tali termini adunque essendo lo stato delle cose nostre, non dovremo noi essere gioiosi ed allegri in questo giorno si felice? Egli è bensì vero, che tristo dovrebbe riuscire quest'ultimo giorno dell'anno scolastico per la lunga nostra separazione; ma la ferma speranza che la tua benignità vorrà verso di noi mostrare indulgenza amorosa, questa, o amatissimo nostro Professore, tien lungi dalla nostra mente ogni triste pensiero. Ci riputiamo indegni della tua benevolenza e carità verso di noi, ma tu, degnissimo Professore, la cui pazienza non mai stanca pel nostro progredimento ci arrecò tanti e sì grandi vantaggi, tu, dico, saprai anche perdonare là, dove potrà certamente esser colpa per parte nostra e volgere in tanto amore e carità quel castigo che da noi si meriterebbe. Noi siamo certi che il tuo buon cuore pieno di ardente carità, vorrà esserlo massimamente allora quando solo [553] da te penderà il nostro felice esito, ed allora spiccherà, qual fiore che sul mattino di primavera sorge verdeggiante, verso di noi la tua grande benignità. Ti auguriamo per tanto prospere ed allegre queste vacanze e speriamo che in questa vita ancora il Signore premierà il tuo ardente zelo pel nostro vantaggio.

 

Offerta di noi discepoli del Cottolengo,

 

                Nel novembre intanto del 1856 il locale, presso il portone d'entrata destinato ad una scuola elementare diurna e giornaliera, era all'ordine, corredato di ogni attrezzo e mobile necessario. D. Bosco non molto tempo dopo lo apriva ai giovanetti esterni. Era un vero nugolo di ragazzi che accorrevano dalle case dei dintorni. Ne stabilì maestro il giovane Rossi Giacomo nativo di Foglizzo, valente cantore come basso e suonatore di trombone, da lui invitato a venire nell'Oratorio, quando andò a predicare nel suo paese.

                Gli alunni dell'Oratorio andavano adunque moltiplicandosi, come pure quelli dell'Ospizio.

                D. Bosco godeva in cuor suo nel vedere cresciuta la famiglia di tanti giovanetti, tolti dal pericolo del vizio ed avviati sul cammino della virtù; i giovani più antichi, avuti quali primogeniti, godevano ancor essi nel vedere ingrossare le file dei loro fratelli minori; godevano questi nell'aver trovato un asilo sicuro e il pane della vita e della intelligenza; godevano tanti parenti nel sapere bene istruiti ed educati i loro raccomandati e ne esprimevano la più viva riconoscenza; godevano anche dal canto loro i benefattori e le benefattrici nel mirare il buon risultato della loro carità. Eziandio il Can. Lorenzo Gastaldi, venuto in patria nel 1856 per alcuni giorni, come soleva fare di quando in quando, ammirava D. Bosco, si congratulava [554] con lui, e lo eccitava a proseguire nella mirabile sua intrapresa.

Ma lo stimolo più forte era sempre la carità, e Don Bosco in questo mese colla sua affascinante parola, informava a virtù gli alunni novelli. Reano Giuseppe mise in carta alcuni suoi sermoncini, i quali avevano per iscopo di incoraggiare i giovani nella strada della vita eterna, perchè Dio li voleva assolutamente tutti salvi. “Tutte le sere della novena della Presentazione di Maria SS. al tempio, dopo le orazioni, perchè le sue parole facessero maggior impressione, interrogava qualcuno dei giovani più grandi e avuta la risposta che desiderava, egli brevemente ne dava la spiegazione.

                “La prima sera della novena, salito sulla piccola cattedra o sopra uno sgabello, chiamò per nome il Ch. Vaschetti, che molte volte era da lui interpellato, e lo invitò a rispondergli: - Perchè dobbiamo tener per fermo che Dio vuol darci il paradiso? - Il chierico rispose convenientemente, e D. Bosco soggiunse: - Sì! Perchè Dio ci ha fatti nascere in grembo della cattolica religione a preferenza di tanti altri, nati in mezzo a popoli che sono nell'errore. Da parte nostra però è necessario che noi crediamo quanto Egli insegnò alla Chiesa, che osserviamo i suoi comandamenti ed evitiamo tutto ciò che egli ci proibisce, -Quindi esortava ciascuno a dare in questi giorni un'occhiata ai loro anni già trascorsi e riflettere se furono impiegati bene; e voltando poi le pagine del libro della nostra vita, fare i conti e riconoscere se sia stato più il bene o il male.

                “Nella seconda sera di nuovo domandava ai giovani:

                - Perchè dobbiamo tener per fermo che Dio vuol darci il Paradiso? - E replicava, avuta la risposta: - Perchè [555] non solo fummo da Lui creati e messi in grembo alla Chiesa Cattolica, ma ci diede il battesimo adottandoci per suoi figli. Noi però dobbiamo ricordarci, come per mezzo dei nostri padrini, coi voti battesimali, abbiamo rinunziato al mondo, al demonio e alla carne, e solennemente promesso di essere fedeli a Gesù Cristo ed alla sua Chiesa.

                “Per sette sere consecutive D. Bosco mosse ai giovani La stessa domanda, e recava le prove essere volontà di Dio la nostra eterna salvezza. - Perchè non solo Dio ci ha fatti nascere in grembo alla Chiesa, ci ha dato il battesimo, ma di più perchè Gesù Cristo ha istituito la confessione, per la quale non una sola volta, non due, non cento, ma molte e molte volte, ed anche migliaia di volte, potessimo riacquistare la sua grazia, se perduta col peccato. Riflettete però non esservi speranza di perdono, se non mediante la sincerità dell'accusa, un vero dolore, un'efficace risoluzione di non più offendere Dio. - Perchè, oltre il detto nelle sere precedenti, Gesù Cristo ci ha meravigliosamente favoriti coll'istituzione della SS. Eucaristia, dandoci il suo corpo per nostro nutrimento e il suo sangue per nostra bevanda: ed egli proclamò: Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue avrà la vita eterna. Ma non dimenticate per carità che mangia e beve la sua condanna chi si comunica sacrilegamente. - Perchè la seconda persona della SS. Trinità si è fatta uomo per liberarci dalle pene eterne. Ma noi dobbiamo in contraccambio ringraziare continuamente il nostro Divin Redentore, praticare la mortificazione cristiana e rinnegare la nostra volontà rifuggendo dai piaceri della terra per amore di Gesù Cristo. - Perchè Gesù è morto per noi sulla croce, spargendo tutto il suo, sangue per la nostra salvezza, scancellando l'antico chirografo di condanna, e lasciandoci [556] Maria SS. per madre. - Perchè Dio ci amò da tutta l'eternità, ci comandò di amarlo sopra ogni cosa, proclamò esser questo il primo di tutti i comandamenti, ci fece conoscere la carità verso il prossimo essere una cosa sola coll'amor di Dio; e quindi la gloria del paradiso essere la consumazione della grazia. - E soggiungeva: - Non tutti possono digiunare, intraprendere lunghi viaggi per la gloria di Dio, non tutti fare ricche elemosine, ma tutti possono amare. Basta volerlo”.

                Collo stesso metodo D. Bosco predicava ai giovanetti esterni, adattando le ragioni alla loro intelligenza. I protestanti diffondendo continuamente nel popolo libri perniciosi, il 16 novembre 1856 Don Bosco parlando, dal pulpito dell'Apostolo Paolo, narrava come egli nella città di Efeso facesse bruciare una quantità di libri che contenevano magie e cattivi insegnamenti, per ingannare il popolo e indurlo ad ogni sorta di vizi. Finito che ebbe il racconto, interrogò il Ch. Vaschetti: - Perchè, gli disse, S. Paolo ha fatto bruciare in sulla pubblica piazza una sì gran quantità di libri che avrebbero potuto valere 100.000 lire, invece di venderli e dare quel danaro ai poveri? Oppure perchè non ritenerli custoditi gelosamente presso di sè?

                Vaschetti osservò: - Se quei libri fossero caduti in altre mani, quante persone di più si sarebbero imbevute di tante cose nocevoli alle anime! Perciò S. Paolo credette suo stretto dovere distruggerli. Egli stesso non si fidava di leggere que' volumi pestilenziali. - E D. Bosco gli rispose: - Hai detto bene, perchè se una bevanda venefica può far male a me, farà male anche agli altri; e non c'è vantaggio materiale che compensi un solo danno, morale. [557] E i giovanetti dell'Oratorio festivo consegnavano a D. Bosco quei libri e quei giornali corrompitori che trovavano nelle loro case o avevano ricevuti in dono, perchè fossero dati alle fiamme. Quanti ei ne distrusse mentre lavorava continuamente alla stampa di buoni libri. Infatti la Tipografia diretta in Ivrea da F. Tea, pel mese di dicembre aveva pronto il fascicolo delle Letture Cattoliche: L'Angelo custode dell'infanzia; pensieri tratti dal libro di Claudio Arvisenet canonico e vicario generale di Troyes. È  un libro che con avvisi ed esempi guida il fanciullo in tutte le sue azioni della giornata e nell'esercizio delle principali pratiche di pietà; contiene anche un ristretto di prove sulla veracità di N. S. Religione, in forma di dialogo, tratte dal vecchio e dal nuovo Testamento; e brevissime preghiere da farsi in diverse occasioni.

                Altri libri D. Bosco andava componendo: quattro tipografie, come abbiamo già notato, lavoravano per lui. Monsignor Bertagna così descrisse l'operosità di Don Bosco:

                “D. Bosco dava i più luminosi esempi di fortezza col suo continuo attendere ora ad una, ora ad un'altra fatica; e dopo, tosto col riprenderne ancora un'altra, senza darsi riposo mai lungo il giorno; e questo, brevissimo, la notte e non sempre: e quella pazienza con cui spesso tollerava chi per cose quasi da nulla veniva ad interrompergli il suo lavoro, e ciò non una ma tante fiate, sono cose veramente ammirabili. Non si mostrava mai stanco, anche dopo aver passato le notti intere a lavorare, e dava mano a quante occupazioni gli si presentavano e ciò sempre con una tranquillità che ha del prodigioso”. In eo quod amatur, aut non laboratur, aut labor ipse amatur, dice un gran santo. [558] Ma in mezzo a tanti lavori e a tanti motivi di gioia, era sopraggiunto una forte ragione di pianto.

                Il Teol. Francesco Rossi, Direttore da tre anni dell'Oratorio di S. Luigi Gonzaga a Portanuova, moriva il 5 di novembre nell'età di Solo 28 anni. D'indole vivace e spiritosa, di soda pietà e di molta scienza letteraria, filosofica e teologica, era con tutti allegro, affabile, rispettoso, compiacente e compassionevole. La sua sollecitudine per i giovani pericolanti non ebbe limiti. Prediche, catechismi, istruzioni, confessioni, avvisi, correzioni, tutto metteva in opera per i fanciulli di quell'Oratorio. Ora l'avresti veduto a correre in cerca di un padrone per collocare un ragazzo disoccupato; colà raccomandare sofferenza al padrone, o la diligenza all'artigianello; altrove portare di nascosto cibarie e vestimenta, per impedire le tristi conseguenze della necessità. Nello stesso tempo era sempre pronto a dettare esercizi spirituali, tridui, missioni, novene. Le prigioni, gli ospedali, molti istituti religiosi, la studiosa gioventù, gli stessi quartieri militari furono testimoni del suo zelo e della sua carità. Egli fu un vero cooperatore e imitatore di D. Bosco.

                Ma con tante fatiche la sua sanità aveva finito con affievolirsi; alcuni suoi amici lo pregarono a volersi usare qualche riguardo; ma egli aveva risposto: - Un buon artigiano non deve differire fino a domani ciò che può fare oggi. - Cadde quindi in una lunga e penosa malattia, sopportata con eroica pazienza e che lo toglieva di vita, dopo che ebbe ricevuto con rara edificazione tutti i conforti religiosi. I giovani dell'Oratorio di S. Luigi ne accompagnarono il feretro fino alla tomba, e il 13 del mese Don Bosco volle che nella loro cappella, uniti ai compagni dell'Oratorio di Valdocco, con molte comunioni e una [559] messa funebre in musica ne suffragassero l'anima benedetta l'Armonia del 20 novembre stampava una bella necrologia del Teol. Rossi, scritta probabilmente dallo stesso D. Bosco.

                Ma quanto per lui fu dolorosa questa perdita, tanto più che non trovava chi potesse sostituirlo! Quindi ne seguì un intervallo di un anno in cui nell'Oratorio di San Luigi non fuvvi più Direttore fisso. In quel tempo Don Bosco mandava ogni festa un chierico a Portanuova, il quale lungo la settimana industriavasi di cercare ed impegnare or questo, or quell'altro ecclesiastico della città, che vi andasse a confessare, a celebrare la messa e predicare al mattino; e talvolta un secondo per la predica e funzione della sera. D. Cafasso mandava talvolta anche qualche alunno del Convitto Ecclesiastico. Fra quelli che si prestarono più assiduamente in quel frattempo è degno di speciale menzione D. Demonte. Egli, per la sua età e difetto di parola, non poteva nè predicare, nè confessare; ma vi suppliva col dire la S. Messa, col fare il catechismo, e col provvedere a sue spese premi e trastulli, non che oggetti di Chiesa. Era un santo prete molto ricco, il quale più tardi perdette ogni sua sostanza, per aver prestata garanzia a certi suoi parenti. Ma a lui nè ricchezze nè povertà tolsero mai la pace del cuore, l'amore a Dio, l'attaccamento all'Oratorio e il desiderio di soccorrere il prossimo.

 

 

CAPO XLV. Malattia e morte di mamma Margherita - Dolore di Don Bosco e sogno - consolante - Plebiscito - La madre di D. Rua all'Oratorio - Nuova concessione Pontificia per la mezzanotte di Natale - Fine dell'anno - Auguri e preghiere di riconoscenza per una insigne benefattrice - Morte del Ch. Massaglia.

 

                DOPO la morte del Teol. Rossi un più grave dolore pendeva sul capo di D. Bosco. Verso la seconda metà di novembre 1856 cadeva inferma la buona mamma Margherita, la quale aveva tenuto pei giovani il posto delle loro madri, e colla sua bontà, colla sua attenzione e colla sua sollecitudine, loro faceva come dimenticare o di averle perdute o di averle lontane. La sua malattia, che fu una violenta polmonite, fece pregare molto gli alunni per la sua guarigione, li tenne per vari giorni come sospesi tra la speranza ed il timore, e diede loro occasione a dimostrare quanto essi apprezzassero e la sua virtù e l'amore che loro portava. Quasi ad ogni ora, questo o quell'altro dei giovani era alla porta della camera dell'ammalata per averne notizie. Alla sera poi, dopo le orazioni in comune, tutti attendevano con ansietà, o da D. Bosco o da D. Alasonatti, notizie di lei, e niuno [561] si metteva a letto senza averla prima raccomandata alla Vergine Consolatrice.

                La curava con gran diligenza il Dottore Celso Bellingeri, fervoroso cattolico, dotto ed esperto nell'arte salutare, medico dei giovani interni e maestro di scienze naturali ai primi chierici che si preparavano per essere insigniti dei gradi Universitari. D. Bosco gli professava la più affettuosa amicizia e riconoscenza, mentre egli stesso assisteva sua madre colle più grandi premure. Passava tempo notevole presso il suo letto, nulla lasciandole mancare che le potesse riuscire di giovamento, e la confortava con santi pensieri e giaculatorie. Insieme con lui vegliavano e prestavano attento servizio il fratello Giuseppe, venuto in fretta da Castelnuovo, la zia Maria Anna Occhiena e la signora Giovanna Maria Rua.

                Ciononostante il male si faceva gigante, e purtroppo inesorabile. Grande fu l'angustia dei giovani quando udirono che era stato a confessare Margherita il Teologo Giovanni Borel, suo direttore spirituale; immenso il loro cordoglio quando le fu amministrato il santo Viatico.

                Margherita allora si accorse di tutta la gravezza del suo male, e volle dare gli ultimi ammonimenti a' suoi figliuoli. Avuto solo D. Bosco, gli disse: - Quello che ti dico adesso te lo manifesto con quella sincerità colla quale ti parlerei in confessione, perchè tu possa meglio conoscere lo stato dell'Oratorio. Abbi gran confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore, ma solamente in quelle cose che tu sei sicuro essere di gloria di Dio. Sta attento che molti invece della gloria di Dio cercano l'utilità propria. Io debbo partire e lasciare le cose dell'Ospizio in mano ad altri. È  un cangiamento che può avere dispiacevoli conseguenze, ma la Madonna non mancherà [562] di guidare le cose tue. Non cercare nè eleganza, nè splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, ma abbi per base la povertà dì fatto. Hai vari che amano la povertà negli altri, ma non in se stessi. L'insegnamento più efficace è fare quello che si comanda agli altri. La tua famiglia si conservi nello stato loro proprio, cioè quello di povertà: e ciò farà a loro un gran bene. - Qui entrò a parlare di molte cose confidenziali riguardanti l'Oratorio e in modo così giusto che D. Bosco ebbe a stupire nel vedere tanta perspicacia. Dei chierici Rua, Cagliero, Durando, Francesia gli affermò che sarebbero stati suoi validi e fedeli sostenitori. Di altri gli replicò di non fidarsi. Dei due fratelli Fer... gli disse: - Sta attento che vogliono godere della tua beneficenza quanto potranno e niente più. - In fine si raccomandò alle preghiere di tutti i preti, i chierici, i giovani della casa, e conchiuse che se era ammessa nella misericordia del Signore lo avrebbe incessantemente pregato per l'Oratorio. Quindi parve entrasse in un leggero vaneggiamento ed uscì in parole che sembravano incoerenti. - Presentemente, diceva fissando in volto Don Bosco, tu fai quello che non sai e quello che non vedi; ma lo, vedrai e lo saprai quando avrai preso il lume dalla Stella.

                Si trattenne pure col figlio Giuseppe: - Giuseppe mio, gli disse; io debbo lasciar te e la tua famiglia. Ho sempre fatto quello che ho potuto e parmi che tutti mi abbiano corrisposto. Veglia però che i tuoi figli si conservino nella posizione in cui Dio li ha collocati, a meno che aspirino allo stato religioso od ecclesiastico. Nota bene che nella loro condizione saranno contadini, ma guadagneranno onestamente il pane della vita. Se cangiano stato, sono in pericolo di diventare scialacquatori dello stesso frutto dei loro sudori. Ciò che ti dico adesso, lo [563] esaminerai e ti servirà di norma in molte cose che  ora le mie deboli forze mi impediscono di spiegarti. Tutto quello che puoi, continua a farlo per l'Oratorio. La Vergine ti benedirà e renderà felici i tuoi giorni e quelli della tua famiglia.

                Quando si trattò di munirla coll'Estrema Unzione, ripetè a Giovanni ciò che prima aveagli già detto: - Fu un tempo che io aiutava te a ricevere i Sacramenti di nostra Santa Religione. Ora tu devi aiutare la madre tua a ricevere degnamente questi ultimi Sacramenti della mia vita. Tu mi accompagnerai nel recitare le necessarie preghiere. Io stento assai nel proferire le parole; tu le dirai a voce spiegata, ed io procurerò di ripeterle almeno col cuore.

                Ma giungeva quella sera che doveva essere l'ultima per lei. Don Bosco aveva protratta fino ad ora tardissima la veglia e l'assistenza intorno alla cara inferma; ma era in preda ad un vivissimo dolore. Dall'altra parte del letto stava Giuseppe che, sebbene egualmente amante della madre, riusciva però in quegli istanti a nascondere l'angoscia del cuore. A un tratto la buona madre si volge a D. Bosco e gli dice: - Dio sa quanto ti ho amato nel corso della mia vita. Spero di poterti amar meglio nella beata eternità. Ho la coscienza tranquilla; ho fatto il mio dovere in tutto quello che ho potuto. Forse sembra che io abbia usato rigore in qualche affare, ma non fu così. Era la voce del dovere che comandava ed imponeva. Di' ai nostri cari figliuoli che io ho lavorato per loro, e che porto loro materna affezione. Ti raccomando che preghino anche molto per me e che facciano almeno una volta la santa Comunione in suffragio dell'anima mia. - A questo punto restarono ambedue così commossi, che per un istante il discorso fu interrotto. [564] Margherita, ripreso un po' di respiro, continuò: Va, mio caro Giovanni; allontánati dalla mia presenza, perchè, troppo mi addolora il vederti, così afflitto, e troppo soffri tu stesso nel vedermi agli ultimi istanti. Addio, caro Giovanni. Ricórdati che questa vita consiste nel patire. I veri godimenti saranno nella vita eterna. Va, ritirati in camera tua e prega per me.

                D. Bosco esitava ad allontanarsi dal suo letto. Margherita gli fissò gli occhi in volto, poi sollevò lo sguardo verso il cielo, quasi volesse dirgli: - Tu soffri e mi fai soffrire; va a pregare che ci intenderemo di tutto nella beata eternità. È  qui D. Alasonati e mi basta.

                D. Bosco, dopo averla caramente salutata, ritiravasi allora nella sua camera, ma non credendo così imminente il pericolo di perderla. Quivi tre volte mettevasi per accendere lume, e questo per tre volte si spegneva da sè.

                Il suo pensiero era corso tosto a quella cara vita che paventava fosse in sullo spegnersi. Riuscito finalmente ad accendere la lucerna, si accostava al letto per coricarsi. Ma ecco strana meraviglia! Il ritratto di sua madre, appeso a fianco del letto, stava rivolto verso il muro. Non era D. Bosco che così l'aveva collocato; a nessuno di quei di casa poteva venire in testa simile capriccio, tanto più che il rispetto affettuoso al superiore non avrebbe permesso un atto così irreverente. Dunque? Colpito da vivo timore non osò più coricarsi. - Temo, disse fra sè, che sia questo un avviso che il Cielo mi manda dell'imminente partenza della povera mia madre per l'eternità. - Quindi ritornava presso il letto della cara inferma. Era circa la mezzanotte.

                La madre accortasi della sua presenza gli fe' cenno di allontanarsi, ma Giovanni rimaneva immobile. Essa insistette: -Tu non puoi resistere! ....... [565] E D. Bosco soffocato dai singhiozzi rispose: - Non è da Aglio affezionato abbandonarvi in questi momenti.

                Margherita stette un istante in silenzio e poi chiamandolo per nome: - Io ti domando un piacere, gli disse; è l'ultimo che ti domando. Io soffro doppiamente nel vederti soffrire. Io sono abbastanza assistita. Tu va, prega per me; non chieggo altro: addio. - Fu l'ultimo saluto.

                D. Bosco si ritirò obbediente alla volontà così espressa dalla madre, la quale dopo pochi istanti entrava in agonia. Era il 25 di novembre. Alle 3 antimeridiane D. Bosco, che non si era coricato, udì il passo di Giuseppe che veniva alla volta della stanza. La pia donna era volata al cielo. I due fratelli si guardarono l'un l'altro senza proferir parola, e poi diedero in un pianto dirotto, che schiantava il cuore a diversi alunni, chierici e laici, i quali avevano seguito Giuseppe.

                E i giovani? Nessuna penna potrebbe mai descriverne il dolore, i singhiozzi ed il pianto, quando ricevettero il fatale annunzio che la madre di D. Bosco e la madre loro non era più. Ma D. Bosco, avendoli tutti radunati per consolarli, diceva loro: -Abbiamo perduta la madre, ma sono certo che ella ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!

                E tale concetto avevano tutti di lei, specialmente per la sua carità verso il prossimo. Ella non erasi rifiutata mai di soccorrere qualunque poverello le si presentasse per ottenere elemosina, e aveva cercato d'istillare in tutti la necessità e l'importanza di quanto comanda Gesù Cristo, colle opere di misericordia, nel suo santo Vangelo. Per questo fine erasi assoggettata a tante privazioni. Morta che fu, nulla si trovò nella sua stanza che avesse ombra di comodità, e nulla di riposto che indicasse aver dessa confortata con bibite dolci vini, liquori o altro la sua [566] avanzata età. Anzi alcune buone donne, venute per comporre la salma nella cassa, avevano chiesta licenza a Don Bosco di prendere e ritenere per sè i suoi vestiti. Volentieri fu accordato il permesso, ma restarono deluse, perchè nulla rinvennero, avendo la defunta adoperata tutta la sua biancheria per uso dell'Oratorio, e tutto il suo vestiario per sollevare la miseria di qualche famiglia. L'unica veste rimasta servì ad avvolgere il suo cadavere, e nelle saccocce di questa si rinvennero 12 lire che Margherita non ebbe tempo a spendere. D. Bosco gliele aveva date pochi giorni prima che infermasse, perchè si provvedesse di alcunchè per coprirsi con decenza il capo; ma è certo che una parte di questa esigua somma era destinata a cadere in mano ai poveri.

                D. Bosco nel mattino stesso della sua morte, accompagnato dal giovane Giuseppe Buzzetti, andò a celebrare la santa Messa nella cappella sotterranea del Santuario della Consolata. Colà egli, dopo aver sacrificato il divino Agnello ed offertolo all'Eterno Padre in suffragio dell'anima della madre sua, si fermava a pregare lungamente dinanzi alla immagine di Maria Consolatrice. Tra le altre cose egli diceva: - O pietosissima Vergine, io ed i miei figliuoli siamo ora senza madre quaggiù; deh! siate Voi per lo innanzi in particolar modo la Madre mia e la Madre loro. -Sembra che Maria SS. abbia esaudito le preghiere di lui, in modo tutto particolare, come lo dimostrarono i prodigiosi sviluppi dell'Oratorio. I funerali riuscirono modesti, ma destarono in tutti sentimenti di profonda tenerezza. Fu celebrata una messa solenne nella chiesa dell'Oratorio, e i giovani fecero la Comunione generale in sollievo dell'anima della insigne loro benefattrice e madre. Tutti poscia ne accompagnarono la salma alla [567] parrocchia, e la banda dell'Ospizio alternava il canto del Miserere col mesto suono dei musicali strumenti. Il funebre corteo procedette con tanto ordine e destò in tutti gli spettatori così alta edificazione, che tra le altre la egregia signora Margherita Gastaldi, madre del Can. Lorenzo, ebbe a dire che non aveva mai assistito a funerali così commoventi.

                D. Bosco, affranto dal dolore, dopo il funerale recavasi a Susa ospitato dal suo amico il Can. Rosaz, per avere un po' di sollievo. Ma non vi si fermò più di un giorno e ritornato a Torino continuò a pregare fervorosamente e a far pregare molto per l'anima di sua madre, istituendo un funerale anniversario. Di essa parlava sempre con affezione figliale; e ne raccontava con viva compiacenza le singolari virtù, così in pubblico come in privato. Dispose eziandio che uno de' suoi sacerdoti ne raccogliesse i tratti edificanti della sua vita e li pubblicasse in memoria di lei ed a comune edificazione. E agli ultimi suoi giorni si potè conoscere quanto fosse tuttora vivo in lui l'affetto alla madre, poichè ricordandola, sempre lagrimava, e chi di notte lo assisteva sentiva nelle sue semiveglie chiamare la madre. Se la vide più volte innanzi in sogni, che restarono incancellabili nella sua mente e che talora ci volle narrare.

                Nell'agosto 1860 gli parve d'incontrarla vicino al Santuario della Consolata, lungo la cinta del convento di S. Anna, sull'angolo della via, mentre egli tornava all'Oratorio, da S. Francesco d'Assisi. Il suo aspetto era bellissimo. - Ma come! voi qui? le disse D. Bosco; non siete morta

                - Sono morta, ma vivo, rispose Margherita. E siete felice? [568]

                - Felicissima. - E D. Bosco, chiestele varie cose, la interrogò se dopo morte fosse subito entrata in paradiso. Margherita rispose che no. Quindi volle da lei sapere se in paradiso vi fossero vari giovani, dei quali fece i nomi, e Margherita rispose che sì.

                - E ora fatemi conoscere, continuò D. Bosco, che cosa godete in paradiso.

                - Non posso fartelo intendere.

                - Datemi almeno un saggio della vostra felicità; fatemene almeno sentire qualche stilla!

                Allora vide sua madre tutta risplendente, ornata di una preziosissima veste, con un aspetto di maestà meravigliosa e dietro a lei come un coro numeroso. Margherita si pose a cantare. Il suo canto d'amore a Dio, d'una inesprimibile dolcezza, andava diritto al cuore, lo invadeva e lo trasportava senza violentarlo. Sembrava l'armonia di mille voci e di mille gradazioni di voci che dai bassi più profondi salivano agli acuti più alti, con una varietà di toni e differenza di modulazioni, e vibrazioni più o meno forti e talora impercettibili, combinate con tanta arte, delicatezza e accordo che formavano un sol tutto. D. Bosco a quella, soavissima melodia rimase così incantato, che gli sembrava essere fuori dei sensi, e più non seppe che cosa dire o chiedere a sua madre; e Margherita, come ebbe finito il canto, si rivolse a lui dicendogli: - Ti aspetto, poichè noi due dobbiamo star sempre insieme. - Proferite queste parole, disparve.

                Intanto alla morte della madre, ci narrò D. Rua, Don Bosco intravide la necessità di una Congregazione di Religiose, che avesse in cura il vestiario e la biancheria di così numerosa famiglia; ma si riservò a prendere una decisione quando la Provvidenza gli avesse indicato, e in [569] modo evidente, la sua volontà. Egli però, quasi per tentare l'opinione generale della casa, una sera dopo le orazioni propose ai giovani il quesito: - Si debbono ammettere in casa alcune suore, che si prendano cura del bucato, della biancheria e della cucitura dei panni, ovvero salariare una donna estranea, la quale venga a compiere in giornata questi lavori? - I giovani, che intendevano come la presenza delle suore avrebbe recata ad essi qualche restrizione di libertà, risposero ad una voce: - Venga una donna di fuori!

                E venne nell'Oratorio una donna di fuori, ma non mercenaria, sibbene già conosciuta dai giovani. Era la signora Giovanna Maria Rua, madre del Ch. Michele, la quale da anni veniva ad aiutare mamma Margherita, intendendosi con essa a meraviglia. Ed ora alla morte di questa erasi sentita naturalmente invitata a prendere il posto della pia amica. Lasciò pertanto le agiatezze della sua casa, onde recarsi ad abitare l'Oratorio in que' tempi poverissimo. Alquanto inoltrata negli anni, ma di complessione robustissima, virile di senno, di pazienza ammirabile, amante della mortificazione cristiana, pronta ad ogni lavoro, ardeva di una divozione soda e risoluta; ed era di una coscienza delicatissima, senza ombra di scrupoli. Tutti i giovani l'amarono grandemente, essendo dessa un angelo di bontà; ma le sue cure rivolgevale a preferenza alla classe degli artigiani, perchè più poveri e più ignoranti degli altri. Così testificava Reano Giuseppe. La signora Rua era coadiuvata per curare la biancheria dalla zia di D. Bosco Marianna Occhiena, dalla vedova Lucia Cagliero, e per cinque o sei anni da madama Bellia madre di D. Giacomo che veniva ogni giorno per cucire. Una damigella di casa De Maistre insistette per [570] venire essa stessa nell'Oratorio ed essere la quinta nel compiere tale opera di carità; ma il Signore la volle religiosa.

                Intanto dopo la solennità dell'Immacolata D. Bosco provvedeva a quella del S. Natale e per mezzo del Cardinale Gaude faceva pervenire una lettera al Sommo Pontefice.

 

                               Beatissimo Padre,

 

                Il Sacerdote D. Giovanni Bosco, Direttore dell'Oratorio di san Francesco di Sales, avendo ottenuto da Vostra Santità, sotto il giorno 16 dicembre 1852, la facoltà ad triennium di potersi comunicare i giovani che intervengono in detto Oratorio nella messa, che ivi si celebra dopo la mezzanotte nella vigilia del S. Natale, ed essendo ora spirato il triennio, lo stesso Direttore supplica egualmente con umiltà per una benigna conferma.

                Che della grazia ecc.

 

                Il Cardinale trasmetteva a D. Bosco il rescritto accluso nella seguente lettera.

 

                               M. Rev. Sig. D. Giov. Bosco,

 

                Non ho perduto un istante, e benchè non avessi occasione di vedere Sua Santità ed abbia dovuto valermi della trafila dei memoriali, pure ho avuto ben presto il nuovo rescritto. Dio voglia che le giunga in tempo. Ho spesi (tra tutto) quattro franchi incirca. O li passi al mio Padre in Cambiano o celebri quattro messe secondo la mia intenzione. E salutandola, mi dico in fretta e di furia

                Roma, li 20 dicembre 1856.

 

Suo aff. mo

F. Card. GAUDE. [571]

                “Ex Audientia SS.mi Die 19 decembris 1856.

                SS.mus remisit preces arbitrio Ordinarii, cum facultatibus necessariis et opportunis pro petita enunciati indulti prorogatione ad aliud Triennium ad formam praccedentis concessionis. Contrariis quibuscumque non obstantibus.

 

L. Card. ALTIERI”.

 

                Passate divotamente le feste natalizie, D. Bosco terminava l'anno scrivendo una lettera alla Duchessa de La Val Montmorency De Maistre a Villastellone Borgo.

 

                               Benemerita Sig. Duchessa,

 

                I casi spiacevoli avvenuti in questa casa sono la cagione che non ho riscontrato alla graziosa e divota lettera che nella sua bontà si degnava d'indirizzarmi in seguito alla morte della mia,cara genitrice. Ora intendo di ringraziarla e de' cristiani sentimenti scrittimi nella prima e dell'operato relativamente al lavoro della sig. marchesa Fassati cangiato in un marengo, che secondo il solito fu speso a favore dei nostri ricoverati.

                Poichè oggi siamo all'ultimo giorno dell'anno ci raduniamo questa sera per cantare il Te Deum in ringraziamento a Dio de' benefizi fattici nel decorso di quest'anno; in questa medesima congiuntura facciamo preghiere speciali pei nostri benefattori; e prima della benedizione col SS. Sacramento reciteremo tutti insieme un Pater, Ave e Salve per Lei, nostra insigne benefattrice. Invocheremo di tutto cuore la benedizione del Signore sopra di Lei, affinchè Le doni la pace dello spirito e la sanità corporale; possa in ogni cosa fare la santissima divina volontà in tutte le sue occupazioni; e al più tardi che a Dio piacerà, compiendo la sua vita mortale ne' sacri cuori di Gesù e di Maria, vada a riceverne eterno guiderdone in Cielo.

                Questi sono i miei voti in questi giorni, e questi so pure essere i suoi desideri. Si degni anch'Ella di pregare per me onde possa eziandio compiere la santa volontà di Dio, ora e nel novello anno che siamo per cominciare e per tutto quel tempo che il Signore nella sua misericordia vorrà lasciarmi in questo mondo. [572] Le Partecipo con piacere che lo stato di salute dei nostri ragazzi è ottimo: di centocinquanta giovanetti da tre mesi non ne abbiamo avuti uno che abbia sofferto un semplice mal di capo. La mia zia e mio fratello stanno pur meglio.

                Con pienezza di stima e di gratitudine La prego di considerarmi in tutto quel che posso nel Signore

                Di V. E.

                Torino, 31 dicembre 1856.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Bosco Giov.

 

                Sancta Maria Virgo et Sancte Silvester, orate pro nobis; et tempora nostra sint vestra Protectione tranquilla.

 

                Questa lettera fa cenno di una gravissima malattia di suo fratello Giuseppe, della quale parleremo più avanti: e a così vivo dolore se ne aggiunse un altro, cioè l'infermità e la morte del Ch. Massaglia Giovanni.

                Nell'autunno del 1855, compiuto con esito felice il corso di rettorica, e vestito l'abito clericale, si era fermato egli nell'Ospizio, dando ottima speranza di sè, e negli studi e nell'assistenza degli Oratorii. Godeva ottima salute, ma colpito da una costipazione che aveva aspetto di semplice raffreddore, condotto dai parenti a Marmorito per curarlo radicalmente, vi moriva come muoiono i santi. Savio Domenico, benchè rassegnato ai divini voleri, lo pianse per più giorni. Pietro Enria affermava con giuramento che, come di molte altri, così di Massaglia avesse D. Bosco, predetta la morte narrando un sogno.

 

 

CAPO XLVI. Amore di D. Bosco al Papa - Suoi studi continui sopra la storia della Chiesa Cattolica - Suo disegno per scriverla convenientemente - Sua Storia universale della Chiesa - Le Vile dei Papi - Vaste cognizioni storiche di D. Bosco - Letture Cattoliche: LA VITA DI SAN PIETRO.

 

                SAN PIETRO! Il Papa! Ecco il personaggio più grande, più degno di profondo rispetto e venerazione sulla terra, per il nostro D. Bosco, dopo il SS. Sacramento. Si entusiasmava quando ne parlava a' suoi giovanetti: - Amiamoli, ei diceva, i Romani Pontefici, e non facciamo distinzione del tempo e del luogo in cui parlano; quando ci dánno un consiglio e più ancora quando manifestano un desiderio, questo sia per noi un comando.

                Spesse volte ripeteva: - Figliuoli miei, tenete come nemici della Religione coloro che colle parole e cogli scritti offendono l'autorità del Papa, e cercano di scemare l'ubbidienza ed il rispetto dovuto a' suoi insegnamenti ed ordini. - E ogni qual volta il Pontefice si trovava in angustie, egli esortava sempre i suoi alunni alla preghiera e alla S. Comunione. [574]

                “D. Bosco, scriveva Mons. Emiliano Manacorda nell'elogio funebre letto nella trigesima dalla morte di lui, fondatore della Pia Società di San Francesco di Sales, nei pensieri e nelle parole, negli affetti e nell'azione era il ritratto dell'uomo umile. Tutto in lui era umiltà; ma questa si vestiva d'amor festivo, appena che gli suonasse all'orecchio la parola sacra: Pontefice Romano; s'accendeva, prendeva vita, parlava con calore. Nessuno fra quanti l'avvicinavano udì parola da lui che non fosse improntata all'obbedienza perfetta e alla docilità d'innocente fanciullo”.

                A D. Bosco non sembravano mai troppi gli onori resi ai Papi, e un giorno faceva notare al Ch. Rua la soddisfazione che avrebbe provato nel vedere le feste dei santi Romani Pontefici, celebrate allora col semidoppio, elevate al rito doppio. La festa poi in onore di S. Pietro volle che nell'Oratorio fosse celebrata ogni anno con gran pompa.

                Prova di quanto egli ardeva accesamente d'amore verso il Vicario dì Gesù Cristo si è che desso fu il pensiero continuo della sua vita: conseguenza anche dei forti studi, dei quali era fornito sulla storia della Chiesa, alla quale dava, come già vedemmo, moltissima importanza. Aveva incominciato a studiarla nel 1834 essendo ancora chierico e dal 1851 al 1861 D. Turchi lo vide attendervi ancora assiduamente, sopra opere insigni vuoi antiche, vuoi recentemente stampate. Sovratutto non rifiniva di meditarla sui Bollandisti, opera che sopra ogni altra gli era cara. Leggeva le vite de' santi contenute in que' molti e immensi volumi con tanta attenzione da rimanerne il suo spirito come interamente imbevuto. E per consultarli sovente, appena potè, cioè prima del 1860, [575] di questi arricchì la biblioteca dell'Oratorio. Le geste di tutti i santi sono pure il commento più autorevole al dogma dell'autorità pontificia e lo mettono nella sua piena luce. D. Bosco la riconosceva in tutta la sua estensione. Quando in tempo di pranzo si leggeva l'Henrion, il Rohrbacher, l'Audisio, lo Schmid e altri autori di storie universali della Chiesa, o voluminose o compendiate, egli aveva sempre da osservare che molte erano storie ecclesiastiche nazionali; ovvero che parlavano diffusamente della Chiesa in genere, dei concili, delle vite dei santi, ma poco dei sommi Pontefici, i quali, con suo vivo dispiacere, vi facevano quasi sempre una figura secondaria, e direi quasi accessoria. D. Bosco sosteneva che il perno di una storia ecclesiastica, attorno a cui essa doveva aggirarsi, era il Papa, e quindi una vera storia della Chiesa dover essere essenzialmente una Storia dei Papi. - Il Papa non è egli il Capo, il Principe, il Supremo Pastore? diceva D. Bosco. Nella storia di un regno, di una nazione, di un impero la prima figura che si fa campeggiare continuamente non è forse quella del re? Non è forse necessario che si sappia doversi tutto ai Papi, onore, gloria, obbedienza come a centro d'unità, senza del quale la Chiesa non è più Chiesa? È  un grande errore scrivere della Chiesa e lasciar trascorrere lunghi periodi senza far menzione del suo Capo!

                Perciò, secondo questo criterio, fin dal 1849 aveva incominciato a comporre una storia universale della Chiesa Cattolica a confutazione delle menzogne e calunnie degli eretici e a correzione di metodo e di errori di alcuni autori cattolici. In quelle pagine descriveva la continua influenza dei Romani Pontefici nella Chiesa, il concatenarsi del loro intervento cogli avvenimenti mondiali più importanti, e tutti gli atti di ossequio coi quali fu riconosciuta la loro. [576] suprema giurisdizione. Si argomentava eziandio di rettificare le inesattezze, le omissioni, i fatti o le intenzioni travisate che pur troppo s'incontrano anche nelle opere più famose. D. Bosco condusse il suo lavoro, in quattro volumi, fino al principio del secolo XIX: e man mano che finiva di scrivere un quaderno lo trasmetteva al Ch. Bellia Giacomo perchè lo copiasse con bella scrittura. Così il Ch. Bellia trascrisse tutta questa storia, e della verità del fatto si disse pronto a dar giuramento: e aggiungeva in una lettera da lui scritta a D. Rua nel 1903 - “Parecchi dei nostri più antichi sacerdoti dubitarono che D. Bosco abbia composto la suddetta opera, perchè non hanno idea quanto D. Bosco vi faticasse attorno, essendo fuori dell'Oratorio, mentre viaggiava, o dettava missioni nei paesi e nelle città”.

                Egli non aveva premura di darla alle stampe, perchè desiderava che riuscisse, per quanto si poteva, una storia perfetta. Quindi recava sempre con sè que' suoi manoscritti, ed ogni momento libero impiegavalo nel leggerli, annotarli, e correggerli.

                Questa sua abitudine però fu cagione che andassero perduto tante fatiche. Nel 1862, nel tempo delle passeggiate cogli alunni, dimenticò una parte de' suoi scritti nel paese dove aveva pernottato. Era già lontano circa sei miglia quando si accorse di quella mancanza; e D. Savio Angelo ritornato ebbe la fortuna di trovarli e di riportarglieli. Ma non fu più così verso il 1870. Lasciato l'ultimo volume sul treno, per la fretta di scendere, D. Bosco se ne avvide solo dopo alcuni giorni, e riuscirono vane tutte le ricerche per ritrovarlo. Così il lavoro quasi finito rimase interrotto senza che D. Bosco potesse rifarlo, causa le continue faccende che si moltiplicavano. [577]

                A D. Bosco in vero dovette recare non lieve angustia la perdita di gran parte di un'opera così importante e che gli costava tanti anni di fatica; ma rassegnatosi pazientemente, prese a manifestare ai chierici il suo vivo desiderio, che alcuni di essi si rendessero capaci di compilare una storia della Chiesa, per raggiungere quello scopo che egli si era proposto. Assegnava loro due norme: ponessero un grande studio nello scrivere in stile piano, per tutto il popolo e per gli operai; si ispirassero alla più profonda venerazione verso la Sede Apostolica.

                Questo incarico lo aveva affidato specialmente a Don Bonetti Giovanni, il quale con D. Cerruti Francesco l'udì più volte esclamare: - Sono veramente indegnato del poco conto nel quale certi scrittori tengono il Papa. Ricordatevi che dobbiamo stringerci intorno a lui, e che la nostra salvezza sta solo col Papa e pel Papa. - E ripeteva loro eziandio: - Mi fa pena nel vedere certi storici della Chiesa, che scrivono di tante cose, ma così poco e non abbastanza bene del Papa. Bisogna che la figura del Papa risplenda di tutta la sua luce innanzi a tutto il mondo. Dicono alcuni che di certi Papi dei primi secoli si sa poco o nulla e quindi manca la materia per scriverne. Non è vero! Leggano i Bollandisti ed altre opere importantissime, che si conoscono solo pel titolo, e vedranno!... Quel che manca è la volontà di lavorare! Qualunque fatica è poca, quando si tratta della Chiesa e del Papato.

                E delle sue asserzioni D. Bosco dava una bella prova, incominciando a stampare le vite dei Papi dei primi tre secoli, intorno alle quali lavorava dal 1854. Voleva che il popolo venisse a conoscere i più antichi Pontefici; e quindi cercò tutte le possibili notizie intorno ai medesimi, [578] passò molto tempo nelle biblioteche pubbliche e private, e riuscì a mettere insieme preziose notizie di ciascuno di essi. Ne formò libretti destinati per le Letture Cattoliche, ed era sorprendente il modo col quale li scriveva. Molte volte, specialmente quando il tempo di dare il manoscritto alle stampe era vicino, chiamava qualcuno de' suoi chierici, lo conduceva al convito ecclesiastico di S. Francesco, e là in quella biblioteca, senza alcun libro davanti, dettavagli ciò che senza pur aver più tempo di rivedere, consegnava alle stampe. Eppure queste operette furono tenute in gran stima da molti dotti, fra i quali Mons. Tripepi, Prelato domestico di Pio IX ed ora Cardinale, che nella sua vita di S. Pio I cita varie volte le Letture Cattoliche che trattano del medesimo Pontefice, e definisce D. Bosco uomo dotto non meno che pio.

                Che fosse dotto, ne era prova la rapidità nello scrivere. Ricordandosi l'immensa farragine di volumi che avea letto e colla citazione esatta delle pagine, quando non poteva muoversi dall'Oratorio, avendo bisogno di consultare o incorporare ne' suoi scritti qualche tratto d'autore, scriveva in bigliettini il nome di vari autori, col titolo, dell'opera, il volume, il capitolo, la pagina. Quindi li dava ad un giovane o ad un chierico, il quale correva all'Università e gli portava tracopiati i brani che desiderava. Il primo giovane era appena partito che talora gliene mandava dietro un secondo, un terzo con simili biglietti. Il Prof. Peyron lo aiutava col più vivo interesse nel cercare nella biblioteca dell'Università i libri richiesti e nell'indicare ai giovani il tratto che dovevano copiare.

                Quanto alla sua pietà in questo lavoro ci narrava il Can. Anfossi: - Io parecchie volte scrissi sotto il sua dettato le vite dei Papi e dei Martiri loro contemporanei [579] e ricordo che egli attendeva a quest'opera con tanto raccoglimento, che pareva fosse intento all'Orazione. Incominciava sempre coll'invocazione dello Spirito Santo e finiva con un'azione di grazia; di guisa che tutto questo gran lavoro da lui compiuto, dimostrava con evidenza il suo zelo per il bene del prossimo, la gloria di Dio e il santo coraggio col quale faceva argine all'invasione degli eretici. Perciò questi fascicoli confermarono la fama di santità che già universalmente godeva e molti a lui venivano, anche fra gli acattolici, conoscendolo così profondamente erudito, per essere istruiti nella fede.

                Alcuni di questi libretti erano nuovi di sana pianta, altri erano stralciati dai manoscritti della sua storia universale, ma con aggiunte di molte postille e citazioni di autori. D. Bellia, che, anni dopo, vide questi secondi, vi riconobbe la propria scrittura, sicchè si persuase che li pubblicasse così stralciati dall'opera grande, anche a titolo di saggio, per sentirne le critiche de' maestri in istoria e servirsene nelle correzioni.

                Mentre componeva, egli raccontava ogni domenica, dopo la seconda messa, un tratto di quel suo lavoro sui Papi.

                “Ciò che formava l'argomento di interessantissimi trattenimenti, scrive D. Paolo Albera, era per lo più ricavato dai Bollandisti. Nessuna meraviglia perciò se i suoi alunni lo ascoltassero così attentamente e con immenso gusto. Non erano mai sazi di udirlo, benchè le sue prediche durassero quasi un'ora e mezzo. Nei dialoghi poi tra i Martiri e i loro persecutori, il predicatore era veramente insuperabile. E conciliava sempre stima ed affetto alla Santa Sede, illustrata dai Papi con azioni esimie e santificata col loro sangue. E non scendeva mai dal pulpito [580] senza avere interrogato qualche giovane, perchè da qualche fatto traesse la morale; e per vari anni interrogò specialmente il Ch. Roetti. Ordinariamente quando Don Bosco aveva finito di raccontare la vita di un Pontefice, o d'altro Santo le cui geste erano un'illustrazione del Papato, noi la vedevamo comparire in un fascicolo delle Letture Cattoliche, in cui rileggevamo con immenso piacere le cose udite nelle sue prediche”.

                Pel gennaio adunque del 1857 il fascicolo delle Letture Cattoliche, uscito dai tipi di Paravia, era intitolato: Vita di S. Pietro Apostolo, principe degli apostoli, primo Papa dopo Gesù Cristo, per cura del sacerdote Bosco Giovanni. Ogni capitolo finisce con una massima scultoria che imprime nel cuore di chi legge l'amore alla Chiesa, e il libro si conchiude con un appello ai protestanti, perchè ritornino all'ovile di Gesù Cristo. Così D. Bosco farà eziandio nei seguenti opuscoli da lui scritti intorno ai Papi. Come appendice vi aggiunse l'operetta del Teol. Marengo Professore di Teologia, stampata nel 1855 sotto il titolo di Viaggio di S. Pietro a Roma, nella quale questo punto storico importantissimo è dottamente provato.

                Per la vita di S. Pietro D. Bosco scriveva la seguente prefazione:

 

                Più volte ho tra me pensato al modo di calmare l'odio e l'avversione che in questi tristi tempi taluno manifesta contro ai Papi e contro alla loro autorità. Mezzo molto efficace mi sembrò la conoscenza dei fatti che riguardano la vita di quei supremi pastori stabiliti a fare le veci di Gesù Cristo sopra la terra e a guidare le nostre anime per la via del Cielo. - Io penso, diceva tra me, non trovarsi tanta malignità nell'uomo ragionevole da essere avverso a coloro che hanno fatto ai popoli tanto bene spirituale e temporale; che hanno tenuto una [581] vita santa e la più laboriosa; che furono sempre venerati da tutti i buoni e in tutti tempi e che spesso per promuovere la gloria di Dio e il vantaggio del prossimo difesero la religione e la propria autorità col loro sangue.

                Egli è con questo pensiero, o cattolico lettore, che ho divisato d'intraprendere il racconto delle azioni dei Sommi Pontefici che da Gesù Cristo governarono la Chiesa fino ai nostri giorni. Cominciando pertanto da S. Pietro, stabilito primo Papa da Gesù Cristo medesimo, scenderemo senza più a' suoi successori limitandoci a fare quelle necessarie osservazioni di cui il racconto ci porgerà occasione.

                S. Pietro è quell'apostolo che il Salvatore medesimo chiamò beato, e che ha ricevuto le chiavi del regno de' Cieli con autorità di sciogliere e legare in guisa che, di regola ordinaria, le sue sentenze avrebbero dovuto precedere quelle di Dio; quell'apostolo, cui Gesù comandò di mantenere nella fede i suoi fratelli ordinandogli di dare alle sue pecore, che sono i Pastori della Chiesa, ed a' suoi agnelli, che sono tutti i fedeli, quel pascolo che sarebbe stato necessario pel loro bene spirituale ed eterno; egli è insomma quell'apostolo cui Gesù Cristo deputò a governare la Chiesa, e che la governò difatti dopo la gloriosa Ascensione del Salvatore al Cielo.

                Ma l'autorità di Pietro, secondo le parole del Salvatore, doveva mantenersi visibile fra gli uomini sino alla consumazione de' secoli, e poichè S. Pietro era uomo, e come tale doveva pur cessare di vivere, quindi per legittima conseguenza dovevasi trasmettere a' suoi successori (i Sommi Pontefici) quella stessa autorità che egli aveva da Cristo ricevuta. E di questi pure faremo seguire la vita a quella del primo Pontefice San Pietro.

                Siccome un figlio deve essere naturalmente portato ad ascoltare con piacere le gloriose azioni di suo padre, così noi, come figliuoli spirituali di S. Pietro e de' suoi successori, dobbiamo godere assai nell'animo nostro nel leggere le azioni gloriose di questi sommi uomini, che da diciotto secoli governano la Chiesa di Gesù Cristo.

                Debbo però premettere che io scrivo pel popolo, epperciò allontanando ogni ricercatezza di stile ogni dubbia od inutile [582] discussione, mi studierò di ridurre lo stile e la materia a tutta quella semplicità che comporta l'esattezza della storia, congiunta colla teologia e colle regole di nostra italiana favella. In quanto poi ai fonti da cui ricavo le notizie, posso assicurare il lettore che non scriverò parola, non esporrò un fatto senza confrontarlo, se è possibile, cogli autori contemporanei, o almeno più vicini ai tempi cui si riferiscono gli avvenimenti. E per non tessere qui un catalogo degli autori dei quali m'occorre di servirmi, procurerò di accennare i principali di mano in mano che la materia me ne porgerà l'occasione.

                Ho poi procurato di ridurre i fascicoli in modo che ciascheduno contenga argomenti compiuti e da potersi ad altri donare senza interruzione di materia. Per quelli poi che desiderassero di serbare la serie separata dagli altri delle Letture Cattoliche, si noterà con una lettera dell'alfabeto l'ordine progressivo di ciascun fascicolo che tratti delle azioni dei Papi e delle cose ai loro tempi avvenute.

                Mentre poi dal canto mio prometto di non risparmiare nè fatica, nè sollecitudine perchè riesca esatto quanto sono per iscrivere, non posso a meno di rivolgermi ai ministri dell'altare, ed a quelli tutti che esercitano qualche influenza nei popoli cristiani, affinchè vengano in mio aiuto per diffondere questi libretti in quei luoghi e tra quelle famiglie presso le quali ne scorgeranno uno special bisogno.

                I tempi corrono assai calamitosi per la nostra santa religione, i nemici dei cattolicismo spendono ingenti somme di danaro, intraprendono lunghi viaggi, sopportano gravi fatiche per diffondere libri immorali e contrari alla religione; e noi per salvare le anime non ci daremo almeno quelle sollecitudini che con tanto ardore altri si danno per condurle alla perdizione?

                Iddio misericordioso infonda nel cuore di tutti vivo desiderio della salute delle anime, e ci aiuti a mantenerci costanti nella fede di Pietro, che è quella di Gesù Cristo, e così a camminare per quella strada sicura che ci conduce al Cielo. Così sia.

 

                Su questo fascicolo l'Armonia del I° febbraio emette il seguente giudizio: [583]

                “Crediamo che per il tempo che corre non sianvi libri più utili, anzi necessari di quelli che parlano dell'autorità del Sommo Pontefice. Imperocchè vediamo che da ogni lato i nemici della cattolica religione, sotto mille e svariati aspetti, tutti s'accordano ad assalire e battere in breccia il Papato. E siccome si fa di tutto dai nemici della Chiesa per insinuare nel popolo le medesime massime antipontificie, così è necessario che anche da questo lato si amministri l'antidoto, ove si propina il veleno. Quell'instancabile uomo del Signore che è il Sacerdote Giov. Bosco, pensò con grande opportunità di ovviare al danno che ne viene al popolo dai pessimi librucci e giornaletti, imprendendo a dettare la vita dei Sommi Pontefici in modo adatto alle più rozze menti: e cominciò, come è dovere dalla Vita di S. Pietro, la quale forma il fascicolo XI dell'anno IV delle tanto benemerite Letture Cattoliche. È  un libretto di pag. 180, il quale oltre alla vita del Principe degli Apostoli in ventinove capitoli, contiene un'appendice sulla venuta di S. Pietro in Roma. Quest'appendice ci somministra in compendio tutto ciò che su questo punto gravissimo venne detto dai SS. Padri, dagli scrittori cattolici e dai Protestanti stessi: a segno che oggimai è follia il voler rivocare in dubbio la venuta di San Pietro in Roma. L'autore con buon divisamento ordinò in modo il libretto che possa poi essere continuato in susseguenti fascicoli, anche per coloro che non fossero associati alle Letture Cattoliche. Il libro di D. Bosco non abbisogna di raccomandazioni. Piuttosto ci volgeremo ai buoni cattolici benestanti, invitandoli a procacciarsi in copia questi libretti per poterli spargere nel popolo affine di rimediare, o prevenire i danni de' pessimi libri dei protestanti e di certi così detti cattolici peggiori dei protestanti”.

 

 

CAPO XLVII. Dispute coi Protestanti - La setta di Andrea Towianski - Letture Cattoliche: DUE CONFERENZE TRA DUE MINISTRI VALDESI ED UN PRETE CATTOLICO INTORNO AL PURGATORIO - Indirizzo di D. Bosco agli associati delle Letture Cattoliche.

 

                UN altro fascicolo aveva scritto D. Bosco per le Letture Cattoliche del febbraio, del quale è conveniente fare un po' di storia.

                D. Bosco era indefesso nel difendere la verità cogli scritti, ma più sovente col sostenere dispute cogli avversari della Chiesa, i quali non si stancavano di assalirlo. Pareva che obbedissero ad una tattica prestabilita. Primi comparivano i gregari della setta valdese, e quindi si muovevano i loro ministri e pastori. Una di tali questioni agitavasi in questi ultimi mesi.

                Alcuni protestanti eransi più volte recati da D. Bosco affine di iniziare dispute con lui intorno a diversi argomenti religiosi. In generale le loro discussioni consistevano nel gridar forte e saltar di questione in questione senza mai venire a termine di alcuna. Qualora fossero ridotti a qualche punto conclusivo, da cui non potessero allontanarsi, per lo più solevano dire: - Noi nonsap piamo [585] rispondere a queste difficoltà, perchè non abbiamo studiato abbastanza; ma se ci fosse mai il nostro Ministro! Egli è un'arca di scienza; egli con due parole fa tacere tutti i preti.

                - Ditegli che venga egli stesso, replicava loro Don Bosco; venga, e se saprà confutare le ragioni che dimostrano la verità della religione cattolica e sostenere con sodi argomenti gli errori dei riformatori, merita la gloria di essere chiamato uomo dotto. Ma io temo che egli non sia per venire.

                - Noi temiamo che egli sia per ricevere qualche sgarbatezza, altrimenti siamo sicuri che verrebbe...

                - No, miei cari, ditegli che venga con tutta tranquillità; egli mi farà un vero piacere; assicuratelo che sarà trattato da amico. Se non potranno essere accolte le sue ragioni, sì serberà ciò nonostante tutto il rispetto per la sua persona. - Il Ministro dal canto suo aveva più volte fatto intendere che sarebbe venuto, ed aveva stabilito il giorno e l'ora; ma la sua comparsa non aveva ancora avuto luogo. Finalmente un giorno viene con due suoi amici: si fa annunziare, entra nella camera di D. Bosco, e in modo gentile e cortese incomincia a parlar così: - Salute, signor Teologo, tollerate con pazienza questa visita; siamo venuti per disturbarvi.

                D. Bosco garbatamente rispose: - Benvenuti, signori, venite pure avanti; mettetevi a sedere. In quale cosa potrei rendervi servigio?

                E il Ministro: - Siamo qua per chiacchierar un poco. Vennero più volte da voi alcuni nostri allievi, i quali s'inoltrarono in certe questioni, cui a dir vero non erano in grado di sostenere. Mi hanno detto che voi avreste desiderato di fare le medesime difficoltà al loro Ministro: [586] ora egli è venuto ed è quel medesimo che parla. È  mia precisa intenzione che voi facciate quelle gravi osservazioni, cui nessuno, come mi riferirono, può dare la debita risposta.

                Tutti sedettero, e la disputa si aggirò sul Purgatorio, in termini cortesi, e sul finire parve che la verità si facesse strada nell'animo dei dissidenti.

                Mentre però D. Bosco cercava di persuadere i Valdesi, un'altra rea setta lavorava di nascosto per sedurre i cattolici. Andrea Towianski, settario polacco, dopo aver atteso al magnetismo e alle scienze occulte sotto la disciplina di certi rabbini, dicendosi profeta e inviato dal cielo, esercitava un potere quasi magico sopra coloro che lo avvicinavano. Egli negava la creazione del mondo, la grazia, il peccato originale, il libero arbitrio, il merito delle, opere buone, la divinità di Gesù Cristo, i sacramenti, il sacerdozio; ed insegnava altre eresie, quale la metempsicosi o trasmigrazione delle anime dopo morte di corpo in corpo. Ma per ingannare i semplici che avrebbero avuto in orrore dottrine così empie ed immorali, sapeva paliarle con un misticismo popolare, con frasi convenzionali; e diceva molte belle parole in lode di Gesù Cristo.

                Venuto in Torino nel 1840, traeva in inganno un certo numero di persone erudite e anche pie. La Santa Sede avevalo già condannato nel 1850 e il Tribunale Ecclesiastico della Curia di Torino avevagli istituito il processo nel 1854, riprovando i suoi errori. Alcuni illusi si erano ritrattati, altri però si ostinarono, e si recavano talora a visitare il Towianski, che dimorava nella Svizzera.

                D. Bosco pertanto preoccupato perchè in Torino parecchi sacerdoti e varie famiglie avevano aderito alle dottrine di costui, che negavano anche l'esistenza del [587] Purgatorio, si ingegnò al fine di porre riparo a tale scandalo, e di far scomparire una setta incipiente che finora non teneva adunanze pubbliche. Il Teol. Maurizio Arpino, Curato della parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo, narrava al Can. Anfossi quest'altra opera dello zelo di D. Bosco, che condotta con prudenza non menò rumore. D. Bosco infatti, informatosi del progresso di quel male, per raddrizzare le idee false, si recò a visitare vari dei più influenti fra questi illusi. Quindi di buon proposito, come asserì il Teol. Arpino, che gliene aveva dato consiglio, si adoperò a confermare colle stampe i vacillanti nella credenza sul Purgatorio, essendo allora questo il dogma che era messo in dubbio, in maniera più aperta. D. Bosco perciò scrisse quanto aveva detto nei colloqui coi Ministri Valdesi su tale argomento. A questo modo rispondeva con un solo libretto alle obbiezioni dei seguaci di due sette, libretto che usciva poi nelle Letture Cattoliche di febbraio. Lo intitolò: Due conferenze ira due ministri protestanti ed un prete cattolico intorno al Purgatorio e intorno ai suffragi dei defunti, con appendice sulle liturgie, per cura del Sacerdote Bosco Giovanni. Il tipografo Paravia ne aveva fatto la stampa, e con questo fascicolo compivasi il quarto anno delle Letture Cattoliche.

                Ecco la prefazione del libro:

 

AL LETTORE CATTOLICO,

 

                Nel pubblicare queste due Conferenze debbo pregare il lettore, di non indagare nè il sito nè il nome delle persone tra cui hanno avuto luogo. Le ragioni che mi inducono a non pubblicare i nomi degli individui sono molte, e fra le altre avvi anche quella che essendone stato di ciò richiesto, ho promesso di compiacerli. Del resto quanto vi si legge è fatto storico. Nell'esporre però la materia ho giudicato bene di far due cose: ho modificato alcuni [588] modi di parlare degli avversari, per conformarli a quanto dicono altri protestanti ne' loro scritti.

                Ma le difficoltà si esposero sostanzialmente come furono fatte. Solamente per la lunghezza della conferenza essendosi più volte dette le medesime cose e talvolta ripresi i medesimi argomenti, mi son fatto lecito di seguire ordinatamente la serie delle materie poste in questione, senza tener conto delle ripetizioni. Ho pure stimato bene di omettere alcune espressioni, le quali per essere o sconce o disdicevoli alle cose sacre, potrebbero cagionare pena, all'animo divoto dei nostri lettori.

                Se gli argomenti addotti non avranno esausta la materia sull'esistenza del Purgatorio, avranno almeno abbastanza chiaramente espresso e provato quanto sia fondata e certa la dottrina della Chiesa Cattolica intorno a questo dogma.

                Comprendo che alcune delle cose ivi trattate sono alquanto, superiori alla capacità del popolo per cui particolarmente scrivo; al che mi sono studiato di supplire colla chiarezza e colla popolarità con cui spero di aver sciolte le difficoltà opposte. Altronde è bene che tutti sappiano quanto dicono i nemici della fede contro al Purgatorio, e quanto siano deboli gli argomenti che gli uomini più eruditi tra i protestanti sono in grado di opporre alla chiarezza delle verità cattoliche.

                Leggi, o lettore, per tua salutare istruzione e nel leggere ti unisci con me a pregare Iddio misericordioso che ci doni forza e grazia da vivere in modo che dopo la morte possiamo scampare la gravezza delle pene del Purgatorio e volare immediatamente alla gloria dei beati in cielo.

 

                A questo fascicolo andava unita la seguente circolare:

 

                               La Direzione ai Benemeriti Corrispondenti ed ai Signori Associati.

 

                Nel chiudere col presente fascicolo il quarto anno delle nostre popolari pubblicazioni le Letture Cattoliche, ci sentiamo un vero bisogno di indirizzare alcune parole agli illustri e benemeriti Corrispondenti ed ai signori Associati.

                Non avevamo certamente bisogno di minore incoraggiamento degli uni e degli altri per poterci sostenere e progredire in mezzo [589] ai continui sacrifizi, cui avemmo a sottostare in questi anni critici per tutti.

                Mentre pertanto pieno il cuore di riconoscenza ringraziamo umilmente la Divina Provvidenza di aver benedetto le nostre povere ed umili fatiche, sentiamo pure il dovere di esternare pubblicamente i sentimenti della più viva nostra gratitudine ai signori Corrispondenti di tutte le cure, di tutte le sollecitudini, che si diedero per la propagazione delle Letture Cattoliche, senza badare alle noie, ai disturbi, avendo unicamente di mira il vantaggio del popolo, questa cara ed interessante parte della società per la quale noi scriviamo; e per la maggior gloria di nostra Santa Religione.

                Ringraziamo gli Associati i quali col loro obolo concorsero a sostenere quest'opera, la quale sebbene umile per se stessa, non è però meno importante di qualunque altra clamorosa pubblicazione. Non si tratta qui di speculazione libraria, nè di alcun materiale interesse; essa è opera di zelo, è opera di carità religiosa e sociale, è opera tutta morale.

                Si tratta d'istruire e di raffermare i buoni ne' principii del cattolicismo, di illuminare e attirare con quella affabilità, con quella dolce carità, che era propria e caratteristica del nostro divin Maestro, i traviati alla pratica dei doveri religiosi. Un ardente desiderio di fare qualche poco di bene, o almeno di impedire qualche male è il solo ed unico scopo delle nostre fatiche. Ora chi sarà tra i buoni e facoltosi colui il quale voglia rifiutarci il suo efficace concorso ed aiuto?

                Oh! nessuno, ne siamo certi, nessuno negherà di cooperare con noi, e portiamo anzi sicuranza, che se nel corso di quattro anni abbiamo potuto seminare e porre in mano del popolo oltre a settecentomila fascicoli delle Letture Cattoliche, in più breve tempo potremo, mediante il loro concorso, raddoppiarne il numero, specialmente in vista del grande bisogno prodotto dai tempi che corrono.

                Le associazioni o società protestanti si gloriano di spargere fra i cattolici a milioni a milioni i loro opuscoli, i loro scritti corrompitori della fede e dei costumi, e noi cattolici vorremo lasciarci vincere? permetteremo che in mezzo a noi venga adulterata la nostra fede, maltrattata la nostra santissima Religione, perduta la moralità, senza che ci adoperiamo con ogni sforzo a fine [590] di porvi un argine, una barriera, per impedire tanto male? In noi poco fidiamo perchè deboli, ma tutta la nostra speranza dopo Dio è posta nell'illustre Episcopato, splendore e gloria del Cattolicismo in Piemonte; a Lui perciò ci rivolgiamo, sotto la cui protezione fin dal suo nascere abbiamo posta questa nostra popolare pubblicazione, e umili io supplichiamo a voler degnarsi di sostenerci co' suoi consigli e co' suoi suffragi.

                Preghiamo caldamente i signori Parrochi, nelle mani de' quali eziandio sta in gran parte l'esito felice delle Letture Cattoliche, perchè le promuovano nelle loro parrocchie e facciano sì che ogni famiglia sia associata.

                Supplichiamo i signori Corrispondenti già tanto benemeriti, a volersi adoperare per dilatarle sempre più, ed a farle conoscere ove non lo siano. Finalmente ci raccomandiamo ai signori Associati di rinnovare il loro abbonamento e di procurare che si associno i loro parenti, i loro amici, affinchè maggiore sorta quel bene per cui tutti ci adoperiamo, e tutti fondatamente speriamo ampia mercede dal nostro buon Dio.

 

                NOTA. - La Direzione ha tenuto conto di tutti i consigli e suggerimenti, che tanto gli associati quanto i corrispondenti e gli amici le porsero per quei miglioramenti che sono possibili d'introdurre, sia nella pubblicazione dei fascioli, sia riguardo la materia a trattarsi: la medesima sarà sempre riconoscente a coloro che le faranno amichevoli osservazioni.

                Preghiamo caldamente quei signori associati i quali non leggono i fascicoli o per mancanza di tempo, o per la semplicità della materia che trattano, di non tenerli inoperosi nei loro scaffali, ma bensì di passarli alle mani di coloro che non possono o non vogliono associarsi, ma cui però potrebbero esser utili, essendo ancora più facile che la lettura delle cose semplici possa colpire e portare al bene i lettori.

                Intanto annunciamo che d'or innanzi non si pubblicheranno più fascicoli doppi ossia serventi per due mesi. Ma in ogni mese si darà un fascicolo, qualunque sia per esserne la mole.

                Le domande di associazioni possono farsi o alla Direzione delle Letture Cattoliche, Via S. Domenico n. II in Torino o nelle province presso i signori Corrispondenti dei quali si dà l'elenco.

 

 

CAPO XLVIII. Alcune pubblicazioni di D. Bosco - AVVISI ALLE FIGLIE CRISTIANE - LA CHIAVE DEL PARADISO - IL GALANTUOMO - I quindici misteri del Rosario - Aggiunte importanti al GIOVANE PROVVEDUTO.

 

                PRIMA di entrare colle nostre Memorie nel 1857, daremo uno sguardo ad altro e molto bene che D. Bosco operò nel 1856 con fogli volanti e libri, dei quali non abbiamo ancor fatto cenno.

                Il tipografo Paravia avevagli ristampato: 6.000 copie della Maniera facile per imparare la Storia Sacra e 3.000 della Vita di S. Pancrazio, seconda edizione; nel luglio 4.000 copie degli Avvisi alle figlie cristiane, che D. Bosco diffondeva predicando missioni nei paesi, o esercizi spirituali negli Istituti; e sono forse quelli stessi che furono inseriti nel Porta - teco cristiano, stampato poi nel 1858. Nello stesso tempo pubblicava copie 6.000 di una prima edizione, finita allora di comporre, che portava il titolo: La chiave del paradiso in mano al Cattolico che pratica i doveri del buon. Cristiano, pel Sac. Giovanni Bosco.

                L'autore così dà ragione dell'Opera sua: [592]

 

AL BENEVOLO LETTORE.

 

                Questo libretto è intitolato La Chiave del Paradiso, perchè qualsiasi cristiano che sappia, creda e pratichi quanto ivi si contiene può essere sicuro di sua eterna salvezza. Quivi troverai, o lettore divoto, un compendio delle verità della fede cattolica e il modo di praticare i più essenziali esercizi di cristiana pietà con una scelta di Laudi sacre.

                Ogni cosa fu ricavata dai più accreditati autori; io feci solamente quelle aggiunte e variazioni che parvero necessarie od opportune per l'intelligenza popolare.

                Intanto uniamoci tutti a pregare Iddio misericordioso affinchè conduca tutti gli uomini del mondo alla conoscenza della cattolica religione, sola ed unica religione di Gesù Cristo fuori di cui niuno può salvarsi.

                Noi poi che abbiamo la bella sorte di trovarci in grembo alla vera Chiesa, diamoci la massima sollecitudine per sapere, credere e praticare quanto questa nostra Madre pietosa a nome di Dio comanda.

                Così facendo quanti cristiani seguiranno il nostro esempio!

                Quanti lasceranno la strada del male per darsi alla virtù! Quante anime persevereranno nel cammino che conduce all'eterna salvezza! Qual grande ricompensa non sarà per noi riserbata da Dio in Cielo!

 

                Noi riportiamo questa prefazione per far notare come D. Bosco con rara umiltà, così nella presente, come in altre sue opere, soglia non di rado attribuire ad altri autori il merito del suo lavoro, affermando candidamente aver egli attinto, anzi quasi tracopiato da essi quanto egli scrisse. Ma questa confessione talora è vera, talora esagerata, e molte volte non è ammissibile, perchè se ha fatte sue le idee di altri dopo essersele ridotte in succo e in sangue, le ha rivestite però di nuove forme. [593] La Chiave del Paradiso è modellata sul Giovane Provveduto, seconda edizione; ma siccome il nuovo libro è scritto per la comune de' fedeli adulti, vi tolse quanto riguarda la gioventù, qualche nota storica, alcune pratiche di pietà; e con grande riflessione e pazienza rese più concisi molti periodi di varie orazioni. Alla prima parte sostituisce un compendio di ciò che un cristiano deve sapere, credere e praticare, seguendo l'ordine del catechismo; aggiunge un magnifico ritratto del vero cristiano; e con pensieri sopra l'eternità, porge argomenti di seria riflessione che penetrano l'anima. Alla materia che forma la seconda e terza parte toglie la corona all'Addolorata, l'esercizio di divozione al S. Angelo Custode, i vespri de' morti, ciò che si canta nelle messe dei vivi e dei defunti; aggiunge un'orazione per conservare il dono della fede, e molte giaculatorie da recitarsi lungo il giorno, ricche di indulgenze. Non omette però i vespri comuni degli Uffizi della Domenica e della Madonna. In fine vi stampa i Fondamenti della cattolica religione, come aveali ampliati per la terza edizione del Giovane Provveduto, che stava allora componendo e che sono gli stessi ora da noi posseduti in questo prezioso libro. La Chiave del Paradiso ottenne un grande spaccio e in quaranta e più edizioni si ebbero circa 8oo.ooo copie diffuse tra i fedeli. È  un volumetto di 496 pagine con caratteri grossi quali piacciono al buon popolo e in specie alla gente di campagna.

                Aveva eziandio fatto stampare dal tipografo De Agostini l'almanacco Il Galantuomo pel 1857, che doveva servire per strenna e augurare il buon Capo d'anno agli associati delle Letture Cattoliche. In queste pagine descriveva il trionfo della religione nell'esercito e nella flotta francese nel tempo della guerra di Crimea, poichè [594] l'impresa era stata posta dall'imperatore Napoleone III sotto la protezione di Maria SS.; i cappellani rimessi nei reggimenti, sulle navi, negli ospedali militari, che dánno prova di mirabile eroismo sacerdotale; l'imperatrice Eugenia che regala di sua mano ai generali la medaglia miracolosa, la quale nella battaglia salva la vita al generale Canrobert; i soldati moribondi o pel coléra o per le ferite, che invocano i cappellani, i quali accorrono e li riconciliano con Dio; le Suore della Carità che operano meraviglie; i sentimenti cristiani e le manifestazioni di fede, il coraggio nei combattimenti dei prodi figli della Francia.

                Consacra quindi una pagina all'Esercito Sardo: afferma che la maggior parte dei nostri soldati prima di partire per la Crimea vollero confessarsi, comunicarsi e mettersi al collo la medaglia della Madonna; ricorda le loro geste valorose, la morte gloriosa dei generali Ansaldi e La Marmora, del colonnello di Montevecchio, del capitano dì San Marzano; ma si dice angustiato perchè non siasi ancora fatta una genuina relazione di quei fatti particolari e luminosi, i quali, mentre torneranno sempre a maggior decoro del nome sabaudo, che ci gloriamo di portare, riveleranno altresì le convinzioni religiose degli ufficiali e soldati, i quali morendo esclamavano: - Se si ha da morire, si' muoia Per la patria, per il Re, ma nella Religione santa in cui siamo nati, cresciuti, cogli spirituali conforti di Lei che ci salvino, col Patrocinio della SS. Vergine che inspira tanta fiducia ai Piemontesi soldati. E il Governo infatti aveva mandato fra di loro in Crimea sei sacerdoti dei missionari di S. Vincenzo de' Paoli e settanta Figlie della Carità italiane, delle quali dieci con un missionario vi lasciarono la vita per malattie infettive dopo aver faticato e patito molto nell'assistere i feriti e gli ammalati. [595]

                A questi ricordi interessanti faceva seguito un lungo articolo sopra alcune superstizioni popolari. È un parroco che assiste ad una veglia invernale di contadini nella stalla, dove viene interrogato da questi perchè dia spiegazione di certe credenze, ubbíe od errori, che paiono confermati da certi fatti, dei quali espongono la narrazione: si tratta di pratiche di pietà alle quali si attribuisce virtù di liberare infallantemente da ogni male; del sale versato sulla tavola, segno di imminente disgrazia; del numero 13 e del gemito della civetta, pronostici di morte; del venerdì, giudicato giorno nefasto; dell'avvenire che vuolsi indovinare osservando la prima persona che s'incontra uscendo di casa nella festa della Circoncisione; dei sogni che dánno i numeri del lotto; delle megère che annunziano il futuro; dei fuochi fatui che inseguono la gente, supposti anime vagolanti del purgatorio. E il buon prevosto con ragioni, con arguzie, con rimproveri scherzevoli, con ammonimenti, e sovratutto citando il catechismo, sfata e condanna ad una ad una le suddette superstizioni e vane credenze, dimostrandole eziandio contrarie alla legge di Dio.

                D. Bosco con questo trattenimento rendeva un segnalato servigio al popolo, il quale però in Italia è meno superstizioso di quello d i altre nazioni per gli ammaestramenti del Clero Cattolico.

                Il Galantuomo terminava con una poesia piemontese: Meist Tomà '1 Pastisse, Maestro Tommaso il Pasticcere.

                D. Bosco però oltre al Galantuomo volendo regalare a' suoi giovani artigiani interni ed esterni un altro almanacco che loro sapeva accetto, comprò, nel novembre, 1000 copie di quello degli artisti, che era un foglio in 32, stampato esso pure dal tipografo Paolo De Agostini. [596] In questo stesso mese faceva stampare su doppio foglio dal litografo Giuseppe Cattaneo i quindici misteri del Rosario. D. Bosco pesava parola per parola quanto scriveva. Era al Convitto col Teol. Golzio e correggeva l'esposizione di questi misteri, Al terzo gaudioso, giunto alle parole: “Si contempla come la Vergine SS…..” si volse al Teologo e lo interrogò: - Diede alla luce? - Può andare! disse D. Golzio. D. Bosco pensò e poi soggiunse:

                - Nacque da Maria Vergine? - e dopo aver ripensato disse ad un chierico che era in sua compagnia: - Nota: Si contempla come il nostro Redentore nacque nella città di Betlemme.

                Ma il lavoro che gli diede eziandio non lieve occupazione, e non per breve tempo, fu quello di riordinare il Giovane Provveduto coll'aggiungervi ciò che reputava necessario per lo sviluppo crescente della sua Istituzione. E ciò fu. La novena e l'atto di consecrazione a Maria Immacolata; l'articolo: La più bella delle virtù; la preghiera con cui S. Luigi Gonzaga si dedicava a Maria; istruzioni più diffuse intorno al modo di confessarsi e comunicarsi; la formola per fare la comunione spirituale; il giovane nella scelta dello stato e i mezzi per conoscere la propria vocazione; il giovane fedele alla sua vocazione; preghiera alla Beata Vergine per conoscere la propria vocazione; pratica quotidiana, mensile, e per ogni giorno della novena di S. Francesco di Sales; l'ufficio dei morti e l'atto eroico di carità in suffragio delle anime del purgatorio e il modo di poter acquistare molte indulgenze e finalmente ciò che si canta nella benedizione delle campagne

                Avendo in animo d'istituire la compagnia di S. Giuseppe per gli artigiani, vi stampava eziandio la pratica [597] dei sette dolori e delle sette allegrezze di S. Giuseppe ed una preghiera allo stesso Santo per ottenere la virtù della purità; poi nel 1868 completava definitivamente il suo libro colla novena di Maria SS. Ausiliatrice e vi aggiungeva un bel numero di laudi sacre in onore di Gesù, di Maria e dei nostri speciali Patroni. Qua e là sparse notizie storiche sull'origine di certe divozioni.

                Il bene che D. Bosco operò con questo libro è incalcolabile. Chi può numerare i giovanetti che guidò all'Oratorio, le conversioni che promosse, le vocazioni allo stato ecclesiastico e religioso, delle quali gettò il seme e poi fiorirono robuste e incrollabili, le virtù di perfezione cristiana che fece allignare nei cuori?

                E di ciò non è a far le meraviglie poichè dalle pagine del Giovane Provveduto spira tanta carità, dolcezza e persuasione che si fa amare dal lettore. Diremo che abbiano quasi l'unzione del S. Vangelo. Il Rev. Signore Luigi Albera prete della Missione, Superiore a Finale, voleva che tutti gli anni si leggessero ai giovani del collegio di Scarnafigi le sette meditazioni per i giorni della settimana ed esclamava: - Oh! come sono belle! quanto bene producono! Oh, perchè D. Bosco non ne ha scritte di più! quale furtuna se, invece di sette, fossero settantasette!

 

 

CAPO XLIX. 1857 - Lettera di Mons. Charvaz - Una nuova e grande lotteria -La Commissione - Malattia del fratello di D. Bosco - D. Bosco a Genova - Progetti di unione fra l'opera di D. Bosco e quella di D. Montebruno - A Fassolo - Circolare per i Patroni della lotteria - Spirito delle lettere di D. Bosco e sua facilità nello scriverle.

 

                DON Bosco aveva deciso di recarsi a Genova; e prima delle feste natalizie si faceva precedere da un segno di omaggio che mandava a quel dotto ed amorevole Arcivescovo. Monsignor Charvaz così gli rispondeva:

 

                               Signor D. Bosco,

 

                La ringrazio sinceramente della Storia d'Italia che V. S. ha pubblicata, e che ebbe la bontà d'inviarmi. Non dubito punto che essa corrisponda alle eccellenti di Lei intenzioni ed all'aspettazione di tutti coloro che le conoscono. La farò esaminare e conoscere nei miei seminari.

                Approfitterò della prima occasione favorevole che mi si presenterà per raccomandare le sue eccellenti Letture Cattoliche, la cui utilità ed importanza io apprezzo molto. [599] Mille grazie dei suoi auguri per le Feste natalizie, che mi tornarono oltremodo graditi; a mia volta Le offro anche i miei voti più cordiali. Li accompagno colle mie preghiere perchè Iddio La colmi delle sue benedizioni, Le conservi la sanità per la sua gloria e pel bene della religione. Lo prego di continuare a benedire lo zelo attivo e santo che V. S. impiega nell'istruzione e santificazione della gioventù.

                Co' miei auguri riceva l'espressione della particolare stima e del religioso rispetto col quale mi professo

                Di V. S.

                Genova, il I del 1857.

Umil.mo ed Obb.mo Servitore

 ANDREA Arcivescovo di Genova.

                (Traduzione dal francese).

 

 

                Diversi ed importanti erano i motivi che consigliavano a D. Bosco un viaggio in Liguria. D. Francesco Montebruno aveva fondata in Genova l'opera degli Artigianelli, e all'ultimo piano preso a pigione, di una casa privata, nel vicolo detto Canneto lungo, ricoverava quaranta giovanetti, i più poveri e abbandonati della città. La somiglianza della vocazione, dei cuori e della benefica intrapresa destò reciproca affezione tra D. Bosco e D. Montebruno. D. Bosco lo ammirava e sovente parlava di lui ai giovanetti dell'Oratorio. I due uomini del Signore si erano scambiate lettere, formando il progetto di prestarsi l'un l'altro appoggio, di unire in una sola le due istituzioni, e così perpetuare anche dopo morte il bene iniziato a favore di tanti derelitti.

                Estranea a questa gita non era certamente la maggior diffusione delle Letture Cattoliche in quelle parti, e forse anche il disporre per lo spaccio dei biglietti di una nuova lotteria, per la quale D. Bosco aveva chiesta la necessaria autorizzazione. Questa doveva riuscire più grandiosa [600] delle precedenti. Egli mirava anzitutto di porgere ad un maggior numero di fedeli la propizia occasione di compiere un atto di carità esimia, o coll'offrire doni o collo smerciare biglietti, e per tal guisa procacciare loro più ricca corona di merito e a Dio maggior gloria ed onore; in secondo luogo intendeva di risparmiare alquanto la borsa dei soliti suoi benefattori, affinchè potessero erogare limosine a sollievo altresì di tante altre miserie di Torino e del Piemonte; e infine procurarsi il fondo necessario per soddisfare i debiti della fabbrica, a dispetto del nemico d'ogni bene, che invece di guadagnare veniva a perderne e pel moltiplicarsi delle opere buone, e per l'accrescersi degli atti di amore verso Dio e verso il prossimo.

                Pertanto il 4 di gennaio D. Bosco tenne una radunanza con vari nobili personaggi per scegliere una Commissione promotrice, che assumesse la direzione e la responsabilità della prefata lotteria, e il giorno 8 così scriveva al Conte Pio Galleani d'Agliano: “Domenica Ella non potè venire a casa del sig. conte Cays, tuttavia nol lascio fuori dai promotori della nostra lotteria. È  un'opera di carità, e ciò basta per Lei. Fra pochi giorni sarò con Lei alle cinque della sera. Il Signore benedica Lei e tutta la sua famiglia, e mi creda in nomine Domini, sempre con gratitudine ecc.”

                Il conte d'Agliano volentieri annuì alla proposta di D. Bosco; ed a varie simili letterine avevano risposto affermativamente anche altri signori, sicchè la Commissione della lotteria venne così costituita:

 

                Cays di Giletta Conte Carlo Presidente.

                Bianco di Barbania Barone Giacinto Vice - Presidente.

                Galleani d'Agliano Cav. Lorenzo Segretario. [601]

                Scarampi di Pruney Marchese Ludovico Direttore della Lotteria.

                Cotta Cav. Giuseppe Senatore del Regno Cassiere.

                Bellingeri Avv. Gaetano.

                Bosco Sac. Giovanni Direttore degli Oratorii.

                Bosco di Ruffino Cav. Aleramo.

                Cerruti Paolo.

                De Maistre Conte Carlo.

                Duprè Cav. Giuseppe Consigliere Municipale.

                Fassati Marchese Domenico.

                Galleani d'Agliano Conte Pio.

                Galleani d'Agliano Cav. Michele.

                Gonella Cav. Marco Direttore della Lotteria.

                Grosso Carlo Direttore della Lotteria.

                Prever Achille.

                Provana di Collegno Conte Alessandro.

                Roasenda di Roasenda Cav. Giuseppe.

                Viancino di Viancino Conte Francesco.

                In mezzo a queste faccende D. Bosco così scriveva al Cavaliere Zaverio Provana di Collegno:

 

                               Ill.mo e Car.mo nel Signore,

 

                Compatisca la mia trascuratezza a rispondere.

                Alcuni sconcerti di famiglia mi hanno distolto dai miei doveri, tra cui la risposta a V. S. Ill.ma.

                Mi mandi il ragazzo di cui parla. Se non lavora, può incominciar ad approfittar della scuola. Se egli dimostrerà buona volontà di darsi ad un'occupazione, io spero, nelle condizioni accennatemi nella venerata sua lettera, di poterlo aggiustare. [602] La benedizione del Signore sia copiosa sopra di Lei, sopra l'ottimo di Lei genitore e sopra tutta la famiglia, mentre mi dico, in nomine Domini

                Di V. S. Ill.ma e Car.ma

                Da casa, 8 del 1857.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                Ma quali erano stati gli sconcerti avvenuti nell'Oratorio da ritardare le risposte alle lettere? Per certo la malattia, gravissima di suo fratello Giuseppe.

                Abbiamo già detto quanto D. Bosco l'amasse. Era uomo sincero, di gran cuore e di eccellente carattere. Al primo vederlo, sembrava serio e quasi brusco, ma facevasi une, sforzo per comparir tale in mezzo ai giovani; senonchè un cenno solo, una domanda a 1 i indirizzata aveva subito cortese e soddisfacente risposta. A quando a quando veniva all'Oratorio e vi si fermava alcuni giorni; e allora i giovani più adulti, fra i quali Tomatis, per passare un po' di tempo in allegra conversazione, si portavano a visitarlo. Il buon Giuseppe aderiva subito con piacere all'invito, e sapeva così bene intrattenerli, che non si sarebbero più distaccati da lui. Aveva in sè molte delle prerogative di. D. Bosco, e specialmente l'amabilità e la famigliarità.

                Grande perciò fu il dolore in tutta la Casa quando egli, venuto in Torino sul finire del 1856, cadde gravemente ammalato di polmonite. Si coricò in una camera dell'Ospizio, che metteva sul balcone al secondo piano, e il suo male andò peggiorando ogni giorno più. Lo curava il Dottor Musso, ma le medicine non gli giovavano punto. Precipitando la malattia, fu chiamata da Castelnuovo la sua buona moglie, perchè lo vedesse ancora per l'ultima volta. [603] Ma D. Bosco confidava in Dio, persuaso che il fratello non sarebbe mancato ai vivi e che verrebbero prolungati i suoi giorni, perchè potesse assistere i suoi figli ancora in tenera età. Più volte nel giorno, e tutte le sere prima di andare a riposo, passava lungo tempo presso l'infermo.

                Una sera D. Bosco entrò nella camera del fratello, dove erano Buzzetti, Rossi Giacomo, Davitto, Reano e la cognata, la quale aveva pianto tutto il giorno, oppressa dal timore di perdere il marito. D. Bosco si accostò all'infermo, lo prese per mano, gli toccò la fronte e lo interrogò intorno al suo male. Ma Giuseppe era molto aggravato e stentava a rispondere.

                Era passata una lunga ora e pareva che D. Bosco in quella notte non potesse staccarsi da quel letto, e si intratteneva ripetendo al fratello parole dolcissime, che facevano grande impressione sugli astanti. In fine gli disse: Ascolta, mio caro Giuseppino! Voglio che importuniamo tanto la Madonna, finchè ti faccia guarire. Sei contento? Rivolgiamole dunque e subito una preghiera: tu per non stancarti accompagna la nostra orazione solo colla mente. - Finita la preghiera, D. Bosco toccò di nuovo il fratello sulla fronte, gli fe' coraggio a sperare, lo esortò alla tranquillità e confidenza in Maria SS. e se ne andò a letto. Il domani Giuseppe era migliorato in modo straordinario, e continuò poi sempre di bene in meglio, sicchè in pochi giorni potè alzarsi. Dopo una prolungata convalescenza ritornava perfettamente sano in sua casa ai Becchi; e quelli che lo assistettero riconobbero nella sua guarigione una grazia, evidentemente dalla Madonna concessa a D. Bosco.

                Appena il medico ebbe dichiarato Giuseppe fuori di pericolo, Don Bosco, anche per averne ricevuto invito, [604] partiva per Genova. Di questo viaggio ci dava notizia per iscritto la signora Rosina Manassero Ferrerati. “Sul fine dell'anno 1856, o nei primi giorni di gennaio 1857 mi recai a Genova, trovandomi nello stesso carrozzone ferroviario col sacerdote Giovanni Bosco. Egli raccontava le sue inquietudini sulla sorte di que' giovanetti che corrono per le vie, sopratutto nei giorni di festa; e come in quel momento attraessero più specialmente le sue sollecitudini quelli che abitavano nelle vicinanze del tempio dei protestanti in Torino; e descriveva le difficoltà che incontrava e le speranze che aveva di riuscire a salvarli. Parlava con tanta carità, semplicità, zelo e spirito di abnegazione, che gli altri nostri compagni di viaggio ne rimasero edificati. Giunti a Genova, mentre egli si allontanava tutti d'accordo dissero: - Quegli è un prete pieno dell'amore di Gesù Cristo. Se non è un santo lui, non crediamo ve ne siano altri”.

                D. Bosco fu ospitato nel palazzo del Marchese Antonio Brignole - Sale. Reso omaggio all'Arcivescovo, egli s'intrattenne a lungo con D. Montebruno, trattando del modo di mettere in armonia gli interessi materiali, le suscettibilità di regione, le possibili apprensioni dei benefattori, colle prospettive di maggiori vantaggi morali che arrecherebbe l'unione delle loro forze alla gioventù. Per allora non si venne a pratiche conclusioni, tanto più che una delle due istituzioni avrebbe dovuto rinunziare almeno in parte alla sua autonomia; il progetto però non fu abbandonato, e per vari anni non parve impossibile un soddisfacente componimento. Ma non era nei disegni della Provvidenza la fusione di queste due opere.

                D. Bosco visitava anche il signor D. Angelo Fulle Economo del Seminario Arcivescovile, il quale con D. Bartolomeo Mariconi si assumeva l'incarico di ricevere le associazioni [605] alle Letture Cattoliche. Stringeva anche amicizia col Priore di S. Sabina, D. Frassinetti Giuseppe, santo e dotto moralista, da lui pregato a volergli comporre qualche fascicolo per la sua associazione popolare; col signor Giuseppe Canale, caffettiere, sostegno di varie opere cattoliche, e con suo fratello, Rev.mo D. Giambattista, Canonico dell'insigne collegiata di N. S. delle Vigne, sacerdote stimatissimo in tutta la città. S'intratteneva coi Can. Melchiorre. Fantini col quale aveva già da tempo stretta relazione a Chieri con D.. Campanella Gerolamo, parroco del Carmine, e con altri signori del clero, della nobiltà e della borghesia genovese, facendosi ammirare dappertutto per le sue virtù e per i suoi modi. Non dimenticò il Conte Rocco Bianich e le Conferenze genovesi di S. Vincenzo de Paoli.

                Il signor Pirotti, sacerdote Lazzarista, aveva di lui grandissima stima. Incontratolo per le vie della città e bramoso di parlargli confidenzialmente, lo invitò a recarsi a Fassolo per visitare il collegio o seminario per le missioni straniere. Il Marchese Brignole-Sale avealo fabbricato presso la casa e chiesa dei Lazzaristi, dotandolo della rendita sufficiente pel mantenimento dei professori, e di ventiquattro chierici. D. Bosco promise volentieri, perchè interessavalo molto ogni cosa che riguardasse le missioni, e fissò il giorno. Il signor Pirotti quel mattino scese più volte in porteria per sapere se Don Bosco fosse arrivato o per arrivare, impaziente di intrattenersi con lui. Finalmente suona il mezzogiorno e dovette andare a pranzo. Ed ecco arrivare D. Bosco, che era stato impedito dai molti affari, e forsanco non aveva preveduto la lunghezza della via per giungere a Fassolo, luogo all'estremità di Genova a ponente. Egli chiese pertanto al portinaio del Sig. Pirotti. - Il Sig. Pirotti è a pranzo, gli fu risposto. [606] D. Bosco domandò di vederlo: - Non si può: è contro la regola.

                - Ebbene; si chieda una licenza al Superiore. Mi si faccia questo piacere. È  lo stesso signor Pirotti che desidera parlarmi e mi ha invitato a venir fin qui.

                - Aspetti finchè abbia pranzato, - rispose quel burbero.

                - Non posso attendere, perchè ho troppi impegni in città e ad ora fissa. Mi faccia almeno annunziare: io sono D. Bosco.

                Ma il portinaio rimase inflessibile, o per capriccio, o per non volere disagiarsi, o anche perchè l'aspetto umile di quel prete non gli ispirava un gran concetto di lui. D. Bosco dovette partirsene benchè a malincuore. Il signor Pirotti dopo che ebbe pranzato corse in porteria, e con grande suo dispiacere, apprese che D. Bosco era venuto e non gliene avevano dato avviso. La pena che ne provò fu tale che, dopo anni, essendo egli superiore nella casa di Sarzana, la manifestava a D. Albera Paolo, lamentandosi di aver allora perduto, per colpa del portinaio, la preziosa occasione d'intrattenersi con D. Bosco. Il buon servo di Dio però non lo dimenticava, e a quando a quando lo ricordava con molto affetto.

                Ritornato in Torino, dopo tre o quattro giorni di assenza, ebbe una di quelle grate sorprese, che non di rado facevangli i suoi benefattori, e ne scriveva al Conte Pio Galleani d'Agliano.

 

                               Benemerito Sig. Conte,

 

                I giovani poveri ricoverati nella Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales ringraziano il Sig. Conte d'Agliano per l'aumento del pane che nella sua carità vuole fare a loro favore; e di tutto [607] cuore pregano Iddio onde moltiplichi le sue grazie e benedizioni sopra di Lei e sopra tutta la venerata famiglia.

                A nome dei giovani mentovati ed anche a nome proprio si professa pieno di gratitudine

                Di V. S. Benemerita

                Torino, 22 gennaio 1857.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                P. S. Ricevuto il buono per Kg. 20 al mese a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

 

                Avendo egli intanto ripresi personalmente i lavori preparatori alla lotteria, spediva una circolare stampata a quanti conosceva propensi per la sua opera.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Le spese cui in questi ultimi anni dovetti sottostare, e quelle che attualmente mi occorrono, sia per ultimare alcuni lavori indispensabili pei giovani che intervengono agli Oratorii di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova e del santo Angelo Custode in Vanchiglia, sia anche per provvedere pane al numero di circa cento cinquanta ricoverati in questa casa, mi mettono nella necessità di fare in quest'anno una lotteria di oggetti.

                Per questo fine avrei bisogno che V. S. Ill.ma venisse in mio aiuto e mi prestasse l'opera sua in qualità di Patrono di tale lotteria. Le sue incombenze sarebbero di invitare le persone colle quali può avere speciale relazione, e pregarle da parte mia ad offerire qualche oggetto, che loro tornerà di minor incomodo e che nella loro carità sarà di maggior gradimento; e cooperare di poi alla smercio di alcuni biglietti quando sarà per cominciarsene la pubblica esposizione.

                Tale è lo scopo di questa lotteria. Trattandosi di cooperare ad un'opera di pubblica beneficenza, io sono come sicuro di essere [608] favorito: perciò se V. S. non mi darà avviso in contrario, io reputerò certo il suo assenso, e fra breve Le manderò alcuni programmi coi piano di regolamento della lotteria da distribuirsi, da cui credo potrà avere tutti gli schiarimenti che desidera.

                Intanto io mi volgo a quel Signore Iddio che ha promesso larga ricompensa alla più piccola opera di carità e lo prego di tutto cuore onde La conservi in salute e La colmi delle sue più elette benedizioni, mentre mi dico con pienezza di stima e di gratitudine

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 22 gennaio 1857.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                Appena D. Bosco ebbe manifestata la sua intenzione, signori e signore, ecclesiastici e laici, di Torino e di altre parti, si fecero un vanto di ascriversi tra i promotori e le promotrici in aiuto di lui. Ci sarebbe caro qui riferire i nomi di tante benemerite persone, che troviamo registrate in apposito libro; ma per amore della brevità notiamo solo che i promotori e le promotrici furono ben oltre a 400.

                Da questo numero si può argomentare la quantità di lettere che D. Bosco continuamente scriveva, moltiplicandole per tutti le pratiche necessarie a far progredire la lotteria e per sbrigare i molti altri affari. Ma poichè anche tale occupazione aveva per fine la gloria del Signore, così in quegli scritti appariva sempre la sua unione con Dio. Giammai se ne lesse alcuno senza che vi entrasse il nome di Dio, o di Gesù Cristo, o della Madre celeste; e si può dire di lui ciò che S. Bernardo diceva di se stesso, cioè “che qualunque discorso, qualunque libro gli tornava insipido, se non vi trovava il santo nome di Gesú o di Maria”. Questi nomi D. Bosco, come sempre, [609] anche scrivendo li pronunciava come aspirazione del cuore, ma in modo che altri non udisse, ripugnandogli ogni singolarità; e pareva che col suo stesso respiro li stampasse sopra le sue carte.

                Includeva eziandio nelle sue lettere, immagini con un motto di propria mano per sollevare la mente a Dio; talora le distribuiva ai visitatori, talora le spediva in una busta senz'altro. Per siffatto scopo ei comprava in quest'anno da Paravia 500 immagini dell'Immacolata coi contorni dorati. Le scritte poi esprimevano un invito a far carità, un segno di ricevuta, o ringraziamento per una oblazione o anche solo un saluto od augurio. Nella festa del Patrono principale dell'Oratorio ad un esimio patrizio, che molto si adoperava per la Lotteria, mandava un'immagine di San Francesco di Sales colla soprascritta: “San Francesco di Sales porti in questo giorno al Sig. Barone la benedizione del Signore sopra di lui e sopra tutte le opere che ha tra mano. Amen. Sac. Giov. Bosco”.

                Le sue lettere adunque animate da tale spirito, sebbene semplici nella loro forma, erano ammirabili per gli effetti che producevano. Un giorno per es. egli aveva esposte le sue difficoltà pecuniarie ad una persona tutt'altro che generosa; e costei, dopo aver letta la lettera di D. Bosco, inviò all'Oratorio una somma certamente non inferiore alle sue entrate.

                Era anche ammirabile la sua attitudine nello scrivere con grande celerità. Più volte in vari anni il Ch. Durando accompagnò D. Bosco al Convitto di S. Francesco per aiutarlo nella spedizione delle lettere. Ed ecco che cosa accadeva. D. Bosco, scritta una lettera, la porgeva a Durando il quale la piegava, la suggellava e vi scriveva sopra l'indirizzo. Ma prima che il chierico avesse compiuta la [610] suddetta operazione, ecco dinanzi a lui una seconda lettera finita. Il chierico si affrettava, ma non ne aveva ancor finito l'indirizzo, che sopraggiungeva un terzo foglio, e così via via per ore ed ore. Quando finalmente veniva il momento di ritornare all'Oratorio, D. Bosco, ringraziato il Signore, esclamava sorridendo, senza mostrarsi stanco: - Ecco il modo di sbrigar molti affari! - E certamente il numero di lettere ch'egli scriveva sembrerebbe favoloso, se non vi fossero molti testimoni di questa meraviglia.

 

 

CAPO L. Appello della Commissione ai cittadini per la lotteria Piano di regolamento - Lettera di D. Bosco unita all'appello - Arrivo dei doni e segno di ricevuta Dono di un quadro del Ministro degli Interni - Esposizione dei premi - I giovani dell'Ospizio e la coscrizione militare.

 

                INTANTO la Commissione promotrice della Lotteria pubblicava e diffondeva all'uopo un manifesto ai concittadini che ci sembra degno di far parte della nostra storia. Era scritto in questi termini:

 

                Invito ad una Lotteria d'oggetti a favore degli Oratorii di S. Luigi a Porta nuova di S. Francesco in Valdocco e del S. Angelo Custode in Vanchiglia.

 

                La carità del Vangelo che ispira all'uomo le più belle opere di beneficenza, sebbene rifugga dal richiamare sopra di se gli sguardi altrui, tuttavia, ove la gloria di Dio e il vantaggio del prossimo lo richiedano, non esita di superare la sua ritrosia e stendere la mano alle persone benefiche, e narrare talvolta il bene operato, onde serva ad a tri d'invito e di eccitamento a venire in aiuto ai bisognosi. Questo riflesso ha fatto de liberare la Commissione costituita per questa Lotteria a dare un cenno delle opere principali, che in questi Oratorii si fanno, e così [612] fare a tutti conoscere a che sia destina o il provento, che ne fosse per derivare.

                Crediamo cosa pubblicamente conosciuta come il Sac. Bosco Giovanni, nel desiderio di promuovere il vantaggio morale della gioventù abbandonata, si adoperò che fossero aperti tre Oratorii maschili ai tre principali lati di questa città, ove nei giorni festivi sono raccolti, nel maggior numero che si può, quei giovani pericolanti della città e dei paesi di provincia, che intervengono a questa Capitale. In questi Oratorii avvi Cappella per le funzioni religiose, alcune camere per la scuola ed un giardino per ricreazione. Ivi sono allettati con premi, e trattenuti con un po' di ginnastica o con altra onesta ricreazione, dopochè hanno assistito alle sacre funzioni. Il numero di quelli che intervengono eccede talvolta i, tre mila. Quando le stagioni dell'anno lo comportano, vi è scuola di lettura, scrittura, canto e suono. Un ragguardevole numero di pii signori sono solleciti a prestare l'opera loro col fare il catechismo, e coll'adoperarsi che i giovani disoccupati vengano collocati al lavoro presso ad onesto padrone, Continuando loro quell'amorevole assistenza che ad un buon padre si conviene.

                Nell'Oratorio poi di Valdocco vi sono anche le scuole feriali di giorno e di sera specialmente per quei ragazzi, che o per l'umiltà delle lacere vesti, o per la loro indisciplina non possono essere accolti nelle pubbliche scuole.

                Le scuole serali sono assai frequentate. Ivi è parimenti 'insegnata lettura, scrittura, musica vocale ed istrumentale, e ciò tutto per allontanarli dalle cattive compagnie, ove di certo correrebbero rischio di perdere lo scarso guadagno del lavoro, la moralità e la religione.

                Tra questi giovani, siano della città, siano dei paesi di provincia, se ne incontrano alcuni (per lo più orfani), i quali sono talmente poveri ed abbandonati, che non si potrebbero avviare ad un'arte o mestiere senza dar loro alloggio, vitto e vestito; e a tal bisogno si è provveduto con una casa annessa all'Oratorio di Valdocco, ove sono accolti in numero di oltre centocinquanta: loro è somministrato quanto occorre per farsi buoni cristiani ed onesti artigiani.

                Accennato così lo stato di questi Oratorii si può facilmente [613] conoscere ove sia diretto il provento della Lotteria; le spese dei fitti dei rispettivi locali, la manutenzione delle scuole e delle chiese, il dar pane ai centocinquanta ricoverati, sono oggetti di gravi dispendi.

                Inoltre or son tre anni nella fatale invasione del coléra si dovette riattare un locale apposito, ove in quella congiuntura furono ricoverati in numero di quaranta orfani, parecchi dei quali sono tuttora nella casa. In quest'anno poi si è dovuto ultimare un tratto di fabbrica da alcuni anni messo in costruzione. Tutti questi lavori, sebbene eseguiti colla più studiata economia resero indispensabile la spesa di oltre quarantamila lire. La qual somma, coll'aiuto di caritatevoli persone, fu già nella maggior parte pagata, ma rimane ancora un debito di dodici mila lire.

                A soddisfare tale spesa, a provvedere alla possibilità di proseguire nel bene incominciato, non abbiamo potuto trovare altro mezzo se non una Lotteria, di oggetti, come quella che apre la via a qualsiasi condizione di persone di concorrere in quel modo e misura, che i mezzi e la carità di ciascuno suggeriscono.

                A tal uopo fu chiesta la debita autorizzazione dal Regio Governo, che accolse favorevolmente la domanda, e con decreto del 2 corrente febbraio accordò tutte le facoltà, che pel buon esito della Lotteria sembrano opportune.

                Noi siamo intimamente persuasi che i nostri concittadini e le persone caritatevoli delle province, alle quali pure si estende il beneficio degli Oratorii e della Casa,  vorranno associarsi con noi e prendere non piccola parte, mandando oggetti destinati a servire di premio, e facendo acquisto di biglietti. Un eletto numero di benemerite persone furono cortesi d'accettare di farsi promotori e promotrici, impegnandosi a raccogliere oggetti e a smerciare biglietti a norma del piano di regolamento qui unito.

                Noi abbiamo soltanto esposto lo scopo degli Oratorii ed i mezzi principali, che sono posti in opera onde conseguirlo. L'opera ci pare da se stessa abbastanza commendevole, senza che vi aggiungiamo parola. Notiamo soltanto, che prendendo parte a quest'opera di beneficenza, si provvede alla pubblica ed alla privata utilità: e voi sarete benedetti da Dio e dagli uomini. Da Dio, presso cui non vi verrà meno la ricompensa; dagli uomini poi avrete la più sentita riconoscenza, mentre uno stuolo [614] di giovani benediranno ogni momento la mano benefica, che li ha tolti dai pericoli delle strade, avviandoli al buon sentiero, al lavoro, alla salvezza dell'anima.

 

                A questo invito univasi il piano di regolamento per la lotteria.

 

                1. Sarà olla massima riconoscenza ricevuto qualunque oggetto d'arte o d'industria, cioè lavori di ricamo, di maglia, quadri, libri, drappi, tele e qualsiasi oggetto di vestiario. Si riceverà ugualmente con gratitudine ogni lavoro in oro, argento ecc.

                2. Nell'atto che si consegneranno gli oggetti sarà descritta sopra un catalogo la qualità del dono, il nome del donatore, a meno che questi ami di conservare l'anonimo

                3. I membri della Commissione, i Promotori, e le Promotrici sono tutti incaricati di ricevere i doni offerti per la lotteria, con preghiera di farli poi pervenire al luogo della pubblica esposizione che è in via di Porta Nuova n. 23, Casa Gonella, piano I.

                4. Per maggior comodità di tutti cominciando dal giorno ventitrè del corrente febbraio tutti i giorni vi sarà persona incaricata di ricevere i doni che taluno, stimasse di offrire, dalle ore io del mattino alle quattro pomeridiane.

                5. I biglietti saranno emessi in numero proporzionato al valore degli oggetti e nei limiti segnati dall'Intendenza Generale della provincia di Torino. Il prezzo è fissato a cent. 50 caduno. Chi ne prende una decina ne avrà uno gratuito.

                6. I biglietti saranno spiccati da un foglio a matrice e muniti delle firme di due membri della Commissione.

                7. La pubblica esposizione degli oggetti comincerà col prossimo mese di marzo e durerà tre mesi. Si notificherà nei giornali il giorno della pubblica estrazione.

                8. I numeri saranno estratti uno per volta. Occorrendo che per isbaglio se ne estraesse, due, non si leggeranno ma saranno riposti nell'urna.

                9. Si estrarranno tanti numeri quanti sono i premi da vincersi. Il primo numero estratto vincerà l'oggetto corrispondente segnato col numero i: così il secondo, e successivamente. [615]

                10. I numeri vincitori saranno pubblicati dai giornali quattro giorni dopo l'estrazione; e quattro giorni dopo tale pubblicazione comincerà la distribuzione dei premi. I premi non ritirati due mesi dopo l'estrazione si intendono donati a beneficio della Lotteria medesima.

 

                Il soprannotato appello e questo piano erano spediti con l'accompagnamento di una lettera di D. Bosco, ai promotori.

 

Ciò che fate ai miei poveri lo

fate a me stesso: dice il Salvatore.

MATT. XXV. 40.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Mi faccio il dovere di partecipare a V. S. Ill.ma che sono compiute presso l'Intendenza Generale le incombenze della Lotteria alla carità di Lei raccomandata; perciò Le trasmetto alcuni programmi della medesima, con preghiera di farli conoscere a quelle persone che Ella giudicherà propense a queste opere di beneficenza. Se qualche caritatevole persona Le consegnasse oggetti con questa destinazione, io La prego di volerli ricevere e con sua comodità farli pervenire al locale della esposizione Casa Gonella, via Porta Nuova n. 23. Fra pochi di Le comunicherò l'orario della pubblica esposizione con alcuni biglietti da smerciare.

                Intanto io comincio a ringraziarla della parte che prende a quest'opera di carità, e La prego a volermi continuare il suo favore assicurandola che un gran numero di giovanetti non mancheranno di invocare sopra di Lei copiose benedizioni dal cielo, mentre, con la più sentita gratitudine mi dico

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 23 febbraio 1857.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                I fedeli rispondevano con generosità alla domanda di D. Bosco, e ben presto gli oggetti raccolti superarono i [616] due mila e novecento. Fra questi uno di S. A. R. il Principe di Carignano. Agli oblatori si mandava a notificare la ricevuta col seguente biglietto:

 

                Chiunque darà a voi un bicchiere d'acqua in mio nome.. non perderà la sua mercede.

MARC. IX, 40.

 

                Con sentimento di viva gratitudine riceviamo dal Sig... i seguenti oggetti...

                I quali oggetti sono destinati per la lotteria iniziata a favore dei tre Oratorii maschili di S. Francesco di Sales, di S. Luigi e del S. Angelo Custode.

                Iddio largamente guiderdoni i benemeriti donatori.

                Dal locale della pubblica Esposizione, via Porta Nuova, n. 23 casa Gonella, piano primo.

                Torino il……... del mese ...…. 1857.

 

Per la Commissione

 PESCE MATTEO.

 

                Fra i premi ricevuti vi era un quadro ad olio rappresentante un episodio della Gerusalemme liberala di Torquato Tasso, dono del Ministro dell'Interno.

 

                MINISTERO DELL'INTERNO. N. 1447

                Il Ministro dell'Interno nel desiderio di provare al R. D. Giovanni Bosco l'interessamento che prende in ogni circostanza all'incremento dell'Oratorio maschile in Valdocco si reca a ben,gradita premura di partecipargli che gli sarà colla presente consegnato un quadro a olio del valore di lire 400, rappresentante Erminia, acquistato nell'ultima esposizione di belle arti in questa capitale, e di cui il Ministro fa dono alla lotteria d'oggetti a favore dei pii Oratorii di Portanuova, in Valdocco ed in Vanchiglia.

                Torino, addì 20 marzo 1857.

 

Il Ministro

U. RATTAZZI. [617]

 

                L'Armonia, che rappresentava il Clero e i cattolici del Piemonte, il 7 marzo con vive esortazioni raccomandava la Lotteria.

                “Non è necessario, stampava, cha noi facciamo conoscere a' nostri lettori l'opera d'importanza massima a cui si è specialmente dedicato l'ottimo Sacerdote D. Giovanni Bosco, cioè quello di raccogliere i giovani della classe popolana per istruirli, educarli ed instradarli sia nella virtù, sia ad un mestiere da procacciarsi la vita.

                Si sa parimente che quest'opera priva di ogni mezzo di sussistenza, da quello infuori che somministra la Provvidenza che ci dà il pane quotidiano, vive della carità e generosità di buoni cristiani. Ora quel buon sacerdote, per far fronte alle grandi spese, dispone ogni cosa per una lotteria d'oggetti”.

Quindi ne ristampava il programma.

                Non ostante che i tempi sembrassero poco favorevoli a lotterie di questo genere, l'esito di questa doveva riuscire felicissimo. Sei sale erano piene di preziosi doni, di forma, di genere e di nomi svariatissimi. Grande il concorso dei cittadini, soddisfacente lo smercio dei biglietti. Anche i paesi di provincia concorrevano alacremente tanto coll'offerta dei doni quanto coll'acquisto dei biglietti. Di questi se ne fece invio ai Vescovi e ai parrochi del regno, se ne distribuì ai Sindaci e ai Senatori, ai deputati, ai ministri del Re, ed allo stesso Vittorio Emanuele.

                Mentre D. Bosco era tutto occupato nella sua Lotteria, ecco presentarsi a lui, e forse inaspettato, un nuovo imbarazzo per la conservazione del personale dirigente e insegnante nell'Oratorio, non grave certamente sul principio, ma che in breve sarebbe divenuto pesantissimo, [618] cagionandogli nuove fatiche, non inferiori alle singole che già lo gravavano. Il Sindaco della città di Torino nel mese di Gennaio aveagli fatta recapitare la seguente lettera:

 

                CITTA' DI TORINO.

                Leva e servizio militare.

                N. 86 - 2 Circolare.

 

                Il regolamento per l'esenzione dalla Legge 20 Marzo 1854 sul reclutamento dell'Esercito al § 14 prescrive:

                “I giovani ricoverati nei conservatori od ospizi di carità devono essere inscritti sulle Aste di leva del Comune in cui trovasi il conservatorio o l'ospizio al quale appartengono.

                La Direzione di questi pii stabilimenti, prima dello scadere del mese di Dicembre, darà in nota al Sindaco i ricoverati che nell'anno incominciante compiono il 190 di loro età.

                La stessa Direzione trasmetterà al Sindaco gli atti di decesso dei ricoverati già tutti in nota, e morti prima che abbiano dovuto concorrere alla leva, onde a loro riguardo segua la cancellazione dalle liste”.

                Il Sottoscritto nel permettersi di rammemorare tali disposizioni alla S. V. Ill.ma la pregherebbe ove ne sia il caso, cioè sempre quando esistano in codesto Oratorio giovani nati nel 1839, di volerne dar nota a questo Uffizio al più presto che le sarà fattibile, indicando per ognuno: i il Casato, 20 il Nome con cui viene solitamente chiamato, 30 il nome del padre, accennandone l'esistenza o la morte, 4° la condizione del padre, 51 il Casato e nome della madre, accennandone anche la esistenza o la morte, 6° il luogo della nascita, accennando la Provincia a cui appartiene, 71 la professione, ed in ultimo quelle altre nozioni che si riferissero sia alle individuali fisiche imperfezioni, ed ai diritti di famiglia che ai giovani stessi potessero competere per la esenzione.

                E Le porge i suoi anticipati ringraziamenti.

 

Il Sindaco

A. COLLA. [619]

                D. Bosco affrettossi ad obbedire.

                Ma i sindaci di Torino e di Castelnuovo d'Asti si scambiavano lettere, ciascuno ritenendosi in diritto dì iscrivere nella propria lista come coscritti Giovanni Cagliero e Giovanni Turco. Beltramo, sindaco di Castelnuovo, rivolgevasi allora a D. Bosco perchè gli desse nozioni sull'Oratorio di Torino e perchè interpellasse i due giovani se volessero prevalersi del loro diritto, scegliendo per la lista della leva quella di Castelnuovo o quella della Capitale.

                Rechiamo la risposta di D. Alasonatti al Sindaco di Castelnuovo, scritta in sul finire dì febbraio, perchè ci dà notizia sull'Oratorio di quel tempi.

 

                               Ill.mo Sig. Sindaco,

 

                Ad intendimento di dare a V. S. Ill.ma le spiegazioni di cui mi richiede, sulla forma di questo stabilimento, rassegno i seguenti cenni:

                L'Oratorio Maschile del Sig. D. Bosco in Valdocco è aperto per i giovani che hanno altrepassati i dodici anni e non hanno raggiunto i diciotto, mediante che siano affatto orfani abbandonati e poveri. In esso hanno vitto, alloggio, educazione artistica, letteraria, sociale e morale. Di questi allievi avvene altresì picciol numero che hanno i propri congiunti altrove in provincia, presso cui vanno a villeggiare in tempo di ferie, i quali, mutata volontà o cessato il loro scopo, possono darsi a quelle destinazioni che saranno di lor gradimento o convenienza.

Per l'assistenza ed istruzione a tali ricoverati si impiegano altri giovani per lo più studenti in carriera, fra i quali sono da menzionare onorevolmente i giovani Cagliero Giovanni e Turco Giovanni, ambidue da Castelnuovo d'Asti.

                Essi poi intenderebbero essere iscritti nelle liste della classe relativa di cotesto Municipio e ne inoltrano petizione a V. S. Ill.ma onde voglia degnarsi sostenerli in diritto per quanto le  [620] fia possibile, mentre Le rendono per organo mio le più calde grazie e con piena fiducia si rimettono al suo zelo prudente e generoso.

                Giovomi intanto dell'opportunità per rinnovarmi con perfetta considerazione ecc.

 

Sac. VITTORIO ALASONATTI.

 

                D. Bosco da questo punto dovette ogni anno in dicembre presentare all'autorità civile, fino al 1864, liste esatte che tutte conservò, de' nomi di quei suoi giovani ricoverati, che indicavano le prescrizioni della legge, e secondo le norme da essa dettate. A ciò si aggiungeva lo studio delle ragioni di esenzione dal servizio militare che potesse avere ogni singolo individuo: quindi trattandosi di chierici, domande ai Vescovi perchè usassero del loro diritto di esenzione in favore di essi, lettere ai parenti per spiegazioni e rettifiche, corrispondenze per informazioni colle Curie Vescovili, coi sindaci, colle autorità militari; in fine andare in cerca di somme vistose di danaro per pagare un riscatto, per mettere un cambio, per l'ascrizione al volontariato di un anno. E tutte queste incombenze Don Bosco prendeva sopra di sè per conservare al Santuario un grandissimo numero di allievi.

 

 

CAPO LI. Letture Cattoliche - Articolo dell'Armonia per il principio dell'anno quinto di queste pubblicazioni - I Valdesi a Castelnuovo d’Asti - Infermità di Savio Domenico e sua morte preziosa.

 

                NEL 1857 la quaresima durava dal 25 febbraio fino al 12 aprile. D. Bosco, per istruire i fedeli aveva stampato coi tipi di Paravia e destinato pel me se di marzo un opuscolo anonimo per le Letture Cattoliche - La Pasqua Cristiana. Ivi si narrava l'origine di questa festa, si dimostrava l'obbligo grave che hanno i fedeli di accostarsi alla sacra mensa e si davano ammaestramenti ed esortazioni. Qualche settimana dopo l'Armonia insisteva sulla necessità, che fossero maggiormente sostenute e diffuse queste pubblicazioni.

 

                Col mese di marzo cominciava il V anno della pubblicazione delle Letture Cattoliche del Sac. Giovanni Bosco. È  oggimai più che superfluo il raccontare il merito che questa pubblicazione ha grandissimo verso la Chiesa ed il popolo. Si sa con quanta solerzia e zelo sono dettati i libriccini e diffusi, atti ad istruire ed educare il popolo, illuminandolo sopra i suoi doveri di cristiano e di cittadino, e premunendolo contro i pericoli a cui è esposta la sua coscienza dal lato religioso, come dal lato morale. [622] Sono più di settecentomila i fascicoli che le Letture Cattoliche seminarono e posero in mano al popolo nei quattro primi anni della loro esistenza!

                Quando si considera l'ardore, anzi la rabbia, con cui i protestanti si danno a spargere nel popolo le Bibbie adulterate, ed i loro libelli contro la religione cattolica, niuno è che non si senta compreso da venerazione e da riconoscenza per lo zelo di quell'egregio sacerdote, che è il Sig. D. Bosco, il quale fidato nei soli aiuti che spera dalla carità cristiana, insieme con tante altre opere eccellenti, mantiene e fa prosperare le Letture Cattoliche. Giova poco il far compianti sulla sempre crescente empietà della stampa' se i buoni, i quali hanno del ben di Dio per venir in aiuto alle opere che servono di antidoto alla stampa cattiva, vanno stretti allo spendere. Ogni qual volta questi buoni in parole entrano a cantar le loro lamentazioni sui mali della stampa, converrebbe che taluno, battendo loro sulla spalla dicesse: - Ehi, amico! voi che inveite come un predicatore contro la cattiva stampa, fate poi qualche cosa contro di essa? Quanto spendete in tutto l'anno per aiutare la stampa buona?

                Quanti dovrebbero arrossire e tacere a quella inchiesta! Le Letture Cattoliche non costano che 36 soldi all'anno e quanto bene potrebbe fare, e quanto male impedire, procurandone i fascicoli al popolo, che o non li conosce o non li può comprare!

                Le domande d'associazione si possono fare o alla Direzione delle Letture Cattoliche, via S. Domenico n. II in Torino, o nelle province presso i Corrispondenti, di cui ci rincresce di non poter qui tessere il catalogo. Ma ognuno potrà facilmente averne contezza, indirizzandosi o al parroco od ai segretari dei Vescovi.

 

                E quanto bene ragionasse l'Armonia, lo dimostrò l'audacia dei Valdesi, i quali tentavano di penetrare nella stessa patria di D. Bosco. Già erano andati a turbare la pace in Settimo Torinese, in Crea e in molti altri luoghi del Piemonte, diffondendo libri pestiferi e tenendo conferenze a scopo di proselitismo. A Chieri il pastore Valdese Amedeo Bert predicava in una sala prestatagli da un [623] ebreo, raccomandandosi però alla forza pubblica, essendo stato accolto malamente dai Chieresi. Gli eretici erano insolenti, perchè i gendarmi avevano istruzione di reprimere le giuste rimostranze di un popolo che non voleva fosse fatto sfregio alla propria fede, e tradimento alle anime semplici. Più d'una sentenza del tribunale era stata emanata in favore dei nemici della Chiesa. Alcuni di questi, appoggiati e sostenuti dal sindaco, uomo forestiere e di poca religione, eransi eziandio recati a Castelnuovo d'Asti e incominciarono a declamare nei caffè e sulle piazze le loro empie massime, rigettate però con orrore da quella buona e cattolica popolazione. Ma di questo non ancor paghi, noleggiarono una vasta camera nell'abitazione di un certo Modini G. B., forestiere, protestante, amico dei settari, che teneva bottega da panieraio; quindi invitarono a venire da Torino un certo Gai, ministro evangelico, per tenere alcune conferenze. La notizia di questo disegno si sparse per tutto il paese; il popolo era indegnato perchè il sindaco permettesse tali cose, e vari maggiorenti della comunità si rivolsero a D. Cinzano, al Viceparroco e a D. Bosco chiedendo consiglio. La risposta fu secondo la loro domanda, ma prudente: -Non far male quelli che in suolo pubblico avessero fatto fracasso, purchè non commettessero violenze contro le persone e la proprietà; ritenessero però che non intendevano, con queste parole, di dar loro una norma come regolarsi.

                Ma a buon intenditor poche parole. La Domenica i marzo, verso le 6 della sera, giungeva alla casa del Modini il ministro Gai; e circa trenta persone vi accorsero per udirlo, più per curiosità o speranza di lucro, che per astio contro la Chiesa. Quand'ecco organizzarsi nel paese un'imponente dimostrazione, una specie di pubblica [624] protesta: una turba di quasi seicento persone, e specialmente di ragazzi, mossi da taluni che non sapevano tollerare un simile scandalo, accorse alla porta dell'adunanza e zuffolando, fischiando, battendo le mani, urlando Abbasso il Protestantesimo! e percuotendo improvvisati strumenti, fecero tanto frastuono da impedire che il sermone si proseguisse. Quella musica durò fino alle ore io, benchè il sindaco con parole ingiuriose alla popolazione avesse cercato d'impedirla. Intanto gli intervenuti alla radunanza Valdese uno dopo l'altro erano fuggiti e l'oratore evangelico, scornato, confuso e costretto a nascondersi per la paura, il dimani per tempo se la svignò colle pive nel sacco.

                Restava ancora il Modini, e contro questo manutengolo dell'empietà, il 4 marzo, si rinnovava una seconda fragorosa, prolungata dimostrazione per costringerlo a sfrattare dal paese; ma chiamati dal sindaco arrivavano in paese trenta carabinieri. Gli emissari dell'errore non si volevano dare per vinti, poichè i loro progetti erano di fare di Castelnuovo un punto di partenza, ed un centro di propaganda per l'Astigiano ed il Monferrato; ed avevano ottenuto che si spiccasse un mandato di cattura contro quattro dei capi di quella dimostrazione. Il motivo del mandato era: Inquisito d'opposizione con minaccia, all'esercizio del diritto di associazione. Avevano eziandio cercato di conoscere se, come e quando i sacerdoti avessero provocati o diretti quei tumulti, ma nulla raccolsero di certo. Anche D. Bosco era stato protetto dal suo Angelo custode.

                Tutto il paese ne fu sossopra. Dei quattro designati, due furono messi in prigione, cioè Savio Giuseppe e Pietro Cafasso, fratello di D. Cafasso: e due riuscirono a nascondersi, rifugiandosi a Borgo Cornalense presso la Duchessa [625] di Montmorency; e furono Turco Giuseppe e Bertagna Matilde, madre di Monsignore. D. Cafasso si mosse allora in soccorso di que' campioni della fede. Sborsando del proprio una cauzione di 4000 lire, ottenne la libertà provvisoria ai quattro incriminati, che egli stesso volle accompagnare a Castelnuovo, e restituirli alle proprie famiglie. Fu accolto dall'intera popolazione come in trionfo, e tenne un discorso rallegrandosi co' suoi compatriotti che tanto avevano meritato della religione; e li animò a star saldi contro nuovi assalti che potessero a caso sopravvenire. Fu questa l'ultima volta che D. Cafasso si recò a Castelnuovo. Ritornato a Torino, mise in moto le alte influenze di cui disponeva pel buon esito del processo, che si svolse in Asti contro i quattro accusati; ed ottenne piena sentenza di assolutoria. Egli aveva voluto sostenere tutte le spese del processo, dicendo agli assolti, che desideravano rimborsarlo: - Voglio anch'io aver parte ai vostri meriti della persecuzione sofferta per la fede. - Intanto il panieraio aveva dovuto trasferire altrove il suo domicilio, poichè nessuno più volle negoziare con lui. Eziandio il sindaco dovette cessare dall'impiego, non venne più eletto consigliere, e, malvisto da tutti, fu costretto ad andarsene da Castelnuovo. E i protestanti non tornarono più a turbare la quiete di quella popolazione cristiana.

                Questa vittoria sui Valdesi, va forse anche attribuita alle preghiere di Savio Domenico, il quale non cessava dal sospirare per il trionfo della religione.

                Del Papa infatti parlava come figlio del proprio padre pregava fervorosamente per lui, ed esprimeva un vive, desiderio di poterlo vedere prima di morire, asserendo ripetutamente che aveva cosa di grande importanza da dirgli. Udendolo sovente a parlare così, D. Bosco una [626] volta gli domandò quale fosse quella gran cosa, che avrebbe voluto dire al Papa.

                - Se potessi parlargli, vorrei dirgli che in mezzo alle tribolazioni che lo attendono, non cessi di occuparsi con particolare sollecitudine dell'Inghilterra: Iddio prepara in quel regno un gran trionfo al Cattolicismo.

                - Sopra quali cose appoggi tu queste tue parole?

                - Lo dico, ma non vorrei che ne facesse parola con altri. Se però andrà a Roma, lo riferisca pure a Pio IX. Ecco dunque: Un mattino mentre faceva il ringraziamento della Comunione fui sorpreso da una forte distrazione, e mi parve di vedere una vastissima pianura, piena di gente avvolta in una densa nebbia. Camminavano, ma come uomini che, smarrita la via, non vedono più ove mettono il piede. Questo paese, mi disse uno che mi era vicino, è l'Inghilterra. Mentre voleva dimandare altre cose, vedo il Sommo Pontefice Pio IX, tale quale avevo veduto dipinto in alcuni quadri. Egli maestosamente vestito, portando una luminosissima fiaccola tra le mani, si avanzava verso quella turba immensa di gente. Di mano in mano che si avvicinava, al chiarore di quella fiaccola scompariva la nebbia, e gli uomini restavano nella luce di mezzogiorno. Questa fiaccola, mi disse l'amico, è la Religione Cattolica che deve illuminare gl'Inglesi.

                Così disse l'amabile giovanetto, il quale, come si vede, fu un piccolo ma verace profeta. Imperocchè, chi non conosce il progresso che il Cattolicismo fece nel Regno Unito da quaranta e più anni a questa parte? La gerarchia ecclesiastica ristabilita primieramente nell'Inghilterra e poi nella Scozia; la libertà concessa ai Cattolici di esercitare il loro culto; la facoltà di predicare e d'insegnare; le numerose chiese che s'innalzano nelle città e nelle [627] campagne; le conversioni quotidiane di protestanti, tra cui ministri, deputati, senatori, marchesi, duchi e via dicendo; lo scomparire dei pregiudizi contro il Papa e la Chiesa Cattolica; l'avidità, il trasporto, con cui si cerca di meglio conoscerla, tutti questi ed altri fatti sono una prova evidente che molti anni fa il giovanetto Domenico Savio vide nell'avvenire coll'occhio della mente illuminato da Dio.

                Savio Domenico preannunziava anche la vicina sua morte e talvolta andava dicendo: - Bisogna che io corra, altrimenti la notte mi sorprende per istrada. - I giovani sul principio dell'anno fecero l'esercizio di buona morte, sul terminare del quale si recitò al solito un Pater ed Ave per colui che tra gli astanti sarà il primo a morire. E Savio scherzando ripetè più volte: - In luogo di dire per colui che sarà il primo a morire, dite così: un Pater ed Ave per Savio Domenico che di noi sarà il primo a morire.

                D. Bosco alcun tempo prima avealo già mandato a casa, per provare se l'aria nativa avrebbegli recato giovamento; e Domenico benchè con dispiacere aveva obbedito. In questo viaggio gli accadeva un fatto singolare, raccontato a D. Gamba Giuseppe da sua madre, la quale avevalo appreso dalla stessa genitrice di Savio, unitamente a una certa Marianna Marchisio, che ne faceva testimonianza ancora pochi anni fa.

                Savio Domenico, arrivato in vettura a Castelnuovo, fu costretto a continuare la strada a piedi fino a Mondonio, perchè non era stata recapitata ai suoi una lettera che annunziava loro il suo arrivo. Giunse a casa stanco per la lunga via, e la madre al vederselo innanzi così all'improvviso: - Ma come, gli disse; e sei venuto solo? Non avevi alcuno per compagno? [628]

                Sono sceso dalla vettura, rispose il figlio, e ho trovata subito una bella e maestosa signora, la quale ebbe la bontà di accompagnarmi fino alla porta di nostra casa.

                - E perchè non l'hai fatta entrare invitandola a riposarsi?

                - Perchè, come fui qui vicino al paese, ella scomparve e più non la vidi .

                La buona madre uscì allora fuori della porta, osservò attorno, ma inutilmente; e una cara supposizione le restò fissa nell'anima in tutto il tempo della sua vita. Quella Signora era forse Maria Santissima?

                Pochi giorni però fermossi Domenico a Mondonio, e D. Bosco se lo vide ricomparire nell'Oratorio, perchè gli rincresceva interrompere gli studi e le solite sue pratiche di pietà. D. Bosco l'avrebbe tenuto con sè a qualunque costo, ma pure volle seguire il consiglio dei medici; tanto più che da alcuni giorni erasi in lui manifestata una tosse incessante.

                Se ne avvertì adunque il padre e si stabilì la partenza pel primo di marzo 1857

                Si arrese Domenico a tale deliberazione, ma solo per farne un sacrificio a Dio. - Perchè, gli si domandò, vai a casa così di mal animo; mentre dovresti andarvi con gioia per godervi la compagnia de' tuoi amati genitori?

                - Perchè, rispose, desidero di terminare i miei giorni all'Oratorio.

                - Andrai a casa, e, dopo che ti sarai alquanto ristabilito in salute, ritornerai.

                - Oh! questo poi no, no: io me ne vado e non ritornerò più.

                La sera precedente alla partenza, D. Bosco non poteva levarselo d'attorno; sempre aveva cose da dimandare. Fra [629] le altre diceva: - Qual è la cosa migliore che possa fare un ammalato per acquistar merito davanti a Dio?

                - Offrire spesso a Dio quanto egli soffre.

                - Qual altra cosa potrebbe ancor fare?

                - Offrire la sua vita al Signore.

                - Posso essere certo che i miei peccati mi siano stati perdonati?

                - Ti assicuro a nome di Dio che i tuoi peccati ti sono stati tutti perdonati.

                 - Posso essere certo di essere salvo?

                - Sì, mediante la divina misericordia, la quale non ti manca, tu sei certo di salvarti.

                - Se il demonio venisse a tentarmi, che cosa gli dovrei rispondere?

                - Gli risponderai che hai venduto l'anima a G. Cristo, e che egli l'ha comperata col prezzo del suo Sangue per liberarla dall'inferno e condurla con lui al paradiso.

                - Dal paradiso potrò vedere i miei compagni dell'Oratorio ed i miei genitori?

                - Sì, dal paradiso vedrai tutte le vicende dell'Oratorio, vedrai i tuoi genitori, le cose che li riguardano ed altre cose mille volte ancor più belle.

                - Potrò venire a fare loro qualche visita?

                - Potrai venire, purchè tal cosa torni a maggior gloria di Dio.

Queste e moltissime dimande andava facendo, e sembrava una persona che avesse già un piede sulle porte del paradiso e che prima d'entrarvi volesse bene informarsi delle cose che entro vi erano.

                Il mattino di sua partenza fece un'altra volta co' suoi compagni l'esercizio della buona morte con grande trasporto di divozione e poi s'intrattenne con essi, ad uno ad [630] uno, dando saggi consigli. Parlò ai confratelli della Società dell'Immacolata Concezione, e colle più animate espressioni li incoraggiava ad essere costanti nell'osservanza delle promesse fatte a Maria SS. ed a riporre in lei la più viva confidenza. Al momento di partire chiamò D. Bosco e gli disse queste precise parole: - Ella adunque non vuole questa mia carcassa ed io sono costretto a portarla a Mondonio. Il disturbo sarebbe di pochi giorni... poi sarebbe tutto finito; tuttavia sia fatta la volontà di Dio. Se va a Roma, si ricordi della commissione dell'Inghilterra presso il Papa; preghi affinchè io possa fare una buona morte, e a rivederci in paradiso.

                Erano giunti alla porta che mette fuori dell'Oratorio, ed egli teneva tuttora stretta la mano di D. Bosco, quando si voltò ai compagni che lo attorniavano e disse: Addio, amati compagni, addio tutti, pregate per me e a rivederci colà dove saremo sempre col Signore. - Chiese ancora a D. Bosco di essere messo nel numero di quelli che potevano partecipare ad alcune indulgenze, plenarie in articolo di morte, che egli aveva ottenuto dal Papa, e gli baciò per l'ultima volta la mano.

                Partiva da Torino il primo marzo alle due pomeridiane in compagnia di suo padre. Giunto a casa e visitato dal medico, questi lo giudicò affetto d'infiammazione, e gli praticò dei salassi. La malattia allora parve rivolgere in meglio: così assicurava il medico, così credevano i parenti; ma non così giudicava Domenico. Guidato dal pensiero che è meglio prevenire che perdere i Sacramenti, egli chiamò suo padre, e: - Papà, gli disse, è bene che facciamo un consulto col medico celeste: io desidero di confessarmi e di ricevere la santa Comunione; - e fu compiaciuto. Ricevette il SS. Viatico col fervore di un [631] serafino; e prima e dopo usciva di tratto in tratto in preghiere così belle ed affettuose, che ti pareva già un beato comprensore in colloquio con Dio. Dopo alcuni giorni, benchè il medico dichiarasse il male essere stato vinto, il giovanetto domandò che gli fosse amministrato il Sacramento dell'Olio Santo; ed i parenti e lo stesso Prevosto, lusingati ed ingannati dalla serenità e giovialità del malato e dalle parole del medico, accondiscesero alla sua richiesta, non già per la necessità che ne scorgessero, ma per non dargli disgusto. Ricevuta l'Estrema Unzione colla pietà di un santo, domandò pure la benedizione papale. Munito di tutti i conforti della Santa Religione, egli provò una gioia così celestiale, che la penna non varrebbe a descrivere.

                Era la sera del 9 marzo. Chi lo udiva soltanto a parlare e lo rimirava in volto, avrebbe in lui ravvisato uno che giace a letto solo per riposo. L'aria allegra, gli sguardi tuttor vivaci, la piena cognizione di se stesso avrebbero da chiunque sgombrata l'idea che egli si trovasse in punto di morte. Un'ora e mezzo prima che spirasse, il Prevosto lo andò a visitare, e lo stette con diletto e con istupor e ascoltando a raccomandarsi l'anima. Egli stringeva in mano e baciava il crocifisso e faceva frequenti giaculatorie, tutte esprimenti il più vivo desiderio di andare presto in Cielo.

                Partito il Parroco colla speranza di rivederlo, il giovanetto si addormentò e prese mezz'ora di riposo. Indi svegliatosi volse uno sguardo a' suoi parenti, e: Papà, disse, ci siamo. - Eccomi, figliuol mio, che ti abbisogna? - Mio caro papà, è tempo; prendete il mio Giovane Provveduto, e leggetemi le preghiere della buona morte. [632] A queste parole la madre ruppe in pianto e si allontanò dalla camera dell'infermo. Al padre scoppiava il cuore di dolore, e le lacrime gli soffocavano la voce; tuttavia si fece coraggio e prese a leggere quella preghiera. Domenico ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma in fine di ciascuna parte voleva dire da solo: Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me. Giunto alle parole: “Quando finalmente l'anima mia comparirà davanti a Voi, e vedrà per la prima volta lo solendore immortale della vostra Maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinchè io canti eternamente le vostre lodi”; - Oh! sì, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Sì, sì, caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore. - Poscia parve prendere di nuovo un po' di riposo a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Dopo alcuni istanti riaprì gli occhi, e sorridente ed a chiara voce: - Addio, caro padre, addio! Ah! che bella cosa io vedo mai .... - Così dicendo e con amabile sorriso, egli spirò colle mani giunte dinanzi al petto in forma di croce. La sera del 9 di marzo 1857 eravi un angelo di meno sulla terra e uno di più in Cielo.

                Tale fu l'esclamazione di D. Bosco quando dal padre ricevette la mesta notizia, tale la voce unanime dei compagni mentre tutti piangendo e pregando si dolevano di quella dipartita, e tale pure l'opinione espressa dal Professor D, Picco nel funebre elogio che fece del suo discepolo alla scolaresca riunita.

                Che il giovane Domenico Savio sia volato al Paradiso puossi piamente dedurre e dalle virtù praticate in vita in grado non comune, e dai celesti carismi, di cui si mostrò adorno, e dalla morte invidiabile che ei fece, e [633] sopratutto da molte grazie e favori sino ad oggi ottenuti per sua intercessione.

                Un fatto singolare raccontò il suo genitore, pronto a confermare le sue asserzioni in qualunque luogo e in presenza di qualunque persona. Egli espose la cosa così:

                “La perdita di quel mio figliuolo, egli dice, mi fu causa dì profondissima afflizione, che si andava fomentando dal desiderio di sapere che fosse avvenuto di lui nell'altra vita. Dio mi ha voluto consolare. Circa un mese dopo la sua morte, una notte, dopo esser stato lungo tempo senza poter prender sonno, mi parve di vedere spalancarsi il soffitto della camera in cui dormiva, ed ecco in mezzo ad una grande luce comparirmi Domenico col volto ridente e giulivo, ma con aspetto maestoso ed imponente. A quel sorprendente spettacolo io sono rimasto fuori di me. - O Domenico! mi posi ad esclamare: Domenico mio! come va? Dove sei? sei già in paradiso? - Sì, padre, rispose, io sono veramente in paradiso. - Deh! io replicai, se Iddio ti ha fatto tanto favore di poter andar a godere la felicità del cielo, prega pei tuoi fratelli e sorelle, affinchè possano un giorno venir con te. - Sì, sì, padre, rispose, pregherò Dio per loro Affinchè possano un giorno venire con me a godere l'immensa felicità del cielo. - Prega anche per me, replicai, prega per tua madre, affinchè possiamo tutti salvarci e trovarci un giorno insieme in Paradiso. - Sì, sì, pregherò. - Ciò detto disparve, e la camera tornò nell'oscurità come prima”.

 

 

CAPO LII. Catechismi della quaresima - Onomastico di D. Cafasso. -Letture Cattoliche: VITA DI S. PAOLO - La Pasqua- Incontro di D. Bosco con antichi allievi - Il nuovo direttore dell'Oratorio a Portanuova.

 

                 IL 2 marzo i catechismi, che nei tre Oratorii di D. Bosco, si facevano tutte le domeniche e le feste, divennero giornalieri fino alla Pasqua. L'esempio e la parola, del superiore facevano parer leggera ai catechisti

questa nuova fatica. Diceva loro che dovevano essere, ad imitazione di S. Francesco di Sales, omnibus omnia facti: detto di S. Paolo, che ripetevano recitando l'Oremus del loro santo Patrono. Replicava eziandio frequentemente. - Aiutatemi a salvare molte anime. Il demonio lavora senza tregua per riuscire a perderle, e noi lavoriamo senza, posa per preservarle.

                Un giorno D. Savio Angelo gli disse: - Si riposi un poco; non si alzi tanto presto alla mattina; alla sera non si corichi così tardi; ora non è più necessario far ciò, come lo era una volta. - E D. Bosco gli rispose: - Mi riposerò poi quando sarò qualche chilometro sopra la luna.

                Perciò i catechisti in nulla si risparmiavano. Siccome la maggior parte di essi erano dell'Ospizio di S. Francesco [635] di Sales, così in questo si anticipava il pranzo, ed ognuno, o superiore o suddito, si cibava in fretta e sacrificava anche la ricreazione meridiana, per trovarsi pronto e al debito tempo nella rispettiva classe. Ed era veramente mirabile lo zelo di tutti i catechisti, di quelli specialmente che da Valdocco dovevansi portare nei due Oratorii di S. Luigi e dell'Angelo Custode; imperocchè, oltre che per la stagione invernale il più delle volte o le vie erano cattive oppure nevicava o pioveva, percorrevano ogni giorno tra andata e ritorno da 5 a 6 chilometri a piedi. Questa vita di abnegazione facevasi da tutti col più bel garbo del mondo, e colla più viva gioia del cuore.

                D. Bosco, finito il catechismo, ogni giorno con un suo chierico andava a rinchiudersi nella biblioteca del Convitto ecclesiastico per scrivere i suoi opuscoli. Quivi accadde un grazioso aneddoto, che, tra l'altro, ricorda la venerazione di D. Bosco pel suo direttore spirituale e benefattore. Venne la vigilia della festa di S. Giuseppe, onomastico di D. Cafasso. D. Bosco era già stato in sua camera a presentargli le sue felicitazioni, come soleva fare immancabilmente ogni anno; e uscitone vi mandò per lo stesso fine il chierico che aveva condotto con sè. Il buon chierico trovò D. Cafasso nell'atto di recitare il breviario; questi col dito sul libro, fisso al punto al quale era giunta la sua recita, accolse benevolmente gli augurii e gli domandò:

                - Chi siete?

                - Sono il chierico A .......

                - In qual giorno avete fatta la vestizione clericale? Per verità ora non mi ricordo più bene, rispose il chierico dopo aver riflesso.

                - E in qual giorno avete ricevuta la prima comunione? [636]

                A…..pensò alquanto e rispose: - Non saprei indicarlo precisamente.

                - Vedete, certe date non bisogna dimenticarle mai, e quando collo svolgere dei mesi ritornano questi anniversari, dobbiamo celebrarli con allegrezza, e con divozione. - Quindi ringraziandolo lo congedò.

                Il chierico ritornato nella biblioteca, riprendeva il suo lavoro e riportava a Paravia le bozze del fascicolo delle Letture Cattoliche pel mese di Aprile. Eccone il titolo:

                Vita di S. Paolo Apostolo, Dottore delle genti, per cura del Sac. Giovanni Bosco (B). Eziandio in questo libro ogni capitolo termina con una sentenza così formolata, da non più scancellarsi dalla memoria del lettore.

                Ne accenneremo i pregi colle parole dell'Armonia del 19 maggio.

 

                Il Sacerdote Bosco ha intrapreso ad esporre la vita dei Santi Apostoli, quindi quella dei Papi, affine di far conoscere coi fatti quelle verità che i nemici della fede vorrebbero celare coi cavilli dei loro ragionamenti. Questo sembra anche a noi il mezzo più adattato per premunire il popolo; perciocchè, sebbene o per mancanza di tempo o d'istruzione rifugga dai lunghi ragionamenti e dai grossi volumi, legge tuttavia con una certa avidità quanto ha l'aspetto di racconto.

                Questo libretto che è di pagine 168, oltre il pascolo morale, contiene molti fatti acconci a combattere motti errori dagli eretici per ignoranza o per malizia propugnati. - Per esempio, i protestanti vorrebbero negare la primazia a S. Pietro, e darla a S. Paolo: e loro risponde col fare notare come gli Apostoli riconobbero sempre S. Pietro per loro capo e per loro giudice nelle controversie religiose e come lo stesso S. Paolo andò a Gerusalemme per visitarlo e dargli conto della sua predicazione,, e così venerare in Pietro il Vicario di Gesù Cristo.

                I Protestanti tacciano d'intollerante la Chiesa Cattolica, perchè usa troppo rigore verso gli ostinati; e l'Autore reca le parole [637] di Paolo, colle quali chiama Elima scellerato, arca di frode e di empietà, figlio del demonio; rapporta il fatto dell'incestuoso di Corinto, che il santo Apostolo prima scomunicò, di poi, vedendo ravveduto, accolse di nuovo nella comunione dei fedeli. I quali fatti dimostrano l'intolleranza della Chiesa Cattolica essere quella stessa di S. Paolo, che non voleva alcuna società tra Cristo e Belial: pag. 21, 76, 81.

                Fra le cose che i protestanti non finiscono mai di ridire contro la confessione, si è che ai tempi degli Apostoli, non si parlò mai di tal sacramento, e tosto loro si risponde col fatte, degli Efesini, i quali, alla predicazione di S. Paolo, venivano in gran numero a dichiarare le loro colpe: Confitentes et annuntiantes actus suos: pag. 74.

                I Protestanti non vogliono la tradizione, e tosto loro Si rispondi colle parole del santo Apostolo scritte ai Corinti, quando disse: Itaque, fratres, state et tenete traditiones, quas didicistis sive per sermonem sive per epistolam nostram: pag. 69. Lo stesso è notato nella lettera scritta dalle carceri di Roma al suo discepolo Timoteo: “Quello che tu hai imparato, egli dice, procura di farlo intendere ad uomini religiosi e capaci d'inculcarlo ad altri dopo di te”: pag. 134.

                Insomma l'Autore si propone di combattere gli errori coi fatti, e ci sembra che egli raggiunga felicemente lo scopo.

                Motivo per cui raccomandiamo caldamente queste Letture, siccome il pascolo migliore contro agli errori dei tempi nostri. Valgano queste nostre parole ad incoraggiare tutti quelli cui sta a cuore il bene della religione, e specialmente i parrochi, a volersi adoperare, con quei mezzi che sono in loro potere per far correre questi libretti per le mani dei popoli cristiani.

 

                Il 12 aprile negli Oratorii celebravasi solennemente la Pasqua, che lasciava nel cuore dei giovani le più salutari impressioni. Quante volte D. Bosco aveva loro con mirabile ardore ripetuta la sua massima: - Piuttosto non vivere che peccare. - E da lui e da' suoi collaboratori si era fatto ad essi comprendere come tanti sacrifici, [638] fatiche, sollecitudini si fossero tollerate e altre ancora si fosse pronti a sopportare, pel solo desiderio della salvezza delle anime loro. E i giovani ne erano talmente convinti, che più volte si udirono ripetere., - D. Bosco, per noi, non esiterebbe ad accettare la morte!

                Ed è perciò che lo riguardavano sempre come un amantissimo padre e anche dopo molti anni, incontrandosi con lui, dopo che avevano risposto alle sue affettuose interrogazioni, sull'attuale loro stato e condizione, sulle loro famiglie, ed anche sui loro interessi materiali, spontaneamente gli manifestavano come pensassero sempre all'anima propria, indicando il tempo nel quale si erano confessati, E D. Bosco allora: -Bravo, bravo; così sono contento. Procura sempre di essere un vero figlio di D. Bosco! - Che se per caso essi non avessero pensato ad entrare in simile ragionamento, D. Bosco, con una parola e con uno sguardo pieno di bontà, da loro bene inteso, faceva comprendere il suo desiderio di conoscere come si trovassero attualmente riguardo all'anima. - E di anima come stai? - Ti mantieni sempre buono? - È  molto tempo che sei stato a confessarti? - Hai fatta la Pasqua? - Quando ritornerai a trovarmi? - Vieni da me in qualsivoglia ora! - Sabato sera o domenica mattina, vieni; aggiusteremo le cose dell'anima. - E gli rispondevano con sincerità ed affetto, e l'obbedivano come le tante volte noi abbiamo veduto, dando prova dell'efficacia delle istruzioni catechistiche che avevano ascoltate e impresse indelebilmente nel cuore, quando erano ancor giovanetti.

                Anzi queste sovente li animavano a procurare il bene spirituale dei loro amici. Ci contentiamo di un fatto. Un giovanotto stato alunno nell'Oratorio, ritornava in Torino, dopo aver esercitato il suo mestiere in molte città d'Italia. [639]

                Da ben dieci anni non sì era più confessato, e trovava grande ripugnanza al Sacramento. Un suo parente, esso pure artigiano e antico allievo, lo invitò a fare con lui una visita a D. Bosco, e venuti ambidue in Valdocco lo trovarono in sagrestia, che confessava gli ultimi penitenti.

                Il giovanotto aspettava che D. Bosco si alzasse dalla sedia, quando ecco il suo compagno dargli un spintone e gettarlo sbalordito fra le sue braccia. D. Bosco gli disse allora: - Hai paura di me? Non siamo sempre gli amici di una volta? Se ti vuo  i confessare è la cosa più facile.

                Dirò tutto io. - Il giovane intenerito, incominciò subito la sua confessione e ritornò ad essere un buon cristiano; e ancora oggi giorno ride dello scherzo del suo compagno e narra commosso ciò che Don Bosco gli disse in quel momento.

                Finite le feste Pasquali, i tre Oratorii avevano ripreso il loro andamento ordinario, e quello di S. Luigi, che dopo la morte del Teol. Paolo Rossi non aveva più avuto a Direttore verun sacerdote, era stato presieduto dall'avvocato Gaetano Bellingeri, un laico che aveva un cuore da apostolo. Ma non poteva più a lungo durare in quello, stato precario, e D. Bosco andava studiando ove trovare un sacerdote secondo il suo cuore.

                Alcuni mesi dopo, egli incontrava un mattino, in via Dora Grossa, il Teol. Leonardo Murialdo, e fermatolo, gli diceva: - Vorrebbe ella pagarmi la colazione? - Il Murialdo non se lo fece chiedere due volte e subito invitava il buon servo di Dio ad entrare in una bottega da caffè. Qui tra una facezia e l'altra, D. Bosco gli fece conoscere come avesse bisogno di un sacerdote fornito delle stesse doti di lui, per Direttore dell'Oratorio di S. Luigi; e gli faceva istanza perchè accettasse quell'incarico. Il Teologo [640] Murialdo, che già con molto frutto dei giovanetti aveva prestata l'opera sua in Vanchiglia ed anche a Portanuova, accettò, mettendosi tutto a disposizione di D. Bosco. Da quel momento egli tenne l'Oratorio di S. Luigi come cosa sua la più cara, e ne fu Direttore fino al settembre del 1865, nel qual mese, andato a Parigi, volle passare un anno scolastico nel celebre Seminario di S. Sulpizio, tutto dato al ritiro, allo studio ed alla pietà. Egli era un santo, e non si può descrivere la carità che animavalo per la gioventù. Nulla tralasciò perchè l'Oratorio a lui affidato rassomigliasse a quello di Valdocco, e vi riuscì in modo meraviglioso con bene immenso delle anime. Non guardava a fatiche e a spese; era un altro D. Bosco; e questi aveva in lui piena confidenza; sicchè sgravato di quella cura poteva raddoppiare la sua sorveglianza sull'Oratorio di Vanchiglia. Provvedeva però sempre all'Oratorio di San Luigi gli assistenti e catechisti, coadiuvati da nobili signori.

                In quanto all'Oratorio di S. Francesco di Sales Don Bosco lo teneva sotto la sua immediata direzione ancora per vari anni, e i giovani esterni continuavano ad accorrervi numerosissimi fino al 1862. Egli faceva sempre il catechismo in chiesa ai più adulti, che entusiasmava cogli esempi graziosi, da lui narrati sul fine delle interrogazioni. Al Teol. Marengo, catechista assiduo per anni ed anni che non guardava ad incomodi o sacrifizi, in quest'anno 1857 si era aggiunto il Ch. Re, appartenente all'Archidiocesi, e che poi fu teologo collegiato e canonico della Metropolitana, il quale per fare il catechismo tutte le domeniche prendeva posto in coro.

 

 

CAPO LIII. Continua la Lotteria - Soccorsi delle Autorità, dell'Imperatrice delle Russie e del Re - Decreto di Urbano Rattazzi - Esercizi spirituali nell'Oratorio - Il mese di Maggio e i fioretti dei giovani alla Madonna - Letture Cattoliche - Il primo alunno dell'Oratorio ordinalo Sacerdote - D. Bosco benefattore, consigliere, guida di molti preti diocesani.

 

                IL LAVORO spirituale, intellettuale, materiale non cessava mai un istante nell'Oratorio di Valdocco. Qui non ci fermeremo a dire per singolo delle sollecitudini, delle noie, delle fatiche che la Lotteria diede a D. Bosco, a D. Alasonatti e a tanti benemeriti signori, tra cui il Cav. Lorenzo d'Agliano, l'Avvocato Gaetano Bellingeri e il distinto proprietario Scanagatti, i quali ebbero la costanza di passare più volte le intere notti con quelli dell'Oratorio, a fine di preparare i biglietti. Ricordiamo solo che per mezzo dei promotori e delle promotrici i biglietti si distribuivano a migliaia, ed ogni ordine di cittadini ne comperò in copia, non tanto per la speranza di guadagnare un premio a sorte, quanto per la soddisfazione di porgere la mano ad un'opera che reputavano utilissima alla religione ed alla civile società. A tutte le [642] Autorità dello Stato si era mandata preghiera perchè volessero concorrere, mentre le magnifiche sale di casa Gonella attraevano le folle, bramose di visitare gli oggetti esposti.

Anche gli uomini del governo sì mostrarono cortesi verso D. Bosco. Il Ministro della guerra gli scrisse:

 

                Nel far plauso al divisamento che sta per mandar ad effetto codesta Direzione degli Oratorii di San Luigi, di S. Francesco e del S. Angelo Custode, di procurarsi mezzi onde promuovere il vantaggio morale della gioventù abbandonata, mercè una lotteria di oggetti, frutto di oblazioni di benefattori, ritengo ben volentieri per conto mio particolare quattro decine di biglietti di detta lotteria, di cui ne sarà versato l'ammontare a mani della S. V. Molto Rev. ritornandole contemporaneamente le sedici restanti decine di detti biglietti che mi fece pervenire a scelta.

                Nell'augurare il più felice esito alle pie sollecitudini della S. V. M. R. mi è grato di professarle gli atti della perfetta mia considerazione.

                Torino, aprile 1857.

 

Il Ministro

ALF. La Marmora.

 

                Il Ministro dell'Istruzione Pubblica, pur plaudendo all'Istituzione di D. Bosco, non ritenne i biglietti di Lotteria inviatigli, e rispondeva con un foglio che porta il numero 1585:

 

                               Sig. Sac. Bosco Direttore degli Oratorii pei giovani abbandonati,

 

                Nell'istituzione dei tre Oratorii ai quali accenna, il programma di Lotteria, che andava unito al controsegnato foglio di V. S. Ill.ma e M. Rev., il sottoscritto ravvisa con compiacenza una di quelle tante opere di squisita carità Evangelica che onorano tanto il paese e chi colle zelanti sue cure le ha promosse. E quantunque questo ministero sia disposto a concorrere anch'esso coi mezzi [643] che sono in suo potere, perchè le scuole stabilite in tali Oratorii acquistino sempre maggiore sviluppo, non può tuttavia incaricarsi della distribuzione dei biglietti trasmessigli per essere siffatta distribuzione troppo estranea alle sue attribuzioni.

                Quindi nel far voti perchè l'effetto della suddetta istituzione corrisponda all'intendimento della benemerita Commissione promotrice, il sottoscritto si reca a debito di restituire alla V. S. i biglietti trasmessigli e le professa i sensi della sua distinta considerazione.

                Torino, il 29 aprile 1857.

 

Il Ministro

G. LANZA.

 

                Tuttavia lasciava le scuole dell'Oratorio libere nella scelta dei maestri, le aveva sussidiate più volte e in quest'anno conferiva loro un premio di lire 1000 come appare da una memoria di D. Bosco.

                Gli rispose anche il Ministro dell'Interno, e per dargli un attestato della sua stima, emanava un Decreto degno di essere conosciuto non solo per la sovvenzione che vi è ordinata, ma per le considerazioni sopra cui è appoggiato.

 

Il Ministro Segretario Di Stato

per gli affari dell'Interno

 

                Visto il programma della Lotteria di oggetti a favore degli Oratorii di S. Luigi a Porta Nuova, di S. Francesco di Sales in Valdocco, e dell'Angelo Custode in Vanchiglia, che si sta eseguendo per cura del benemerito Sac. D. Bosco, sotto gli auspicii del quale nacquero e si mantengono con utile grandissimo dei giovani maschi abbandonati li detti tre Oratorii, aperti non ha guari ai tre principali lati di questa Capitale, per dare ricovero ed educazione, conforme alla condizione loro, ai giovani pericolanti di Torino, o che altrimenti vi giungono dalle province; [644] Vista la lettera del prefato sig. Don Bosco, colla quale fa offerta al Ministero di quattrocento biglietti della Lotteria stessa a centesimi cinquanta caduno, colla viva preghiera di aggradirli a sollievo delle strettezze in cui versano le dette pie Case:

                Considerando che senza un possente aiuto, che il D. Bosco, spera dalla carità pubblica, a cui in gran parte affida l'opera sua filantropica, gli mancherebbero i mezzi indispensabili per continuarla con successo e vantaggio grandissimo della classe povera;

                Ritenuto che il ministero, conscio delle critiche condizioni finanziarie in cui trovossi più volte l'Oratorio di Valdocco, da cui hanno principio e vita le altre due pie Case di Porta Nuova e Vanchiglia, prontamente al medesimo soccorse;

                Che è massima consacrata dal Governo di sussidiare per quanto in lui sta ogni Istituto, che sotto qualsiasi denominazione imprende ad educare il popolo, o facilitargli la via a quella educazione morale, che i giovani abbandonati non possono altrimenti procacciarsi;

 

Decreta:

 

                Sui fondi casuali del Bilancio di questo Ministero pel corrente anno è assegnata al Rev. Sig. Don Bosco, Direttore dell'Oratorio maschile in Valdocco, Presidente della Commissione della Lotteria anzi accennata, la somma di L. 200, importare di n. 400 biglietti a centesimi 50 caduno, oltre il dono dei biglietti stessi, che a un tal fine saranno al medesimo restituiti a totale beneficio dell'Oratorio di Valdocco, Vanchiglia e Porta Nuova, a favore dei quali con merito di lode e filantropico zelo venne dal predetto signor Don Bosco la Lotteria avviata. L'ufficio centrale di Contabilità è incaricato della spedizione del relativo mandato di pagamento della somma anzidetta di L. 200, in capo al signor Don Bosco predetto, sulla Tesoreria Provinciale di questa Capitale

                Dato a Torino, addì 30 aprile 1857.

 

Il Ministro

U. RATTAZZI.

 

                Lo stesso Ministro nel trasmettere a D. Bosco copia del suddetto decreto, vi univa la seguente sua lettera: [645]

 

                MINISTERO DELL'INTERNO.

 

                Il Ministero dell'Interno aggradisce l'offerta che dal Rev. Signor D. Bosco gli viene fatta dei 4oo biglietti della Lotteria d'oggetti a favore delli Oratori di Valdocco, Portanuova e Vanchiglia, e dispone per l'emissione in di lui favore del mandato di pagamento della somma di L. 200 a cui li medesimi rilevano a centesimi, 50 caduno: senonchè scorgendo, chi scrive, nella Lotteria,che si sta attuando un nuovo tratto di quella filantropica carità,,che sì eminentemente distingue il Sig. Don Bosco, lo prega di ricevere i biglietti stessi che qui si compiegano qual dono che il Ministro fa a benefizio delli detti Oratorii, siccome novella prova dell'interessamento che il medesimo prende all'incremento dei medesimi.

                Torino, addì 30 aprile 1857.

 

Il Ministro

U. RATTAZZI.

 

                D. Bosco approfittandosi di questa benevole dimostrazione si adoperava di ricavare il maggior vantaggio possibile dalla Lotteria.

 

                CITTÀ DI TORINO

                Segreteria - Divisione I. Sezione 2.

                Protocollo della Sezione 199.

 

                Signor D. Gio. Bosco Direttore degli Oratorii maschili di San Francesco di Sales, di S. Luigi ecc. Torino.

 

                Per incarico del Sig. Intendente Generale di questa Divisione Amm.va il sottoscritto si pregia di restituire alla V. S. l'unita pratica della Lotteria a favore degli Oratorii da Lei diretti unitamente al Decreto del prefato Sig. Intendente Generale col quale è fatta facoltà alla Commissione della Lotteria di emettere altri 24.492 biglietti, e di prorogare l'estrazione della Lotteria, che era prima fissata per il 4 maggio, fino al 15 prossimo giugno. [646] Il prelodato Sig. Intendente ha altresì dichiarato non potersi far luogo ad altra maggiore distribuzione di biglietti o altra proroga per l'estrazione perchè la somma complessiva di L. 3178 a cui ascenderebbe il valore totale sembra già considerevole, e perchè essendo state presentate al Ministero delle Finanze altre domande per simili Lotterie, queste non possono autorizzarsi senza che la presente abbia avuto il suo compimento.

                Torino, addì 28 aprile 1857.

 

Il Vice sindaco.

BARICCO.

 

                Alcune settimane dopo, due regnanti beneficavano l'Oratorio. L'Imperatrice Vedova di Russia, venendo da Romaera di passaggio in Torino, ove ebbe un'accoglienza festiva e cordiale quale al suo grado si conveniva. Distribuì decorazioni a molti Piemontesi, ma ne volle eccettuati i Ministri Lanza e Rattazzi; sparse molte beneficenze sul Piemonte, ma protestò che non voleva aver nulla da fare, cogli emigrati politici; e comprese nella lista delle sue largizioni anche l'Oratorio di Valdocco.

 

                MINISTERO IMPERIALE DEGLI AFFARI ESTERI.

                Legazione imperiale di Russia.

 

                Alla Direzione dell'Opera degli Oratorii di S. Francesco di Sales a Torino.

 

                La Legazione Imperiale di Russia fu incaricata di prelevare sui fondi lasciati da S. Maestà l'Imperatrice pei poveri di Torino la somma di L. 300 a profitto dell'Opera degli Oratorii di San Francesco di Sales ecc.

                Facendosi un dovere di trasmettere qui acclusa detta somma, la Legazione Imperiale prega la Direzione della detta Opera di volergliene accusare ricevuta.

Il V Segretario delle Legazioni

RSEHITCHERENE.

                (Trad. dal francese). [647]

 

                Anche il Re Vittorio Emanuele, il quale noti aveva dimenticato ciò che D. Bosco AVEVAGLI scritto nel 1855, riceveva 500 biglietti della Lotteria, che furono subito pagati, per suo ordine, dal Conte generale d'Angrogna.

                Un giorno il generale venne a parlare col Re di Don Bosco e delle sue opere. - A proposito, disse il Re, dimenticandosi dei primi biglietti ricevuti e pagati: D. Bosco ha messa su una lotteria?

                - Maestà, sì.

                - Orbene; mandate a prendere 500 biglietti a mio conto. Aiutiamolo questo povero diavolo d'un prete! Ma però a patto che non mi scriva più certe lettere.

                Il Conte d'Angrogna non volle ricordare al Re i biglietti già presi, e chiestine a D. Bosco altri 5oo, li pagò.

                Il Conte, divenuto uno dei primi amici di Don Bosco, aveva affezionato a lui anche il cuore dì Vittorio Emanuele. Il Sovrano infatti desiderò più volte e cercò di conferire con D. Bosco, ma sempre invano.

                Volle incontrarsi con lui in Torino, mandò un suo ufficiale a prevenirlo; ma D. Bosco era fuori di casa. Anche a Firenze, quando D. Bosco recossi colà, Vittorio Emanuele non potè appagare quel suo desiderio, perchè ne fu avvisato quando il servo di Dio era già partito.

                Il Re professava una gran stima per D. Bosco. Andato a visitare a Genova Mons. Charvaz verso il 1867, mentre entrava nella camera dell'Arcivescovo che lo accompagnava, esclamò, udito da coloro che erano in sala, fra i quali D. Angelo Fulle economo del Seminario:

                - Monsignore! Sa! D. Bosco è veramente un santo!

                Abbassatasi in quel momento la portiera, non si potè udire la risposta dell'Arcivescovo, che dovette però essere conforme all'esclamazione del Sovrano, conoscendo egli [648] in quante maniere si manifestasse l'ardente zelo di Don Bosco per la salute eterna del prossimo.

                Frattanto per il mese di maggio gli abbonati alle Letture Cattoliche avevano ricevuto un fascicolo stampato da Paravia: Diario Mariano preceduto dalla Conversione di Maria Alfonso Ratisbona alla nostra santa fede cattolica. Il Diario consisteva in due versi endecasillabi rimati per ogni giorno dell’anno, in onore di Maria Vergine. Il libro era anonimo.

                Questo era ben adattato al mese della Madonna, che i giovani amavano con tanto affetto, e D. Bosco cercava di accenderlo maggiormente, suggerendo la pratica di piccole virtù. Giuseppe Reano, dopo la narrazione degli esercizi spirituali fatti con gran fervore dagli studenti, ci lasciò scritto:

                “D. Bosco onde promuovere sempre più la divozione a Maria SS. diede consiglio ai giovani che ciascuno si proponesse di fare un fioretto a suo piacimento, che lo scrivesse sopra un foglio e lo rimettesse nelle sue mani. E una sera si trovò colle mani piene di questi biglietti. Ne lesse in pubblico alcuni che erano bellissimi: per es. quelli di Rua, Vaschetti, Bonetti, Francesia, Cagliero, Bongiovanni ecc. Mi ricordo quello di Rocchietti: Anch'io, o cara madre, voglio farli una promessa; conosco che per me è assai difficile, attesa la mia fragilità, ma, coll'aiuto di Colui che lutto può, spero di eseguirla compiutamente. Ecco: cinque sono i miei sensi e trenta i giorni del mese al tuo onore consacrati. Or bene, io li prometto di mortificarmi ogni giorno in uno dei miei sensi, dimodochè ogni cinque giorni ripeterò la mortificazione di ciaschedun senso; il che ripetendo per sei volle giungerò contento al termine di questo mese. [649]

                “Un'altra sera di questo stesso mese di maggio Don Bosco diceva: - I fioretti migliori sono quelle pratiche che si fanno comunemente ogni giorno: per es. baciar la medaglia tre volte, oppure la terra; baciare il crocifisso prima di coricarsi, dare in ciascun giorno un buon avviso ad un compagno, leggere qualche pagina che riguardi Maria SS., quindi manifestare ciò che si è letto ad un compagno; recitare con devozione le brevissime preghiere prima e dopo i pasti, il lavoro, lo studio; far bene il segno della croce e via via.

                Il 16 maggio un giovane domandò a D. Bosco in pubblico qual fu la regola o la chiave che Savio Domenico usava per divenire così buono e santo da essere veramente un figlio della Madonna. D. Bosco gli rispose

                - La chiave e la serratura che usava Savio Domenico per entrare nella via del paradiso e chiudere il passaggio al demonio, era l'obbedienza e la gran confidenza nel Direttore spirituale”.

                Nel mese di giugno accadeva nell'Oratorio un memorabile fatto. Il giorno 6 D. Reviglio Felice, compiuti i suoi studi, veniva elevato alla dignità Sacerdotale, e fu il primo prete dato da D. Bosco alla Chiesa. Mons. Fransoni, dietro raccomandazione del servo di Dio, aveagli concesso il patrimonio ecclesiastico. Il giorno dopo, Domenica della SS. Trinità, D. Reviglio celebrava la Santa Messa, assistito da D. Bosco e festeggiato a mensa e in cortile, con musiche e poesie. La stessa sera però si congedava dal suo benefattore e per ragionevoli motivi si dava ad esercitare il suo ministero nell'Archidiocesi. Fu maestro dotto e stimatissimo di morale a que' sacerdoti che aspiravano ad essere parrochi, ed egli stesso, parroco prima a Volpiano e poi a Sant' Agostino in Torino, [650] occupò un posto de' più ragguardevoli tra il clero. Ma rimase sempre attaccatissimo a D. Bosco, per opera del quale Iddio l'aveva sollevato dalla polvere.

                D. Bosco lo contraccambiava con affetto paterno, non solo perchè in lui vedeva la splendida riuscita di tante sue fatiche e sacrifizi, ma di più perchè in lui venerava il carattere sacerdotale. E perciò quale per D. Reviglio, tale fu per i moltissimi sacerdoti di varie diocesi che lo avvicinarono, dei quali si rese benemerito con tanti atti di carità in casi innumerabili.

                Egli s'impegnava in favore di questo o di quel sacerdote che trovandosi in bisogno ricorreva a lui, e prestò loro valido braccio in strettezze di ogni fatta. Molto spesso si sottopose a gravi travagli per ottener loro protezione e difesa presso il Governo, i Vescovi e il Papa. In più di una circostanza si occupò per trovar ad essi posizioni convenienti al loro grado e spesso eziandio loro somministrando generosi sussidi pecuniari. “Un giorno narra D. Turchi, capitò da D. Bosco un povero prete, male in arnese, a chieder soccorso. D. Bosco, al quale alcuni amici avevano fatto preparare una veste talare da lui indossata una volta sola per provare se gli andava bene, senz'altro guardò se era adattata al dosso del supplicante, e gliene fece dono”.

                Di questi fatti ne abbiamo un buon dato, ma per ora basti il poco sopra accennato e ciò che siamo per dire. Il molto di più verrà poi.

                Nella diocesi d'Ivrea eransi moltiplicati i ladri, che spogliavano chiese ed altari, non risparmiando i vasi sacri racchiudenti le specie sacramentali. Rarissime volte venivano scoperti. Perciò quel Vescovo, il 3 luglio 1857 in sue lettere pastorali, denunziava ben sette furti o attentati [651] sacrileghi avvenuti nelle chiese della sua diocesi, con espressioni di vivo dolore; confortava i fedeli a farne onorevole, ammenda; raccomandava ai parrochi di non lasciare nei tabernacoli vasi d'oro o d'argento, anzi ordinava che li vendessero, sostituendone altri di metallo dorato o argentato; e dichiarava interdette le chiese ove fossero involate le specie eucaristiche. Il Ministro Rattazzi invitava allora Mons. Moreno a revocare quelle disposizioni, dicendole lesive de' diritti dei Municipii; e siccome il Vescovo tenne fermo, sollecitò i sindaci ad impedire la vendita dei vasi sacri, ed, ove ciò si facesse, comandò che si rivolgessero senza indugio all'autorità giudiziaria. Se poi fosse pronunziato l'interdetto contro una chiesa, provvedessero alla pubblica quiete, dondone tosto avviso al Ministero.

                Intanto i parrochi leggevano dai pulpiti la circolare del Vescovo.

                D. Thea, parroco di San Salvatore in Ivrea, commentandola vi aggiunse qualche parola, giudicata offensiva pel, Governo e si buccinò che sarebbe stato imprigionato. Don Riccardini, professore insegnante ad Ivrea, frequentava il club ove si trovavano sovente pretore, brigadiere, segretario, sindaco e le altre autorità; e pregò il segretario a volerlo avvertire subito che sapesse essere stato spiccato, mandato di cattura contro D. Thea. Ed ecco una notte verso, le dodici giungere il segretario alla canonica di D. Thea ove il Professore alloggiava e chiedere di parlare con lui che, già in letto, dormiva, e confidargli che la cattura era fissata per il domani a mezzo giorno. D. Riccardini a quell'avviso non potè più chiudere occhio; alla mattina scese in chiesa alle 5 e lasciò che il parroco celebrasse in pace la Santa Messa; quindi lo avvertì e recossi a prendere consiglio da Mons. Moreno. Il Vescovo fece [652] preparare la vettura del seminario, la mandò sul ponte fuori della città,  scrisse una lettera a D. Bosco e la consegnò a D. Thea, il quale per non destar sospetto, passeggiando come uno che va a diporto, salì poi sulla vettura e al gran trotto fu a Torino.

                Giunto in Torino, si presentò subito a D. Bosco che, letta la lettera di Monsignore, lo condusse in una casa di amici fidati, posta in faccia a quelle carceri senatoriali nelle quali avrebbe dovuto essere rinchiuso, ed ivi lo tenne celato per più mesi. Venuto a Torino il professore, Riccardini, fu all'Oratorio e D. Bosco lo condusse ove era D. Thea. Quindi, per suo consiglio, Riccardini si recò a visitare il Procuratore generale del Re il Conte Corsi, al quale confidò la cosa.

                Il Procuratore gli disse: - D. Thea stia nascosto, non si faccia vedere alle finestre, e procuri di non lasciarsi prendere prima che sia emanata la sentenza. Se fosse condannato, passeremo in appello, ed egli allora venga a consegnarsi: saranno mesi e mesi di meno di carcere e sarà più facile sciogliere la questione. - Così venne fatto; Thea fu condannato in contumacia a quattro anni di carcere. Allora si consegnò traversando solamente la strada; si appellò, e dalla Corte di appello venne assolto, non senza intromissione degli amici dell'Oratorio.

                Ma il professore Riccardini, dal primo momento che si era incontrato con D. Bosco nella sopraddetta occasione, aveva stretto con lui una grande amicizia. Quindi, mandato a far scuola a Vigevano, di là nelle vacanze veniva a Torino e diceva messa nell'Oratorio essendo soli preti D. Bosco e D. Alasonatti; e più tardi dava lezioni di filosofia ai due chierici Provera e Cerruti. D. Bosco colla sua affabilità lo aveva trattato con tante significazioni di [653] stima, che ne era rimasto edificato e nello stesso tempo come innamorato. Così D. Bosco si diportava verso tutti i sacerdoti, mosso non da semplice cortesia, ma da spirito di religione e di fede per l'altissima idea che ebbe sempre del sacerdozio.

                Verso i canonici e molti parrochi usava particolari attenzioni. L'abbiamo visto baciar loro umilmente la mano, come pure al Teologo Belasio Missionario apostolico; e questa venerazione insinuavala ne' suoi giovani, sicchè era loro abitudine salutare per istrada qualunque sacerdote che fosse costituito in qualche dignità ecclesiastica.

                Ricordava con gran compiacenza i compagni di seminario e, quando incontravali, li trattava con molto affetto.

                Se andavano a visitarlo, li riceveva con espansione, pel che venivano essi anche da lontani paesi a rivederlo, sicuri di fargli piacere e desiderosi di godere anche un poco la sua compagnia e di edificarsi a' suoi belli esempi di ogni virtù. Con essi fu sempre largo di ospitalità, come in generale lo era per tutti i sacerdoti, cui offeriva mensa e letto gratuitamente e per parecchi giorni.

                Alcuni, per la grande stima che si era acquistato colle sue opere, non osavano più trattarlo coll'antica famigliarità, col dargli del tu, e lo riguardavano quasi come superiore. Ma D. Bosco, con qualche facezia, ne li dissuadeva, esigendo che si ricordassero della loro amicizia sempre viva come negli anni trascorsi, nè permetteva che gli dessero del Lei. Un sacerdote, di cui più non ricordiamo il nome, un giorno gli diceva: - Come è possibile che io usi alla famigliare con uno che tratta coi Cardinali e col Papa a tu per tu, e se a quest'ora non ha il titolo di Monsignore, lo avrà ben presto? - E sentissi rispondere: - Io non sono che il povero D. Bosco! [654]

                Ai sacerdoti poi in generale, dopo qualche scherzo, soleva sempre ripetere una buona massima tratta dal Vangelo, e più sovente l'abbiamo udito far sue quelle espressioni: - Noi siamo il sale della terra e la luce del mondo e comportiamoci in modo che si verifichino le parole del Salvatore, cioè che gli uomini veggano le nostre opere buone e glorifichino il Padre nostro che è nei cieli.

                Spesso era da essi richiesto di consigli, e avutili rimanevano pienamente soddisfatti. “lo, diceva D. Piano, ne provai la saggezza. Una volta avendo a lui confidati alcuni miei dubbi, esso mi diede norme sicure e poi a mia richiesta scrisse dietro un'orazione stampata a Maria Ausiliatrice queste sentenze: Esto humilis et patiens et Dominus Jesus debit tibi velle et posse. Cor tuum sit contanter super egenos et pauperes. Questa immagine io la tengo preziosissima e quasi sempre sott'occhi, e mi serve di regola nella difficile missione di parroco. E quella sentenza fu come la traccia dell'elogio funebre che pronunziai nella chiesa parocchiale di S. Benigno Canavese, in occasione della trigesima dalla sua morte”.

                Quando vedeva che qualcuno di essi non rispettava il,suo carattere, ne provava profondo dolore, e fu visto più volte versar lagrime. Avrebbe voluto poter nascondere il disgraziato agli occhi di tutti. Non pochi di questi gli vennero raccomandati dai propri Vescovi o dai Vicari Capitolari. Egli colla più ardente carità e con grande rispetto si adoperava per riabilitarli, esortandoli, intrattenendosi con loro in lunghe conferenze e talora con .soccorsi pecuniari. Il suo zelo fu largamente ricompensato, e quasi tutti potè ristorarli nell'onore sacerdotale in faccia a Dio, in faccia agli uomini, in faccia ai loro superiori; e rimessi sulla buona via, furono perseveranti nel [655] compiere con esattezza i doveri ecclesiastici. Alcuni, caduti perfino nell'eresia, li convertì inducendoli a fare edificante ritrattazione. Si potrebbero all'uopo citare esempi e nomi, i quali però si tralasciano per delicatezza. L'opera più difficile si era tener lontani dall'occasione coloro che l'autorità ecclesiastica aveva puniti per intemperanza. D. Bosco incontrandoli quando erano ricaduti in qualche,eccesso, non cercava mai di umiliarli, ma li fissava con un'aria di tanta bontà e compassione, che i poveretti sentivansi ferire in mezzo al cuore. Non lasciavasi mai,fuggire parola che potesse riuscire a disdoro del sacro carattere di cui erano insigniti.

                Nell'esortare poi questi fuorviati, che talora gli obbiettavano le inveterate abitudini, le relazioni contratte, le vendette e i pericoli temuti, la mancanza di vocazione, sapeva dimostrare la facilità colla quale, mediante la grazia di Dio, si poteva superare ogni ostacolo, e li incoraggiava a bandire ogni timore, col pensiero della bontà e protezione di Maria, ricordando le parole di D. Cafasso: “Quando anche per caso un sacerdote fosse entrato nel santuario senza vocazione, se si mette davvero e riesce un bravo figlio di Maria, sia certo che questa madre gli otterrà da suo Figlio per bontà e misericordia quello che non aveva per vocazione, cioè lo spirito del suo stato, le doti necessarie ed un complesso di grazie da renderlo un vero ministro del Signore”.

                In quanto all'avvenire, se li vedeva sfiduciati nel conseguimento dell'eterna salute, o nel ricuperare il prestigio perduto in mezzo al popolo, soggiungeva: - Amate, onorate, servite Maria; procurate di farla conoscere, amare ed onorare dagli altri. Non solo non perirà un figlio che abbia onorato questa madre, ma potrà anche aspirare ad una grande corona. [656] Non sì può descrivere quanto gli stessero a cuore le anime dei sacerdoti. Un giorno d'estate, erasi inoltrato in nostra compagnia fra le montagne che circondavano un villaggio ove era ospitato, e dopo due ore di cammino si fermò innanzi alla casa di un cappellano. D. Bosco, afflitto da otto giorni da un continuo e atroce mal di denti, oppresso dal caldo, tutto coperto di sudore erasi fermato un istante. Quella casa isolata sembrava deserta. A un tratto per un sentiero si vede salire un contadino. Don Bosco gli chiese se il prete stesse bene in sanità.

                - È  infermo da molto tempo, rispose il contadino, e di una malattia dalla quale non si guarisce.

                - Gli hanno già amministrati i Sacramenti?

                - Non ancora.

                - Viene talvolta qualche sacerdote a visitarlo?

                - Non saprei; non ne ho visto alcuno.

                - E chi lo assiste?

                - Il figlio del suo massaro; e da un mese egli non vuole nessun altro in sua camera.

                D. Bosco stette alquanto pensoso, quindi rivoltosi a noi

                - Aspettatemi, - disse: e salì le scale. Le discese dopo un'ora e più. Rimessici in cammino, non lo interrogammo di ciò avesse fatto o detto, ed egli non ne parlò. Ma si poteva ben sospettare che la carità avesse guidati i suoi passi.

 

 

CAPO LIV. La festa di S. Luigi - Morte di Maria Occhiena - Il Cardinal Gaude nell'Oralorio - Conversione di un giovane apostata in punto di morte - Letture Cattoliche - VITA DEI SOMMI PONTEFICI S. LINO, S. CLETO, S. CLEMENTE - Giudizio dell'ARMONIA intorno a questo fascicolo - Vita dei sommi Pontefici S. ANACLETO, S. EVARISTO, S. ALESSANDRO I - Estrazione della Lotteria.

 

                DALLA piccola cronaca di un nostro confratello togliamo alcune note del mese di giugno.

                “Il 21 gli alunni delle scuole private dei professori D. Picco e Bonzanino celebravano la festa annuale di S. Luigi Gonzaga, nella chiesa della Regia Basilica Magistrale. Vi prendevano parte gli studenti di Umanità e dì Rettorica dell'Oratorio e D. Bosco conservava i versi scritti in quell'occasione. I giovani di Valdocco si preparavano a festeggiare S. Luigi il 29.

                Il 22 giugno, dopo essere stata lungamente inferma, alle 11 di sera faceva una morte invidiabile nell'Oratorio Maria Anna Occhiena, zia di D. Bosco e sorella di sua madre. Ad essa era stata affidata la biancheria della casa [658] e aveva prestati caritatevolmente i più utili servigi. Per questa morte la festa dell'onomastico di D. Bosco fu trasportata verso il fine dell'anno scolastico. La sera poi del 26 l'Em.mo Cardinale Francesco Gaude, illustre figlio di S. Domenico e gloria del Piemonte, nativo di Cambiano, veniva a far visita a D. Bosco, dopo aver assistito agli ultimi istanti del suo ottimo padre, che eragli morto tra le braccia. Fu accolto con gran festa in Valdocco, s'improvvisò un trono sotto il porticato, sul quale salito l'Eminentissimo Principe disse cose grandi in lode di D. Bosco, dell'Oratorio e dei suoi giovani”.

                Aggiungeremo come D. Bosco in questi giorni strappasse una povera anima dal baratro dell'apostasia e della perdizione eterna. È un fatto che abbiamo appreso dallo stesso D. Bosco e dal Teol. Leonardo Murialdo.

                Un giovane, che aveva frequentato l'Oratorio di Valdocco, caduto nelle reti dei protestanti, era stato mandato agli studi in Ginevra, perchè fosse insignito del grado di ministro. Siccome però lasciava talvolta intravedere di mantenersi cattolico nel fondo del cuore, colle solite arti infernali, i suoi seduttori lo spinsero a deplorevoli disordini per strappargli del tutto la fede. In conseguenza, affetto da malattia incurabile, fu ridotto al punto che i medici, cercando per lui un sollievo, ordinarono che fosse mandato a Torino, ove abitava sua madre. Essendo questa povera, i Valdesi largheggiarono subito con lei in soccorsi, che furono incautamente accettati; e si offersero eziandio di assistere l'infermo e vegliarlo, ma coll'intenzione d'impedire che alcun prete potesse venirgli vicino.

                La stessa sera del suo arrivo quell'infelice, agitato da fieri rimorsi, diceva a sua madre: - Vorrei parlare col nostro curato, perchè mi sento molto male. - La madre, [659] perchè si tranquillasse, gli promise che sarebbe andata a chiamarlo. L'indomani infatti si presentò in parrocchia. Ma i Valdesi aveanla prevenuta. Da quel punto l'infermiere della loro setta, o l'evangelista, o il pastore, o il ministro, di giorno e di notte, erano sempre accanto al letto della loro vittima o nella camera vicina. Il curato venne, vennero anche altri sacerdoti, ma non fu mai loro concesso di entrare. Si dava loro per risposta, ora che il giovane non voleva veder preti, ora che il suo male non era grave, ovvero che il medico gli aveva proibito di ricevere visite.

                L'infermo, che si accorgeva non essere più padrone di se stesso, angosciato per non vedere alcun sacerdote che lo preparasse a ben morire, ormai all'estremo de' suoi giorni, nauseato dalle parole vuote di consolazione colle quali si pretendeva di infondergli sicurezza e pace, si rivolse al Signore. E il Signore non lo abbandonò.

                Un, sacerdote d'accordo col curato andò da D. Bosco e gli raccontò ogni cosa. D. Bosco risolse di fare a qualunque costo una visita a quel poveretto; e un giorno alle due dopo il mezzodì, accompagnato da due robusti giovanotti, si porta all'abitazione dell'infermo che era attigua alla chiesa di S. Agostino. Suona il campanello e viene ad aprire la porta lo stesso Ministro Valdese Amedeo Bert.

                - Chi cerca, signor abate?

                - Cerco di parlare all'infermo.

                - Non si può; non può ricevere; ne è rigorosamente proibito dal medico.

                - Mi lasci passare che io ho fretta; non ho tempo da star qui in chiacchiere. Farò una semplice commissione alla madre, Oh madre, buon giorno! continuò D. Bosco avvicinandosi alla donna che entrava nella sala; sono [660] venuto a prendere notizie del vostro Pietro. - E ciò dicendo apre l'uscio della camera dell'ammalato; e mentre il ministro gridava forte: - Non si può, non si può, - egli era già accanto al letto  - Caro Pietro!… gli disse Don Bosco.

                - Oh chi vedo mai!….. esclamò il giovane colle lagrime agli occhi.

                 - Pietro, come stai? Ti ricordi ancora di me? Mi conosci ancora?

                 - Sì, che la conosco.... D. Bosco!.... l'antico amico dell'anima mia!…..che mi ha dato tanti consigli…..ma che purtruppo ho dimenticati!.... Ho vergogna di guardarla in volto.

                - Se mi conosci, se io sono il tuo amico, perchè temi?

                - Temo non lei, che è tanto buono; ma ho vergogna perchè fui ingrato, perchè ho commesse molte nefandità.

                Il Ministro, che dava vivi segni d'impazienza, interrompeva il dialogo: - Signor abate, la prego di ritirarsi perchè la commozione cagionata all'infermo può tornargli fatale. Questa sua visita è una sorpresa: Pietro non voleva ricevere nessuno, ed ora non ha bisogno di niente da lei.

                - Pietro, continuò D. Bosco senza badare al Ministro, riposati alquanto e non istancarti a parlare; mi fermerà ancora un po' di tempo a tenerti compagnia. - E preso uno sgabello, si assise presso il letto.

                - Le dico di ritirarsi, replicò il Ministro con accento risentito. Lei non ha niente nè da fare nè da dire con questo giovane.

                - Ho molto da fare, ho molto da dire con questo mio figlio. Debbo partecipargli un importantissimo affare.

                 E chi è lei che si mostra cotanto ardito? disse il Ministro. [661]

                - E chi è lei che comanda con tanta pretesa? rispose D. Bosco.

                - Io sono il Ministro Valdese, Amedeo Bert; e ci siamo già incontrati altre volte.

                - E io sono il Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco.

                - Insomma che cosa lei vuole da questo infermo?

                - Voglio aiutarlo a salvarsi l'anima.

                - Egli non ha più nulla da fare con lei.

                - Perchè mai?

                - Perchè egli si è ascritto alla Chiesa Valdese, e non ha più relazioni religiose coi cattolici.

                - Io l'ho iscritto prima di lei nel catalogo de' miei figliuoli, ne sono stato e voglio esserne il vero padrone, e per questo motivo egli non ha più niente da fare, nè da dire coi Valdesi.

                - Ma lei, signor abate, parlando così turba la coscienza dell'infermo e si espone a certe conseguenze, di cui avrà forse a pentirsene.

                - Quando si tratta di salvare un'anima non temo alcuna conseguenza.

                - Alto là, lei deve allontanarsi di qui.

                - E lei deve allontanarsene prima di me .....

                - Ma lei non sa con chi parla!

                - So benissimo con chi parlo, e credo che anche lei sappia con chi parla.

                - Sappia che io ho l'autorità....

                - Rispetto tutti, ma non temo nessuno. E tanto meno io temo lei in questo momento, perchè so che l'infermo è pentito d'aver dato il nome alla vostra credenza e vuole morire cattolico.

                - È  questa una seduzione, una menzogna. Non è [662] vero, Pietro, che voi volete essere perseverante nella nostra Chiesa Evangelica?

                Il giovane sollevandosi alquanto sul letto e guardando D. Bosco in atto di chiedere aiuto, rispose: - Io voglio essere perseverante nella mia religione....

                - Adagio, Pietro, lo interruppe il Ministro, badate a quello che dite.

                - Signor Ministro, osservò D. Bosco, parli con più calma. Mi permetta soltanto che io faccia una interrogazione all'infermo. La risposta che darà, servirà di regola ad ambidue.

                Tacque allora il Ministro e, tenendo gli occhi spalancati sopra D. Bosco, si pose a sedere. Il buon prete si volse al giovane con amorevolezza e parlò così: - Ascolta, o Pietro, questo signore ha scritto un libro in cui dice ripetutamente che un buon Cattolico si può salvare nella sua religione; dunque niun Cattolico deve abbracciare altra credenza per salvarsi. Tutti i Cattolici dicono parimenti che osservando la propria religione certamente si salvano. Ma soggiungono che colui il quale si ostina a stare nel protestantesimo, certamente si danna... Ora dimmi tu se vuoi lasciare la certezza di salvarti ed esporti al dubbio, anzi, secondo i cattolici, alla certezza di andare eternamente perduto!

                - No e poi no, rispose il giovane, e sempre no. Io son nato cattolico, e voglio vivere e morire cattolico... Mi pento di quanto ho fatto.

                Il Ministro, udita così franca risposta, si alzò, prese il cappello e voltosi a D. Bosco disse: - In questo momento non si può più ragionare: verrò a tempo migliore. Ma voi, Pietro, vi gettate in un abisso.... Ricordatevi che vi vogliono far confessare e che la confessione, invece di darvi [663] la vita, vi accelera la morte. - Ciò detto, pieno di sdegno partì.

                Allora Pietro, che sentivasi tanto spossato da temere di soccombere in quella notte medesima, domandò subito di potersi confessare. D. Bosco lo ascoltò. Siccome non aveva mai nè predicato nè scritto contro la religione cattolica, non occorreva che facesse una pubblica ritrattazione. Coll'assoluzione sacramentale parve a Pietro che D. Bosco gli avesse tolto di dosso un enorme macigno. L'animo suo tornò a godere la calma che da vari anni aveva perduto. Stringeva, baciava e ribaciava la mano a D. Bosco, e si sentiva felice nonostante i suoi dolori.

                D. Bosco intanto, preveduto il pericolo nel quale si trovava il giovane per le visite che immancabilmente gli avrebbero fatte i Valdesi, ottenne che fosse subito trasportato all'Ospedale dei cavalieri. Quivi gli venne amministrato il SS. Viatico e l'Estrema Unzione; e dopo circa ventiquattro ore spirò in pace l'anima sua andando, come speriamo, a godere l'eterna felicità del cielo.

                Questa conversione fu di grande conforto a D. Bosco che era tutto occupato nella sua Lotteria e nelle Letture Cattoliche. Pel mese di giugno era uscito dai torchi di Paravia il seguente fascicolo: Vita dei Sommi Pontefici S. Lino, S. Cleto, S. Clemente per cura del Sac. Bosco Giovanni (C). Sono aggiunti alcuni capitoli sulla vita e sulla morte di vari apostoli.

                Dava giudizio di questo fascicolo l'Armonia del 24 luglio 1857.

 

                E’ questo il terzo fascicolo nella serie delle vite dei Papi, che il Sacerdote Bosco ha intrapreso a raccontare al popolo cristiano. L'autore fa precedere una breve spiegazione di parecchie [664] parole che soglionsi usare nelle vite dei Papi ed in generale nella Storia Ecclesiastica. Le quali nozioni se in genere sono utili a tutti, sono poi assolutamente necessarie pel popolo a cui sono in modo speciale dirette queste letture.

                Racconta quindi le gesta di S. Lino, di S. Cleto e di S. Clemente. Ivi, lasciando a parte le complicate questioni che non fanno pel suo scopo, sulle tracce dei più accreditati scrittori delle antichità cristiane, tesse una storia ecclesiastica di circa trent'anni, cioè dall'anno 70 di Gesú Cristo al 103 che corrisponde al regno di questi tre primi successori di S. Pietro. Ivi non solamente sono esposte le loro azioni, ma viene popolarmente spiegato lo spirito della Chiesa primitiva, dal che viene a rendersi manifesto come il governo, la disciplina, i dommi, la morale della chiesa antica sono quegli stessi d'oggidì; che perciò sono rei di calunnia quegli eretici che tacciano di novità la Chiesa cattolica nel suo insegnamento e nelle sue istituzioni.

                L'autore espone p. e. come S. Lino comandò alle donne di andare in chiesa col capo coperto, ma si nota subito che tal cosa fu ordinata per comando di S. Paolo. Il quale precetto fu rinnovato e si osserva tuttodì presso i cattolici (Pag. 36, 37).

                Riferisce come S. Cleto stabili in Roma 25 presbiteri perchè avessero cura d'anime, come hanno attualmente i nostri parrochi, che i presbiteri furono più tardi detti sacerdoti; quindi apparisce essersi introdotta niuna variazione nella Chiesa, nè quanto ai parrochi, nè quanto ai sacerdoti: la variazione essere tutta da parte dei protestanti, i quali, non ammettendo il Sacramento dell'Ordine, sono eziandio privi di sacerdozio, perciò senza parrochi e senza sacerdoti.

                Noi pertanto raccomandiamo caldamente queste letture a qualsiasi condizione di persone, ma le raccomandiamo specialmente a quelli che per mancanza di tempo o di studio non possono percorrere i grossi volumi in cui tali materie sono discusse; e le giudichiamo viepiù necessarie in questi tempi che i nemici della fede usano tutte le armi del dispregio e della menzogna per travisare i dommi e le istituzioni della Chiesa Cattolica e denigrare la fama dei Vicari di Gesù Cristo che Dei vari tempi la governarono. [665] Chi poi desiderasse istruirsi sopra le materie ivi brevemente trattate, può ricorrere agli autori che spesso in questo fascicolo sono citati.

 

                Intanto Paravia aveva consegnato a D. Bosco per la spedizione il fascicolo di luglio: La Vergine delle Campagne, ossia vita della B. Oringa Toscana della Cristiana di S. Croce (morta nel 1310). Pastorella, fantesca, fondatrice di un monastero, e mirabile per virtù eroiche, per avvenimenti miracolosi, per le apparizioni dell'Arcangelo S. Michele, per la protezione di Maria SS. che le insegnò a leggere.

                Lo stesso Paravia stava stampando il fascicolo di agosto: Vita dei Sommi Pontefici S. Anacleto, S. Evaristo, S. Alessandro I per cura del Sac. Bosco Giovanni (D).

                Col lavoro delle Letture Cattoliche era andato di pari passo quello della Lotteria. D. Bosco aveva continuato a mandare lettere circolari.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Pieno di fiducia nella insigne e ben conosciuta bontà di V. S. R. raccomando allo zelo di Lei e de' suoi amici n. 5 decine di biglietti di cui Le unisco il programma e La prego caldamente di volersi interessare pel sicuro ricapito degli uniti indirizzi non solo, ma anche di tener conto sì del denaro che Le venisse consegnato come dei biglietti che potrebbero essere restituiti, per quindi il tutto trasmettere a me.

                L'assicuro in ricambio di tutta la riconoscenza di cui sono capace e che prendendo Ella si gran parte in quest'opera di beneficenza, oltre il merito elle si procaccia innanzi a Dio, ha la consolazione di giovare a parecchi giovani o suoi parrocchiani o vicini, i quali concorrendo a questa capitale, prendono parte alle funzioni religiose ed alle scuole che hanno luogo in questi Oratorii. [666] Godo intanto di professarmi con sincera devozione e massimo rispetto

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 6 maggio 1857.

 

Obbl.mo Servo

Sac. Giov. Bosco.

 

                P. S. Fra non molto si darà l'annunzio del giorno d'estrazione o per circolare o per giornali.

 

                Infatti il 12 maggio annunziava sull'Armonia l'estrazione dei numeri vincitori essere fissata pel 15 di giugno, ricordando che, coll'offerta di un dono o coll'acquisto di un biglietto, si cooperava a togliere dal pericolo un ragazzo che forse andrebbe a finir male. Il 18 giugno sullo stesso giornale avvertiva i lettori che la suddetta estrazione era trasportata, e invariabilmente fissata, pel 6 di luglio; raccomandando la compra dei biglietti il cui numero da smerciare era ancora considerevole. “Ognuno si ricordi, ei scriveva, che assumendosi anche un sol biglietto coopera a vestire gli ignudi, istruire gli ignoranti, albergare i pellegrini e dar del pane ai poveri affamati, chè tale è appunto lo scopo dell'opera, degli Oratorii maschili”.

                Nello stesso tempo distribuiva più migliaia di copie di un volumetto il quale conteneva il programma della Lotteria e le descrizioni dei premi. Sul frontispizio portava il motto: Elemosyna est quae purgat peccata et facit invenire misericordiam (Tob. 12, 9). Al volumetto era unita una lettera.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Mi fo dovere di spedire alla S. V. Ill.ma copia del catalogo degli oggetti offerti per la lotteria iniziata a favore dei giovani [667] che frequentano gli oratorii maschili di questa città. Come Ella in esso scorgerà, il numero dei doni fu copioso assai, ed ho i più grandi motivi di ringraziare la divina provvidenza che abbia inspirato così generosi sentimenti in tante caritatevoli persone. Nel medesimo tempo Le partecipo che la pubblica estrazione è invariabilmente fissata dall'Intendenza Generale pel 6 del prossimo luglio, dopo cui mi darò premura di mandarle lo stampino dei numeri vincitori.

                Siccome però ci troviamo sul finire della lotteria con una ragguardevole quantità di biglietti da smerciare, così ho pensato di inviarne ancora n... decine, raccomandandoli all'ingegnosa carità di Lei, che in tante maniere ho esperimentata propensa a soccorrere queste opere di pubblica beneficenza. Qualora però non potesse smerciare tali biglietti e non istimasse ritenerli per sè, La pregherei di voler aggiungere altra opera di carità, dandosi l'incomodo di rimandarli prima della pubblica estrazione.

                Del resto io La ringrazio di tutto cuore di quanto ha fatto e che spero vorrà continuare a fare per questi poveri giovani, e mentre dal canto mio Le professo la più sentita gratitudine, non mancherò di raccomandare ai giovani beneficati che invochino le benedizioni del cielo sopra di chi coopera così efficacemente per farli onesti cittadini e buoni cristiani.

                Dio La conservi e mi creda con pienezza di stima e riconoscenza

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 17 giugno 1857

Obbl.mo Servo

Sac. Giov. Bosco.

 

                E il 6 luglio con tutte le formalità legali ebbe luogo a mezzogiorno, in Torino, in una sala del Palazzo di città, alla presenza del Sindaco, la pubblica estrazione dei numeri vincitori degli oggetti posti in Lotteria. Il prodotto della Lotteria fu tale da togliere D. Bosco da moltissimi imbarazzi, onde n'ebbe motivo di ringraziare di cuore il Signore. Non ci volevano meno di 60.000 lire. [668] Colla seguente lettera D. Bosco terminava le operazioni della Lotteria.

                La limosina libera dalla morte, cancella i peccati fa trovare misericordia e conduce all'eterna vita.

                Tob. 12, 9.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                La lotteria tante volte raccomandata alla carità di V. S. Ill.ma è stata condotta ad un felicissimo termine; e a comune consolazione posso parteciparle che i biglietti della medesima vennero quasi interamente smerciati. Cosi noi abbiamo potuto pagare i fitti degli Oratorii, e le spese occorse nella ultimazione della casa, e sistemare anche alcune cose di speciale urgenza. Ora le mando copia dei numeri vincitori, affinchè Ella e le persone di sua conoscenza possano verificare se siano stati favoriti dalla sorte nella estrazione.

                Approfitto di questa medesima occasione per ringraziare V. S. delle sollecitudini datesi per quest'opera di carità, che non potrà a meno di essere largamente ricompensata dalla munificenza di quel Dio, che reputa fatto a sè medesimo quanto si fa ai suoi poverelli.

                Prima però di terminare le relazioni della Lotteria due cose ancor mi rimangono a raccomandarle caldamente: che si degni continuare il suo favore a questi Oratorii e comprenderli nelle sue caritatevoli largizioni. In secondo luogo che voglia aggiungere un altro favore spirituale pregando il Signore Iddio per me, pei miei coadiutori e per questi giovanetti, affinchè possiamo loro procacciare la più grande di tutte le ricchezze, il timor di Dio.

                Dal canto nostro non mancheremo di pregare e far eziandio pregare i giovani beneficati, affinchè Iddio doni sanità e grazia ai nostri benefattori, e tutti ci aiuti, finchè venga il giorno in cui beneficati e benefattori possano trovarsi tutti insieme nella patria dei beati.

                Con sentimenti della più sentita gratitudine e colla massima venerazione reputo a dovere il professarmi ora e sempre

                Di V. S. Ill.ma

                Torino, 20 luglio 1857.

 

Obb.mo Servo

Sac. Giov. Bosco.

 

 

CAPO LV. La virtù della povertà.

 

                LA divina Provvidenza era la speranza di D. Bosco, e Dio, fedele alle sue promesse, giammai gli mancava. “Non vogliate angustiarvi dicendo: Cosa mangeremo o cosa berremo o di che ci vestiremo? Il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio: e avrete di soprappiù tutte queste cose”[23]. E se talora D. Bosco si trovava in istrettezze, egli riguardavale quali prove che entrano nell'ordine della Provvidenza per esercitare la fede de' suoi figli e si consolava rammentando le parole di Gesù Cristo: - Non vogliate adunque mettervi in pena pel dì di domane. Imperocchè il dì di domane avrà pensiero per sè: basta a ciascun giorno il suo affanno.

                Di qui proveniva non solo la sua inalterabile tranquillità e la sua fiducia nell'avvenire, ma di più l'amore eroico alla povertà volontaria, e l'allegrezza che provava toccandogli soffrire penuria di cose anche necessarie. Egli visse povero fino al termine della sua vita, come lo era ai primordi dell'Oratorio. Apparve evidente il suo perfetto [670] distacco dai beni della terra, e non si vide mai in lui una minima sollecitudine di procurarsi qualche soddisfazione temporale. Ei soleva dire: - La povertà bisogna averla nel cuore per praticarla. -E Dio lo ricompensò largamente della sua fiducia e della sua povertà, sicchè riuscì ad intraprendere opere, che i principi stessi non avrebbero osato, e a condurle felicemente a termine.

                Per queste opere egli aveva continuamente bisogno di danaro, eppure non lo stimava, e non lo domandava se non in quanto gli serviva di mezzo per procurare la gloria di Dio e la salute delle anime. Moltissime volte ne,era privo affatto, poichè, appena ricevuta una somma, si affrettava lo stesso giorno a fare provviste o a pagare la parte di un debito. Non voleva che il prefetto della casa tenesse in serbo il necessario per eseguire pagamenti a scadenze fisse, ma che si confidasse interamente nella divina Provvidenza, la quale a tempo opportuno avrebbe mandato il soccorso. Non pensava mai al domani, poichè, egli diceva, era fare un torto alla paterna bontà del Signore.

                Ricevendo oblazioni cospicue, chiamava a sè il prefetto e tosto gliele consegnava, dicendo: - Vedi come la Provvidenza è stata buona con noi! - E difficilmente riteneva danaro presso di sè, se non quanto era necessario per distribuire ai poveretti.

                Era sua massima: - Spendere non per sprecare, ma per stretto bisogno. - Sapeva apprezzare il denaro per la fatica fatta dai benefattori nel guadagnarlo e per i benefizi spirituali e temporali che produceva in mano di chi lo aveva ricevuto. Non si mostrava restio nel fare grandi spese quando esse erano necessarie, ma non soffriva,che si facessero in cose di poca entità, peggio poi se [671] fossero per cose superflue; e soleva dire: - Finchè ci manterremo poveri, la Provvidenza non ci verrà meno. E altre volte: - Se faremo risparmio anche del centesimo, quando lo spenderlo non è necessario od utile, la divina Provvidenza ci sarà sempre larga di sue beneficenze.

                “Un giorno, scrisse Brosio Giuseppe, io e lui eravamo nel cortile di un palazzo in via Alfieri pur andare a far visita ad un nobile signore. D. Bosco era vestito da festa; aveva indosso un abito ed un mantello molto vecchio, un cappello che aveva perduto tutto il pelo. Io volgendo a caso lo sguardo a terra vidi che i legacci delle sue scarpe grosse, lucide, ma rattoppate, erano funicelle tinte con inchiostro. - Come? io gli dissi: gli altri sacerdoti quando vanno in casa di personaggi distinti si pongono alle scarpe fibbie d'argento e lei neanche legaccioli di seta o di cotone, ma corda! questo è troppo! Tanto più che avendo la veste corta, fa indecorosa figura! Mi attenda qui che vado a comperarle un soldo di cordoncino di lana. - E m'incamminava.

                - Aspetta, vieni qui, mi disse D. Bosco, debbo ancora avere un soldo. - E cercando per ogni parte delle sue saccocce, - farò come tu dici, - soggiungeva. Ma nell'atto che mi porgeva il soldo, una vecchia si avvicina domandando l'elemosina. D. Bosco ritirò subito la mano e donò alla vecchia quel soldo. Allora io volli assolutamente comprar la fettuccia a mia spesa, ma D. Bosco mi trattenne e non ci furono ragioni che potessero indurlo a permettermi, quello che ei chiamava uno spreco di danaro. E continuò ad allacciar le scarpe in quel modo”. Tuttavia appariva sempre pulito, potendo affermare di sè con S. Bernardo: Paupertas mihi semper placuit, sordes nunquam. [672]

                Vigilava sull'economia domestica. Obbligato ad adattare il trattamento della mensa ad uso comunità, vietava che si introducesse il lusso, sia negli apprestamenti di tavola, sia nelle stoviglie, e ciò anche nei pranzi d'invito, che soleva dare alcune volte all'anno in occasioni solenni o quando ospitava illustri personaggi. Nel refettorio comune per molti anni furono adoperati cucchiai e forchette di ferro, piatti e scodelle di stagno. Parecchie volte ebbe in eredità posate e altri oggetti d'argento, ma tosto egli feceli vendere per sopperire ai bisogni della casa.

                A pranzo si cibava dei pezzi di pane sopravvanzati dai pasti anteriori, e negli ultimi tempi di sua vita ne raccoglieva diligentemente fin le più piccole briciole, per ragione, diceva, che così conviene alla povertà. Non servivasi di olio e di sale per certe vivande che pur lo richiedevano.

                Provava il più gran dispiacere se talvolta vedeva i giovani sprecare anche i più minuti pezzi di pane, dei quali voleva che si tenesse conto; e li rimproverava dicendo: - La divina Provvidenza pensa ai nostri bisogni, e voi vedete come non ci venne mai meno nelle nostre necessità. Se voi sprecate il pane che il Signore ci provvede, fate uno sfregio alla sua bontà, ed avrete grandemente a temere che Egli vi castighi nei tempi futuri lasciandovi mancare il necessario. - E loro portava l'esempio del Divin Salvatore che, dopo aver sfamato miracolosamente le turbe, volle che gli Apostoli raccogliessero i frammenti avanzati perchè non andassero a male.

                Teneva conto, e voleva che si tenesse conto da' suoi, anche dei mezzi fogli di carta, i quali con diligenza staccava dalle lettere che riceveva e metteva da parte per valersene o a scrivere o a far taccuini per memorie di minor [673] importanza. Molto gli rincresceva quando s'imbatteva in qualche oggetto in abbandono o sciupato inutilmente, e raccomandava perchè fossero raccolti, se ne avesse cura e fossero utilizzati nel miglior modo possibile. Faceva riporre la stessa carta straccia, o una cordicella abbandonata nel cortile, osservando che sarebbe venuto il tempo per adoperarla. Fu visto persino ad abbassare le fiamme dei lumi girando per la casa ad ora tarda, quando giudicavale superflue ed il cameriere aveva trascurato questo suo ufficio. Asseriscono anche D. Turchi e D. Francesia che D. Bosco più volte si accorciava da se stesso i capelli, risparmiando così que' pochi soldi che avrebbe dovuto dare al barbiere.

                Nè l'eccitamento a tale economia proveniva da spirito taccagno, dal timore di mancare del bisognevole, giacchè non si lamentava mai delle privazioni a cui doveva sottostare. Infatti non di rado esprimeva un suo vivo desiderio: - Dopo la mia morte desidero non lasciare del mio se non la sottana che ho indosso. - E quanto più era povero, più viva gli brillava in fronte una speciale allegrezza. Accadendo talora di non aver che pochi soldi in tasca, li mostrava a quelli che gli erano intorno, dicendo: -Ecco tutta la mia ricchezza! - E talora soggiungeva: - D. Bosco è povero come il più povero dei suoi figli.

                “Un giorno, ci narrò un giovanotto operaio dell'Oratorio festivo, sono andato a trovare D. Bosco nella sua camera. Dopo aver discorso di molte cose, si venne a parlare delle sue finanze, dicendomi che non aveva nessun denaro, che era carico di debiti. A tali parole io fingendo di non credere, con quella confidenza rispettosa che D. Bosco permetteva a' suoi figli, gli dicevo che egli [674] era un avaro, che nascondeva i marenghi nello scrigno (e scrigno non ebbe mai) per farne un bel cumulo e poi adorarli. E così discorrendo si rideva.

                D. Bosco mi invitò allora ad una perquisizione in sua camera. E fu subito eseguita, e dopo una diligente ricerca nell'unico tavolino che possedeva, non essendovi altro nascondiglio, si è trovato il tesoro, il quale consisteva nella grande somma di 40 centesimi.

                D. Bosco allora questa somma la divise per metà, venti centesimi li tenne per sè e gli altri venti me li regalò. Scherzo singolare di un uomo, il quale per quanti denari talora avesse momentaneamente, non ne possedeva mai a sufficienza, e le bocche dei suoi giovani, specialmente coll'andar del tempo, consumavano ogni anno quanto potevano importare i più vistosi patrimoni. Le limosine a lui date era come cacciarle in un sacco senza fondo”.

                E con tante sue necessità, ecco il giudizio che dava delle ricchezze terrene.

                “Un dopo pranzo, scrisse Brosio Giuseppe a D. Bonetti, eravamo in via Dora Grossa. D. Bosco si fermò dinanzi ad una vetrina di bottega dentro alla quale era esposto un grosso mappamondo e mi indicava le diverse parti del nostro globo. Quando fu all'America, mi disse:

                - Guarda, Brosio, come è vasta l'America e come poco popolata!

                - Ma vi ha tanto più dell'oro, risposi io!

                - Sì, è vero, vi è molto oro, ma nessuno dei cattolici lo possiede per farne buon uso. - E poi ripigliava: Con molto oro quante miserie si potrebbero sollevare! Chi lo possiede quanti meriti potrebbe guadagnarsi! Con questo quanto pure ne avvantaggerebbe la propagazione della fede! Tuttavia è colla povertà e la croce che Gesù Cristo [675] redense il mondo, e la santa povertà fu sempre la ricchezza de' suoi apostoli e de' suoi veri ministri!”

                Ed è questo il motivo del suo amore alla povertà evangelica. Già altrove abbiamo descritta la sua stanza, notando come egli non si procurasse la minima comodità. Non volle mai tende alla finestra, non uno straccio di tappeto accanto al letto neppur d'inverno, nè copripiedi su questo. Riguardo alla stufa era severissimo perchè non si consumassero troppe legna. Eppure quella stanza era male riparata. Alle sue povere masserizie aggiunse un sofà vecchio e logoro col sedile di paglia, che per più di venti anni servì per il ricevimento dei visitatori. Se più tardi negli ultimi tempi di sua vita ebbe qualche mobile più decente, questo gli era stato regalato. Il pavimento era di mattoni ordinarii e polverosi, che traballava sotto i suoi piedi. Più volte gli si fece osservare che sarebbe stato conveniente di rifare quel pavimento, ma non si potè mai ottenerne il permesso. Egli diceva: - Non dimenticate che siamo poveri, e questo spirito di povertà dobbiamo averlo non solo nel cuore e nel distacco del medesimo dalle cose materiali, ma dimostrarlo anche esternamente in faccia al mondo.

                Se una stoffa per la fattura di un vestiario, benchè poco costosa, faceva risalto e attirava lo sguardo altrui, affermava essere contraria allo spirito di povertà e non voleva che si adottasse. La stessa apparenza di povertà cercava che avessero le costruzioni che andava edificando, facendo notare essere, questo sistema, esercizio eziandio di umiltà.

                In una sua assenza si pensò di abbellire alquanto quella stanza, nella quale però ammirossi sempre la proprietà, con alcune poche e modeste decorazioni fatte col [676] pennello; ma D. Bosco ritornato a casa ne provò dispiacere e subito ordinò che le cancellassero, col dare il bianco alle pareti ed al soffitto. Era anche incomoda per le scale che doveva salire più volte al giorno e per un lungo poggiuolo di passaggio sotto un cocente sollione d'estate, e alla pioggia o alla neve e al freddo d'inverno.

                E non permise mai che si riparasse, con un tettuccio, invetriate o tende.

                Ma se povera era la sua camera, non lo erano meno le sue vesti. Mons. Bertagna affermava che D. Bosco godeva nel vestire poverissimamente. La talare, benchè fosse di panno grossolano, servivagli per le quattro stagioni. Talvolta gli veniva regalata dal suo amico il Teol. Golzio una veste sua propria o deposta dai preti del convitto, fuori d'uso e rattoppata affinchè servisse per alcuno dei chierici dell'Oratorio; ma egli indossandola la teneva per sè. La biancheria era di ruvida tela e soleva dire graziosamente che ciò che riparava il freddo d'inverno, impediva pure il caldo d'estate; e non volle mai indossare camicie di tela fina o soppressate. Teneva nei piedi grosse scarpe da contadino, perchè meno costose. I suoi fazzoletti erano affatto ordinari.

                Quindi non portò mai abiti di panno fino, calzature eleganti, fibbie d'argento sulle scarpe, orologio d'oro, catenella od altro simile gingillo. Aborriva dall'andare in abito corto, come allora solevano moltissimi sacerdoti, perchè, fra le altre ragioni, richiedeva una certa ricercatezza. Se qualcuno gli regalava qualche oggetto bello o ricco non lo voleva per suo uso, dicendo: -Noi siamo poveri e dobbiamo vivere come poveri! - In occasione del suo onomastico molte volte i suoi antichi allievi esternavano il desiderio di offrirgli qualche oggetto conveniente [677] per la sua persona; ma egli loro suggeriva sempre di provvedere piuttosto arredi per la chiesa.

                Chi era incaricato della sua stanza ci riferisce i seguenti particolari: “Avendo io mandato ad aggiustare la sua mantellina d'estate, il sarto usò fettuccie di seta per legarla al collo. Ciò veduto, D, Bosco disse: - Non va bene per D. Bosco; - e volle che si sostituissero fettucce ordinarie di lana.

                Una volta un benefattore portò all'Oratorio alcune camicie nuove, molto belle e ben lavorate, coll'intenzione che io le facessi usare da D. Bosco. Io difatti al sabato sera posi una di quelle camicie sopra il suo letto, ma con sorpresa la trovai il mattino seguente nello stesso posto. Incontratomi con lui, egli mi disse:

                -Giovanni! sono camicie queste da darsi ad un povero prete?

                - Se non le do a lei, a chi devo darle? gli risposi.

                - Dalle a chi ha buon tempo”.

                Il suo cuore era affatto distaccato da ogni cosa che gli appartenesse.

                Un giorno, verso il 1860, venne a lui un certo Don Boetti di Mondovì, vestito in borghese pregandolo che lo volesse vestire secondo il suo stato. D. Bosco gli diede il suo cappello, il mantello; si tolse la veste da estate, che aveva in que' giorni ricevuta in dono, indossando quella d'inverno non ostante che raggiasse il sollione d'agosto e gli diede pure le scarpe. Perciò egli poi ebbe a penare molto andando vestito con roba sdruscita che a stento trovò in casa, finchè la carità del Teologo Golzio non venne in suo soccorso vestendolo di nuovo.

                D. Bosco non si ricordava neppure di farsi fare oggetti di vestiario, allorchè gli usati fossero troppo logori; bisognava che altri se ne prendessero pensiero. [678] Rossi Giuseppe ci assicura che più volte ebbe a portargli via dalla camera le scarpe vecchie colle suole sdruscite e procurargliene delle nuove. Molte volte abbisognava di una sottana e di un mantello nuovo, e si doveva sempre sostenere una specie di lotta per indurlo ad accettarli ed a servirsene.

                Non aveva talora abiti sufficienti per ripararsi dal freddo e diceva: - Col possesso del regno dei cieli sarà generosamente ed abbondantemente compensata la nostra povertà. - Talvolta qualche suo intimo, vedendolo privo di qualche cosa necessaria, gli faceva compassionandolo qualche osservazione. - Ma! vedi, egli rispondevagli, in questo modo si esercita veramente la povertà. Non fare come certi religiosi ai quali alludeva S. Bernardo: Vogliono la povertà, ma non gli incomodi della povertà; vogliono essere poveri purchè loro non manchi niente! E poi soggiungeva: - S. Paolo dice in chiare note, che i seguaci di Gesù Cristo, dovunque vadano, qualunque cosa facciano, devono essere paghi degli alimenti strettamente necessari per la vita, e degli abiti per coprirsi.

                Ben sovente, dovendo all'improvviso mettersi in viaggio, o presentarsi a qualche rispettabile persona, non avendo il vestiario in convenevole stato, lo faceva chiedere ad imprestito a' suoi coadiutori, i quali correvano a gara ad offrirgli, chi le scarpe o le calze, chi i calzoni, chi la sottana, chi il corpetto nero o il pastrano o la mantellina e talora anche il cappello. Così cercavano d'impedirgli che soffrisse per via o mancasse di riguardo a chi l'aveva da ricevere nella propria abitazione. E in questi casi, siccome non aveva tempo o non pensava in quell'istante a curarsi i panni, taluni de' suoi figliuoli gli spazzolavano amorevolmente abito e cappello. [679] Raccontò Mons. Cagliero: “Una sera del 1853 D. Bosco tornò a casa così bagnato per una pioggia torrenziale, che non aveva filo indosso che non gocciolasse. Venuto in sua camera, cercava da cambiarsi; ma sua mamma non trovava altra veste da presentargli. D. Bosco era contrariato, perchè i giovani lo aspettavano in chiesa per dire i Pater all'Addolorata, e non voleva mancare. A caso gli cadde l'occhio sovra un cappotto lungo e un paio di calzoni bianchi portati, credo, dal Marchese Fassati per limosina ad un giovane. D. Bosco, senza altro, indossò questo abito, mise nei piedi un paio di zoccoli e scese in chiesa. Era scuro, ma i giovani intravidero quel suo strano abbigliamento e, mentre sorridevano, intendevano in quale stato fosse ridotto per loro quel buon padre.

                Un altro anno nel mese di maggio lo incolse per via un sformato acquazzone; egli non avendo altra sottana da mutarsi discese in chiesa con un lungo soprabito che avevagli donato un suo amico sacerdote; e fu allora che predicandoci dalla predella dell'altare il sermoncino della Madonna, abbiamo potuto scorgere le sue calze rattoppate, in poverissimo stato”.

                Un fatto grazioso accadde fra il 1854 e il 1855.

                D. Bosco dovette un giorno mandare Rocchietti in Torino per una commissione d'assai importanza; ma trovandosi il giovane colle scarpe sdruscite e logore egli senza punto pensare alle conseguenze si tolse dai piedi le sue e gliele diede. Rocchietti ridendo disse in sul partire ai compagni: - Vedremo come D. Bosco se la passerà quest'oggi, poichè non ha altre scarpe.

                Infatti D. Bosco mandò a chiamare Buzzetti, Rua ed altri; ma nessuno possedeva altre scarpe fuori di quelle che aveva nei piedi e non poterono trovarne adatte a [680]           D. Bosco. Finalmente si potè avere un paio di zoccoli.

Notisi che si era in piena estate. All'ora di pranzo Don Bosco scendeva le scale e tutti i giovani correvano allo strano rumore e ridevano, osservando i zoccoli che portava D. Bosco. Ma il bello fu qui, che verso le tre venne un servo del conte Giriodi a chiamarlo, perchè si affrettasse ad assistere un infermo di quella nobile casa. D. Bosco desiderava una vettura perchè nessuno vedesse i zoccoli; ma ci voleva troppo tempo per trovarne una, essendo poche,         in quegli anni, di stazione nel centro della città, e costose. Era necessario andare subito. Quindi pregò quel servo che avesse la compiacenza di aspettarlo per essergli compagno, sperando così di nascondere meglio la novità della calzatura. Con quel servo al fianco per corse via Dora Grossa, piazza Castello, rasentando le mura delle case, e curvandosi alquanto perchè la veste coprisse i piedi; e andò al N. 53 della via di Po. Finito il suo ufficio, il servo accennava a lasciarlo partir solo, dicendogli: - Credo che ora farà senza di me, per ritornare a casa.

                - No, no, mio caro, rispose D. Bosco; mi accompagni.

                - Ma scusi; e perchè?

                - Perchè... perchè... ho i zoccoli.

                - Oh povero me! esclamò quel servo: e corse dal Conte Giriodi e gli narrò il fatto. Il Conte si vestì in fretta e venne egli stesso ad accompagnare D. Bosco per strade strette ed in quell'ora poco frequentate. Giunti in via Corte d'Appello, il Conte lo fece entrare da una certa vedova Zanone, che teneva bottega in detta via al N. 8, conosciutissima da D. Bosco e dal Conte, il quale pian piano fece notare alla signora: - D. Bosco è senza scarpe e porta i zoccoli. - La Zanone, che appena era comparso D. Bosco gli aveva fatto mille feste, trasecolò a quelle [681] parole, cercò subito le più belle scarpe che avesse in bottega e le adattò al piede di D. Bosco. Quei zoccoli però li tenne per sè come preziosa reliquia a ricordanza del fatto.

                Egli prediligeva ciò che aveva accattato per elemosina. Ottenuto in dono dai benefattori oggetti di vestiario, se ne ricopriva non altrimenti che uno de' suoi ricoverati. “Mi ricordo, disse Mons. Cagliero, l'esempio che ci dava Don Bosco, quando riceveva dal Ministero della guerra scarpe, cappotti, calzoni militari già usati, oppure, rifiutati, o lasciati in fondo dei magazzini, e rosi dai tarli; ed eziandio coperture da cavalli, perchè gli alunni dell'Oratorio potessero, ripararsi dal freddo. Ed egli, senza far distinzione fra sè ed i suoi poveri orfanelli, in casa servivasi di quelle scarpe, di que' calzoni e anche dei cappotti che talora portava anche fuori di casa, e specialmente quando doveva uscire di notte, benchè non fossero certamente panni comodi ed eleganti. In molti inverni quante volte l'abbiamo visto indossare il suo bravo cappotto nero da soldato sopra la veste talare, tanto in chiesa quanto fuori di chiesa. Nel 1866 e negli anni seguenti consegnava più volte a Bisio Giovanni i calzoni sovradetti, perchè glieli adattasse per suo uso, affermando che gli andavano tanto bene. Una grigia gualdrappa da cavallo era stesa sopra il suo letto per coperta”.

                La santa povertà, la raccomandava con molto calore, anche ex professo e sovente, a tutti i suoi figliuoli nelle conferenze, nelle prediche, ed ogni volta che gli si presentava l'occasione. L'inculcava a coloro che erano incaricati dell'amministrazione, e voleva che si tenesse conto di tutto, come proprietà della divina Provvidenza. Ripeteva ai chierici - essere cosa disdicevole ad un ecclesiastico correre dietro al lusso ed alle vanità proprie dei [682] mondani. - E a chi gli opponeva la necessità di un conveniente decoro, rispondeva che il decoro dell'ecclesiastico e del religioso era la povertà, accompagnata però dalla pulitezza della persona. E si conosceva quanto egli amasse questa virtù, nel vedere come ei soffrisse allorchè la vedeva trasgredita da qualcheduno, malgrado le replicate insistenze da lui fatte; ed egli indicava loro che vari ordini religiosi erano scaduti, precisamente perchè avevano abbandonata la vita comune e si erano allontanati dalla povertà primitiva. Esclamava eziandio: - Vi raccomando per carità di fuggire dall'abuso del superfluo. Ricordatevi bene che quello che abbiamo, non è nostro, ma dei poveri: guai a noi se non ne faremo buon uso!

                Perciò anche nel viaggiare, e quanti viaggi egli fece! per quanto dipendeva da lui, e non vi fosse grave ragione di fare altrimenti, servivasi sempre della terza classe.

                Assicurava poi i suoi collaboratori che avrebbero sempre avute le simpatie del mondo, ed anche, almeno, la tolleranza dei nemici stessi della religione, finchè avessero praticata la povertà; mentre per altra parte loro prometteva che le benedizioni del Signore, spirituali e temporali, sarebbero state abbondanti sopra di essi, se mantenevansi costanti ed esatti nell'esercizio di questa virtù.

                Spesso narrando la vita del Divin Salvatore rappresentava Gesù Cristo il quale aveva neppure luogo ove posare il capo e quindi soggiungeva: - Come potremo essere suoi discepoli se ci mostriamo così differenti dal maestro? Gesù Cristo nacque povero, visse più povero, morì poverissimo.

                Quindi li esortava a non amare le agiatezze, a tener di conto degli abiti, dei libri e di ogni oggetto di loro uso, [683] come pure di non sprecare la carta, nè prendere abitudini che a lungo andare sono costose. - Tali economie, ci diceva, ci potranno permettere di ricoverare un giovanetto di più.

                E i figliuoli di D. Bosco si prestavano ossequenti alla voce del padre e accettavano di essere affatto sprovvisti di ogni qualsiasi comodità e anche di quelle cose che sarebbero giudicate indispensabili. I primi sacerdoti che costituivano i superiori dell'Oratorio ebbero per stanza una piccola soffitta, con un tavolino, una sedia od uno sgabello di legno ed un catino per l'acqua e nulla di più; e per studiare si recavano nella sala comune in mezzo agli alunni del ginnasio. Il tenore severissimo col quale anche i suoi alunni praticavano la povertà, meritò a quegli anni il titolo di tempi eroici. Questo eroismo aveva per fondamento la massima di S. Teresa: Più si dà al corpo, tanto meno si dà allo spirito.

                Ed ora riepiloghiamo con una pagina del Can. Ballesio, il quale per otto anni interi visse con D. Bosco.

                “La povertà si vedeva in tutta la casa, ed in ogni atto della sua e nostra vita nell'Oratorio. Tante volte mi è venuto questo pensiero: - D. Bosco e la sua famiglia senza essere cappuccini di nome e di professione, lo sono di fatto nella loro vita povera e laboriosa. - Questa povertà, che in lui, come avviene nei santi, i quali sanno proprio stare nel giusto mezzo ed evitare le esagerazioni, nel servo di Dio si accoppiava a una somma nettezza.

                Credo che ciò provenisse dalla virtù dell'animo e specialmente dalla sua mortificazione, dalla sua operosità e castità delicatissima, chè la persona del servo di Dio compariva sempre a noi, i quali gli stavamo attorno, santa e santamente pulita”.

 

 

CAPO LVI. Prove e difficoltà per dar principio alla Congregazione - D. Bosco ne scrive le prime regole secondo il bisogno e la natura dei tempi - Infestazioni misteriose - Consigli inopportuni -Suggerimenti di Urbano Rattazzi Approvazione dei vescovi e dei teologi - Timori del Vescovo di Biella - Mons. Fransoni consiglia a D. Bosco, -un viaggio a Roma - Gli Oblati espulsi dal convento della Consolata ed i Francescani - I giovani dell’Oratorio e le sacre funzioni in quel santuario - Parole prudenti di D. Bosco in difesa di certi religiosi.

 

                DON Bosco amava la povertà evangelica collo stesso amore col quale un figlio dei più affettuosi predilige sua madre, e questa povertà formava la sua ricchezza. Infatti in premio di tanta virtù il Signore lo aveva destinato a fondare una società di religiosi, secondo i bisogni de' suoi tempi, e che doveva ancora una volta verificare il detto dell'Apostolo: Nihil habentes et omnia possidentes. Tuttavia l'impresa non era facile. Si trattava, non già di convocare, ma di creare i primi membri di questa pia unione, esigendo Iddio tale fatica dalla costante fedeltà del suo umile servitore. Eccone le prove. [685] Abbiamo già detto più volte come D. Bosco facesse invito a un certo numero fra i suoi giovani e chierici di fermarsi nell'Oratorio per aiutarlo nella sua impresa, e come difficilmente riuscisse a ritenerli. Scrisse D. Savio Ascanio: “Nel 1850 io dissi a D. Bosco: Fondi un ordine religioso. - Ed egli mi rispose: Da' tempo al tempo. - Perciò io argomentai che egli stesse, e infatti stava, studiando qualche progetto in proposito. E conobbi anni dopo che egli aveva incominciato a fare emettere or all'uno or all'altro, qualche voto, ad breve tempus, ma senza insistere poi che lo rinnovassero, come infatti non lo rinnovarono”.

                Anche D. Cafasso Giuseppe diceva a D. Bosco, il quale aveva conferito con lui sulle difficoltà che incontrava, nel rendere stabilmente sicura l'opera degli Oratorii: - Per le vostre opere è indispensabile una Congregazione religiosa.

                - Sarebbe questa la mia intenzione, ma come fare? Quando il superiore ecclesiastico, oppure gli affari dei membri della nuova società esigessero un trasloco o un cambiamento di occupazione, mi troverei nelle stesse difficoltà.

                - Certamente; ma conviene, replicò D. Cafasso che questa associazione abbia i vincoli dei voti, e sia approvata dall'autorità suprema della Chiesa. E allora potrà liberamente disporre de' suoi membri.

                D. Bosco chiedeva consiglio, per un progetto del quale sapeva sicura la riuscita; ma desiderava che fosse approvato dall'autorità del suo pio e dotto direttore. Nello stesso tempo non dimenticava le replicate esortazioni dell'Arcivescovo Fransoni. Tuttavia nella sua prudenza trovava prematura la proposta di voti formali, e prevedeva che [686] avrebbe dovuto incominciare coll'ottenere l'approvazione delle Regole dall'Autorità diocesana.

                Il Teol. Borel e qualche altro, - i quali a buon diritto benchè stessero alle loro case, debbono essere riconosciuti come il primo fondamento della Pia società, avendo prestato costantemente aiuto e in tanti modi a D. Bosco, - ammiravano il bene sociale che operavano gli Oratorii. Desideravano perciò che si perpetuassero, e ne facevano parola al servo di Dio perchè desse principio a quella Congregazione della quale aveva loro confidato il disegno. Ma Don Bosco rispondeva: - Tiriamo innanzi, abbandonandoci nelle mani di Dio. Aspettiamo dal Signore qualche segno che ci indichi il tempo per incominciare.

                E infatti ove trovare membri che formassero congregazione?

                Egli, cominciando un po' alla lunga, da più anni radunava alla Domenica sera, dopo che i giovani erano andati a riposo, nella sua anticamera, o meglio biblioteca, qualche studente ed alcuni chierici a speciale conferenza, i quali dimostravano di avere il suo spirito, col fine di formarli allo stato ecclesiastico. Per impedire che perdessero la vocazione, faceva risaltare i vantaggi della vita di comunità; e con pie esortazioni e sante industrie li persuadeva a passare tutte le vacanze, o almeno una gran parte di esse, nell'Oratorio. Non di rado andava loro esplicando a poco a poco i suoi vasti disegni e destava in loro un vivo entusiasmo. Ne parlava eziandio nelle conversazioni famigliari. A questo modo insensibilmente, senza che essi quasi se ne accorgessero, si andava formando un principio di Congregazione, perchè prendevano, a riguardare l'Oratorio come casa propria.

                Questo principio però, benchè radicato in vari cuori, [687] non emergeva ancora innanzi agli altri; e tale unione appariva cosa al tutto libera e come una pia adunanza nella quale i figliuoli maggiori convenivano intorno al loro padre per sentire ciò che egli credeva più opportuno pel buon andamento materiale e morale dell'Oratorio. Cosi fu giudicata dall'intera Comunità fino al 1860 e oltre.

                Gravissimi erano i motivi che aveva D. Bosco nel tener segreta agli alunni la realtà delle sue intenzioni. Egli appena osava parlarne ad tino o due dei più fidi, per non spaventar i volonterosi di aiutarlo. Invitando qualcuno a stabilire la sua dimora con lui, non faceva mai conoscere che si trattasse di Ordine o Congregazione religiosa, non pronunziava mai le parole novizio, noviziato, professione, voti, perchè guai! Sarebbero fuggiti tutti. Contro di lui stavano i pregiudizi, gli errori, le calunnie, gli scherni contro le fraterie, delle quali l'empietà andava assordando il mondo; e anche le anime più generose sarebbero state prese da sgomento non sapendo a quale avvenire sarebbero andate incontro, poichè il Governo sopprimeva gli ordini religiosi. Si aggiunga che quei buoni figliuoli erano giovanissimi ed inesperti.

                Infatti più tardi quasi tutti i primi preti dell'Oratorio e coadiutori laici più cospicui più volte si udirono ripetere: “Se D. Bosco ci avesse detto: - Vuoi tu entrar nella Congregazione? - E se ci avesse spiegato apertamente che cosa voleva dire Congregazione, neppure uno di noi vi sarebbe entrato. Ma D. Bosco ci invitò colla sua carità, e noi, come pecorelle attirate da una verde fronda, siamo entrati nel suo ovile. E fortunati noi che ci siamo lasciati attirare. Allora per invitare uno a formare società con lui ci diceva semplicemente. - Vuoi tu bene a D, Bosco? Vuoi fare il tuo chiericato qui nell'Oratorio? Hai voglia col [688] tempo di aiutare D. Bosco a lavorare? Oh quanto lavoro ci vediamo innanzi agli occhi! Ce ne fossero dei preti e dei chierici che si fermassero in casa chè del lavoro ce n'è per tutti. - E noi restammo adescati e presi. Mi ricordo, ci disse uno di questi, che gli domandai, come avessi da scrivere ai miei genitori che già stavano per cercarmi il posto nel Seminario. Mi rispose: - Scrivi così: riconoscente a D. Bosco che ti ha aiutato fin'ora, tu desidereresti di fermarti con lui, per vedere se potrai, come chierico, aiutarlo nei tanti lavori che sono da farsi in casa, sia d'assistenza, o di scuola, o di altro. - Ed io veramente allora non ne capiva, non ne sapeva, e non ne desiderava di più”.

                Un'altra difficoltà sorgeva dall'essere i pochi membri di quell'unione primitiva sforniti ancora del vero spirito di sottomissione spontanea che deve formare i perfetti religiosi colla rinuncia intera della propria volontà. La necessaria loro cooperazione all'assistenza ed all'istruzione religiosa e scolastica, la tradizionale libertà della vita di famiglia che rendeva così cara la casa di Valdocco, certe indoli ardenti e difficili che pure assoggettavansi volentieri a gravi lavori e privazioni, costringevano D. Bosco ad una grande longanimità nel pretendere da loro una disciplina regolare ed esatta.

                Seguiva l'esempio del Divin Maestro, il quale rimproverato dai Farisei, perchè i suoi discepoli non digiunavano, rispondeva loro colle similitudini del pezzo di panno nuovo cucito sopra un abito vecchio, del vino nuovo messo in otri vecchie, e del bevitore abituato al vino vecchio, il quale non vuole indursi a un tratto a preferire il vino nuovo. Con ciò dimostrava impossibile un repentino cambiamento di vita; ed essere necessario condurre i suoi [689] discepoli passo a passo, rinnovando il loro spirito co' suoi insegnamenti, co' suoi esempi e colla sua grazia. E quanto dovesse sopportare dalla loro condotta è narrato dalle pagine del Santo Vangelo[24]. Basti accennare alle esclamazioni: Durus est hic sermo, e alla voltata dì spalle di molti fra essi.

                Diceva D. Bosco nel 1875: “Chi di voi ricorda ancora i primi tempi dell'Oratorio? Ora invece quante cose si cambiarono poco per volta e sì andarono stabilendo e rassodando! Si vede proprio che noi siamo progressisti per eccellenza! Allora D. Bosco prima era solo, e poi ebbe D. Alasonatti. Ma a lui toccava sovente far scuola di giorno, scuola serale, scrivere libri predicare, assistere in certe ore gli alunni, andare in cerca di quattrini. E intanto avvenivano non pochi disordini esteriori, dissensioni fra i chierici pel modo di operare il bene, dispute letterarie o teologiche, ma fuori d'ora e talvolta troppo vive; disturbi nella sala di studio quando non vi erano i giovani: alcuni al mattino non si alzavano puntuali dal letto per motivo del freddo; altri per ragionevole causa non andavano a scuola, senza dir però nulla al Superiore. Non mancavano nel recarsi coi giovani, e in modo edificante, a tutti gli esercizi di pietà, stabiliti dal regolamento, ma non si faceva la lettura spirituale e non la meditazione, come esigono i maestri di perfezione cristiana. Io vedeva quei disordini, avvertiva chi ne aveva bisogno, ma lasciava che sì andasse avanti come si poteva, perchè non si trattava di offesa di Dio. Se avessi voluto togliere i vari inconvenienti in una volta, avrei dovuto mandar via [690] tutti i giovani e chiudere l'Oratorio, perchè i chierici non si sarebbero adattati ad un nuovo regime. Spirava sempre una certa aria di indipendenza che metteva in uggia ogni pastoia, e troppi allettamenti di vita più agiata presentava lo stato di preti secolari. Anche le tentazioni dei parenti per tirarli a casa quando fossero preti, non mancavano di insistenza. Bisognava armarsi di prudenti riguardi. D'altra parte io vedeva che que' chierici, benchè divagati, lavoravano volentieri, erano di buon cuore, di moralità a tutta prova, e, passato quel fervore di gioventù, mi avrebbero poi aiutato molto e molto. E debbo dire che i vari preti della Congregazione, che allora erano in quel numero, adesso sono fra quelli che faticano di più, che hanno il migliore spirito ecclesiastico e di Congregazione; ma allora certamente sarebbonsi ritirati da me, piuttostochè assoggettarsi a certe regole restrittive. Se per fare andare tutto a perfezione, mi fossi tenuto in una piccola cerchia, sarei riuscito a far poco o nulla, e l'Oratorio ora consisterebbe in una specie di collegio con una cinquantina o al più un centinaio di giovanetti. E null'altro!”

                Ma ciò che torna anche a lode esimia di que' primi collaboratori di D. Bosco si è la venerazione e l'affetto che dimostravano al loro Superiore. Sopratutto a lui concedevano quella libertà di parola che in una famiglia usa naturalmente un padre. Quindi D. Bosco anche dal pulpitino alla sera dava, benchè di raro, qualche rimprovero a chi l'aveva meritato, alla presenza di tutti i compagni. E nessuno se ne offendeva, perchè D. Bosco poteva dire e fare ciò che in altri sarebbe stato giudicato come imprudenza.

                Ricordiamo un fatto accaduto nel 1857. Erasi da tempo ordinato che le candele avute da quelli che erano mandati [691] in città per una sepoltura, dovessero adoperarsi nelle funzioni dell'Oratorio. Era un risparmio di spesa considerevole, perchè D. Bosco riceveva non di rado simili inviti. Ora avvenne che quattro chierici erano stati mandati sulla collina di Soperga per un accompagnamento funebre, ove ciascuno ebbe un fascio di dodici candele. Ritornati a casa, due consegnarono quella cera a Don Alasonatti, come era prescritto in simili occasioni, e due andarono a venderla al candelaio e si ritennero il prezzo. Non era la prima volta che taluno si prendeva un simile arbitrio. D. Bosco solo allora ne era stato testimonio, aveva crollato alquanto il capo, con un certo sorriso che indicava aver scoperto ciò che nascondevano sotto il mantello, ma non aveva detto parola trovandosi con degli estranei. Fors'anco pensò che avessero bisogno di comprarsi qualche libro, o altro.

                Ma se allora tacque, ora credette bene di parlare, tanto più che tutti in casa avevano saputa la cosa e bisognava perciò mettere impedimento ad un abuso, che, tollerato, si sarebbe fatto generale.

                Alla sera adunque dopo le orazioni, sempre calmo e amorevole, rivolse la parola a D. Alasonatti: - Dunque stamattina alcuni giovani andarono ad un funerale.

                - Sissignore.

                - E chi furono quelli che andarono? I tali e i tali.

                - Bene! E le candele le consegnarono tutti al Prefetto?

                E D. Alasonatti dicendone i nomi rispose:

                - Due sì e due no.

                - Non mi piace. Il giovane F... potrebbe, benchè a torto, credere di dar qualche vantaggio alla casa, prendendo parte col canto a varie funzioni in città, ma tu, [692] o G...., no; tu prendi dalla casa tutto ciò di che abbisogni, sei accettato a pensione intieramente gratuita. L'altro giorno ancora sei venuto da me perchè ti condonassi tutte le spese accessorie, dicendo che non potevano i tuoi parenti pagarle; ed io te le condonai, quindi... non hai scusa a trattarmi così... Buona notte.

                Siccome quasi tutti i giovani erano nelle stesse condizioni del Ch. G., ebbero una lezione che approvarono come equa e necessaria. Lo stesso chierico non si riputò offeso, nè pensò che in qualche modo D. Bosco avesse mancato alla carità, poichè fu sempre a lui affezionato come, figliuolo; e a noi diceva nel 1894: -Non ho mai scorto in D. Bosco cosa che potesse menomamente smentire la santità della sua vita.

                Per lungo spazio di tempo adunque D. Bosco aveva contemplato molto lontano quell'ideale che tanto lo riempiva di sè, ma finalmente nel 1857, dopo dieci anni di costanza incrollabile, di continue fatiche, di spese e di premure; dopo aver messo allo studio alcuni artigiani, che fecero una splendida riuscita, ebbe la consolazione di vedersi circondato di un'eletta schiera di circa otto tra chierici e giovani sopra i quali parevagli di poter fare assegnamento, manifestando essi la propensione di prendere parte alle sue fatiche per tutta la vita.

                Bisognava pertanto loro presentare una regola, e questa era pronta. D. Bosco, guidato dalla solita sua prudenza, dopo un lungo meditare, ma senza affrettarsi, aveva già scritte le Costituzioni della Pia Società, mentre, come afferma il Can. Anfossi, faceva recitare speciali preghiere dai chierici col fine di ottenere nell'importante lavoro l'assistenza divina. La base di queste avevala in certo modo già posta, poichè nei regolamenti dell'Oratorio festivo e [693] dell'Ospizio, i superiori, investiti dei vari uffizi, rappresentavano i membri del futuro Capitolo Superiore. Con molti stenti aveva cercato di procurarsi i volumi delle Costituzioni dai principali Ordini e Congregazioni religiose, perchè difficilmente questi sogliono permettere che se ne dia copia, anche per breve tempo, a persone estranee. Gli stessi Oblati di Maria Vergine in Torino, che pure erano suoi amici, gliele rifiutarono recisamente. Egli tuttavia trovò, qualche anno dopo, il mezzo di procurarsele. Ma sul principio del suo lavoro, incominciato nel 1855, dovette contentarsi delle sole cognizioni acquistate collo studio della storia ecclesiastica; e ispirandosi a certe idee, che evidentemente gli si erano presentate in certi sogni, o visioni. E intanto quante veglie, quante letture e colloqui e corrispondenze epistolari con eminenti persone, le quali colla loro dottrina ed esperienza fossero in grado di comunicargli dei lumi. Tanto più che egli argomentava dover la sua congregazione assumere forme esterne che la distinguessero dalle altre, spogliandola di certe pratiche e costumanze troppo da asceta, non usate dal clero secolare, e mal viste o messe in ridicolo dai mondani. Di religioso si conservi la sostanza, ei diceva; le apparenze non sono necessarie. Anzi una simile Congregazione, a mio parere, ispirerà maggior fiducia e simpatia, e col tempo attirerà molti soggetti a farvisi iscrivere, allettati dalla stessa, direi così, modernità della cosa. - Per lo stesso fine non volle che dal suo nome si appellassero i nuovi suoi religiosi.

                Si era intrattenuto anche col P. Giovanni Battista Pagani, immediato successore dell'Abate Antonio Rosmini, per aver norme che rendessero possibile ciò che la condizione dei tempi pareva non permettesse. [694] Sembra però, che in quel tempo abbia anche dovuto sostenere fastidii dal nemico del genere umano, al quale poco garbava quel lavoro. “Infatti, asserisce il Can. Anfossi, noi notammo come generalmente D. Bosco soffrisse gravi suggestioni diaboliche ogni volta che stava per intraprendere qualche opera importante a maggior gloria di Dio. Un mattino avendo io domandato a D. Bosco se nella notte avesse riposato bene, mi rispose: - Non molto, perchè fui molestato da un brutto animalaccio, sotto forma di orso, il quale mi si pose sul letto e tentò, opprimendomi, di soffocarmi. - Questo fatto non avvenne una sol volta; e D. Bosco diceva chiaramente come fossero molestie infernali”. Altri dell'Oratorio esposero nei medesimi termini il fatto su esposto, persuasi da varii altri indizi, che realmente qui si avesse del preternaturale.

                La notte poi nella quale D. Bosco finì di scrivere le prime regole della Pia Società Salesiana, frutto di tante preghiere, meditazioni e lavoro, mentre scriveva la frase di conclusione: Ad maiorem Dei gloriam, ecco apparirgli l'inimicus homo, muoversi il suo tavolino, rovesciarsi il calamaio, macchiarsi d'inchiostro il suo manoscritto; e questo sollevarsi turbinosamente in aria, ricadere, sfogliarsi, con grida così strane da incutere profondo terrore; e in fine restar tutto così imbrattato da non essere più leggibile e dover poi D. Bosco ricominciare il suo lavoro. Ciò confidava D. Bosco stesso ad alcuni e fra questi al Missionario D. Rabagliati Evasio.

                Condotto infine a buon termine il suo scritto, pregò lungamente il Signore, come egli stesso ci narrava, acciocchè lo ispirasse se fosse giunta l'ora di dar principio alla vagheggiata Congregazione.

                Intanto egli aveva fatto un invito particolare a quelli [695] fra i suoi alunni, i quali mostravano evidentemente essere chiamati dal Signore in suo aiuto; e loro esponeva confidenzialmente il piano della società da lui ideata, dalla quale egli sentivasi certo di ottenere frutti incalcolabili a beneficio della gioventù: di quando in quando leggeva loro le costituzioni, che aveva preparate. Non erano ancora le regole definitive, perchè tali non potevano essere, senza l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, ma si svolgevano con tale chiarezza ed ordine che i congregati apprendevano lo scopo di D. Bosco e gli obblighi che si sarebbero assunti, qualora liberamente li accettassero. Queste prime Costituzioni le esponiamo in fine del volume come documento storico, che svela in qual maniera avesse D. Bosco concepita la Pia Società di S. Francesco di Sales.

                La notizia però di tale Regolamento trapelò fuori dell'Oratorio.

                Alcuni dignitari ecclesiastici, a lui benevoli, lo sconsigliarono dall'attuare quel progetto e per la tristezza dei tempi, per la penuria dei soggetti, per la persecuzione sistematica del Governo contro gli Ordini religiosi. Questi, dicevano, avrebbe fatta violenza alla sua Istituzione, soffocandola fin dal suo nascere. Ma D. Bosco rispondeva che a Dio nulla era impossibile, e che se l'opera che egli voleva stabilire era del Signore, sarebbe, malgrado ogni difficoltà, andata avanti. Conveniva però con essi sulla necessità di armarsi della prudenza del serpente, perchè si trattava di fondare un Ordine nuovo, mentre gli altri cadevano; ma dichiarava nello stesso tempo essere necessario salvare la gioventù e il suo bene morale a qualunque costo.

                D. Bosco però non poteva essere senza timore che il Governo non gli impedisse di condurre in porto una [696] Congregazione, che doveva supplire a tante altre, divelte per mano della rivoluzione. Quand'ecco un avvenimento inaspettato aprirgli la strada. La divina Sapienza, la quale scherza ognora nel mondo, ludens coram eo omni tempore, ludens in orbe terrarum, volle servirsi di Urbano Rattazzi per trarre da ogni titubanza D. Bosco.

                Un giorno adunque del 1857 il Ministro Rattazzi, che incominciava a paventare i progressi delle idee sovversive della plebe, ebbe a sè D. Bosco, al quale aveva scritto poco prima una lettera[25]; e dopo essersi con lui intrattenuto per alcun tempo sull'esito della Lotteria, sull'opera degli Oratorii e sul vantaggio che il Governo se ne poteva attendere, gli disse presso a poco queste parole:

                - Io fo voti che Lei, signor D. Bosco, viva molti anni alla coltura di tanti poveri giovanetti; ma Lei è mortale come ogni altro, e se venisse a mancare, che cosa ne sarebbe dell'opera sua? Ha Lei già pensato a questo caso?[697] E se vi ha pensato, quale misura intenderebbe di adottare per assicurare l'esistenza del suo Istituto?

                A questa uscita inaspettata, D. Bosco tra il serio ed il faceto rispose:

                - Per dirle il vero, Eccellenza, io non fo conto di morire sì presto, e perciò pensai bensì a procacciarmi qualche aiutante pel momento, ma non ho per anco il modo di continuare l'opera degli Oratorii dopo la mia morte. Ora, giacchè Ella me ne fa parola, sarei a domandarle alla mia volta, a quale mezzo, giusta il suo consiglio, io potrei appigliarmi, per assicurare la vita a questa istituzione?

                - A mio avviso, rispose Rattazzi, giacchè non è di parere di far riconoscere l'Oratorio come Opera Pia, Lei dovrebbe scegliere alcuni tra laici ed ecclesiastici di sua confidenza, formarne come una Società sotto certe norme imbeverli del suo spirito, ammaestrarli nel suo sistema, affinchè fossero non solo aiutanti, ma continuatori dell'opera sua dopo la sua dipartita.

                A questo suggerimento, un leggier sorriso sfiorò le labbra di D. Bosco. Il Ministro aveva fatto sancire la prima legge di soppressione delle Congregazioni religiose, esistenti da secoli negli Stati Sardi; e quindi a D. Bosco pareva una stranezza udire quell'uomo istesso a consigliarne l'istituzione di un'altra. Laonde soggiunse:

                - E crede la E. V. che sia possibile fondare una cotale Società in questi tempi? e che possa durare senza che i membri di essa siano stretti insieme da vincolo religioso?

                - Un vincolo è necessario: ne convengo; ma di tal natura, che le sostanze non appartengano alla comunità come ad ente morale. [698]

                - Ma il Governo, due anni sono, soppresse parecchie Comunità religiose, e forse si sta preparando alla estinzione delle rimanenti, e permetterà egli che se ne fondi un'altra non dissimile da quelle?

                - La legge di soppressione, riprese Rattazzi, io la conosco e ne conosco anche lo scopo. Essa non Le reca veruno incaglio, purchè la S. V. instituisca una Società secondo le esigenze dei tempi e conforme alla vigente legislazione.

                - E come sarebbe?

                - Sarebbe una Società, che non abbia l'indole di mano morta, ma di mano viva; una Società, in cui ogni membro conservi i diritti civili, si assoggetti alle leggi dello Stato, paghi le imposte e via dicendo. In una parola, la nuova Società in faccia al Governo non sarebbe altro che un'Associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme ad uno scopo di beneficenza.

                - E Vostra Eccellenza può Ella assicurarmi che il Governo permetta l'istituzione di una tale Società e la lasci sussistere?

                - Nessun Governo Costituzionale e regolare impedirà l'impianto e lo sviluppo di una tale Società, come non impedisce, anzi promuove le Società di commercio, d'industria, di cambio, di mutuo soccorso e simili. Qualsiasi Associazione di liberi cittadini è permessa, purchè lo scopo e gli atti suoi non siano contrari alle leggi e alle istituzioni dello Stato. Stia tranquillo: risolva; avrà tutto l'appoggio del Governo e del Re, poichè si tratta di un'opera eminentemente umanitaria.

                - Ebbene, conchiuse D. Bosco, vi rifletterò sopra e poichè la E. V. si mostra così benevola verso di me e [699] de' miei giovanetti, occorrendo mi farò premura di rivolgermi alla sua saggezza ed autorità.

                Le parole di Rattazzi furono per D. Bosco uno sprazzo di luce, che palesandogli le intenzioni del Governo lo rassicurò pienamente. La Società suggeritagli era una Società civile prettamente umana, ma egli non entrò in argomenti d'ordine spirituale, quindi caldamente lo ringraziò di quel suggerimento, senza fargli parola di aver già svolte quelle idee nello scritto delle sue Costituzioni, specialmente per ciò che riguardava la pratica del voto di povertà. Importava che Rattazzi tenesse come suo esclusivamente quel suggerimento per averlo alleato. E così fu; e qualche volta Rattazzi, ricevendo D. Bosco al Ministero, caldeggiava l'esecuzione del suo progetto. D. Bosco diceva in nostra presenza il i gennaio 1876: - Rattazzi volle con me combinare vari articoli delle nostre regole riguardanti il modo col quale la nostra Società doveva regolarsi rispetto al codice civile ed allo Stato. Si può dir proprio che certe previdenze, perchè non potessimo essere molestati dalla potestà civile, furono cose tutte sue.

                D. Bosco contando su tale appoggio, prima di rivolgersi alla Santa Sede, avendo conferito a lungo con Don Cafasso, volle consultare parecchi Vescovi ed altre pie e dotte persone. Si trattava di fondare una Congregazione d'aspetto diverso da tante altre che esistevano, o erano esistite in Piemonte. Quindi esponeva loro alcuni quesiti: “Una Società desiderosa di lavorare alla gloria di Dio, pur rimanendo civile in faccia al Governo, non potrebbe assumere eziandio la natura di un Istituto religioso in faccia a Dio ed alla Chiesa? - Non potrebbero i suoi membri essere e liberi cittadini e religiosi ad un tempo? - Mi pare di sì, a quel modo che in uno Stato qualsiasi un [700] Cattolico può essere e suddito del Re o della Republica e suddito della Chiesa, fedele ad entrambi, osservando di entrambi le leggi”. Vescovi e Teologi risposero favorevolmente a tali quesiti.

                Sorgeva poi un'altra questione, la quale, benchè d'ordine secondario, poteva creare serie difficoltà.

                Eziandio il Vescovo di Biella era stato richiesto del suo consiglio. Mons. Losana aveva fatto osservare a Don Bosco, che le Diocesi abbisognavano di un immediato soccorso di Sacerdoti, e che colla sua Società avrebbe forse ritardati questi aiuti, ritenendo per sè i soggetti migliori. Infatti era chiaro che l'avvenire del clero stava in mano a D. Bosco. Ma D. Bosco gli rispose che il ritardo non sarebbe stato di danno, perchè egli prevedeva di poter con i primi suoi coadiutori, legati alla sua Congregazione, arrecare un aiuto molto maggiore alle diocesi del Piemonte, in pochi anni. E confortò la sua risposta col detto: Funiculus triplex difficile rumpitur: cioè che il promuovere le vocazioni sarebbe da qui avanti un lavoro collettivo e non individuale, quindi permanente, continuo, progressivo, e che non si sarebbe potuto impedire, per il vincolo di obbedienza che avrebbe stretti saldamente fra loro i lavoratori della vigna evangelica. Mons. Losana, che narrò questo dialogo al Can. Anfossi, approvò le parole di Don Bosco, le quali ben presto si dovevano avverare in modo sorprendente. Ci scrisse il sullodato Canonico: “Incaricato io pure di una classe ginnasiale nell'Oratorio, in un anno (1862) sopra un centinaio di alunni ben settantaquattro si decisero per la carriera ecclesiastica e passarono agli studi nei Seminari delle varie diocesi”.

                Avuta così l'approvazione anche del Vescovo di Biella, D. Bosco desiderava pure di far sapere al suo veneratissimo [701] Arcivescovo la presa risoluzione; e non potendo recarsi personalmente a Lione, dove quell'invitto eroe della Chiesa viveva sempre in esiglio, gliene scrisse, domandando il suo parere. Mons. Fransoni gradì sommamente il disegno di D. Bosco, che da anni era pure il suo, lo animò a mandarlo ad effetto, e per metterlo sopra una via sicura gli raccomandò di recarsi a Roma, a fine di chiedere, all'immortale Pontefice Pio IX e consiglio e norme opportune. D. Bosco accolse di buon grado la raccomandazione del suo Arcivescovo, e si risolvette ad un viaggio, al quale da tempo andava pensando.

                Intanto non cessavano le cause di gravi dolori.

                Mentre D. Bosco era sul punto di dare consistenza alla sua Pia Società, il Governo continuava a prendere possesso di case religiose, sbandeggiandone i pacifici laboriosi abitatori e concentrando in un solo convento i membri di vari Istituti. D. Bosco ne soffriva, specialmente perchè la legge della soppressione era stata eseguita in tutto il suo rigore contro gli Oblati della Consolata, pei quali ei nutriva grande stima ed affetto. Nel novembre del 1855 la Cassa Ecclesiastica aveva dato in affitto ad un albergatore una parte del loro chiostro e quindi nel 1857 ne li faceva sloggiare per mettervi i Minori Osservanti che erano assai ben veduti dal Governo. Questi, essendovisi introdotti senza punto farne parola alla Curia Metropolitana, il Vicario Generale non aveva voluto dar loro la facoltà di amministrare il Santuario, e vi aveva nominato Rettore uno degli Oblati e poi un prete secolare. Tali vicende non favorivano certamente il maggior culto della benedetta effigie di Maria SS. Consolatrice, e perciò D. Bosco per quegli anni mandava al Santuario i suoi cantori per le solenni novene e i chierici per il [702] servizio dell'altare nelle feste principali e quando ne era richiesto. Intanto i frati vedendo che la Curia teneva fermo, dopo aver temporeggiato alquanto le presentarono un rescritto pontificio da essi procacciato. Ma poichè per ottenerlo eransi addotte ragioni insussistenti, Mons. Fransoni fece a Roma i suoi richiami, e venne di là l'ordine ai Minori di chiederne venia all'Arcivescovo: il che fatto si lasciò loro ufficiare la chiesa.

                Mentre componevasi tale questione, sopra un giornale,cattolico compariva un articolo col quale si biasimavano,eccessivamente i Minori Osservanti. D. Bosco, nonostante la sua affezione agli Oblati, fu dolente di quell'articolo, perchè non vedeva ragione, la quale costringesse a portare al giudizio della pubblica opinione ciò che spettava al solo giudizio della Chiesa. - Se dalla parte dei Francescani, ei diceva, vi fu colpa, perchè non coprirla col manto della,carità, mentre si era certi che gli Oblati non avrebbero potuto rivendicare i loro diritti? E poi in una comunità molto numerosa l'errore potendo essere di un solo o di pochi, rimanendo gli altri in buona fede, perchè involgerli tutti nella stessa accusa? - E concludeva: - Preti e frati finchè lavorano e fanno bene nel Sacro Ministero, non devonsi screditare e mettersi in cattiva fama! Queste parole le udiva e riferiva D. Turchi Giovanni.

 

 

CAPO LVII. Segni di una votazione ecclesiastica - L'avvenire assicurato ai giovani operai - Lettera del Signor Baudon, Presidente generale della Società di S. Vincenzo de' Paoli - Orfani adottati per figli da ricchi signori - Povero ma sacerdote - Lettera consolante ad un chierico L'allegria nell'Oratorio - D. Bosco a Sant'Ignazio: sua lettera ai giovani - Parole di D. Cafasso al Ch. Cagliero D. Bosco ripete che uno de' suoi chierici sarà Vescovo Elenco delle sue opere stampate. - D. Bosco desidera la compagnia de' giovani - Letture Cattoliche - VITA DEI SOMMI PONTEFICI S. SISTO, S. TELESFORO, S. IGINO, S.PIO I - Avvertenza copra una polemica contro Amedeo Bert - Riscatto difficile del campo de' sogni.

 

                NELL'ORATORIO si era fatta la distribuzione dei premi. Dai registri di D. Bosco apparisce che nell'anno 1856 - 1857 il numero dei giovani, ognun dei quali ha il suo voto complessivo, dal i novembre, è di 163: 85 studenti, 78 artigiani. Era questo il tempo nel quale si determinavano le sorti di molti giovani, in vari modi e per varie strade, senza contar quelle di coloro che rimanevano stabilmente presso i parenti. [704]

                Si decideva delle vocazioni e D. Bosco usava di una grande prudenza nel dare il suo consiglio. Ecco un fatto che vale una lezione.

                Nel 1857 il giovane T      doveva terminare il suo corso ginnasiale. La sua condotta lasciava niente a desiderare; in tutti quei cinque anni non gli si parlò mai di vocazione. Aveva più volte domandato a D. Bosco a qual genere di vita lo consigliava di appigliarsi, compiuto che avesse il Ginnasio. - Sta buono, ei gli rispondeva, studia, prega, e a suo tempo Dio ti farà conoscere ciò che sarà meglio per te.

                - Che cosa debbo praticare, affinchè Dio mi faccia conoscere la mia vocazione?

                - San Pietro dice che colle buone opere noi possiamo renderci certi della vocazione e della elezione dello stato.

                Alla Pasqua dovendosi cominciare gli esercizi spirituali, il giovane desiderò trattare della sua vocazione, e sebbene da qualche tempo si sentisse grande propensione allo stato ecclesiastico, tuttavia temeva di esserne impedito dalla sua condotta passata. Si presentò pertanto in quei giorni a D. Bosco, e tenne con lui un colloquio, che noi abbiamo trovato scritto fra le sue carte. Eccolo:

                Il giovane. - Quali sono i segni che manifestano essere o non essere un giovane chiamato allo stato ecclesiastico?

                D. Bosco. - La probità dei costumi, la scienza, lo spirito ecclesiastico.

                - Come conoscere se vi sia la probità dei costumi?

                - La probità dei costumi sì conosce specialmente dalla vittoria dei vizi contrari al sesto comandamento, e di ciò bisogna rimettersi al parere del confessore. [705]

                - Il confessore già mi disse che per questo canto posso andar avanti nello stato ecclesiastico con tutta tranquillità. Ma e per la scienza?

                - Per la scienza tu devi rimetterti al giudizio dei superiori, che ti daranno gli opportuni esami.

                - Che cosa s'intende per ispirito ecclesiastico?

                - Per ispirito ecclesiastico s'intende la tendenza ed il piacere che si prova nel prendere parte a quelle funzioni di chiesa che sono compatibili coll'età e colle occupazioni.

                - Niente altro?

                - Vi è una parte dello spirito ecclesiastico che è più di ogni altra importante. Essa consiste in una propensione a questo stato, per cui uno è desideroso di abbracciarlo a preferenza di qualunque altro stato, anche più vantaggioso e più glorioso.

                - Tutte queste cose trovansi in me. Una volta desiderava ardentemente di farmi prete. Ne fui avverso per due anni, per quei due anni che lei sa; ma al presente non mi sento a nessuna altra cosa inclinato. Incontrerò alcune difficoltà da parte di mio padre che mi vorrebbe in una carriera civile, ma spero che Dio mi aiuterà a superar ogni ostacolo.

                D. Bosco gli fece ancora osservare che il farsi prete voleva dire rinunziare ai piaceri terreni; rinunziare alle ricchezze, agli onori del mondo, non aver di mira cariche luminose, esser pronto a sostenere qualunque disprezzo da parte dei maligni, e disposto a tutto fare, a tutto soffrire per promuovere la gloria di Dio, guadagnargli anime e per prima salvare la propria. - Appunto queste osservazioni, ripigliò il giovane, mi spingono ad abbracciare lo stato ecclesiastico. Imperciocchè negli altri stati [706] avvi un mare di pericoli, che trovansi di gran lunga inferiori nello stato di cui parliamo.

                Ma le difficoltà dovevano appunto incontrarsi da parte del padre, il quale essendo ricco con quell'unico erede, appena seppe della sua risoluzione, cercò dissuaderlo prima con lettere, e poi venne all'Oratorio per condurlo a casa. Il giovane s'arrese. Nel congedarsi dal collegio Don Bosco gli indirizzò queste parole: -Mio buon figliuolo, una gran battaglia ti aspetta. Guardati dai cattivi compagni e dalle cattive letture. Abbi sempre la Madonna per madre tua e ricorri spesso a lei. Fammi presto sapere delle tue notizie. - Il giovane, molto commosso, tutto promettendo partì col padre alla volta della patria.

                E mantenne la sua parola. Cedendo per obbedienza alle insistenze paterne, prese la patente di geometra; ma stette saldo nella sua vocazione. Aveva portato con sè l'amore all'Oratorio e sentiva risuonar sempre nel suo cuore le parole di D. Bosco: “Se perdi l'anima tutto è perduto, se salvi l'anima tutto è salvo in eterno!” Scrupoloso osservatore della santificazione delle feste, per amor di guadagno non lasciavasi in questi giorni tirare a far qualche perizia o a prendere qualche pubblica misura: - Alla festa voglio andare in Chiesa, diceva, e non voglio far altro. - Il suo esempio, la sua parola era di mirabile effetto, e prestava uno zelante aiuto al parroco in tutte le opere buone.

                Nel 1871 ei ritornava con D. Bosco, abbracciava lo stato religioso e a suo tempo veniva ordinato sacerdote.

                Anche ai giovani operai che avevano terminato il loro tirocinio, o che per qualche altro motivo dovevano uscire dall'Oratorio, D. Bosco procurava di assicurar l'esercizio della loro professione nelle officine più oneste [707] della città e dei dintorni, con una paga conveniente. In questa premura era aiutato da D. Begliatti, Economo del Convitto Ecclesiastico, e da vari membri della Società delle Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli. Di più ancora; egli stesso, o per mezzo di que' bravi Signori, cercava commissioni di lavoro, per i capi di fabbrica o di bottega che avevano accettati i suoi operai, ovvero si prestava a rendere qualche servizio da essi domandato.

                Fra questi vi erano i fratelli Doyen litografi, i quali avevano accolti e istruiti nella loro arte molti giovani loro presentati da D. Bosco. Queste sue attinenze coi Doyen gli porsero forse occasione di chiedere per lettera un favore al Sig. Baudon, Presidente della Società di San Vincenzo de' Paoli, il quale, venendo a Torino alcun tempo prima, era stato a visitare l'Oratorio. Il Sig. Baudon rispondevagli accondiscendendo alla sua domanda, e noi qui riportiamo il suo foglio, sia per l'importanza di chi lo scrisse, sia per essere il principio di relazioni che più non cessarono.

 

                SOCIETA' DI S. VINCENZO DE' PAOLI.

                Consiglio Generale.

                Segretariato - Rue de Furstemb erg, 6.

 

                               Signor Abbate,

 

                E’ per noi grande consolazione il secondare la S. V. nel gran bene che va facendo; ci rincresce solo di non poterlo fare in una maniera più efficace.

                Per corrispondere alla domanda che V. S. ci ha fatto, ci diamo premura di assicurarla che le manderemo i clichés che Ella desidera. Appena saranno preparati i nostri disegni, ne manderemo una bozza alla S. V. perchè possa giudicare quali Le convengono meglio, e secondo il suo avviso ci affretteremo a farli eseguire [708] immediatamente. Inoltre noi Le invieremo pure una bozza del testo, appena sarà preparata.

                Gradisca, signor Abbate, l'espressione del profondo rispetto col quale abbiamo l'onore di professarci Di V. S.

                Parigi, 18 luglio 1857, San Tommaso d'Aquino.

 

Umil.mi obbl.mi Servitori

AD. BAUDON

Presid. della Società.

 

PAOLO DE CAUX

                ( Trad. dal francese).                                                                        Vice - Pres. Gen.

 

                Intanto, mentre D. Bosco cercava per i suoi alunni un vantaggioso collocamento, pareva che ad alcuni di essi la fortuna venisse loro incontro. Vi erano dei signori, i quali non di rado chiedevano a D. Bosco qualche giovane povero e buono per adottarlo come figlio. Negli studenti però e negli artigiani vi era ripugnanza a cambiar condizione in questo modo; anzi la maggior parte delle volte rispondevano con un reciso rifiuto alla proposta di accettare un nome illustre e ricchezze anche grandi. Il punto di onore li faceva amare il proprio cognome, benchè oscuro, temendo che altri potesse crederli figli esposti e senza famiglia. Anche per parte dei loro parenti eravi questa viva ripugnanza. L'artigiano di cuore infatti preferisce il suo onorato mestiere.

                D. Bosco osservava: - I giovani scapestrati facilmente accetterebbero, ma essi non sono voluti. Per i giovanetti buoni queste adozioni sono di gran pericolo, quando l'adottante ama che intraprendano la carriera degli studi. Non resistono al cambiamento di vitto, società, costumanze; la superbia li conduce al vizio. Nel giovane [709] che si vuole adottare da persone agiate sarebbe necessario che vi fossero alcune condizioni. Nascita civile, conoscenza della vita agiata perduta per qualche disgrazia, virtù e umiltà a tutta prova. Allora si può sperare in una buona riuscita.

                Alcuni giovani dell'Oratorio però seppero valersi in bene di simile sorte che la Provvidenza loro porgeva. Diciamo di un solo.

                Un signore francese di Parigi venne nel 1857 all'Oratorio chiedendo a D. Bosco un giovanetto qualsiasi, poichè non avendo figli desiderava scegliere un poveretto, adottarlo e lasciarlo erede delle sue sostanze. Aveva un grande laboratorio di calzoleria. D. Bosco pensò subito ad un buon giovanetto calzolaio, che giudicò degno di quella fortuna. Ma non disse nulla al signore; e dichiaratosi pronto a contentarlo, lo condusse a vedere i laboratorii perchè facesse la scelta. Entrato nella sala de' calzolai D. Bosco si fermò presso colui che egli in suo cuore aveva dichiarato meritevole, il quale era a capo del banchetto, e chiamatolo disse: - Accompagna questo signore a visitare l'Oratorio e poi conducilo in mia camera.

                D. Bosco si ritirò. Il signore parlava francese e il giovane rispondeva con tutta tranquillità in piemontese. Il signore ritornato presso D. Bosco: - Oh, gli disse, mi farebbe un gran favore se mi lasciasse quel giovane che mi accompagnò or ora - D. Bosco sorrise perchè era sicuro di questa riuscita.

                - Ebbene le sembra che sarà contento di quel giovanetto?

                - Contentissimo, come pure, ne son certo, sarà contenta la mia signora.

                D. Bosco chiamò nella sua camera il giovane, che era [710] un povero orfanello, senza alcun appoggio in questo mondo, e gli fece la proposta. Sulle prime quegli esitò, poscia accettò, ma soggiunse:

                - Se per qualche ragione non potessi fermarmi con questo signore mi accetterebbe di nuovo con lei?

                - Non dubitare; son sicuro che te la passerai buona. Tuttavia, qualora tu uscissi da quella casa, non per demeriti, ma per altri motivi, io ti prometto di riaccettarti volentieri.

                Il giovane partì, e fu adottato per figlio. Eziandio la signora del negoziante lo amò come se fosse stato suo proprio figliuolo, tanto era virtuoso ed obbediente.

                Dopo poco tempo morì quel signore e poi sua moglie, ed il giovane fu nominato erede universale. Egli continuò nel suo mestiere di calzolaio col presiedere il laboratorio lasciatogli dal padre adottivo, che anche oggigiorno gli continua a fruttar molto, la sua fortuna superando le 400.000 lire. Quando D. Bosco nel 1883 fu a Parigi questo bravo figliuolo andò sovente a visitarlo, pregandolo e supplicandolo che volesse fare una gradita comparsa in casa sua; ma, per quanto D. Bosco avesse buon volere, non potè soddisfarlo.

                Altri simili mutamenti di condizione furono respinti per motivi soprannaturali. Una ricca signora torinese aveva pregato D. Bosco a trovarle un giovane, i cui parenti fossero pronti a lasciarglielo, per adottarlo e farlo erede del suo patrimonio. D. Bosco promise; scelse nella sua mente uno degli allievi orfani, tale che non si insuperbisse e guastasse per la sopravvenuta fortuna; quindi in bella maniera lo dispose ad un mutamento di stato. Finalmente un bel giorno comparve in quella nobile casa col suo giovinetto, e, senza dirgli motto di che si trattasse [711] lo presentò alla signora, perchè giudicasse se sarebbe di suo gradimento.

                Quella sera era stato imbandito un pranzo, e pel giovanetto, uso alle modeste refezioni dell'Oratorio, fu un banchetto da re. Egli però, senza avvedersi di essere spiato con viva curiosità, si regolò in maniera che la padrona ne era meravigliata. Dopo il pranzo, essendovi un certo numero di invitati, vi fu un po' di conversazione. Il giovanetto vicino a D. Bosco non osava alzar gli occhi e stava silenzioso e modesto. D. Bosco però, temendo che quel silenzio potesse essere giudicato come indizio di rozzezza di animo, lo interrogò sopra un punto di storia patria, che discutevasi fra quei signori; ed egli ne diede il suo giudizio, esponendolo con ogni particolarità di cause, di persone e di date. Tutti allora gli si fecero d'attorno, gli chiesero il suo nome, la patria, l'età, gli studi; ed il giovane rispondeva con tale disinvoltura che la signora esclamò: - È  quello che fa per me.

                Poco dopo, sfollata la gente, non rimanevano più in sala che D. Bosco e la signora. Allora D. Bosco disse al giovanetto:

                - Figliuolo, non ti piacerebbe fermarti qui?

                - A far che?

                - A farla da padrone

                - Si spieghi! - E D. Bosco gli spiegò le caritatevoli intenzioni di quella dama, che attendeva in contegno amorevole la risposta.

                - Ma con questo, osservò il giovanetto, dovrei rinunziare a farmi prete?

                - Certo! rispose la signora.

                - Ebbene! no. Poveretto io voglio rimanere, ma un giorno essere sacerdote. [712] E lo fu; ed ora lavora nel vasto campo che gli ha affidato il Signore, amando sempre a tutta prova D. Bosco. Nè fu il solo di spiriti così generosi; vi ha tale che Dio elevò ai primi onori della Chiesa, in premio di aver seguita la sua vocazione.

                Mentre D. Bosco così studiavasi di assicurare l'avvenire de' suoi alunni, e una parte di questi era a casa in vacanza, qualche giovane di famiglia borghese e qualche chierico diocesano, da lui invitati, entravano nell'Oratorio per dimorarvi alcune settimane. Fra questi venne il chierico Ruffino Domenico, che aveva compiuto il primo corso di filosofia nel seminario di Chieri. Incontratosi con Don Bosco anni prima, si sentì preso per lui da un'ardente affezione figliale. Ora essendo andato in vacanze a Giaveno, suo paese nativo, aveva per lettera confidate a D. Bosco alcune sue angustie. D. Bosco gli rispondeva:

 

                               Carissimo nel Signore,

 

                Fa coraggio e riponi ogni tua speranza nel Signore. Credo che non ti chiameranno più li 24 f. di entrata nel Seminario; che se ti fossero nuovamente domandati, dirai a' tuoi Superiori che abbiano la bontà d'indirizzarsi a me ed io mi aggiusterò. Attese le strettezze di tua famiglia se ti accomodasse venir a passare le vacanze quivi con me, vieni pure che io sono contento. Scrivimelo solo alcuni giorni prima.

                Del resto ricordati sempre che la più grande ricchezza di questo mondo è il santo timore di Dio; e che diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum. Occorrendoti grave bisogno fammelo sapere.

                Credimi nel Signore

                Torino, 13 luglio 1857.

 

Tuo aff.mo

Sac. Giov. Bosco [713]

 

                Il Chierico accettava subito il caro invito, e dall'Oratorio così scriveva ad un suo amico:

 

                               Carissimo amico,

 

                Ti scrivo per annunciarti la mia dimora presso D. Bosco a Torino, dove sono venuto per passare le mie vacanze più tranquillamente e per impararvi il francese. Io ti assicuro in buona fede che trovandomi qui mi sembra di essere in un paradiso terrestre, poichè tutti si amano come fratelli e più ancora. Tutti sono allegri, ma di un'allegria veramente celeste, e specialmente quando si, trova D. Bosco in mezzo a noi. Allora passiamo le ore che ci paiono minuti e tutti pendon dalle sue labbra come incantati. Egli è per noi come una calamita, poichè appena egli comparisce tutti gli corrono incontro e più sono contenti quanto più gli sono vicini e nessuno si parte da lui nè pel pranzo nè per la cena, finchè l'assistente non lo strappi quasi per forza…

 

                Intanto D. Bosco secondo il consueto andava a S. Ignazio accompagnato da vari chierici, fra i quali Turchi e Cagliero, perchè attendessero con lui agli esercizi spirituali dettati da D. Cafasso. In quel tempo gli alunni dell'Oratorio, non vedendolo più in mezzo a loro, cercavano di consolarsi, scrivendogli lettere, alle quali D. Bosco era pronto a rispondere. Di queste risposte ne conserviamo una sola.

 

                               Bonetti carissimo,

 

                Se metterai in pratica quello che mi hai scritto, io ti farò santo. Ma ricordati che io conserverò la tua lettera.

                Ho pregato il Signore anche per te, affinchè ti faccia conoscere la tua vocazione.

                Dio ti doni sanità e grazia per fare la sua santissima volontà.

                Credimi tuo

                S. Ignazio, 25 luglio 1857.

 

Aff.mo

Sac. Giov. Bosco. [714]

                Se queste lettere producevano santi effetti in Torino, altrettanti ne cagionavano a Sant'Ignazio le parole di Don Cafasso. Nel corso degli esercizi il Ch. Cagliero meditava di consultarlo sopra la sua vocazione; quando D. Cafasso gli venne incontro dicendogli: - So che desiderate parlarmi; venite. - Lo introdusse nella propria cella: e lo intrattenne per buon tratto di tempo sulla bellezza e preziosità della vocazione ecclesiastica e religiosa, lo animò a perseverare in essa e continuare a voler bene a D. Bosco, il quale, disse, ha tra mano grandi progetti a pro della gioventù.

                D. Bosco infatti non cessava un istante dal pensare ai modi per tradurre in atto questi suoi progetti, gli sorrideva sempre innanzi il ricordo di sogni e di visioni, e contemplava lo spettacolo dei giovani presenti e venturi, e specialmente di quelli che avrebbero formata ed ingrandita la sua Congregazione.

                Uno di quei giorni, nel tempo di ricreazione, si trovava sul piazzale della chiesa in mezzo ai buoni chierici che aveva seco condotti, i quali stavano ascoltando le cose interessanti che era solito a narrare. Fra questi non mancava Cagliero. Alcuni signori esercitandi erano con lui. Don Bosco di ragionamento in ragionamento venne a parlare di que' chierici, e delle speranze che aveva in essi riposte; e in fine, voltosi a que' signori, uscì in queste parole: - Vedano, signori miei; verrà giorno nel quale uno di questi chierici sarà Vescovo. - D. Turchi prese subito nota di queste parole.

                E D. Bosco con questi pensieri, nel chiudersi degli esercizi, scriveva il seguente foglio:

 

                Affinchè poi niuno mi attribuisca scritti che non siano miei metto qui sotto un elenco di libri da me composti o compilati [715] e de' quali ho conservato la proprietà letteraria che intendo pure trasmettere a' miei credi, affinchè ne facciano quell'uso che giudicheranno a maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.

 

                I. Cenni sulla vita del giovane Luigi Comollo. Ediz. 2.

                2. Il Devoto dell'Angelo Custode. Anonimo.

                3. I sette dolori di Maria considerati in forma di meditazione.

                    Anonimo.

                4. Esercizio di divozione alla misericordia divina. Anonimo.

                5. Storia Sacra ad uso delle scuole. Ediz. 2.

                6. Storia Ecclesiastica ad uso delle scuole. Ediz. 2.

                7. Il Giovane provveduto. Ediz. 3.

                8. Il Cristiano guidato alla virtù ed alla civiltà. Anonimo.

                9. Il sistema metrico ridotto a semplicità. Ediz. 5.

                10. Il Cristiano Cattolico istruito nella sua religione. Ediz. 2.

                11. Fatti contemporanei esposti in forma di dialogo.

                12. Dramma. Disputa tra un avvocato e un ministro protestante.

                13. Raccolta di curiosi avvenimenti contemporanei.

                14. Le sei domeniche di S. Luigi.

                15. Notizie storiche intorno al miracolo del SS. Sacramento.

                16. Conversazione tra un avvocato ed un curato di campagna

                 sulla confessione.

                17. Conversione di una Valdese. Fatto contemporaneo.

                18. Maniera facile d'imparare la Sacra Bibbia. Ediz. 3.

                19. La forza della buona educazione. Episodio contemporaneo.

                20. Vita di S. Pancrazio martire.

                21. La Storia d'Italia raccontata alla gioventù.

                22. La Chiave del paradiso in mano al Cattolico.

                23. Vita di S. Pietro Apostolo e di S. Paolo.

                24. Due conferenze sul purgatorio e sul suffragio dei defunti.

                25. Vite dei Papi fino all'anno 221.

                Torino, 26 luglio 1857.

 

Sac. Giov. Bosco.

 

                D. Bosco ritornava stanco a Torino per le molte confessioni ascoltate, mentre una parte degli alunni rientrava nell'Ospizio pel mese di scuola, che interrompeva la loro [716] dimora in patria. Un giorno di agosto, stando egli sotto il porticato della casa, diceva ad una trentina di giovani che lo circondavano, tra i quali Reano Giuseppe e Lazzero Giuseppe, che aveva presa stanza nell'Oratorio il 3 agosto: - Avrei bisogno di far lunghe passeggiate, sia con gli adulti della casa, sia coi giovanetti; e mentre così quelle esercitazioni prodotte dal moto sarebbero di vantaggio alla mia sanità, io potrei discorrere co' miei amici di tante e tante cose. Ed eziandio, per sollevare la mia mente oppressa da tante cure, preferirei di passare tutto il tempo della ricreazione co' miei figliuoli per divertirli, facendo il giuoco dei bussolotti, quello delle bacchette e simili; ma... è troppo il lavoro che abbiamo per le mani... e poi la più bella passeggiata e il più bel giuoco che mi piacerebbe si è di poter condurre diecimila giovani in paradiso.

                Invero egli non aveva un istante per riposare. Le bozze di stampa di tre fascicoli per le Letture Cattoliche, mandate da Paravia, ingombravano il suo tavolino.

                Vi era il fascicolo di settembre: Vita dei sommi Pontefici S. Sisto, S. Telesforo, S. Igino, S. Pio I, con un'appendice sopra S. Giustino, apologista della religione e martire. Per cura del Sac. Bosco Giovanni (E). In fine era stampata un'ode di Silvio Pellico, che illustra la vita di S. Giustino.

                Pel mese di ottobre il fascicolo trattava di un fatto commovente, di una virtù eroica nell'abbracciare la verità, col titolo: La giovanetta Maria ovvero la conversione di una famiglia protestante; lavoro di un Canonico di S. Diez.

                Pel mese di novembre ecco il titolo del libretto: Trattenimenti familiari sulla Supremazia del Papa e sulla salute esclusiva nella Chiesa Cattolica in confutazione dei [717] principali argomenti dei Valdesi contro la Chiesa Cattolica - Romana. Questo opuscolo anonimo procedeva in forma di dialogo e confutava specialmente l'opera di Amedeo Bert, ministro del Culto Valdese in Torino, che aveva per titolo: I Valdesi, ossia i Cristiani Cattolici secondo la Chiesa primitiva ecc. L'eretico pretendeva dimostrare che la Chiesa Romana, secondo lui, avesse alterata la dottrina insegnata dagli Apostoli. Si avveravano ancora una volta i propositi messi da Isaia in bocca agli empi: “Ci siamo affidati alla menzogna e la menzogna ci protegge”[26].

                D. Bosco faceva precedere il fascicolo dalla seguente

 

AVVERTENZA.

 

                Sebbene sia scopo nostro di pubblicare piuttosto cose di dottrina e non di polemica, come quelle che sono principalmente dirette al semplice cristiano, tuttavia gli sforzi che da qualche tempo l'eresia fa per introdursi nelle classi basse del popolo e negli stessi casolari campestri, ci mostrano la necessità di dar luogo a qualche fascicolo atto a premunire i fedeli contro al veleno che taluni sotto al nome di protestanti, valdesi o evangelici (che sono quasi sempre una cosa medesima) studiano di portar or qua or là per rubare o deturpare il prezioso tesoro de' nostri avi: la santa cattolica religione.

                E poichè la dottrina dei protestanti che vivono fra noi è in maniera alquanto chiaramente esposta in un libro scritto dal Ministro Amedeo Bert, intitolato i Valdesi, così noi ci terremo a quanto egli ci lasciò scritto specialmente in questo libro.

                Nell'anno primo di queste letture abbiamo già notato una lunga serie di errori che nella parte storica di tale libro si contengono: quivi faremo passare a rassegna gli errori che ad ogni [718] periodo s'incontrano in fatto di dottrina; e noi speriamo che ciò servirà di efficace contravveleno per liberarci dall'eresia.

                Voi intanto, o popoli cristiani, state all'erta: l'uomo inimico, di cui parla il Vangelo, tenta d'introdursi nelle vostre case per rubarvi quanto avete di più caro al mondo, la religione: allontanatelo coraggiosamente da voi: non venite a patto alcuno con esso in cose di religione: incontrandolo per istrada rendetegli nemmeno il saluto, come ci consiglia lo stesso divin Salvatore: Nec ave quidem ei dixeritis. Che se vi accadrà di dover trattare di cose temporali con esso, fatelo in fretta, senza contrarre famigliarità di sorta. Per opposto stringetevi con un cuor solo e con un'anima sola a quei sacri pastori che la divina Provvidenza ci ha dato per guidarci nel cammino della verità.

                Non vi sia nè promessa, nè minaccia, nè pretesto che valga a staccarvi dalla dottrina che insegna il supremo pastore della Chiesa, il successore di S. Pietro, il Vicario di Gesú Cristo, che fondò la sua Chiesa dicendo: Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa. Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecelesiam meam.

 

                In mezzo a questi lavori D. Bosco aveva sempre a cuore il riscatto del campo dei sogni, divenuto proprietà dei Rosminiani, e così rispondeva ad una lettera scrittagli dal Sig. D. Gilardi:

 

                               Carissimo Signor D. Carlo,

 

                Prego V. S. Car.ma a chiedere per me scusa al Padre Generale della mia trascuratezza a riscontrare. Io sono stato qualche tempo fuor di città per una muta di esercizi spirituali; dopo sono stato una decina di giorni incomodato di salute, e questo fece che non ho potuto parlare al Cav. Cotta pel sito di cui fu parola. Questo le dico per confessare la mia colpa e chiederne perdono, disposto a ricevere la penitenza. Non parliamo più del fatto progetto perchè il P. Generale ha già disposto altrimenti di quel sito; ma se venisse ad una vendita, e ci fosse un'offerta decisa, avrei molto caro di saperlo, per tentare se la divina Provvidenza [719] volesse aprirmi la strada onde cercarne i mezzi e comperarlo come desidero. Al presente però bisogna che mi arresti per non tentare il Signore ove non c'è assoluta necessità. Debbo però dirle che questo è il momento più sfavorevole per vendere i siti. L'immensità di operai che spendevano le loro fatiche nelle case dei Religiosi e delle Religiose, e delle chiese e case parrochiali, ora sono rimasti senza lavoro; quindi cessazione di commercio e costretti di recarsi altrove lasciando vuote le case. Questo sembra il vero motivo per cui le costruzione di edifizi sono sospese.

                In quanto poi ai dugento f. per tavola offerti due o tre anni sono, parmi che le abbia detto come andò la cosa: fu fatta l'offerta; io accettai di riferirla a Lei; l'altro si riservò di farmi risposta e nol vidi più.

                Del resto io sono qui con due braccia ancora robuste, con uno stomaco buono per mangiare, ma fievole per lavorare; ma che in tutto quel che posso mi offro pronto ora e sempre ad adoperarmi per l'Istituto della Carità.

                Saluti da parte mia il Rev.mo Padre Generale, e raccomandandomi alle divote sue orazioni mi dico nel Signore

                Di V. S. Car.ma

                Torino, 25 agosto 1857.

 

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

 

CAPO LVIII. La Madonna e un giovane infermo - Il sogno dei pani - Un alunno svela a D. Bosco i suoi pensieri - Due guarigioni - Il timore del purgatorio - Riflessioni sui miracoli.

 

                Lo zelo col quale D. Bosco promoveva la gloria di Dio tornava di molto gradimento alla Regina degli angioli, la quale, come già notammo, prestavagli continuo aiuto, non solo nello sviluppo nella sua Istituzione, ma eziandio, e in modo sensibile, nella direzione e santificazione de' suoi cari alunni; e gli otteneva dal Signore quelle grazie senza numero, delle quali lo vedremo largheggiare coi fedeli che ricorrevano alle sue preghiere e alle sue benedizioni. Per ora ci restringiamo ai fatti meravigliosi che occorsero a un dipresso in questi mesi, narrandoli colle stesse parole di autorevoli testimoni.

                La vigilia della Natività di Maria SS. il giovane Zucca studente era infermo nell'Oratorio per febbri; e giaceva in letto nel dormitorio della sua camerata. A un tratto gli compare a fianco la Vergine benedetta, in aspetto indicibilmente amorevole e maestoso, e gli dice: - Sono venuta perchè voglio molto bene a questa casa: ti dico quello che desidero da ciascuno di voi, e tu lo riferirai confidenzialmente [721] ad ognuno de' tuoi compagni e in modo speciale a quelli di questa camerata. - Dati quindi all'infermo alcuni avvisi, percorse lentamente quella stanza e fermandosi ai piedi di ogni letto, diceva, accennando al giovane che quivi soleva prendere riposo: - A questo dirai così e così. - Giunta a un certo punto, essa indicando il letto del giovane Gastaldi, continuò: - Questo qui poi lo avviserai a nome mio che vada subito a confessarsi, perchè è da Pasqua che non si accosta più ai Sacramenti.

                Ritornata vicino al letto di Zucca, soggiunse: - Intanto dirai a D. Bosco questo e questo. Al tuo maestro farai questa commissione da parte mia. - E così gli disse ciò che doveva ripetere a ciascuno della casa. Quindi scomparve.

                Di questa prima parte della nostra narrazione il solo giovane privilegiato poteva farne fede; ma di quanto accadde poi fu testimone tutta la comunità, cioè circa due centinaia di persone.

                L'infermo da quell'istante era perfettamente guarito, ma la sera essendo già molto avanzata, non si levò. Mandò invece a chiamare i compagni di camerata che si trovavano in ricreazione, facendo dir loro di avere una commissione importante da comunicare. I compagni salirono, e, come esigeva la convenienza, circondarono il suo letto stando alquanto discosti. Egli ad uno ad uno se li fece avvicinare, e disse in segreto ciò che li riguardava. Aveva un aspetto serio, con un'aria d'autorità che imponeva e contrastava col suo viso infantile. I giovani stavano alla sua presenza muti, quasi sbalorditi e riverenti.

                Come ebbe finito, disse ad alta voce: - E poi ho bisogno di parlare con Gastaldi!

Gastaldi non era venuto; un compagno corse a chiamarlo [722], e condottolo al letto di Zucca, questi gli fece la commissione che aveagli affidata la Madonna.

                In quell'ora D. Bosco confessava in sagrestia. Gastaldi, udito ciò che la Madonna aveva detto di lui, rispose ad alta voce: - Va bene, vado subito! - Ed uscì dalla camerata per andarsi a confessare. Ma nel discendere le scale cambiò proposito e pensò: Sono tutte storie! Non volendo però aver aria di rifiutare il consiglio dell'amico, entrò in sagrestia, da questa passò nella cappella della Madonna e quivi stato un po' di tempo in ginocchio, per colorare la bugia che voleva dire a Zucca, ritornò in camerata. Nessuno dei compagni si era mosso per osservare ove andasse. Mentre voleva aprir bocca per dire: - Adesso sono contento, - Zucca prende un'espressione in volto che sembrava di profeta, si alza sul letto e gli dice alla presenza di tutti: - Impostore! T'immagini che io non ti abbia veduto? Tu hai fatto così e così. - E gli descrisse il giro fatto, la sua fermata all'altare della Madonna, e quindi riprese: - Ritorna e guarda di non abusare della misericordia di Dio. Va subito!

                Gastaldi, confuso all'evidenza del fatto, non osò più contrastare e promettendo che si sarebbe confessato, discese. Zucca, quasi vedesse quanto accadeva con uno sguardo fisso verso la porta, diceva: - Ei discende.... è sotto i portici... entra in sagrestia... s'inginocchia.... adesso si avvicina a D. Bosco... adesso si confessa... va bene.

                Dopo un po' di tempo Gastaldi ritornò tutto allegro, e non ebbe nè bisogno nè tempo per riferire ciò che era accaduto, perchè Zucca gli disse subito: - Adesso sì che puoi dirti contento: ma guarda di continuare ad essere buono, perchè la Madonna mi disse che tu devi mutar vita, altrimenti il castigo sta preparato. [723]

                L'indomani Zucca, con meraviglia di tutti, era in cortile. In quel giorno aveva un'aria come d'ispirato, si avvicinava ai singoli compagni e loro faceva, traendoli da parte, la commissione della Madonna. Quando egli si allontanava, lasciava il compagno meditabondo. Nessuno osava ridere. Anche a D. Bosco riferì ciò che la Madonna aveagli comandato di dire. Si presentò al Chierico suo maestro il quale era tale, e per la stima che gli portavano i suoi scolari e per l'autorità che aveva su di essi, che nessuno avrebbe certamente osato fargli un'osservazione. Ancora nulla egli sapeva, e a un tratto gli si presenta Zucca,,e all'udirlo parlare in nome della Madonna e al modo autorevole col quale gli stava davanti, sentissi preso da tale riverenza che non replicò parola. Si sentiva di essere come davanti ad un suo superiore. E le parole dettegli da Zucca erano così caratteristiche che non davano luogo ad abbaglio.

                Gastaldi poi si mantenne sempre buono, lasciò di studiare, abbracciò l'arte tipografica nell'Oratorio, e morì di apoplessia verso il 1886.

                Di questi avvisi ed ammonizioni celesti D. Bosco stesso era sovente favorito in occasione degli esercizi spirituali della comunità, o di novene in onore di Maria SS. Don Bongiovanni Domenico, D. Rua, Mons. Cagliero ci raccontarono quanto ora qui esponiamo. “Una sera D. Bosco disse in pubblico che aveva visti in sogno tutti noi distribuiti in quattro crocchi distinti e che stavamo mangiando. I giovani di ogni crocchio avevano in mano un pane differente. Questi una pagnotta fresca, fina, gustosissima; quelli un pane bianco ordinario; gli uni pane nero di crusca, e finalmente gli ultimi pane coperto di muffa e guasto. I primi erano gli innocenti, i secondi i [724] buoni, i terzi quelli che si trovavano attualmente in disgrazia dì Dio, ma non abituati nel peccato, il quarto crocchio coloro che fissi nel male non facevano sforzo alcuno per mutar vita. D. Bosco, data spiegazione della causa e degli effetti di tali alimenti, affermò di ricordare benissimo qual pane ciascun di noi mangiasse, e che se andavamo ad interrogarlo egli ce lo avrebbe detto. E molti andarono, e D. Bosco in privato ad uno ad uno svelava come lo avesse visto nel sogno; e con tali osservazioni e particolarità sullo stato della loro coscienza, che tutti poterono persuadersi non essere il suo un giuoco di fantasia e molto meno un'azzardata congettura. I segreti più nascosti, i peccati taciuti in confessione, le intenzioni non rette in certe opere, le conseguenze di una condotta poco riguardosa, e anche le virtù, lo stato di grazia, la vocazione, ogni cosa insomma spettante le singole anime, scoperta, descritta, o profetata. Si vedevano i giovani fuori di sè per lo stupore, dopo che erano stati a colloquio con D. Bosco e dicevano colla Samaritana: Dixit mihi omnia quaecumque feci[27]. Queste parole poi le abbiamo udite ripetere le migliaia di volte per anni ed anni”.

                I giovani talora svelavano l'avviso ricevuto a qualche compagno più fido; ma D. Bosco di questi segreti non ne faceva mai parte ad altri, fuorchè al solo individuo indicato nelle sue molte visioni intellettuali. Queste, e il sogno soprannotato che varie volte si riprodusse sotto forma diversa, mentre lo affliggevano con qualche triste spettacolo, lo assicuravano che gran numero de' suoi giovanetti vivevano abitualmente in grazia di Dio. [725]

                E’ perciò che nelle preghiere de' suoi giovani D. Bosco riponeva moltissima fiducia, e quando andava taluno da lui per ottenere qualche grazia, a volte ei rispondeva: - Farò pregare i miei ragazzi! - Infatti la preghiera fatta in comune e ad alta voce acquista una potenza meravigliosa, che tanto più cresce quanto più grande è la devozione e la santità di chi prega. Nell'Oratorio in grandissimo numero vi erano sempre dei giovanetti dei quali si può affermare senza pericolo di smentita, che fossero tanti S. Luigi per candore di animo, e che anzi in alcuni di essi la vita interiore si sviluppasse con fenomeni di arcane illuminazioni.

                In questo stesso anno 1857 D. Bosco un giorno, celebrando la Santa Messa, pregò fervorosamente il Signore perchè si degnasse illuminarlo sul modo di eseguire un suo progetto. Tornato in sagrestia e deposti gli abiti sacri, il fanciullo che aveagli servita la Messa, baciatagli la mano, gli disse in un orecchio: - Lei pensa alla tal cosa; faccia come pensa, chè riuscirà bene. D. Bosco meravigliato, - È  vero! gli rispose; ma come lo sai tu? chi te l'ha detto? - Il fanciullo si turbò, balbettò qualche parola inconcludente, e D. Bosco non insistette. Più volte D. Bosco ebbe simili sorprese, le quali indicavano come egli ed i suoi figli formassero un solo cuore, e vicendevoli fossero le loro preghiere operatrici di portenti.

                A queste D. Bosco attribuiva l'efficacia delle sue benedizioni.

                Lasciò scritto Giuseppe Reano: “Uno studente, nativo d'Ivrea, era colpito da un'ernia cagionata dallo spostamento di un viscere. Sovente detto male gli faceva soffrire dolori acerbissimi, sicchè non potendosi più reggere in piedi era [726] obbligato a mettersi in letto. Un giorno si trovò in tali strette, che non dava più segni di vita. Fu chiamato in fretta il dottore, il quale accorso con gran premura, giudicò inutile ogni medicina, essendo necessaria una pronta operazione. Allora fu avvisato D. Bosco, il quale, giunto, al letto dell'infermo, lo chiamò per nome, gli passò la propria mano leggermente sulla fronte e gli disse sottovoce qualche parola che gli astanti non intesero. Probabilmente gli proponeva di invocare la Madonna e di farle qualche promessa; quindi recitò una breve preghiera. Il giovane in quel momento aprì gli occhi, che fino allora aveva tenuti chiusi, guardò D. Bosco e sorrise rispondendo al suo sorriso. Ogni dolore era cessato e in quel giorno medesimo si levò da letto”.

                Il Teol. D. Savio Ascanio testifica ancora: “Mio fratello Angelo, salesiano, mi raccontò che un giorno accompagnò D. Bosco a vedere un ammalato molto grave e benedettolo gli disse: - Alzati su e vieni a pranzo cogli altri. - L'infermo credendo cosa impossibile il potersi alzare non sapeva che farsi e stava titubando. Ma D. Bosco insistette dicendogli: - Mettiti gli abiti e vieni a pranzo cogli altri. - Il giovane fidandosi della parola di D. Bosco, si alzò, si vestì e, risanato, discese a pranzo nel refettorio comune.

                Mio fratello mi soggiunse: - Io ne fui sbalordito, quasi quasi non credendo a' miei occhi stessi. - E mio fratello era piuttosto serio e niente corrivo a credere a cose straordinarie, quando l'evidenza dei fatti non ve lo costringeva”.

                La signora Vallauri, grande benefattrice dell'Oratorio, vedova del distinto dottore in medicina, pregò D. Bosco perchè le impetrasse dalla Madonna la grazia di fare [727] il purgatorio in questa vita. Il terrore che provava al pensiero delle pene che si debbono soffrire da chi non è abbastanza mondo, prima di entrare al cospetto di Dio, la sconvolgeva tutta e non poteva vincerlo. D. Bosco promise, pregò, fece pregare dalla comunità, ed ecco la buona signora soprappresa da atroci dolori, che le durarono per ben due anni. Passati questi, il suo cuore provò una pace inalterabile: ogni timore del purgatorio si era dissipato, ed ella morì senza malattia. D. Rua ne fa testimonianza.

                I fatti sopra esposti, quelli che già abbiamo narrato nei volumi antecedenti e gli altri che dovremo raccontare ancor più meravigliosi, in numero sempre crescente e quasi all'infinito nello svolgimento delle nostre memorie, ci rammentano un periodo da noi letto nel fascicolo delle Letture Cattoliche, che espone la vita della Beata Oringa.

 

                “Chi non è preso di meraviglia al considerare lo spettacolo grandioso dell'impero conceduto da Dio a' suoi santi! Figliuoli prediletti del Padre che è nei cieli essi partecipano alla sua potenza e regnano con lui; e in tal guisa mostrano alla terra quanto la virtù sia cara al Signore.

                La voce dei miracolo, eminentemente popolare, è intesa da tutti, e a tutti con potente voce: “Ecco la via, dice, che conduce alla vita; seguite, o mortali, le tracce gloriose dei santi, esse sono il cammino della gloria, il cammino della felicità”. Chi oserebbe resistere ad una chiamata tanto apertamente divina?

                Ma pur troppo vi ha di quelli che sorridono di compassione al racconto di questi fatti maravigliosi, che sono l'aureola di cui Dio corona i suoi santi. Poveri ciechi! Essi amano questi eroi della santità, ammirano la loro condotta morale e pigliano ombra dei loro miracoli! Ma che? i santi non sono essi forse miracoli viventi per la pratica eroica e costante di virtù, che sono infinitamente al di sopra delle povere umane forze? Il miracolo a [728] loro ripugna; ma e non veggono che il miracolo è in ogni luogo; il miracolo è nell'uomo maraviglioso composto di mille maraviglie; il miracolo è nella natura piena di fenomeni inesplicabili; e non dovrà esservi nella Religione, centro di tutti i prodigi e di tutti i misteri?

                - Si può egli comprendere (scrive il barone di Montreuil) come uomini sensati e cristiani si spaventino della parola miracolo? Non professano essi la fede di un Dio in tre persone, in un Dio fatto uomo e nato nel tempo da una Vergine? Non credono essi che quest'Uomo - Dio è morto e risuscitato dopo tre giorni? Non adorano essi questo medesimo Dio nei nostri tabernacoli e nol credono forse discendere dal Cielo miracolosamente alla voce del Sacerdote sui nostri altari? Non sanno essi che l'acqua ci rigenera per mezzo del battesimo, che lo Spirito Santo ci dà forza nella confermazione, che il figliuol di Dio fatto carne, vero Dio e vero uomo, si unisce a noi nel divinissimo sacramento, e tante altre simili cose che compongono la dottrina della religione? - E poi questi cristiani temono i miracoli, e vogliono che si vada tanto a rilento a prestar loro fede ed a pubblicarli!

                I Santi, continua il precitato autore, credevano facilmente ai miracoli, ed è perciò che ne operavano; essi li credevano come se li vedessero, e non cercavano nemmeno di averne sotto degli occhi le prove”.

 

 

CAPO LIX. A Castelnuovo - Buoni istitutori nelle famiglie signorili .per cura di D. Bosco - Il Papa gradisce il dono della Storia d'Italia - Visita alla tomba di Savio Domenico - Dai Becchi a Torino.

 

                DON Bosco partiva per Castelnuovo. Conduceva con fiore più eletto de' suoi alunni. - Perchè andare in vacanza? aveva detto ad uno di loro. Le vacanze non fanno del bene ai giovani. Tua madre paga cento lire annue pel tuo mantenimento; vedi adunque che a me converrebbe più che tu andassi a casa, anzichè stare tre mesi di più all'Oratorio. Ma io voglio il bene dell'anima tua! Rinunzia senz'altro alle vacanze! - Ad altri aveva pur fatto simile osservazione e lo stesso invito, e la loro obbedienza era corrisposta con quella passeggiata.

                D. Cerruti Francesco scrisse: “D. Bosco ciò faceva nell'intento di ricreare i suoi giovani, ma per tenerli nello stesso tempo lontani dal peccato lo sono persuaso dall'esperienza di sei anni consecutivi, cioè dal 1857 al 1862 in cui ho avuto la fortuna di prendere parte a quelle passeggiate, che basterebbero esse sole per mostrare il grande [730] interessamento che aveva D. Bosco pel bene spirituale e temporale de' suoi giovanetti.

                Le cure che aveva per tenerci allegri e contenti erano incredibili, come grandissime erano le sue attenzioni perchè non ci fosse mai l'offesa di Dio. Non fu mai che si tralasciassero nè preghiere, nè messa quotidiana; la confessione e comunione poi vi era frequente come all'Oratorio in qualunque paese ci fossimo trovati. - Miei cari figliuoli, ci diceva spesso, abbiamo un'anima sola; salvata questa, è salvato tutto”.

                Presa stanza ai Becchi, mentre D. Bosco conduceva la sua allegra comitiva a far qualche scampagnata, ora all'antichissimo Santuario del Vesolano, ora alle fonti solforose di Albugnano, a Capriglio e ad altri villaggi vicini, non cessava dal lavorare nel sacro ministero, dall'ideare nuovi fascicoli per le Letture Cattoliche e dallo scrivere lettere. Un altro impegno egli assumevasi in questi mesi; quello cioè di provvedere ai figliuoli, di certe famiglie più distinte, chi loro nell'autunno facesse ripetizione delle lezioni udite nelle scuole, e a quelli di altre, maestri ed istitutori capaci, morali e religiosi che li aiutassero negli studi, e li assistessero finchè fosse compiuta la loro educazione. I genitori a lui si rivolgevano con piena fiducia, rimettendogli una scelta così delicata; ed egli doveva ricercare, consigliarsi, patteggiare, proporre, rispondere: lavoro anche questo che esigeva il suo tempo. Fu questa una delle continue sue opere buone, della quale sfugge l'importanza a chi non sia attento osservatore, ma della quale si debbono riconoscere i grandi vantaggi individuali e sociali. Di tale affare egli trattava col Barone Feliciano Ricci des Ferres la vigilia della festa del Santo Rosario. [731]

3 ottobre 1857.

 

                               Benemerito Signore,

 

                In seguito a quanto abbiamo detto relativamente ad un maestro pe' suoi buoni figliolini, andai via ripassando gli ecclesiastici di mia conoscenza e attualmente ce ne sarebbe uno, ed è il Sac. Pesce Giuseppe già vicecurato a Mombaruzzo, Diocesi d'Acqui. Di capacità e comunicativa credo che non manchi: non è però, patentato per alcuna classe, non avendo pel passato aspirato all'insegnamento; ha l'età di trent'anni circa; condotta esemplare.

                Qualora stimasse risolvere qualche cosa in proposito, potrebbe indirizzarsi a me o a D. Cafasso, col consenso del quale ho partecipato la cosa.

                Godo molto di questa occasione per offerirle gli omaggi della mia gratitudine e pregare dal Signore sanità e grazie sopra di Lei e sopra tutta la venerata famiglia mentre rispettosamente mi raccomando alle sue preghiere e mi dico di V. S. Benemerita

 

Obb.mo Servo

Sac. bosco Giovanni.

 

                Pel giorno della festa del Rosario erano sopraggiunti da Torino i musici, i cantori e Bongiovanni Domenico il famoso Gianduia dell'Oratorio. Fu grande la contentezza di quella popolazione, ma più viva fu quella che a Don Bosco preparava in que' giorni il Sommo Pontefice, al quale aveva spedita in dono, e legata con lusso, una copia della sua Storia d'Italia. Era un foglio che Pio IX aveagli fatto scrivere in ringraziamento, e che per lui era come un tesoro.

 

                               Ill.mo e Rev.do Signore,

 

                Fu presentato al Pontefice Massimo Pio IX insieme colla sua ossequentissima lettera il libro che V. S. scrisse allo scopo di proporre ai giovani un storia d’Italiache, come Ella scrive, essi potessero leggere senza alcun danno per la religione e pei costumi. Per questo dono io ricevetti incarico da S. S. ringraziare [732] la S. V., quantunque le gravissime occupazioni non abbiano permesso al Sommo Pontefice di leggere Esso medesimo il libro. Sarà pegno del paterno affetto di S. S. verso la S. V. la benedizione apostolica, che, auspice della grazia celeste, il Santo Padre affettuosamente impartì a V. S., Ill.mo e Rev.do Signore, ed a tutti i giovani alle sue cure affidati.

                Mentre io compio l'ordine che ho ricevuto, Le presento l'omaggio del mio profondo rispetto, e Le auguro dal Signore ogni più ampia e salutare benedizione.

                Di V. S. Ill.ma e Rev.da

                Roma, lì 3 ottobre 1857.

 

Umil.mo ed Ossequent.mo Servitore

DOMENICO FIERAMONTI.

Segretaria di S. S. Per le Lettere Latine[28]. [733]

 

[e ai giovani una storia d'Italia che, come Ella scrive, essi potessero leggere senza alcun danno per la religione e pei costumi. Per questo dono io ricevetti incarico da S. S. di Ripara -? NP]

 

                Il 5 ottobre D. Bosco ed i giovani si recarono a Mondonio, dove riposavano le spoglie mortali di Savio Domenico. Non volevano ritornare a Torino senza aver recitata una preghiera sopra la sua tomba. Mentre il buon padre di Savio preparava ad essi un po' di merenda, tutti andarono nel cimitero. Avevano portata da Torino una corona di semprevivi, con le parole: A Savio Domenico, allievo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino, i suoi amici. Appesala alla modesta croce che ne proteggeva le ossa, si inginocchiarono e più d'uno fu visto colle lagrime agli occhi. Pregarono lungamente e più ancora sarebbero rimasti su quelle zolle benedette, se il tempo non fosse stato appena bastante per ritornare a casa prima di  notte.

                D. Bosco intanto incaricava Carlo Tomatis, che a que' dì continuava a studiar pittura all'Accademia Albertina, perchè vedesse di ritrarre o a memoria o coll'aiuto di qualcuno dei fratelli di Savio, le amabili sembianze del caro alunno. E lo fece poi Tomatis con molta intelligenza ed amore.

                L'indomani, dopo celebrata la Santa Messa, si sparecchiò la cappella, e rimessi tutti gli addobbi per essere riportati a Torino, verso le nove, fatta colazione, i giovani con D. Bosco si misero in cammino per restituirsi all'Oratorio. Una stazione obbligatoria essi fecero a Buttigliera d'Asti, perchè il parroco D. Vaccarino desiderava aver sempre un giorno con sè D. Bosco ed i suoi giovani. Anche la Contessa Miglino aspettava con molto piacere una sua visita, e in un ampio porticato del suo palazzo aveva preparato un'abbondante refezione per i viaggiatori. E poichè alla buona Contessa piaceva la musica, i cantori avevano sempre qualche nuovo saggio per contentarla [734] e fu là che per la prima volta fece comparsa il Signor Demetrio, capo cuoco con una bella schiera dì aiutanti di cucina che formavano un magnifico coro. Era musica e poesia di Carlo Tomatis, anima di tutte le ricreazioni.

                Alle due dopo mezzogiorno la comitiva si rimise in marcia verso Andezzeno. Ivi D. Bosco era talvolta aspettato dalla famiglia De - Maistre, che villeggiava in una casa di campagna chiamata la Fruttiera. Quegli insigni benefattori gli avevano promesso un sussidio, purchè fosse andato a prenderlo in persona. D. Bosco adunque si congedava dai suoi figliuoli, che malvolentieri si dividevano da lui, promettendo che l'indomani sarebbesi recato a Torino; e pregato da loro, che si inginocchiavano nella pubblica via, li benediceva. I giovani, baciatagli la mano, proseguivano verso Torino, ed egli si avviava al Castello, mentre quella nobile famiglia gli veniva incontro coi segni della più viva allegrezza e divozione.

                Il giorno dopo, D. Bosco era accompagnato verso Chieri per buon tratto di via da que' signori, e quindi con qualche alunno che aveva ritenuto con sè, piede innanzi piede, giungeva verso sera all'Oratorio. Tutti i giovani gli correvano incontro con plausi ed evviva, e Don Bosco prima di salire in camera loro indirizzava la parola: si congratulava che avessero fatto un buon viaggio, manifestava la sua soddisfazione perchè durante la passeggiata si fossero regolati da veri figli dell'Oratorio, e si raccomandava che nella festa della Maternità della B. V. si ringraziasse la celeste Madre dei favori da Lei ad essi compartiti in queste vacanze.

                D. Bosco, riprese le ordinarie occupazioni, mentre si preparava a nuove prediche e al conseguente ministero [735] del confessionale, come vedremo, il 13 di ottobre scriveva un biglietto al conte Pio Galleani d'Agliano:

 

                               Benemerito Signore,

 

                Sono di ritorno dalla Novena del SS. Rosario fatta a Castelnuovo e trovo la sua venerata lettera, la quale leggendo, mi è consegnata la seconda.

                Bene come ha fatto. L'anno venturo spero che potrò andar io a fare l'ottavario dei Morti. Mi è molto sensibile la malattia del Sig. D. Chiansello: io prego e faccio pregare il Signore Iddio che ce lo conservi; ma in ogni evento adoriamo sempre la volontà del Signore.

                Dio doni a Lei e a tutta la sua famiglia sanità e grazia, e salutandoli tutti rispettosamente mi dico con gratitudine

                Di V. S. Benemerita

 

Obbl.mo Serv.

Sac. Bosco Gio.

 

 

CAPO LX. Accettazione di alunni nell'Oratorio - Elogi a D. Bosco Magone Michele - Un giovane condotto dalle guardie l'Agente delle tasse.

 

                INTANTO coi giovani che ritornavano dalle vacanze, entravano nell'Oratorio quelli novellamente accettati, e di alcuni ci fermeremo a discorrere perchè la carità di D. Bosco sempre meglio risplenda. Il primo che ricordiamo fu lo studente Giacinto Ballesio, ora Dottore in Teologia, canonico prevosto dell'insigne collegiata di S. Maria della Scala e Vicario Foraneo in Moncalieri, dei quale già più volte abbiamo invocata la testimonianza. Egli affermò:

                “Io ho conosciuto il servo di Dio nell'autunno del 1857, quando mi presentai a lui per essere accolto nel suo Oratorio. Quel primo colloquio fu per D. Bosco e per me il principio della spirituale amicizia e della confidenza mia figliale verso di lui, che si confermò e crebbe poi nei miei otto anni di soggiorno nell'Oratorio, e anche dopo che uscii dal medesimo. L'impressione di quel primo, colloquio fu per me un vero avvenimento e non lo dimenticai più. Anche D. Bosco mi ricordò più volte quell'incontro, ed altresì negli ultimi anni di sua vita. [737]

                “Una delle qualità caratteristiche di D. Bosco fu quella di guadagnarsi l'affezione dei giovani, la quale era un felice insieme di affetto, di riconoscenza e di fiducia, come, di figli verso il padre, verso un uomo che per noi era l'autorità, il tipo della bontà e della cristiana perfezione.

                “In quegli anni dal 1857 fino al 1860 in cui D. Bosco veniva sempre con noi, perchè non aveva ancora altre case, nell'Oratorio si viveva, la vita di famiglia, nella quale l'amore a D. Bosco, il desiderio d i contentarlo, l'ascendente che si può ricordare, ma non descrivere, facevano fiorire tra noi le più belle virtù”. E ripeteva nella sua orazione: Vita intima di D. G. Bosco.

                “D. Bosco, la sua vita, le sue opere sono nel dominio della storia, la quale in belle e splendide pagine dirà agli avvenire che egli fu per mezzo secolo l'apostolo del bene.... Quello che non potrà dire appieno, quello che essa non riuscirà a fare ben comprendere è la sua vita intima, il suo sacrificio continuo, calmo, dolce, invincibile ed eroico; il suo studio ed il suo grande amore per noi suoi figli, la fiducia, la stima, la riverenza, l'affetto che egli a noi inspirava; la grande autorità, l'opinione di santo, di dotto, in cui da noi era tenuto, quasi tipo, ideale di moral perfezione. Oh, la storia difficilmente potrà ritrarre e far capire e credere le soavi dolcezze che una sua parola, un suo sguardo, un cenno infondeva nei nostri cuori! Bisogna aver veduto, bisogna aver provato! La vita dei santi nei libri anche meglio scritti perde del fascino che esercitava sui contemporanei, sui famigliari. Il profumo della loro conversazione e delle loro virtù si dissipa nello spazio dei tempi. Ma noi l'abbiamo veduto, noi l'abbiamo sentito Don Bosco. Allora l'opera sua ancor ristretta a quest'Oratorio faceva sentire più intensa la sua efficacia. Egli ancor pieno [738] d'energia, coll'ingegno, col grande affetto era tutto per noi, sempre con noi. Eccolo dal mattino per tempissimo co' suoi figli. Egli li confessa, dice la Messa, li comunica. Non è mai solo, non ha un momento per sè: o i giovani, o l'udienza dei numerosi che lo assediavano continuamente in sacrestia, sotto i portici, nel cortile, in refettorio, per le scale, in camera. Così di mattino, lungo il giorno e la sera. Oggi, domani, e sempre. Egli colla mente a tutto, conosce le centinaia de' suoi figli e li chiama per nome. S'informa, dà consigli ed ordini. Egli solo mantiene una corrispondenza, che occuperebbe più uomini di grande lavoro. Egli solo pensa e provvede ai bisogni materiali e morali dell'Oratorio”.

                Una seconda accettazione noi descriveremo colle stesse parole di D. Bosco.

                “Una sera di autunno io ritornava da Sommariva del Bosco e, giunto a Carmagnola, dovetti attendere oltre un'ora il convoglio della ferrovia per Torino. Già suonavano le ore sette, il tempo era nuvoloso, una densa nebbia risolvevasi in minuta pioggia. Queste cose contribuivano a rendere le tenebre così dense, che a distanza di un passo non sarebbesi più conosciuto uomo vivente. Il fosco lume della stazione lanciava un pallido chiarore che a poca distanza dello scalo perdevasi nell'oscurità. Soltanto una turba di giovanetti con trastulli e schiamazzi attraevano l'attenzione, o meglio assordavano le orecchie degli spettatori. Le voci di aspetta, prendilo, corri, cogli questo, arresta quell'altro servivano ad occupare il pensiero dei viaggiatori. Ma tra quelle grida rendevasi notabile una voce che distinta alzavasi a dominare tutte le altre; era come la voce di un capitano, che ripetevasi da compagni ed era da tutti eseguita quale rigoroso comando. Tosto [739] nacque in me vivo desiderio di conoscere colui che con tanto ardire e tanta prontezza sapeva regolare il trastullo in mezzo a così svariato schiamazzo. Colgo il destro che tutti sono radunati intorno a colui che la faceva da guida; dì poi con due salti mi lancio tra di loro. Tutti fuggirono come spaventati: uno solo si arresta; si fa avanti e appoggiando le mani sui fianchi con aria imperatoria comincia a parlare così:

                - Chi siete voi, che qui venite tra i nostri giuochi?

                - Io sono un tuo amico.

                - Che cosa volete da noi?

                - Voglio, se ne siete contenti, divertirmi e trastullarmi con te e co' tuoi compagni.

                - Ma chi siete voi? io non vi conosco.

                - Te lo ripeto, io sono un tuo amico: desidero di fare un po' di ricreazione con te e co' tuoi compagni. Ma tu chi sei?

                -  Io? Chi sono? Io sono, soggiunse con grave e sonora voce, Magone Michele, generale della ricreazione.

                “Mentre facevansi questi discorsi, gli altri ragazzi, che un panico timore aveva dispersi, uno dopo l'altro ci si avvicinarono e si raccolsero intorno a noi. Dopo aver vagamente indirizzato, il discorso ora agli uni, ora agli altri, volsi di nuovo la parola a Magone e continuai così:

                - Mio caro Magone, quanti anni hai?

                - Ho tredici anni.

                - Vai già a confessarti?

                - Oh sì, rispose ridendo.

                - Sei già promosso alla S. Comunione?

                - Si che sono già promosso e ci sono già andato.

                - Hai tu imparata qualche professione?

                - Ho imparato la professione del far niente. [740]

                - Finora che cosa' hai fatto?

                - Sono andato a scuola.

                - Che scuola hai fatto?

                - Ho fatto la terza elementare.

                - Hai ancora tuo padre?

                - No, mio padre è già morto.

                - Hai ancora la madre?

                - Sì, mia madre è ancora viva e lavora a servizio altrui, e fa quanto può per dare del pane a me ed ai miei fratelli che la facciamo continuamente disperare,

                - Che vuoi fare per l'avvenire?

                - Bisogna che io faccia qualche cosa, ma non so quale.

                “Questa franchezza di espressioni, unita ad una loquela ordinata e assennata, fecemi ravvisare un gran pericolo per quel giovane qualora fosse lasciato in quella guisa derelitto. D'altra parte sembravami che se quel brio e quell'indole intraprendente fossero stati coltivati, egli avrebbe fatto una buona riuscita; laonde ripigliai il discorso così:

                Mio caro Magone, hai tu volontà di abbandonare questa vita di monello e metterti ad apprendere qualche arte o mestiere, oppure continuare gli studi?

                - Ma sì, che ho volontà, rispose commosso; questa vita da dannato non mi piace più; alcuni miei compagni sono già in prigione; io temo altrettanto per me; ma che cosa devo fare? Mio padre è morto, mia madre è povera; chi mi aiuterà?

                - Questa sera fa una preghiera fervorosa al Padre nostro che è nei cieli; prega di cuore, spera in lui; Egli provvederà per me, per te e per tutti.

                “In quel momento la campanella della stazione dava gli ultimi tocchi, ed io doveva partire senza dilazione. [741]

                - Prendi, gli dissi, prendi questa medaglia, domani va da D. Ariccio tuo Viceparroco; digli che il prete il quale te l'ha donata desidera delle informazioni sulla tua condotta.

                “Prese egli con rispetto la medaglia: - Ma quale è il vostro nome, di qual paese siete? D. Ariccio vi conosce? - queste ed altre cose andava domandando il buon Magone; ma non ho più potuto rispondere, perchè essendo giunto il convoglio della ferrovia, dovetti montare in vagone alla volta di Torino.

                “Il giovanetto allora, curioso di sapere chi fosse quel prete con cui aveva parlato, si recò immediatamente dal Can. D. Ariccio e gli raccontò con enfasi le cose udite. Il viceparroco comprese di che si trattasse e il giorno seguente mi scrisse le chieste informazioni: Magone aver ingegno non ordinario, essere volubile, sbadato, disturbatore in chiesa ed in iscuola, difficile a domarsi, ma buono di cuore e semplice di costumi. Fu adunque spedita a Magone la lettera d'accettazione.

                “Pochi giorni dopo me lo vedo comparire avanti. - Eccomi, disse, correndomi incontro, eccomi, io sono quel Magone Michele che avete incontrato alla stazione della ferrovia a Carmagnola.

                - So tutto, mio caro; sei venuto di buona volontà?

                - Sì, sì, la buona volontà non mi manca.

                - Se hai buona volontà, io ti raccomando di non mettermi sossopra tutta la casa.

                - Oh state pure tranquillo che non vi darò dispiacere. Pel passato mi sono regolato male; per l'avvenire non voglio più che sia così. Due miei compagni sono già in prigione ed io .....

                - Sta di buon animo, dimmi soltanto se ami meglio di studiare, o intraprendere un mestiere? [742]

                - Sono disposto di fare come volete; se però mi lasciate la scelta, preferirei di studiare.

                - Posto che ti metta allo studio, che cosa ti sembra di avere in animo di fare terminate le tue classi?

                - Se un birbante…..ciò disse e poi chinò il capo ridendo.

                - Continua pure: che vuoi dire, se un birbante...

                - Se un birbante potesse diventare abbastanza buono per ancora farsi prete, io mi farei volentieri prete.

                - Vedremo adunque che cosa saprà fare un birbante. Ti metterò allo studio: in quanto poi al farti prete od altro, ciò dipenderà dal tuo progresso nello studio, dalla tua condotta morale e dai segni che darai di essere chiamato allo stato ecclesiastico.

                 - Se gli sforzi di una buona volontà potranno riuscire a qualche cosa, vi assicuro che non avrete ad essere malcontento di me.

                Magone fu presentato al prefetto D. Alasanotti, e senza che egli se ne accorgesse, gli venne assegnato un compagno dei più anziani della casa e sicuro nella moralità che a lui facesse da angelo custode e non lo perdesse mai di vista. Tale era la consuetudine dell'Oratorio quando, si riceveva qualche alunno di moralità sospetta o non abbastanza conosciuta, acciocchè fosse assistito e corretto secondo il bisogno. E l'amico di Magone ad ogni momento aveva un'osservazione da fargli: - Non proseguire in questo discorso, che è cattivo, non dire quella parola, non nominare il nome di Dio invano, non essere così focoso nelle questioni coi compagni. - Magone, sebbene spesso gli apparisse l'impazienza sul volto, non altro rispondeva che: Bravo, hai fatto bene ad avvisarmi. Si sforzava di correggersi, ed era puntuale alla scuola, allo studio ed alla preghiera. [743]

                “Per un mese egli in ricreazione si era abbandonato appassionatamente ai giuochi e in specie a quelli che richiedevano destrezza personale, quando ad un tratto più non si vide a ridere, divenne melanconico, il divertimento tornavagli di peso; si ritirava in qualche angolo a pensare, a riflettere e talvolta a piangere. La vista dei compagni che andavano con festa ai sacramenti, certe prediche e parlate gli avevano fatta profonda impressione; sentiva grande inquietudine e il bisogno di confessarsi, ma non sapeva risolversi.

                “Io teneva dietro a quanto accadeva di lui; perciò un giorno lo mandai a chiamare e gli parlai così:

                - Caro Magone, io avrei bisogno che mi facessi un piacere; ma non vorrei un rifiuto.

                - Dite pure, rispose arditamente, dite pure, sono disposto a fare qualunque cosa mi comandiate.

                - Io avrei bisogno che tu mi lasciassi un momento padrone del tuo cuore e mi manifestassi la cagione di quella malinconia che da alcuni giorni ti va travagliando.

                - Sì, è vero quanto mi dite, ma... ma io sono disperato e non so come fare. - Proferite queste parole, diede in un dirotto pianto. Lo lasciai disfogare alquanto; quindi a modo di scherzo gli dissi: -Come! tu sei quel generale Magone Michele capo di tutta la banda di Carmagnola? Che generale tu sei! non sei più in grado di esprimere colle parole quanto ti duole nell'animo?

                - Vorrei farlo, ma non so come cominciare; non so esprimermi.

                - Dimmi una sola parola, il rimanente lo dirò io.

                - Ho la coscienza imbrogliata.

                - Questo mi basta; ho capito tutto. Aveva bisogno che tu dicessi questa parola affinchè io potessi dirti il resto. Non voglio per ora entrare in cose di coscienza; [744] ti darò solamente le norme per aggiustare ogni cosa. Ascolta dunque: se le cose di tua coscienza sono aggiustate nel passato, preparati soltanto a fare una buona confessione esponendo quanto ti è accaduto di male dall'ultima volta che ti sei confessato. Che se per timore o per altro motivo hai omesso di confessare qualche cosa; oppure conosci qualche tua confessione mancante di alcuna delle condizioni necessarie, in questo caso ripiglia la confessione da quel tempo in cui sei certo di averla fatta bene, e confessa qualunque cosa ti possa dare pena sulla coscienza.

                - Qui sta la mia difficoltà. Come mai potrò ricordarmi di quanto mi è avvenuto in più anni addietro?

                - Tu puoi aggiustare tutto colla massima facilità. Di' solo al confessore che hai qualche cosa da rivedere nella tua vita passata: dipoi egli prenderà il filo delle cose tue, di maniera che a te non rimarrà più altro se non dire un sì o un no, quante volte questa o quelle cosa ti sia accaduta.

                “A queste parole il giovanetto sentissi così incoraggiato, che la stessa sera non volle andarsi a coricare senza prima confessarsi; e quindi, assicurato dal confessore che Dio gli aveva perdonate tutte le sue colpe, esclamò: - Oh quanto mai io son felice! - E rompendo in lacrime di consolazione, andava a prendere riposo. Da quel punto il giovane fu interamente cambiato, e colla frequenza dei sacramenti si vide in lui il trionfo della grazia. La difficoltà maggiore che provò fu quella di frenare il suo naturale ardente, che non di rado trasportavalo ad involontari impeti di collera; ma giunse in breve a vincere se stesso e a divenire pacificatore de' suoi compagni medesimi”. Fin qui D. Bosco. [745] Quanto fosse impetuosa la sua indole lo dimostra il seguente fatto.

                Accompagnando un giorno D. Bosco per la città di Torino, giunse in mezzo a Piazza Castello, dove udì un monello a bestemmiare il santo nome di Dio. A quelle parole parve tratto fuori di senno; più non riflettendo nè al luogo nè al pericolo, con due salti vola sul bestemmiatore e gli dà due sonori schiaffi dicendo: - È  questo il modo di trattare il santo nome del Signore? - Ma il monello, che era più alto di lui, senza badare al riflesso morale, irritato dalla baia dei compagni, dall'insulto pubblico e dal sangue che in copia gli colava dal naso, si avventa arrabbiato sopra Magone; e qui calci, pugni e schiaffi non lasciavano tempo nè all'uno nè all'altro da respirare. Fortunatamente corse D. Bosco, e postosi paciere tra le parti belligeranti, riuscì, non senza difficoltà a stabilire la pace con vicendevole soddisfazione. Quando Michele fu padrone di sè medesimo, si accorse dell'imprudenza fatta nel correggere in cotal guisa quello sconsiderato. Si pentì del trasporto e assicurò che per l'avvenire avrebbe usato maggior cautela, limitandosi ad amichevoli avvisi.

                Di un terzo giovane ci tramandò memoria Pietro Enria col seguente scritto: “Grande fu la pazienza che D. Bosco usava verso i suoi figli, ed in modo particolare verso i più disgraziati. Nel 1857 accettò nell'Oratorio un garzoncello, di cui non ricordo il nome, che le guardie della città trovarono abbandonato in un angolo della Piazza Castello tutto intirizzito dal freddo. Dopo qualche giorno D. Bosco stesso lo condusse in Torino presso un fabbro, onesto cristiano, raccomandandolo alle sue cure, che furono promesse volentieri. Il giovane per due settimane circa si [746] conservò buono, ma poi per la sua indisciplinatezza quel padrone fu costretto a congedarlo. D. Bosco pazientò e lo condusse da un altro capo d'arte; ma anche questi dopo appena una settimana dovette licenziarlo. D. Bosco così continuò a raccomandarlo in più officine per circa due anni, e si può dire che quel capriccioso abbia provato, ossia fatta perdere la pazienza a tutti i padroni di bottega della città.

                “Quando fu congedato dall'ultimo padrone, se ne tornò all'Oratorio e andò difilato in refettorio dove si trovava D. Bosco a pranzare e gli disse che il padrone non lo voleva più in bottega e quindi gliene cercasse un altro. D. Bosco gli rispose: - Abbi pazienza; aspetta che abbia finito di pranzare, poi ci parleremo: E tu hai pranzato? - Sì, rispose il giovane. - Allora aspettami, soggiunse D. Bosco. - Ma il giovane impazientito insistette ed esclamò: - lo voglio che lei venga subito. - Allora D. Bosco, nonostante così sgarbata insistenza, tranquillamente dissegli: - Non vedi che non c'è più nessuno che ti voglia accettare nel suo laboratorio, perchè sei la disperazione di tutti? Non vedi quanti padroni hai già stancato? Se continui di questo passo non diverrai capace a guadagnarti un pezzo di pane.

                “Il giovane uscì dal refettorio indispettito, e dopo breve tempo, senza dire parola ad alcuno, se ne andò e più non fece ritorno nell'Oratorio. Ei si aggiustò il meglio che seppe per vivere: fece il commesso da caffè, il soldato, ed esercitò poscia vari altri mestieri girando pel mondo. Finalmente ritornato in Torino cadde infermo e, durante qualche giorno di miglioramento, si recò all'Oratorio, si presentò a D. Bosco e gli domandò perdono dei dispiaceri che gli aveva dato. D. Bosco, lieto di rivederlo dopo tanti [747] anni, lo confortò, gli disse che gli voleva sempre bene e che aveva sempre pregato per lui. Gli soggiunse ancora:

                - Guarda, l'Oratorio è sempre casa tua; quando starai meglio, se tu vuoi venire, D. Bosco è sempre il tuo buon amico, che altro non cerca che la salvezza dell'anima tua.

                Quel giovane ringraziò D. Bosco piangendo e disse: Ora io ritorno all'ospedale, e se Dio mi fa la grazia di guarire, ritornerò qui per riparare il mal fatto con una condotta irreprensibile. - D. Bosco lo benedisse e quella fu l'ultima benedizione che da lui ricevette quel giovane. Visse ancora poche settimane e poi rassegnato e pentito de' suoi falli fece una buona morte. - Mi fu narrato questo fatto dal giovane stesso, quando venne dall'ospedale all'Oratorio”.

                Mentre D. Bosco era tutto occupato a ricoverare nuovi giovani, il Governo faceva, per i suoi fini, eseguire una inchiesta su tutte le Opere Pie, volendo notizie esatte sulla loro fondazione, il loro scopo, i redditi, le dotazioni e il numero delle persone beneficate. Due mesi prima D. Bosco aveva ricevuto dall'Intendenza generale della Divisione amministrativa di Torino il seguente foglio:

 

N. 1534.

Torino, addì 28 agosto 1857.

 

                Allo scopo di completare una estesa statistica sulle Opere Pie richiesta dal Ministero dell'Interno il sottoscritto prega il Sig. Presidente di cotesto Pio Istituto (D. Bosco) di riempire con tutta la precisione le qui unite tabelle, corredandole di tutte quelle osservazioni che egli ravviserà opportune per dare un giusto criterio dell'essere dell'Opera Pia negli anni cui le tabelle si riferiscono, aggiungendovi un cenno sui mezzi con cui l'Istituto si mantiene.

L'intendente Generale

FARCITO. [748]

 

                D. Bosco aveva ritardato a far riscontro a questa circolare volendo prima conoscere i motivi di tali inchieste, che l'esperienza ormai dimostrava aver esse sempre viste fiscali. D'altra parte l'Oratorio non era riconosciuto legalmente come Opera Pia.

                Ma ecco essergli consegnato un secondo foglio dell'Intendenza Generale.

 

N. 2021.

Torino, addì 26 ottobre 1857.

 

                Il sottoscritto già da qualche tempo rivolgevasi al Sig. Direttore di codesto Pio Istituto pregandolo di alcuni dati statistici da comprendersi in un lavoro generale relativo a tutte le Pie Istituzioni della Provincia.

                Privo finora di riscontro, gli rinnova la sua preghiera, di fargli pervenire le desiderate nozioni oppure fargli conoscere i motivi che vi si oppongono.

                Persuaso del favore ne anticipa i suoi ringraziamenti.

 

L'intendente Generale

FARCITO.

 

                D. Bosco incaricava D. Alasonatti della risposta.

 

                               Ill.mo Signore,

 

                Rassegno a V. S. Ill.ma i moduli colla innata di Lei bontà accompagnati e poi richiesti per lettera 28 agosto e 26 ottobre ultimi. Si è differito di tanto la trasmissione a motivo che non trovavasi come conciliare coll'andamento e scopo della casa varie domande ivi formolate. Assecondando però nel miglior modo lo spirito di esse domande, tengo ordine dal Sig. Direttore Sacerdote Bosco Giovanni di accertare a nome suo V. S. Ill.ma che egli si offerisce a dargli quegli ultimi schiarimenti che saranno compossibili ove richiesto.

                Le umilio infine i complimenti di riconoscenza ben sentita [749] per Lui e per parte mia; facendole umile riverenza passo all'onore di sottoscrivermi con ogni più verace ed alto ossequio Di V. S. Ill.ma

 

Oss. Servitore

Sac. VITTORIO ALASONATTI.

 

                Nei moduli D. Alasanotti aveva notate le segue indicazioni:

 

                I. Questa casa è privata, nè ha ricevuto alcun casato, nè è gravata da peso alcuno se non dalle varie imposte cui è sottoposta.

                2. Il numero dei giovani ricoverati varia secondo la gravezza ed il numero dei casi di bisogno e di urgenza. Attualmente sono circa cento ottanta.

                3. La Casa vive di Provvidenza e di oblazioni, perciò non si dossono dare più specificati dettagli.

 

                Era questo il principio di nuove corrispondenze colle Autorità amministrative, che non dovevano più cessare, obbligando il servo di Dio a continue e ingrate preoccupazioni. D. Alasonatti aveva notato nel modulo suesposto: La casa (dell'Oratorio) non è aggravata da peso alcuno se non dalle varie imposte cui è sottoposta. Da una sola Don Bosco potè esimersi. Era comparso all'Oratorio un messo dell'Esattore delle contribuzioni, colla polizza della ricchezza mobile, il quale la consegnò a D. Bosco, avvisandolo di presentarsi a pagarla con puntualità nel termine prescritto. D. Bosco, senza turbarsi, prese quella polizza, si portò all'ufficio delle imposte, ove abboccatosi col Direttore chiese spiegazione di tale intimazione. - Oh bella! esclamò quel signore; con tanto reddito che ricava dalle pensioni di quella turba di giovani che tiene in sua casa, crede lei di andare esente dall'imposta? qui non si fanno eccezioni. Se lei non vuole cadere in multa, deve pagare [750] quanto è qui prescritto. Tanto più che lei trascurò di consegnare all'agente delle tasse i suoi redditi.

                - Bene! replicò D. Bosco; facciamo un patto: io cedo il capitale, ed essi pagheranno l'imposta. - A questa risposta tacque il Direttore, ascoltò le ragioni di D. Bosco, esaminò la cosa, ritirò la polizza e non parlò più di questa imposta. Brosio Giuseppe il bersagliere fu testimonio di questo abboccamento.

                Ma dalle altre molteplici contribuzioni non potè essere esonerato, quantunque ad onore del vero, bisogna dire che più volte gli fu usato dalle Commissioni qualche riguardo. Ciò non ostante, il peso di queste andò aumentandosi sino a divenire enorme. Si dia uno sguardo ai cinque grandiosi istituti che D. Bosco innalzò nella sola Torino. Ad ogni nuova costruzione, che non dava alcun reddito, abitata da giovani che nella quasi totalità erano mantenuti, educati e istrutti gratuitamente, ecco una nuova tassa. Queste, nel complesso non tardarono ad ascendere a migliaia e migliaia di lire ogni anno. Quindi D. Bosco, il quale non possedeva mai alcun capitale messo a frutto, anzi non tenne mai in serbo alcuna somma, adoperandosi in tutti i modi per ottenere soccorsi dalla pubblica carità, una parte di questi, bastante per il ricovero di molti giovani, doveva prelevarla per darla in mano all'esattore, il quale per forza di legge era inesorabile. Dagli altri creditori potevasi sperare qualche mora, ma non da lui. Iddio infatti per bocca di Mosè accennava a tale flagello: Si penuriam mutuam dederis populo meo pauperi, qui habitat tecum, non urgebis eum quasi exactor[29]. [751]

                Ma più ancora dei pagamenti a rate fisse erano le continue angustie per le chiamate agli uffizi, verifiche, aumenti arbitrari, prove richieste dei passaggi di possesso, ricevute contestate, revisioni di crediti già estinti, contestazione di denunzie, sequestri minacciati, mancanza di forma legale in certi atti, richiami per contratti di molti anni prima, multe talora incredibili e via via: operazioni tutte che per lo meno recavano noie infinite, poichè toccava sempre al contribuente dimostrare il suo buon diritto. Diceva D. Rua: - Dobbiamo difenderci dai disturbi cagionati dall'Agente delle tasse, come gli ebrei si difendevano dai popoli vicini, quando riedificavano la città e il tempio di Gerusalemme dopo la schiavitù di Babilonia. Essi con una mano dovevano lavorare e coll'altra brandivano la spada. Così noi dobbiamo lavorare per edificazione ed istruzione dei nostri allievi, ed in pari tempo dobbiamo tenerci sempre sulle difese contro gli assalti dell'Agente delle tasse.

                E anche questa difficoltà dei tempi doveva essere superata dalla carità di D. Bosco.

 

 

CAPO LXI. Necessità di insegnanti legali - Scuola diurna elementare - Il ginnasio inferiore nell'Oratorio - Programma per l'accettazione dei giovani poveri e abbandonali - Studenti ed artigiani - Laboratorii: rime difficoltà, scopo, ideali per l'avvenire - La Compagnia del SS. Sacramento - D. Montebruno nell'Oratorio - Le elezioni politiche.

 

                INCOMINCIAVA l'anno scolastico 1857-58. Un regio decreto 18 luglio 1857, firmato dal Ministro dell'Istruzione pubblica G. Lanza, così ordinava:

 

                ART. 46. Il regio Provveditore dà l'autorizzazione per l'esercizio locale ai Maestri ed alle Maestre delle scuole elementari pubbliche e private dopo il giudizio favorevole emesso dalla Deputazione Provinciale.

                Rilascia, giusta il modulo prescritto, la carta d'approvazione a coloro che intendono valersi della facoltà di aprire scuole elementari e speciali primarie, dopo la deliberazione favorevole della Deputazione.

                Trasmette al Ministero, coll'avviso di questa e colle sue particolari osservazioni, le domande per l'apertura di scuole private secondarie, classiche e speciali tecniche e magistrali non che per l'apertura di convitti e pensionati di qualsivoglia natura. [753]

                L'Istituto di D. Bosco, in quanto aveva incominciato ad essere anche scolastico, non doveva godere privilegio di esenzione dal suddetto decreto. Tuttavia da una parte perchè non conosciuto ancora in pubblico e dall'altra perchè tollerato, rimaneva libero e senza disturbi, per qualche tempo. D. Bosco però, prevedendo che presto o tardi i suoi avversari avrebbero osteggiate le sue scuole di latinità, per la ragione che i singoli suoi insegnanti non erano forniti di titoli legali, prese la savia risoluzione di far studiare da vari suoi chierici le materie richieste dai programmi governativi, per il conseguimento di un diploma di professore. Aveva giudicato essere della maggior gloria di Dio cedere alla dura necessità dei tempi. Per questo scopo il Ch. Francesia Giovanni Battista incominciò in quest'anno a frequentare come uditore i corsi di belle lettere nella Regia Università.

                Intanto il maestro Rossi Giacomo continuava in Valdocco la sua scuola diurna elementare ai giovanetti esterni più grandicelli; e dopo alcuni mesi la turba dei più piccini era affidata per qualche tempo al maestro Miglietti, il quale poi coll'aiuto di D. Bosco apriva in casa Bellezza un pensionato o scuola per giovani che non avevano le condizioni per essere accettati nell'Oratorio. Per gli scolari esterni, D. Bosco procurava che avessero modo di confessarsi sovente, e per quelli fra loro che erano promossi alla prima comunione per la Pasqua fissava il martedì santo.

                In quanto poi agli alunni interni il Ch. Francesia ebbe la prima classe ginnasiale, il Ch. Turchi la seconda, D. Ramello la terza. Quest'ultimo, professore governativo, laureato, ispettore scolastico, sospeso a divinis dal suo Vescovo, ma non per motivi disonorevoli, era stato convertito e fatto riabilitare da D. Bosco. Uomo di grande ingegno [754] e dottrina, si mise sotto la direzione di D. Bosco, cui era obbedientissimo e pel quale professava grande venerazione ed affetto. Stette più d'un anno nell'Oratorio, finchè accomodatosi un appartamento in città, per darsi di bel nuovo all'insegnamento nelle scuole pubbliche, era dal Signore chiamato all'eternità.

                Aperte adunque le scuole di ginnasio inferiore, sia per distrarre forse da queste l'attenzione di certa gente interessata a disturbare il prossimo, sia per dare una pubblica conferma che lo scopo dell'ospizio di Valdocco era sempre immutato, il 7 novembre 1857 faceva stampare nell'Armonia un articolo intitolato: Oratorio maschile di Valdocco.

 

                Le molte richieste che ogni giorno si fanno per l'ammissione dei giovani nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, sezione di questa capitale, hanno determinato il sottoscritto a pubblicare le condizioni di accettazione per evitare spese e disturbi inutili per parte di richiedenti e da parte della Casa medesima. Affinchè adunque un giovane sia accettato nella Casa, sono necessarie le seguenti condizioni ricavate dal piano di regolamento della Casa medesima:

  I) Che il giovane abbia dodici anni compiti e che non oltrepassi i diciotto.

  2) Che sia orfano di padre e di madre, nè abbia fratelli o sorelle, od altri parenti, che possano averne cura.

  3) Totalmente povero e abbandonato. Qualora avverandosi le altre condizioni, il giovane possedesse qualche cosa, egli dovrà portarla seco alla Casa e sarà impiegata a suo favore, perchè non è giusto che goda la carità altrui chi può vivere del suo.

  4) Che sia sano e robusto; non abbia alcuna deformità nella persona, nè sia affetto da malore schifoso o attaccaticcio.

  5) Saranno di preferenza accolti quelli che frequentano 1 'Oratorio festivo di S. Luigi, del Santo Angelo Custode e di San [755] Francesco di Sales; perchè questa Casa è specialmente destinata a raccogliere quei giovani assolutamente poveri ed abbandonati, che intervengono a qualcheduno degli Oratorii summentovati.

                Sì fa preghiera a tutti i giornali amanti della pubblica beneficenza ad essere cortesi di voler inserire nelle loro colonne questa pubblica dichiarazione.

 

Sac. Giov. Bosco

Direttore.

 

                Così accomodati gli studenti in modo che senza disturbo potessero approfittare delle lezioni, anche agli artigiani impartivasi l'istruzione necessaria elementare mentre imparavano la loro arte. Il Teol. Giacinto Ballesio stampava nella sua orazione funebre col titolo Vita intima di D. G. Bosco i seguenti periodi:

                “Colla leva potente della Religione e dell'Amore, studenti ed artigiani lavoravano alacremente. E per dirne un cenno io ricordo ancora la gloriosa gara degli allievi della terza ginnasiale sotto il dotto professore Ramello, Un nove di lezione era per noi una disgrazia; gran parte dei numerosi alunni ebbe sempre i dieci punti. L'emulazione era in mano di D. Bosco un potente strumento al bene. A tal fine i premi annuali, a tal fine la domenica sera egli veniva nello studio e si leggevano ad alta voce i voti riportati da ciascuno nella trascorsa settimana. Su più che duecento studenti era raro un medie, rarissimo un male che veniva accolto con un senso di generale disapprovazione. Giusto e temuto castigo! La grandissima maggioranza riportava sempre un optime o fere optime. Ed a questo ardore sostenuto dalla religiosa educazione sì devono le palme poi mietute dagli studenti vuoi all'Università vuoi al Seminario, e il continuo progredire e perfezionarsi dei laboratorii nella sezione artigiana”. [756] E D. Bosco incoraggiava i suoi artigiani narrando loro le speranze certe di un splendido avvenire anche per essi. Prometteva loro che le povere stanze, che ora li accoglievano per lavorare, sarebbero sostituite da vaste sale, non inferiori alle officine dei più rinomati stabilimenti; e fin dal 1856 aveva incominciato a parlare di esposizioni artistiche che si sarebbero poi fatte dei loro pregiati lavori, in ogni ramo di arte da essi coltivata. D. Rua era presente a queste descrizioni fatte da D. Bosco per più anni. Sembravano immaginazioni e favole queste sue promesse e divenivano invece una realtà.

                Ma quanto dovette egli faticare per giungere al punto che desiderava. Egli stesso raccontò tali vicende.

                Fin da quando ebbe incominciato a mettere in casa i laboratorii, Aveva preso a studiare quali fossero i mezzi per rendere meno faticosa e impacciata la direzione e come interessare i capi d'arte pel bene dei giovani. Tentò molteplici prove. Sulle prime i capi d'arte furono salariati come giornalieri, ma essi non si curavano del progresso degli alunni nel mestiere; e solo badavano a compiere con diligenza i lavori loro affidati e a ricevere la paga in fine di settimana. Poi li invitò a prendere in loro testa il laboratorio, come se fossero padroni di bottega, lasciando ad essi la cura di cercarsi in città commissioni di lavoro ed eseguirle; e in loro compenso concesse il diritto di ritenere il guadagno. Avevano però l'obbligo di pagare un piccolo salario a ciascun giovanetto, proporzionato alla sua abilità; ma allora gli alunni furono trattati come servitori, e ne scapitava grandemente l'autorità del Superiore, alla quale venivano sottratti. Non si poteva più esercitare una sorveglianza diretta; i giovani non obbedivano che al Capo; e talora lo stesso orario correva pericolo di non essere [757] osservato per l'urgenza di un lavoro. Cercò di dividere con essi le spese e i guadagni; ma quelli non badavano che ai propri interessi, e ne' contratti che avevano talora incarico di fare, sapevano aggiustarsi in modo con l'altra parte contraente, da ricavar lucro per sè, con svantaggio della casa.

                Sul principio D. Bosco li obbligò a recare con sè i ferri del mestiere, mentre l'Oratorio doveva provvederli ai giovani; ma i capi adoperavano quelli degli apprendisti e risparmiavano i loro. Talora si pattuiva che egli avrebbe messo solo certi ferri determinati a disposizione dei capi, mentre gli altri se li porterebbero essi da casa: e il patto non era mantenuto. Li incaricò anche a suo conto, di provvedere ai giovani e a se stessi tutti gli istrumenti necessari, ma allora le spese a capriccio divennero continue, e più volte gli alunni non erano provvisti. E ora sorgevano le questioni di utensili rotti, ora di quelli scomparsi, ora di altri usati fuori del laboratorio, e in tempo di riposo o di ricreazione. Così pure dissensi sulle modalità dei lavori, diverbi sui guadagni, quando i capi erano interessati in un'impresa. Insomma fastidi sopra fastidi.

                Queste prove però che faceva D. Bosco avevano durato poco tempo, perchè finì con assumere egli stesso la piena assoluta direzione dei lavori, la sorveglianza e l'autorità senza controllo sugli apprendisti, le provviste di ogni specie che occorressero per i laboratorii. I capi non ebbero altro incarico che quello d'insegnare l'arte e custodire gli allievi. Ma anche con queste misure non gli mancarono dispiaceri, poichè vi furono capi esterni che a bello studio cercavano che i giovani di maggior ingegno non riuscissero valenti nel mestiere, per sospetto che poi venissero a toglier loro il posto ed il pane. [758] Nello stesso tempo doveva guardarsi da un grave urto che poteva accadere tra lui e gli artisti della città o almeno dei borghi più vicini, i quali avrebbero temuta una concorrenza, da essi preveduta dannosa ai loro interessi. Infatti egli, che disegnava nella sua mente vasti laboratorii per molti mestieri, comprendeva che non solo nelle piccole città, ma anche in una grande capitale potevano nascere pericolose gelosie. E dava nel segno, poichè alcuni anni dopo i tipografi di varie officine fecero ogni loro sforzo, perchè il Municipio costringesse D. Bosco a chiudere la sua tipografia appena incipiente. Adducevano per ragione la massima facilitazione di prezzi che egli avrebbe potuto concedere ai committenti per la stampa, ed ai compratori di libri.

                D. Bosco pertanto, per regola generale anche di ogni Ospizio che avrebbe in avvenire fondato, stabilì col fatto: Il lavoro agli artigiani lo dànno gli studenti. Questi, appena furono in certo numero, si dovettero vestire e calzare, ed ecco i calzolai ed i sarti; ebbero bisogno di libri e si aggiunsero i legatori; si incominciarono le costruzioni e furono necessari prima i falegnami e poi i fabbri ferrai. Ad ogni nuovo bisogno della casa sorgeva un laboratorio che provvedesse. La stessa tipografia fu poi istituita per la stampa delle opere nostre, principalmente delle Letture Cattoliche e poi per tante altre nostre associazioni. Nessuna tipografia o altra officina di Torino potè dolersi che per causa dell'Oratorio venisse a mancarle lavoro.

                Anzi le intenzioni di D. Bosco erano che gli stessi operai delle altre officine della città, che allora erano molto meno numerose e più piccole delle attuali, non avessero a temere che i suoi alunni divenuti abili artisti potessero essere in qualche modo prescelti dai padroni [759], in modo da cagionar gelosie. Vagheggiava l'ideale che la maggior parte di essi ritornasse al paese nativo, ivi mettessero su bottega dell'arte loro, e divenissero l'aiuto del parroco, nel cantare in coro, nel fare il catechismo e nel dare buon esempio colle parole e coi fatti ai loro compaesani. Senonchè il moltiplicarsi delle industrie, delle scoperte e delle arti meccaniche preparava lavoro per tutti nei grandi centri.

                Intanto il buono spirito trionfava sempre nell'Oratorio e si manifestava con sempre nuovi frutti. Sul fine del 1857 erasi formata una nuova Compagnia che fu quella del SS. Sacramento, col fine della frequenza regolare dei Sacramenti e del culto alla SS. Eucarestia. Don Bosco ne ispirò l'idea al Ch. Bongiovanni Giuseppe che, avutane licenza, la tradusse in atto. A questa compagnia presero parte molti dei giovani più buoni e si distinguevano nella frequenza e divozione alla sacra mensa, traendo altri compagni col loro esempio.

                Il Regolamento lo abbiamo trascritto da un autografo dello stesso D. Bosco.

 

   1. Lo scopo principale di questa compagnia si è promuovere l'adorazione verso la Santissima Eucarestia e risarcire Gesù Cristo degli oltraggi che dagli infedeli, dagli eretici e dai cattivi cristiani riceve in questo augustissimo sacramento.

   2. A questo fine i confratelli procureranno di ripartire le loro comunioni in modo che vi possa essere la comunione quotidiana. Ciascun confratello col permesso del confessore avrà cura di comunicarsi ogni giorno festivo ed una volta lungo la settimana.

   3. Il Confratello si presterà con prontezza speciale a tutte le funzioni dirette al culto della SS. Eucarestia, come sarebbe servire la santa Messa, assistere alla benedizione del Venerabile, accompagnare il viatico quando è portato agli infermi, visitare il SS. Sacramento quando è esposto nelle quarantore. [760]

   4. Ogni socio procuri di imparare a servire bene la S. Messa, facendo con esattezza tutte le cerimonie e proferendo divotamente e distintamente le parole che occorrono in questo sublime mistero.

   5. Si terrà una conferenza spirituale per settimana cui ognuno si darà premura d'intervenire e d'invitare gli altri a venire pure con puntualità.

   6. Nelle conferenze si tratteranno cose che riguardano direttamente il culto verso il SS. Sacramento, come sarebbe incoraggiare a comunicarsi col massimo raccoglimento, istruire ed assistere quelli che fanno la loro prima comunione; aiutare a fare la preparazione ed il ringraziamento quelli che ne avessero bisogno, diffondere libri, immagini, foglietti, che tendono a questo scopo.

   7. Dopo la conferenza si tirerà un fioretto spirituale da mettere in pratica nel corso della settimana.

   8. Le domande d'accettazione si faranno per iscritto al Direttore della Compagnia che per via ordinaria sarà il Catechista.

   9. Ogni confratello nell'atto d'accettazione riceverà il regolamento della Compagnia con una medaglia benedetta da portarsi al collo in onore dei SS. Sacramento e di Maria SS.

   10. Sarà cura di un Segretario eletto a maggioranza di voti dai confratelli e confermato dal Direttore, il redigere e leggere i verbali delle conferenze, preparare i fioretti di cui è parola nell'articolo 7, tener nota della presenza ed assenza dei singoli soci, degli aspiranti o proposti, e dei novelli accettati per essere inscritti nel registro della Compagnia nella quale iscrizione consiste appunto l'atto essenziale dell'accettazione.

   11. Cadendo infermo qualche membro della Compagnia, i confratelli offriranno a Dio speciali preghiere pel medesimo. Qualora fosse chiamato dal Signore all'eternità, faranno tutti almeno una volta la S. Comunione e reciteranno la terza parte del Rosario colle Litanie della B. Vergine in suffragio dell'anima sua.

 

                Primo Direttore di questa Compagnia fu lo stesso Ch. Bongiovanni, che umile, instancabile, mortificato, paziente, faceto, di condotta direi angelica, zelantissimo [761] nel fare i catechismi, se ne prese una cura grande ed appassionata. Radunava gli ascritti alle conferenze settimanali per informarli dello spirito della Compagnia, e li riuniva in ricreazione quanti poteva, esilarandoli con arguzie ed episodi. “Anche D. Bosco, osservava D. Savio Angelo, non trascurava cosa alcuna per animarli e con essi quelli delle compagnie di S. Luigi e dell'Immacolata. Li radunava a quando a quando separatamente, sotto la sua direzione faceva fare la lettura del Regolamento, ne dava la spiegazione, li invitava tutti a darsi buon esempio a vicenda; e intanto per grado preparavali insensibilmente al sacerdozio a misura che vedeva svilupparsi le vocazioni”.

                D. Bosco intanto nel mese di settembre vestiva Bonetti Giovanni, coll'abito clericale, in novembre lo faceva indossare al giovane Celestino Durando; e ospitava nell'Oratorio D. Montebruno Francesco, il quale alcun tempo prima era già venuto da Genova per visitarlo. D. Montebruno questa volta per circa quindici giorni vi ebbe stanza; esaminò e studiò in azione il sistema educativo di Don Bosco, conferì lungamente con lui intorno alla direzione spirituale dei giovani, s'informò minutamente sulle usanze e sulle industrie adoperate per attirare al bene, specialmente gli alunni operai; e per allora si conveniva che il Direttore degli Artigianelli di Genova sarebbesi riservata la proprietà e l'amministrazione materiale della sua casa, con dipendenza però morale dalla direzione di D. Bosco.

                Ma D. Bosco in mezzo a queste sue trattative per i giovani non dimenticava gli interessi della Chiesa e dello Stato. Nell'ottobre erasi sciolta la Camera dei Deputati e pel 15 novembre erano convocati gli elettori per le elezioni generali. Mons. Fransoni e gli altri Vescovi della [762] provincia torinese raccomandavano pubbliche preghiere, e ricordavano l'obbligo di dare il voto a persone probe, disinteressate e religiose.

                D. Bosco obbedì e si procurò i documenti necessari per dimostrare il suo diritto al voto. Sembra che il Segretario Comunale di Castelnuovo, Sig. Carano, avesse qualche dubbio su questo diritto, e D. Bosco gli scriveva:

 

                               Pregiat.mo Signore,

 

                Ho comunicato il dubbio che V. S. mi notava sul mio domicilio al Sig. Conte Arnaud, il quale mi ha dato un parere che qui Le unisco.

                Le mando pure nota dei censo che io pago.

                Vorrei essere elettore comunale e politico in Castelnuovo d'Asti mia patria.

                Se vi manca ancora qualche cosa spero che Ella sarà cortese di volermelo notificare. Dio benedica Lei e la sua famiglia e mi creda in quel che posso

                Di V. S. Preg.ma

                Torino, novembre 1857.

 

Dev.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

                La nota del censo, era la quietanza dell'esattore, dalla quale risulta che D. Bosco a Castelnuovo, per la prediale sui beni rurali pagava lire 6,94 e per quella sui fabbricati lire 32,14. Quale ricchezza!

                Con grande prudenza intanto cercava di promuovere l'elezione di buoni cattolici, e così scriveva al Can. Rosaz di Susa:

 

                               Carissimo Sig. Canonico,

 

                Ieri soltanto ho ricevuto lettera dal Sig. Cav. Gonella sopra l'oggetto indicato; il ritardo provenne da che egli era assente. Risponde adunque: “Se le cose stanno ancora nello stato in cui [763] erano dalla data della sua lettera, mi sia compiacente significarlo, ed io spedirò tosto analoga risposta; dico però che la mia pochezza forse non corrisponderà ai voti di chi fu tanto buono di portare i suoi pensieri sopra di me ecc.”.

                Pertanto se è ancora caso di parlare di questo affare mel dica e faremo il possibile. Certamente è difficile trovare un soggetto migliore per fermezza, religione, indipendenza e beneficenza.

                Vale nel Signore, Mi creda tutto suo

                Torino, I novembre 1857.

 

aff. amico

Sac. Giov. Bosco.

 

                Il giorno delle elezioni i Cattolici, sperando nel buon successo, si mostrarono solleciti ad accorrere alle urne e riuscivano ad eleggere un buon numero di deputati onesti, fra i quali alcuni ecclesiastici insigni. Le elezioni però di questi sacerdoti furono annullate sotto pretesto di coercizione morale esercitata dal Clero. Si vide allora chiaramente come non si volesse consentire ai sacerdoti quella libertà che le leggi accordavano a tutti i cittadini e come si avesse ragione di propugnare più tardi la formola: Nè eletti, nè elettori. Entrarono tuttavia nell'aula parlamentare e vi durarono fino al 1860, il Conte Carlo Cays, e i Conti Solaro della Margherita, di Camburzano, Costa della Torre, Crotti di Costigliole ed altri intrepidi deputati cattolici, la maggior parte amici cordiali di D. Bosco. Costoro fecero più volte udire la nobile loro parola a difesa dei principii di sana politica e dei diritti della Chiesa. Talora ricorrevano ai consigli di D. Bosco, del quale era nota la prudenza in Torino, allorchè dovevano prendere importanti decisioni.

                Un giorno venne all'Oratorio il Conte di Camburzano con sei deputati della destra a chiedere a D. Bosco come avrebbero dovuto regolarsi nel votare, trattandosi di una [764] legge che riguardava il Regio Economato per migliorare le sorti del basso clero. D. Bosco pensò e poi rispose: - Astenetevi dal dare il voto. - Infatti la legge di incameramento era stata contro giustizia, e quindi non si poteva disporre di roba confiscata da chi non ne aveva diritto. Il Conte di Camburzano aveva ascoltato D. Bosco, guardando i compagni con aria direi di mistero; ed esclamò infine: - Veniamo adesso da interrogare Don Cafasso, e il discepolo ci dà la stessa risposta che il suo maestro!

 

 

CAPO LXII. Missione sacra a Salicetto - Letture Cattoliche - IL GALANTUOMO - VITA DI S. POLICARPO VESCOVO DI SMIRNE E DI S. IRENEO VESCOVO Di LIONE - Lettera al Conte d'Agliano - Fioretti per la novena dell’Immacolata - La radunanza generale delle conferenze di S. Vincenzo de' Paoli e la nuova scuola cattolica nell'Oratorio di Portanuova - Le strenne ai giovani ed ai chierici - Commemorazione dei giovani defunti.

 

                LA fama della dottrina e della virtù di D. Bosco era tale, che moltissimi parroci del Piemonte desideravano di averlo a predicare nelle loro chiese, vaghi di veder quel volto, che manifestava tanta bontà del cuore, e udire le sue affettuose parole. E Don Bosco, potendo, giammai si rifiutava.

                Se si volessero descrivere minutamente le molteplici missioni predicate da Don Bosco alle popolazioni, coi singoli viaggi di andata e ritorno e con tutti gli aneddoti o seri o bernieschi che accaddero e che egli raccontava ai giovani con infinito loro piacere, ci occorrerebbero grossi volumi. Ne accenneremo una che ebbe luogo nel 1857, della quale abbiamo testimonianze sicure. Da questa si argomenti delle altre. D. Bosco era stato invitato dall'arciprete [766] G. Batt. Fenoglio a dettare una muta di esercizi spirituali a Salicetto. - Langhe, diocesi di Mondovì. Dovevano durare,dieci giorni. Mentre oggi da Torino si può andare a questo paese in quattro ore, allora, specialmente d'inverno, ci volevano due giorni. Bisognava recarsi a Mondovì; di qui a Ceva; da Ceva montare e scendere l'Apennino e finalmente giungere a Salicetto dopo aver viaggiato per ore ed ore colla neve fino al ginocchio.

                D. Bosco, celebrata la festa di S. Cecilia, partiva da Torino sul treno e giunto a Fossano prendeva l'omnibus per Mondovì e vi giungeva alle ore una dopo mezzogiorno. Sceso dall'omnibus all'albergo dei Tre Limoni, voleva subitamente recarsi dal Vescovo Mons. Ghilardi; ma seppe dall'albergatore che Mons. Vescovo era assente. Allora domandò a che ora partisse la vettura per Ceva, e gli dissero, non prima delle otto pomeridiane. Si fermò dunque nell'albergo e chiamò il padrone: - Avete un calamaio ed un po' di carta? - Essendogli stato portato quanto chiedeva, si mise ad un tavolino ed attese a scrivere. Intanto arriva gente e tutti meravigliandosi:

                - Guarda, esclamavano, un prete che scrive; un prete che scrive la predica per domenica!

                D. Bosco per un poco non badò, e continuava tranquillamente a scrivere; ma poi vedendo che si affollavano sempre più i curiosi e alla cera manifestavano d'essere persone benevole, lasciò di scrivere e rivolgendosi ad essi: - Sentite, disse: io aveva preparata la predica per domenica; ma se siete contenti la faccio anche adesso.

                Presi così all'improvviso si guardarono l'un l'altro. Eh! tu è già da gran tempo che non senti più la predica, si dicevano a vicenda; oh, possiamo sentirla anche adesso! - D. Bosco senz'altro incominciò a fare loro un'istruzione [767] famigliare sulla necessità di vivere in grazia di Dio per salvare l'anima, e sulla confessione, cattivandosi una intensa attenzione dagli uditori con paragoni, dialoghi, esempi; intanto si affollava sempre maggior numero di persone, in modo che ne era piena quella sala da pranzo.

                Vennero garzoni, cuoco, padrone, padrona, tutti quei di famiglia e si domandavano sotto voce: - Chi è, chi questo prete? Come si chiama?

                E dicevano i domestici ai padroni: - Cercate voi di sapere chi è questo prete: donde venga... ove vada...

                - Ma! dicono che dev'essere di Torino! rispondeva l'albergatore.

                D. Bosco intanto continuava a predicare, finchè si fece notte. Erano circa le sette di sera. Allora la padrona si avvicinò a lui: - Aggredirebbe un boccone, un po' di cena?

                - Mai no; io non posseggo danari da spendere per cenare all'albergo. - Ma essa insisteva: - Non dovrà spendere un soldo, abbia la bontà .....

                - Basta, se così volete accetterò ben volentieri una scodella di minestra; ma non di più.

                 Avevano preparato un pranzo in tutta regola. Prima di mettersi a tavola, D. Bosco fece il segno della santa croce.

                Gli altri al vederlo fare il segno della croce, sbalordirono, si guatarono: - Come... ma chi è questo prete che fa il segno della croce in un albergo prima di mangiare?

                D. Bosco si avvide del loro stupore e senza più disse loro: - Non dovete meravigliare che io qui nell'albergo faccia il segno della santa croce prima di mangiare. Sono prete, e vado a dettare un corso di esercizi spirituali; quindi era ben mio dovere che cominciassi adesso a dettare [768] gli esercizi col mio esempio. E poi, voi siete cristiani, e questo santo segno voi l'avete imparato da bimbi dai vostri genitori, e voi stessi l'insegnate e ripetete spesso ai vostri figli e figlie ecc. - Insomma incominciò un'altra predica; e tutti coloro che erano presenti, o che entravano nella sala stavano attentissimi, nè volevano più andar via: cosicchè vi saranno state un cento persone.

                Dopo ciò D. Bosco si diede a conoscere ai padroni, i quali poi sempre mantennero grande relazione con lui. Giunte intanto le otto, partì per Ceva passando innanzi al Santuario di Vico.

                E' da notarsi che in circostanza di tali viaggi egli occupava sempre il posto sull'imperiale dell'omnibus, accanto ai vetturini, che, prendendoli alle buone, riduceva a confessarsi volentieri. Cosi fece con questo vetturino che ricondusse a Dio con suo gran contento; e continuando a parlargli famigliarmente fino a Ceva, ivi giunse che erano le dieci di notte.

                A quell'ora tarda D. Bosco ignorava dove avrebbe potuto riposare. Il vetturino stesso interrogato non sapeva qual consiglio dargli. D. Bosco finì col chiedere di essere condotto in parrocchia dal prevosto.

                - È  già vecchio ed ammalato, rispose il vetturino, e non si alzerà. Però v'ha in paese un cappellano, certo D. Testanera, il quale non deve essere ancora andato a letto.

                - Bene; conducetemi da costui, concluse D. Bosco.

                Andarono e bussarono alla porta per due o tre volte, finchè venne ad aprire il cappellano, domandando un po' sospettoso a D, Bosco che cosa volesse.

                D. Bosco gli disse: - Son qui di passaggio a Ceva ed avrei bisogno di ritirarmi alcune ore, pagando, s'intende, [769] quella somma che sarà necessaria, e partire domattina per le cinque.

                - Ma qui non abbiamo che alcune sedie; e fa freddo.

                - Pazienza, guarderò di coprirmi alla meglio: mi basta passare la notte al riparo.

                L'ospite allora lo interrogò qual fosse il suo nome, e udito che si chiamava D. Bosco: - Già, disse, io per corrispondenza conosco a Torino un certo D. Bosco; non so se lei lo conosca…..a tutti i modi attenda un istante …..si accomodi….. se mi permette, vado a vedere il mio principale che giace in letto ammalato. - Ciò detto disparve.

                Il capo di casa appena ebbe udito che si trattava di un prete, raccomandò che se ne avesse cura, perchè non soffrisse del freddo, e che gli si portasse qualche cosa per confortare lo stomaco.

                Ritornando il cappellano: - Adesso, disse a D. Bosco, le faccio preparare un po' di cena.

                - No no, grazie; non è molto che ho mangiato; ch'io abbia da star seduto è fin troppo, rispose D. Bosco.

                Il cappellano intanto, perchè s'intrattenesse meno noiosamente, gli porse un libretto delle Letture Cattoliche intitolato: Il commercio delle coscienze. D. Bosco prese il libro e poi voltosi al cappellano gli chiese ridendo: - Conosce lei questo libro?

                - Ma dica! Crede forse che esso non abbia importanza e che non sia opportuno questo libro?

                - Non intendo dir questo.... anzi, per finire, conviene che le palesi chi sia colui che le parla: io sono l'autore di questo libro.

                - Come, lei D. Bosco rettore dell'Oratorio?

                - Precisamente. [770]

                Il cappellano rallegrandosi di quella visita inaspettata si assise. Ambedue si introdussero in discorsi interessanti, e senza che se ne accorgessero continuarono sino alle cinque del mattino, ora della partenza. In tal modo Don Bosco fece amicizia grande con quel cappellano, uomo alto di statura e ben proporzionato di membra. Si rividero ancora altre volte in altri luoghi dopo quel primo abboccamento. Nel 1884 d'autunno ritornò il cappellano all'Oratorio dopo che era passato un buon tratto di tempo senza che avesse riveduto D. Bosco.

                - Mi conosce ancora, D Bosco?

                D. Bosco lo guardò: - D. Testanera!

                - Come fa a riconoscermi, dopo tanti anni?

                - Eh! la sua statura!

                Risalito sull'omnibus il viaggio riuscì felice fino a metà strada, a Montezemolo, stazione per le vetture e cambio di cavalli. Qui D. Bosco dovette dividersi dal vetturino divenuto suo amico, perchè l'omnibus mutando direzione, per Milesimo era avviato a Savona.

                Continuò la rimanente strada parte a piedi, parte a cavallo di un somarello che aveva preso in affitto. Incominciò a salir l'Apennino per sentieri stretti e non selciati. Per soprappiù durante la notte aveva nevicato forte, e la neve era alta mezzo metro da terra. D. Bosco non sapeva la strada perchè la neve aveane scancellata ogni traccia e fu costretto ad affidarsi ad un giovanotto che gli fece da guida mentre egli cavalcava il suo asinello.

                Ma dopo breve tratto perdettero di bel nuovo il sentiero; caddero più volte, ora D. Bosco, ora la guida, ora l'asino; un momento D. Bosco era il portato, un altro istante disceso dal basto doveva spingere innanzi il ciuco ora egli era guida, ora il guidato. Faticosissima fu la [771] discesa, molto rapida, dei monti. Il povero prete era inzuppato dal sudore, la neve l'avea tutto ammollato; non aveva più figura umana. Inoltre sdrucciolando sul ghiaccio cadeva in un fosso e si faceva male ad una gamba in modo che dovettero poi sorreggerlo per salire sul pulpito se vollero aver la predica.

                Il prevosto di Salicetto aveva bensì mandato ad incontrarlo un suo uomo; ma costui non essendosi imbattuto in esso, andò fino a Mondovì; e tornato indietro lo trovò che era già presso al paese. Una, gran fama avealo preceduto e la popolazione si era accesa di un mirabile entusiasmo per lui. Non pochi aveano ottenuto grazie straordinarie da Maria SS. dopo che si erano raccomandati alle sue preghiere; erano quindi in attesa di molti altri favori celesti.

                D. Bosco entrato in paese con un prete di quei dintorni, che stava aspettandolo, vide alcuni ragazzi che scorazzavano per la via. Li chiamò tosto a sè; ma quelli, non avvezzi a trattenersi in discorsi coi preti, a tale invito sospesero, il loro giuoco e si guardarono in faccia timorosi ed attoniti, non osando nessuno muoversi pel primo. D. Bosco si accostò ad essi sorridendo e tolto dalla saccoccia un cartoccio di caramelle, loro le distribuì. Ma i ragazzi non osarono ancora aprir bocca e irresoluti ricevettero quel piccolo dono. Don Bosco allora prese a faceziare e, fattili ridere, dissipò dal loro animo ogni timore. Quindi li interrogava se avessero ancora i loro genitori, con qual nome si chiamassero, se essi fossero buoni o cattivi, ed altre simili domande. Ma non tosto gli abitanti videro quel prete che si intratteneva così amorevolmente e da amico coi loro fanciulli, come un padre coi propri figli, e seppero che era D. Bosco, il predicatore [772] degli esercizi spirituali, corsero tosto in folla attorno a lui per ascoltare ciò che dicesse. In breve tempo quella piazza fu gremita da numeroso popolo, senza contar quelli che dalle finestre stavano osservando quella curiosa scena. Ma il prete che accompagnava D. Bosco si ritirò nella canonica, facendosi largo tra la gente e andò dal parroco dicendogli essere un assassinio fermar un uomo in mezzo alla via stanco dal viaggio e con quel freddo; ed essere azione poco dignitosa per un prete abbassarsi a scherzare coi fanciulli. Ma il parroco, che conosceva benissimo Don Bosco, lo pacificò dicendo: - Lasci pure che D. Bosco faccia; egli saprà cavarsi d'impaccio.

                Infatti D. Bosco per ispirare nella gente confidenza al prete, prese a parlar, con quelli che gli erano vicini, della campagna e di altre cose più o meno utili, li esilarò col racconto di qualche episodio lepido e di poi, alzata la voce, prese ad esortarli a frequentare nel miglior modo che potessero i santi esercizi per mettersi sulla retta via e per non più scostarsene. Quindi entrò nella canonica, accompagnato fin sulla soglia da tutta la moltitudine, che,si era stipata sempre più attorno a lui.

                Riposatosi alquanto, aperse la finestra che guardava nella via e disse a tutta quella gente, la quale aspettava che D. Bosco uscisse per fare la predica d'introduzione, essere egli molto stanco e che per non trovarsi forse i loro cuori abbastanza preparati, si incomincerebbero gli esercizi nella mattina del giorno seguente. E li invitò tutti ad andare in chiesa, ove recitate alcune preghiere ciascuno ritornò alla propria casa.

                D. Bosco si ritirò nella stanza assegnatagli.

                Per il primo giorno egli fu solo a dettare gli esercizi, perchè per il cattivo tempo il sacerdote suo compagno, [773] nella predicazione non aveva osato venire. I paesani accorsero numerosissimi alle prediche e desideravano che predicasse molto a lungo.

                Talvolta predicava già da un'ora e mezzo ed era costretto a dire alla moltitudine - Adesso sono già stanco, non posso più parlare.

                - Si riposi, rispondevano, ma continui. - E D. Bosco era obbligato a continuare.

                Una volta dalle dieci del mattino predicò fino dopo mezzogiorno. E l'uditorio non si moveva punto.

                I contadini, secondo il loro costume, avevano pranzato alle nove, e d'altronde la terra biancheggiava per neve.

                - Continui, continui! replicavano tutte le volte che sembrava volesse terminare. Ad un'ora pomeridiana calava dal pulpito. Ma la chiesa, il coro, la sagrestia era stipata di una folla immobile. D. Bosco a stento andò per deporre la stola e voltosi a quegli uomini sorridendo:

                - E che fate qui? non ritornate alle vostre case?

                - Vogliamo ancora udirlo.

                - Io però sono stanco; non ne posso più; la predica è durata due ore e mezzo.

                - Ebbene si riposi e noi aspettiamo.

                - E il parroco sarà contento che si continui? Noi andremo a dirglielo.

                Intanto il parroco pieno di stupore si avvicinava a D. Bosco e gli diceva:

                - Faccia come crede meglio; continui pure…..lo ascoltano così volentieri questi buoni popolani!

                D. Bosco, dopo una leggera refezione, risalì in pulpito. La chiesa era sempre gremita. Egli incominciò a ringraziarli della loro attenzione, a rallegrarsi della loro buona volontà, a palesare la commozione che provava per tanto [774] loro fervore; e quindi riprese la predica. Di tratto in tratto frammischiava al suo dire il racconto di qualche avventura lepida, e ve ne erano tante, che gli erano occorse nel viaggio per venire a quel paese. Specialmente l'Asineide da Montezemolo a Salicetto con tutti i capitomboli che aveva fatto, serviva per esilarare l'udienza che andava pazza per quelle descrizioni, e rideva a crepapelle. S'intende che le salite, le discese, i precipizi, le cadute avevano sempre un'applicazione a fatti morali.

                 La predica a questo modo, tolti pochi intervalli, in quel giorno aveva durato più di 6 ore.

                Nè ciò non deve fare meraviglia riflettendo all'arte, a noi già nota, colla quale D. Bosco tesseva le sue prediche. Procedeva sempre con paragoni, esempi, parabole sorprendenti. Parlando della mormorazione, invitò a fare una passeggiata in paese. Finse di condurli per le strade e per le piazze facendo udir loro i discorsi che si facevano nei crocchi. Poi li introdusse nelle botteghe, nei caffè, nelle stalle, nelle case particolari assistendo ai dialoghi delle donne, dei servi, dei padroni, degli oziosi in generale. Passò quindi a descrivere le persone oggetto delle mormorazioni e delle calunnie, dimostrando come la maggior parte delle volte le azioni del prossimo anche le più sante sono interpretate male; come sovente le azioni cattive sieno esagerate dalla malignità o dalla poca riflessione; come i fatti più indifferenti diano appiglio a dicerie senza fine che offendono la carità. Dalle sue descrizioni risultò schifosa ed orribile la figura del mormoratore, mentre appariva degna di compassione e di difesa la situazione di un calunniato. Quindi con esempi fece vedere le conseguenze fatali e lagrimevoli che produce lo sparlare del prossimo, e colla Santa Scrittura alla mano provò quanto [775] siano in odio a Dio le mormorazioni. Fece piangere, fece ridere secondo procedevano i vari punti del suo argomento, specialmente per la pittura viva delle persone e dei dialoghi.

                La predica però che su tutte le altre restò indelebile nella mente di quei terrazzani, fu quella che venne chiamata la predica della processione. Se si fosse gettato sulla gente che era in chiesa un pugno di grano, nessun chicco sarebbe giunto a terra, tanto la moltitudine vi era stipata. D. Bosco annunziò che voleva condurre tutti a fare una processione, senza però disturbare o incomodare nessuno. Raccontò quindi di aver contemplato le mura della celeste Gerusalemme. Sulla porta stava scritto a caratteri cubitali: Nihil coinquinatum intrabit in eam. Pochi erano quelli i quali camminavano pel sentiero che metteva a questa porta. Al basso in un vallone aveva visto una bandiera tutta nera portata da un personaggio di forme strane sulla quale stava scritto: Neque fornicarii, neque adulteri, neque molles, neque fures, neque avari, neque ebriosi, neque maledici, neque rapaces regnum Dei possidebunt. Dietro a questa bandiera sfilava una lunghissima processione. La guidava un essere orrendo, deforme, ma nello stesso tempo di modi lusinghieri e colla maschera stilla faccia. Prima venivano gruppi di persone che facevano discorsi brutti sghignazzando, poi altri che in coro bestemmiavano; quindi file di mormoratori, quindi schiere di ubbriachi che cantavano incespicando ecc. Dopo queste si avanzavano gente carica di castagne rubate, di uva tolta nelle vigne dei vicini e portata nelle corbe; altri seguitavano zoppicanti sotto il peso del grano e della meliga che non era loro ecc. Quindi una turba di donne e di figliuoli che rubavano in casa e che vendevano la roba ad insaputa [776] del capo di famiglia, portanti ciascheduno il corpo del loro delitto. Veniva poi la confraternita dei sarti, curvi tutti sotto gli stracci rubati che li facevano andar gobbi; la confraternita dei mugnai, gobbi sotto i sacchi delle farine sottratte agli avventori; la confraternita dei bottegai coi pesi falsi, quella dei manutengoli che compravano ciò che loro portavano i ladri, quella degli usurai ecc.

                Queste genti entravano in una porta aperta nelle mura annerite di un'orrida prigione, che era all'estremità di quella valle. Al di là di quelle soglie, vedevansi tenebrosi cunicoli che paurosamente si sprofondavano nelle viscere della terra. Come tutti furono entrati, la porta si chiuse con  impeto, e stava scritto sulle imposte, dalla parte esterna che prima non  si vedeva: Periisse semel aeternum est.

                Mentre D. Bosco moveva questa terribile requisitoria ad ogni classe di persone, regnava nella chiesa una commozione indescrivibile. Passava quindi ad interpellare tutte le classi di persone già nominate.

                - E voi, bestemmiatori che alzate ora la fronte contro Dio, sapete voi per quale via vi siete messi? dove andate? Voi, scandalosi, dove andate? Voi, sarti, mugnai, dove andate? ecc. Sapete voi dove andate a finire?

                D. Bosco faceva un istante di pausa; nella chiesa si udivano singhiozzi repressi. Finalmente concludeva: Voi piangete? lo pure piango, e non piango per me, sibbene per voi! Dove voi un giorno andrete lo dirò domani.

                La folla degli uomini che correvano a confessarsi era indescrivibile. Ne era piena la chiesa, la sagrestia, la canonica. Molti dicevano a D. Bosco: - Prenda: dia questo danaro all'Arciprete, perchè lo faccia avere al tale, al tale altro, senza dire nulla della provenienza. - Erano restituzioni. [777]

                In pochi giorni per mezzo del parroco furono restituite più decine di migliaia di lire. Quel buon Arciprete piangeva dalla consolazione. Manifestavasi la mano di Dio e nessuna predica non fece mai tanto effetto come questa. Iste omnis fructus ut auferatur peccatum[30].

                Mentre D. Bosco evangelizzava Salicetto, a Torino si finiva la stampa di due suoi fascicoli. Di uno dava annunzio l'Armonia del 15 dicembre:

                “E' pubblicato il Galantuomo, almanacco di strenna per gli associati alle Letture Cattoliche. Vediamo con piacere che tra le altre cose istruttive e gioconde, che contiene, avvi altresì una istruzione popolare sull'igiene, in cui si danno avvisi intorno a questa parte importantissima della istruzione popolare”.

                Con questo almanacco si spediva eziandio agli associati il fascicolo di dicembre stampato da Paravia: La Vita di S. Policarpo Vescovo di Smirne e Martire, e del suo discepolo Sant'Ireneo Vescovo di Lione e Martire. Era anonimo, ma scritto da Don Bosco. In queste pagine egli dimostra come i cristiani sul finire del primo e del secondo secolo credessero quelle stesse verità che ora credono i cattolici e come venerassero le reliquie dei santi. Descrive come le reliquie di S. Ilario a Lione fossero orribilmente oltraggiate dai Calvinisti alleati dei Valdesi e con quale ferocia di stragi cercassero costoro di sterminare i cattolici. Conclude con una grande verità da non dimenticarsi anche ai giorni nostri: “Quando l'Imperatore Severo fece pubblicare la sua legge colla quale s'intimava a tutti i suoi sudditi di rinunciare a [778] Gesù Cristo sotto pena di morte a chi disobbedisse, i Cristiani di Lione sapendo che le leggi dei sovrani di questa terra, quando sono contrarie alle leggi di Dio e della Chiesa, non meritano nome di leggi, e non solo non vi è obbligo di osservarle, ma vi è obbligo di non osservarle, determinarono di mantenersi costanti nella fede a qualunque costo e si lasciarono scannare a migliaia piuttostochè obbedire a quell'iniquo comando”.

                Intanto a Salicetto anche i confessionali del venerando compagno di D. Bosco nella predicazione e di altri zelanti sacerdoti, dalle prime ore del mattino fino ad ora tardissima, erano assediati da folle di penitenti. Oltre a ciò in tutti que' giorni la casa parrocchiale era sempre affollata da persone che venivano a chiedere a D. Bosco, nei momenti che aveva liberi, una benedizione per i loro infermi, e talvolta glieli conducevano innanzi perchè loro implorasse la guarigione da Maria SS. Egli non aveva un momento di respiro; eppure ciò non lo distoglieva dal rispondere alle lettere che aveva recato con sè o che gli erano spedite da D. Alasonatti. Non potendo di giorno, scriveva di notte. Eccone una indirizzata al Conte Pio Galleani d'Agliano con indicazioni approvate certamente da D. Cafasso.

 

                               Ill.mo e Benemerito Sig. Conte,

 

                Mentre sono qui a Salicetto, per dettare una muta di Santi Spirituali Esercizi, ho data un'occhiata alle lettere da rispondere, e ne trovo una di V. S. Ill.ma e Benemerita, cui so aver fatto risposta colla mente, ma non  so se in realtà. Comunque sia io La prego di darmi benigno compatimento e compatire questa mia se non duplicata, certamente più del dovere ritardata risposta.

                Sia dunque:

                Il giovane Chiansello è ritornato fra noi, egli è buono, ma [779] è sempre di sanità cagionevole. In quanto all'ammontare stabilito col fratello prete, io farò come Ella sarà per dirmi, giunto che sia a Torino.

                Riguardo al prete cappellano se non è ancora provveduto, c'è tuttora quel vicecurato di Verzuolo, di cui fu già parola l'anno scorso; egli è tuttora libero e di lui mi furono date ottime informazioni. Avvi pure un'altro, Sac. Grassino Giovanni Rettore del Manicomio a Collegno, che io conosco personalmente da più anni; esso è prete di zelo e di condotta intemerata, e desidera di abbandonare l'attuale impiego, unicamente per lavorare con maggior libertà nel sacro Ministero. Ma di tal cosa io crederei utilissimo il poterci intrattenere; perciò al suo ritorno alla capitale, se sarà ancora del caso, potremo parlarci e anche vedere gli individui posti in predicato.

                Intanto io profitto di questa occasione per augurare a Lei e a tutta la venerata famiglia copiose benedizioni dal cielo pregando la Vergine Immacolata a volerle intercedere dal suo Divin Figlio in questa novena: pace, tranquillità, grazia, timor di Dio, perseveranza nel bene. Amen.

                Con pienezza di stima e di gratitudine mi creda

                Di V. S. Ill.ma e Benemerita

                Salicetto, 29 novembre 1857.

Obl.mo Servitore

Sac. Bosco Giovanni.

 

                Eziandio i giovani dell'Oratorio ricevevano un foglio di D. Bosco, nel quale egli aveva scritto il modo con cui intendeva che onorassero Maria SS. Immacolata.

 

NOVENA DELL'IMMACOLA CONCEZIONE.

 

Giorno    I. Levata - prontamente in silenzio  aggiustare tutto, dipoi in chiesa.

  ”     2. Entrata in chiesa - con puntualità senza ridere cogli sguardi all'altare mirando niuno in faccia andando al proprio posto. [780]

  ”     Giorno 3. Ginocchioni senza appoggiarsi qua e là, non sedersi sulle calcagna ritto di persona colle mani giunte avanti al petto.

  ”     4. Preghiera - Dire le parole chiare, distinte, ad alta voce, ma unisone e continuate sino alla fine. Non si guardi qua e là, non si miri alcuno in faccia per qualunque motivo; non si rida, nè si parli ad alcuno.

  ”     5. Segno della santa croce - con parole chiare, colla mano trasportata senza fretta, congiungendo in fine l'una coll'altra.

  ”     6. Pensiero sulle confessioni passate - pentimento dei peccati commessi e proponimento di non più commetterli.

  ”     7. Confessione generale - per chi non l'ha ancori, fatta, oppure ha qualche imbroglio sulla coscienza.

  ”     8. Esame sui peccati mal confessati, o taciuti in confessione. Risoluzione di confessarsi sinceramente.

  ”     9. Digiuno o qualche mortificazione in preparazione della S. Comunione.

 

GIORNO DELLA FESTA.

 

                Prendere parte alle funzioni religiose col maggior raccoglimento possibile.

 

                Risoluzione - Portar seco la medaglia dell'Immacolata, baciandola ed invocando Maria nelle tentazioni.

 

                Pieno del pensiero de' suoi cari giovani, D. Bosco vedeva avvicinarsi il termine de' suoi esercizi, ne' quali predicò fino all'ultimo istante di sua dimora in quel paese. Ancora al momento della partenza, accompagnato dal popolo per un tratto di via, dall'alto di una specie di carro vettura, che lo aspettava ad un bivio, ove più facile si apriva la strada, diceva forte alla turba: -Ricordatevi di questa e di quella cosa, di questo e quell'avviso! di quelle promesse fatte al Signore! [781]    - Sì, sì! - rispondevano tutti. Alcuni lo assicuravano perfino che non avrebbero dimenticate le cose che loro aveva raccomandate in confessione. E così se ne tornò nell'Oratorio per finire la novena di Maria SS. Immacolata e per cominciare quella del Santo Natale.

                - D. Bosco narrava poi: “Fu così piena d'avventure quella mia gita, che ho proposto più volte, quando avessi tempo, di porla in iscritto: ce ne sarebbe da fare un romanzetto. Si potrà dirne qualche cosa, ma nessun riuscirà ad immaginarsi tanta varietà di vicende. Se si avessero a narrare gli incidenti del viaggio, della predicazione, delle conversioni, di alcune restituzioni, di varie grazie di Maria SS. ci vorrebbe un mese intero. Io rimasi oltremodo contento di quella missione”.

                Ma anche non si cancellò dalla memoria di que' buoni terrazzani. Un nostro confratello ci diede la seguente relazione in iscritto:

                “Per ragioni di famiglia nel settembre del 1887 mi recai a Salicetto, in quel di Mondovì. La famiglia presso cui alloggiai era una famiglia di cooperatori nostri. Il padrone di casa mi accolse con affabilità e mi trattò con generosità senza pari. Il discorso cadde su D. Bosco: - Lo conobbi, diceva quel caro uomo, lo conobbi. Stette qui nel 1857 a far gli esercizi…..Quanta gente accorreva alle sue prediche….. si stava là incantati ad udirlo…..Nel partire io l'accompagnai. Era caduta la neve, era un freddo intenso e soffiava un vento gagliardo. Mi ricordo che una folata di vento gli portò via il cappello. Io corsi, glielo raccolsi e lui a ringraziarmi …..Ah! era un santo quell'uomo. Basta dire che è D. Bosco. Se Lei va a Torino glielo dica, sa, che fu a casa mia.

                “Io andai a Torino e contai la cosa a D. Bosco. Egli [782] sorrideva e pareva avesse piacere a sentire quanto io gli raccontava. E poi mi disse: - Mi ricordo ancora di quei tempi. Ti hanno detto che erano lunghe le mie prediche?

                - Oh D. Bosco! Anzi...

                - Ebbene, hai da sapere ch'io aveva il coraggio di stare tre ore sul pulpito. - Poi mi domandò: Sei stanco? Hai mangiato?

                - Sì, D. Bosco: grazie.

                - Hai salutato D. Rua?

                E D. Rua che era vicino disse: - Oh ci siamo già visti, non è vero?

                - Ebbene, concluse D. Bosco, ora e da qui innanzi rivolgiti sempre a lui….. - Furono le ultime parole che io udissi da quel labbro amato”.

                Ma in quest'anno 1837 agli esercizi di Salicetto succedeva un altro fatto memorabile.

                D. Bosco si era lungamente intrattenuto col Teol. Morialdo sulla necessità di una scuola elementare diurna e quotidiana per i fanciulli che dopo aver frequentato l'Oratorio di 8. Luigi nei giorni festivi, poi scioperavano tutta la settimana, eziandio con pericolo di cadere nelle reti dei protestanti; i quali in quei paraggi avevano il loro tempio. Occorreva adunque provvedere a questo urgente bisogno, perchè altrimenti sarebbero riusciti in parte inefficaci le fatiche dei zelanti catechisti. Mentre studiavasi il modo per avere i mezzi, D. Bosco veniva invitato alla riunione generale della Società di S. Vincenzo de' Paoli che si teneva in Torino nella sala della sua sede, via Stampatori, la sera dell'8 dicembre.

                D. Bosco vi si recò conducendo, come soleva sempre, alcuni de' suoi più grandicelli, membri delle Conferenze annesse, fra i quali Villa Giovanni. Cammin facendo [783] diceva loro: - Stasera sentirete dei signori che parlano come apostoli!

                Nell'imponente assemblea uno dei soci trattò in particolar modo del come fare argine all'invasione dei protestanti in Torino, i quali colle loro scuole gratuite elementari ed agrarie, aperte di quei dì, specie con quelle in Borgo Nuovo, verso il Valentino e il viale dei Platani, ora corso Vittorio Emanuele, mettevano i giovanetti in gravissimo rischio di perdere la fede. Riferì eziandio che avevano aperto un asilo attiguo al loro tempio e che distribuivano minestre gratuitamente a quanti bambini cattolici si presentavano. Vari oratori esposero i loro progetti per paralizzare l'opera di tali maestri di eresia; ma l'assemblea, o che esitasse in vista delle gravi spese proposte, o non fossero tutti d'accordo sulle modalità, non veniva ad una definitiva deliberazione, e la cosa andava in lungo con pericolo di nulla concludere. D. Bosco che aveva con viva attenzione ascoltato quel ragguaglio, chiese la parola e disse risolutamente: - Stante la gravità dell'esposta relazione non dobbiamo partire di qui senza aver preso decisioni pratiche ed efficaci per opporci direttamente alle mene dei Valdesi, e aver deliberato l'impianto di una scuola almeno. Nella località più minacciata abbiamo già l'Oratorio di S. Luigi Gonzaga, e presso di questo vi è posto sufficiente per una classe. In altri luoghi opportuni coll'aiuto di Dio apriremo altre scuole, che denomineremo Cattoliche, e, sotto la protezione di S. Vincenzo de' Paoli, voi ne sarete i promotori; e D. Bosco sarà sempre pronto a prestarvi la sua opera. Ci vogliono maestri abili e forniti di patenti per i giovanetti, e li troveremo; per le fanciulle non mancheranno suore con legale autorizzazione e le domanderemo a qualche Congregazione che ne sia [784] fornita. Abbiamo bisogno di danaro, ma la Provvidenza è ricchissima. È  necessaria una Commissione che prenda a cuore l'impresa, l'amministri, la sorvegli, la diriga, e questo tocca a voi eleggerla. Se temporeggiamo, si farà sempre più difficile impedire un sì gran male. S'incominci subito dalla scuola presso l'Oratorio di Porta Nuova. E continuando il suo discorso, addusse tali ragioni, parlò con tale convinzione, che tutta l'assemblea adottò le sue proposte. Si convenne pertanto di aumentare le scuole serali già istituite nell'Oratorio di S. Luigi, di farle anche diurne, provvedendo gratuitamente i libri ed i quaderni ai fanciulli.

                D. Bosco si unì tosto con personaggi di gran merito, risoluti campioni della fede, fra i quali il cavalier Michelotti, il Conte Cays deputato di Condove, il Conte di Castagnetto senatore del regno, l'avvocato Bellingeri, lieti ogni volta che loro si porgeva occasione di sostenere la causa di Dio. Ed egli, pieno di zelo ardente, die' principio presso all'Oratorio di S. Luigi ad una scuola elementare cattolica, diurna e quotidiana. Affittò pertanto un tratto di terreno, vi fece costrurre un piccolo edifizio: una stanza per il portinaio, e una sala abbastanza capace che fu tramezzata con una parete mobile di legno, la quale all'uopo si toglieva e serviva di palcoscenico al piccolo teatrino. Qui si dovevano raccogliere i giovanetti di due classi elementari, provviste di vari mobili occorrenti, e della necessaria suppellettile scolastica. Non avendo però D. Bosco in quel tempo maestri in casa, provvisti di regie patenti, dovette cercare in città un idoneo personale insegnante veramente cattolico, eziandio per condotta. A questo procurò egli stesso con gravi sacrifizi lo stipendio annuo; e dispose che non mancassero i premi necessari [785] per l'incoraggiamento degli allievi. Il teologo Leonardo Murialdo colle sue generose oblazioni e colla sua opera fu il principale benefattore di tale impresa.

                Appena si potè, le scuole furono aperte, e vennero attirati non pochi fanciulli poveri, di famiglie cattoliche, disertori dalle scuole protestanti; e si riuscì ad impedire che divenissero vittime dell'eresia col pretesto dell'istruzione elementare.

                Finiva il 1857, e D. Bosco, per avere occasione di dare a ciascuno de' suoi un avviso adatto ai propri bisogni, annunziava ogni anno in pubblico che aveva una strenna da dare a tutti; e i giovani ad uno ad uno si avvicinavano a lui per avere la propria parte; e Don Bosco all'orecchio di ciascuno dava un ammonimento o un consiglio talvolta ricavato dalla vita di qualche Santo. Talora eziandio, perchè più facilmente ritenessero tale strenna, porgeva a caduno un biglietto scritto, che diventava per tutti prezioso, in guisa che dopo tanti e tanti anni ancora lo conservavano.

                Tale strenna dava anche ai chierici chiamandoli presso di sè, la quale consisteva in un motto scritturale o tratto dai Santi Padri ed in lingua latina. E fu mirabile che, anche allorquando all'Oratorio si trovarono cinquanta tra chierici e sacerdoti, egli senza avere in mano alcun scritto, dava ad ognuno in privato il proprio avviso, senza ripetersi, e così preciso che tutti maravigliati dicevano nel loro cuore: - Questo detto è veramente adattato a me.

                Talora preparava per ciascun chierico un biglietto scritto di sua mano e lo distribuiva con grande amorevolezza. Vi si leggevano sentenze, alcune delle quali a noi pervennero. La prima di queste l'ebbe il Ch. Anfossi: Sicut misit me Pater et ego mitto vos. Filius amatur a Patre [786] et tamen ad passionem mittitur: ita et discipuli a Domino amantur, qui tamen ad passionem mittuntur in mundo (SAN GREGORIO, domenica in albis). - Qui aestimaverunt lusum esse vitam nostram, et conversationem vitae compositam ad lucrum, omnes insipientes et infelices - Nullum Deo gratius sacrificium offeri potest quam zelus animarum (GREG. M). - Curare ut quisquis sacerdoti jungitur, quasi ex salis tactu, aeternae vitae sapore condiatur (S. GREG). - Salus est animae et corporis sobrius polus (Eccli. XXXI, 37).

                Ma l'avviso più solenne che dava D. Bosco era il ricordo dei compagni defunti nell'anno che tramontava. Oltre Savio Domenico e il Ch. Garigliano nel mese di marzo era morto in sua casa Lupo Domenico di Chieri, in agosto nell'Ospedale Mauriziano Re Alessandro di Caselle, ed in novembre a Camerano, sua patria, Bordoni Marcello.

 

 

CAPO LXIII. 1858-Letture Cattoliche - Il piccolo clero: importanza di questa istituzione - La festa di S. Francesco di Sales - Il battesimo di un moro - VITA DEI SOMMI PONTEFICI S. ANICETO, S. SOTERO, S. ELEUTERIO, S. VITTORE, E S. ZEFFIRINO - Appello ai corrispondenti ed associati alle Letture Cattoliche. - Cesare Chiala collaboratore per queste stampe - D. Bosco sempre appoggio dei sacerdoti - Si dispone a recarsi a Roma colle commendalizie di Mons. Fransoni.

 

                L'ANNO 1858 incominciava colla spedizione delle Letture Cattoliche di gennaio. Il fascicolo conteneva una Breve esposizione delle epistole ed evangeli delle Domeniche e Feste del Signore, con preghiere e riflessioni ad uso del popolo cristiano. Le riflessioni sui vangeli sono quelle del Padre Carlo Massini, aggiunte all'incomparabile libro da lui composto sulla vita di N. S. Gesù Cristo. Quelle sopra le epistole sono scritte da un sacerdote dotto e pio, il quale le compose sul modello delle prime. Il fascicolo era una prova, che la Chiesa mette continuamente innanzi agli occhi dei fedeli le sacre carte, acciocchè possano meditarle; e quindi una confutazione alle accuse dei Protestanti. [788] Ma se questo libro era un eccitamento a tutti i cristiani acciocchè partecipassero con fede ai sacri misteri degli altari, allo stesso fine iniziavasi nell'Oratorio una novella istituzione. Il Chierico Bongiovanni Giuseppe, fondata e organizzata la Compagnia del SS. Sacramento, ne ideò una seconda, come appendice della prima, ossia il piccolo clero. Oltre il decoro della casa di Dio, suo scopo primario fu di coltivare nei giovani studenti più virtuosi la vocazione allo stato ecclesiastico, e specialmente tra gli alunni delle classi superiori. Eglino, dopo di essersi convenientemente addestrati nelle cerimonie ecclesiastiche, dovevano, vestiti di talare e cotta, servire per turno la santa messa nei giorni festivi, ed assistere in corpo alle sacre funzioni in presbiterio nelle principali solennità dell'anno. All'occorrenza erano eziandio preparati all'ufficio di ceriferi, accoliti, turiferari, crociferi, cerimonieri ecc., per la messa solenne, i vespri, per la benedizione col SS. Sacramento, per le processioni, per tutte le funzioni della Settimana santa e gli uffici e accompagnamenti funebri.

                La direzione di questo clero doveva essere affidata ad un sacerdote esperto, zelante e di buono spirito, che per via ordinaria sarebbe stato il Catechista dell'Oratorio. Egli nel disimpegno di tale attribuzione poteva associarsi alcuni dei più anziani di quel clero, affidando ad uno la manutenzione delle vesti e delle cotte, e ad un altro la disciplina durante le sacre funzioni in qualità di cerimoniere.

                Primo direttore o presidente ne fu per eccezione e per merito lo stesso Ch. Bongiovanni Giuseppe, il quale e allora e quando fu sacerdote si mostrò zelantissimo nel premunire colle sue prediche e colle conferenze prima i giovani, e poi il popolo, contro gli errori dei protestanti [789] e specialmente nel difendere nel modo più attraente e persuasivo la verità cattolica della presenza reale di Gesú Cristo nella SS. Eucarestia.

                Nello stesso tempo seppe insegnare al suo giovane clero tale un contegno, che nessuno li avrebbe creduti giovani secolari, quando nel tempo dei sari riti, apparivano in veste talare e cotta in chiesa o in processione per la città; tanta era la modestia negli occhi e la gravità nel portamento.

                Corretto ed approvato da D. Bosco, ecco il Regolamento del Piccolo Clero.

 

   1. Il presidente della Compagnia del SS. Sacramento, previa domanda, sceglierà tra i confratelli della stessa i giovani più anziani e più esemplari e li ammetterà nel Piccolo Clero.

   2. I confratelli siano puntuali al suono del campanello.

   3. Nella scala procurino di non fare schiamazzo.

   4. Nella camera del Piccolo Clero si deve osservare rigoroso silenzio e stare attenti alla lettura.

   5. Nessuno deve prendere veste, berretta, collare degli altri; neppure frugare negli armadi: quando occorre qualche cosa si chieda a chi n'è incaricato.

   6. Ognuno procuri di essere sottomesso al distributore delle cotte, della colezione e merenda.

   7. È  proibito recarsi nella camera del Piccolo Clero fuori di tempo.

   8. In sacrestia ognuno stia raccolto al proprio posto.

   9. Nell'andare all'altare si eviti l'affettazione e la precipitazione.

   10. Durante le funzioni non si stia divagati, ma sempre attenti ai cenni del Cerimoniere.

   11. Nessuno esca dal Presbiterio in tempo delle sacre funzioni.

   12. Dopo le funzioni non si accalchi per la scala; ma ognuno col proprio compagno, deponga al numero assegnato la berretta, la veste ed il collare, e consegni al distributore la cotta. [790]

    13. Chi non potesse intervenire al Servizio avverta chi di ragione.

   14. Allorchè si va a servire fuori, ciascuno si dimostri giovane ben educato.

   15. Quando succedesse qualche inconveniente, non si mormori; invece si presenti la difficoltà al Presidente.

   16. Sia impegno particolare di ciascuno di sostenere l'onore della Compagnia colla buona condotta e frequenza ai SS. Sacramenti.

   17. Quando il Presidente credesse bene potrà espellere quei giovani che non ne fossero degni, per voti scadenti od altro.

   18. Osservi ognuno questo piccolo regolamento e allora sarà consolante il contegno dei confratelli e maggiori le Benedizioni che il Signore spargerà sulla Compagnia.

 

Ad maiorem Dei gloriam.

 

                A questo regolamento D. Bosco aggiungeva una norma pratica per il Presidente, acciocchè non venisse meno lo spirito di devozione; e si potessero correggere con profitto le mancanze nel servizio all'altare cagionate da leggerezza. Era formolata in questi termini: “Qualora un membro del Piccolo Clero col suo contegno poco, edificante venisse meno al suo dovere, potrà esserne dimesso o sospeso dal Direttore per un tempo più o meno lungo secondo la gravità del caso. Continuerà però sempre ad appartenere alla Compagnia ed a frequentare, col permesso del Direttore, le Conferenze settimanali, per migliorare la sua condotta”

                E il Piccolo Clero fu da questo istante il più caro ornamento non solo delle solennità dell’Oratorio, ma l'aiuto a varie parrocchie e istituti di Torino che per mancanza di servizio religioso non avrebbero potuto celebrare decorosamente le loro feste. Specialmente nella Settimana [791] santa, messi a parte quelli destinati per le funzioni della Casa, gli altri divisi in piccole schiere uscivano a servire, e talora successivamente, in più chiese. E ancora oggigiorno si continua questa pia costumanza.

                Ma quanto costò al Bongiovanni tale compagnia, che diede alla Chiesa un gran numero di ministri degli altari, lo sa il suo angelo custode, il quale contò tutti i suoi sospiri e i suoi retti pensieri. Le difficoltà che dovette superare nel far coraggio ai buoni e nel sopportare anche qualche beffa da chi non ne conosceva o non apprezzava abbastanza la sua santa intenzione e gli ottimi frutti, le sanno in parte anche i suoi Congregati d'allora. Questi dividevano con lui come le consolazioni, così le tribolazioni e le piccole persecuzioni per parte di qualche discolo, che non manca mai in una comunità.

                D. Bosco osservava, incoraggiava, proteggeva Bongiovanni e i suoi, avvertiva anche severamente certi spensierati, ma non di rado sembrava che tollerasse qualche critica o scherno, se non erano effetto di avversione al bene. Ei si compiaceva che si assuefacessero a non perdersi d'animo per una sciocca o maligna parola, che si agguerrissero contro il rispetto umano, e portassero alta la fronte, gloriosi di servire il Signore.

                Per un altro suo fine adoperavasi perchè la loro virtù fosse ben fondata e coraggiosa. Per quanto era possibile insisteva che i cantori appartenessero al Piccolo Clero, del quale voleva che la musica fosse un officio suo proprio. Quindi esigeva che il Catechista non pretendesse che coloro i quali avevano voce più armoniosa degli altri dovessero lasciare l'orchestra per servire all'altare, a meno che il maestro di musica dichiarasse non essere necessaria la loro presenza nel coro. - Ad essi, diceva, [792] si lasci il servizio delle sacre funzioni nelle feste secondarie, quando si eseguisce la messa in canto fermo.

                La prudenza suggeriva tale norma.

                I cantori, molto numerosi, sono i meno sorvegliati, nell'andare alla scuola di canto, nell'assistere alla lezione, nel ritornare alle ordinarie occupazioni, e nello stare in orchestra. Talvolta debbono anche recarsi nei vari paesi ove sono invitati per qualche solennità. È perciò necessario che siano i migliori e più divoti fra gli alunni per essere di edificazione al popolo. Infatti era ed è un efficace buon esempio, per una borgata o per una città, vedere tutti quei cantori fare al mattino la loro comunione con molto raccoglimento e poi cantare con tanta espressione di fede. Avviene anche che questi giovanetti, non potendosi in paese trovare luogo che basti per albergarli tutti insieme, sono ospitati a piccoli gruppi presso vari abitanti, lieti di aderire all'invito del parroco o del priore della festa. In questi casi può accadere che alcuno si trovi in qualche pericolo di offendere il Signore, per timidezza di carattere, mentre chi è forte e risoluto nel santo timor di Dio sa schermirsi dalle imprudenti e insidiose sorprese. Infatti si vide in certa occasione un nostro giovanetto cantore alzarsi in piedi e intimare silenzio a qualche amico del suo ospite, che, invitato a pranzo, incominciava discorsi sconvenienti. Un altro musico con assennate risposte ridusse a tacersi chi aveva preso a vilipendere religione e sacerdoti. Più volte, giunti questi buoni figliuoli a destinazione la vigilia di una festa nella sera del sabato, e andati ciascuno al domicilio che loro era stato fissato, alcuni trovarono preparata la cena con vivande di grasso.

                - Mangiate pure, diceva il padrone. Non abbiate scrupoli; D. Bosco non vi vede, non lo saprà. [793] Ma il giovane rispondere coraggiosamente: - D. Bosco lo so che non mi vede; ma vi è un altro che mi vede! Dio! - E contentarsi di pane e frutta.

                D. Bosco intendeva adunque che i cantori fossero una predica vivente nei luoghi ove andavano e che perciò appartenessero al Piccolo Clero. Così acquistavano simpatia e stima grande per l'Oratorio, e tanti piccoli aneddoti di virtù coraggiosa erano celebrati da tutti, anche da coloro che imprudentemente non avevano badato ai riguardi dovuti a fanciulli.

                Questa nuova scelta Compagnia del Piccolo Clero, il giorno della Purificazione di Maria SS., consacravasi al divin culto circondando in sacre divise l'altar maggiore, mentre due de' suoi membri servivano alla messa della Comunità, celebrata da D. Bosco. Il 31 gennaio però aveva già fatta la sua comparsa in presbiterio nell'ora delle solenni funzioni in onore di S. Francesco di Sales. Ma il servizio all'altare spettava ai chierici propriamente detti, i quali per lunghi anni ancora, non rinunziarono a tale onore. Di questa festa dà relazione l'Armonia nel suo numero di giovedì 4 febbraio 1858.

 

                E’ stata la domenica ora scorsa un giorno di solenne e lietissima festa pei buoni giovanetti dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Orazio, il quale aveva insegnato che omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, non si sarebbe pensato che il cristianesimo avrebbe suscitato di tali uomini, i quali per segreto e soave impulso della divina grazia, o, come altri direbbe, per felicità di natura, avrebbero in ogni atto largamente applicato quella sua massima, non per guadagnarsi gli applausi, ma per avviare turbe di gente sulla strada del cielo. E uno di cotali uomini è appunto l'egregio e benemerito sacerdote D. Bosco.

                Del che han potuto averne una prova quelli che ieri furono all'Oratorio. Si celebrava la festa del santo titolare di quella [794] chiesa e tutta la giornata fu così saviamente distribuita ed avvicendata in cose dilettevoli e sante, che essa passò tutta intiera come un momento a quella moltitudine di giovanetti. Vi fu sul mattino una comunione generale, alla quale si accostarono più di quattrocento fanciulli radianti nel volto per santo gaudio. Vi fu quindi messa solenne, stata cantata dal Prof. Ramello, che con amore e con gioia da circa un anno aiuta D. Bosco nella santa opera affidatagli dalla Divina Provvidenza. La musica dell'Orchestra era composta tutta di quei giovanetti, parte studenti, parte artisti, buoni in generale, alcuni ottimi. Chiunque conosca l'indole irrequieta e mobilissima dei fanciulli, avrebbe agevolmente fatto le meraviglie che regnasse in quella stipata chiesa tanto raccoglimento e tanta devozione e ciò senza gran numero di assistenti. Pure è così; basta a contenere nel dovere la virtuale presenza del caro lor Direttore. Il dopo pranzo fu rallegrato da belle e svariate sinfonie di quella banda, e reso incantevole da lieti ed onesti solazzi di tutta quella vivacissima turba. Dopo il vespro ebbe luogo il battesimo d'un moro adulto solennemente amministrato dall'Ill.mo e Rev.mo Mons. Balma stando a padrini il Conte e la Contessa di Clavesana, ai quali il suddetto moro va debitore della doppia sua redenzione temporale e spirituale. Compito il Santo Rito, Monsignore, salito all'altare, pronunziò non istudiate, ma commoventi parole in proposito, le quali furono con frutto e religiosamente ascoltate dall'affollata udienza,

                Terminate così le funzioni religiose colla benedizione del SS. Sacramento, si passò alla distribuzione dei premi, presieduta pur essa dall'esimio Prelato. I premiandi erano parte studenti e parte artisti, nè furono i superiori, che quelli aggiudicarono, ma il libero coscienzioso voto dei compagni. La solita banda rallegrava gli intermezzi. Fu chiusa la distribuzione con un canto popolare intitolato: Pianto dei Romani per la partenza di Pio VII, egregiamente eseguito dal giovane Tomatis Carlo con un coro di più di venti voci. Dovette allora Monsignore privare di sua presenza quella cara gioventù da lui, benedetta, ma certo porterà con sè lungamente tenera ricordanza di si devota e lieta funzione come resteranno incancellabili nel cuore di quei giovani e le savie sue parole e i paterni suoi modi.

                Restava ancora la rappresentazione d'un dramma intitolato: [795] Baldini, bellissimo soggetto morale ed educativo. Si tratta di un nobile cuore, che, trascinato dai cattivi consigli d'un compagno sulla via del delitto, giunge fino al segno di farsi capobanda di briganti. Ma la memoria di sua madre opportunamente rinverditagli, lo richiama all'onore e alla virtù. La capace e lunga sala, che serve di studio, illuminata a gasse fu prestamente convertita in teatro. I giovani attori si fecero tutti onore, ma sovra tutti si guadagnò la simpatia e gli applausi il sig. Fumero, stato allievo della Casa. Finito il dramma, e rialzato di nuovo il sipario, si vide sulla scena un'urna e un giovane che andava a depositarvi sopra una ghirlanda di fiori. Quando a poco a poco esce dietro dell'urna un'ombra biancovestita e con in mano una fiaccola che con bellissimo e funereo canto prese a rimproverare al giovane suo figlio le vanità de' suoi giacinti e la sterilità delle sue lagrime. Era l'ombra di Vinciguerra, e l'esecutore il già lodato Tomatis pittore.

                In cotal modo miscendo utile dulci, con grandissimo senno e con paterno amore l'esimio e reverendo D. Bosco seppe in un giorno solo santificare e rallegrare tanta gioventù, che egli ama come suoi figli e cui essi amano come lor padre.

 

                Intanto D. Bosco erasi affrettato a preparare e a consegnare a Paravia due altri fascicoli delle Letture Cattoliche, risoluto di portarsi ai piedi del Vicario di Gesú Cristo per trattare con lui del modo di rendere perpetua la sua iniziata società.

                Pel mese di febbraio era destinato il libretto anonimo: La Quaresima cristiana. Vi si leggono brevi ma importantissimi cenni storici e morali sull'osservanza del digiuno quaresimale, il quale ha origine dai tempi apostolici; sull'obbligo di fare la quaresima, sul modo di santificarla, sulle dispense e sugli indulti concessi dalla materna bontà della Chiesa.

                Riguardo a questo libro, ecco come. si esprime l'Armonia dell'II marzo: [796] Nella Quaresima cristiana l'autore seppe raccogliere il fiore di ciò che venne scritto sull'astinenza in generale, e sulla quaresima, spogliandolo di tutto ciò che avvi di troppo astruso o troppo erudito per l'intelligenza del comune dei lettori a cui questi libriccini sono diretti. Noi, che sappiamo anche un po' per esperienza quanto sia difficile il parlar di cose gravi e profonde al popolo, mandiamo le nostre congratulazioni agli scrittori delle Letture Cattoliche, i quali generalmente, sia per la scelta degli argomenti, sia per il modo di trattarli, sanno così bene acconciarsi alla capacità del popolo, trovando modo di istruirlo ed allettarlo perchè si lasci istruire.

 

                Pel mese di marzo si preparava la Vita dei Sommi Pontefici S. Aniceto, S. Sotero, S. Eleuterio, S. Vittore e San Zeffirino (F). Questo fascicolo benchè anonimo è certo essere uscito dalla penna di D. Bosco. Egli dimostra l'uso della confessione sacramentale essere stato in pieno vigore ne' tempi di questi Pontefici; scrive dei miracoli e della legione fulminante, delle eresie e delle morti sciagurate degli eresiarchi, del digiuno in preparazione alla Santa Messa, dell'astinenza dalle carni al venerdì, della Comunione pasquale, dei martiri di Lione e delle sante Felicita e Perpetua.

                 Era questo il primo fascicolo dell'anno sesto delle Letture Cattoliche, e D. Bosco nel mese di febbraio lo faceva precedere dal seguente appello:

 

                               Ai Benemeriti Corrispondenti ed ai Signori Associati.

 

                Mentre compiamo all'obbligo che ci corre di ringraziare i Signori Corrispondenti dello zelo con cui ci aiutarono anche in quest'anno alla propagazione delle nostre popolari pubblicazioni le Letture Cattoliche, abbiamo la dolce soddisfazione di annunciare loro che le medesime continueranno come per il passato.

                Le parole e le lettere di incoraggiamento che distinte persone [797] ben vollero indirizzarci, ci animarono a proseguire quest'opera di popolare istruzione in mezzo ai sacrifizi di ogni specie cui dobbiamo sottostare.

                Confidenti pertanto nella continuazione del concorso tanto dei benemeriti Corrispondenti quanto in quello dei Signori Associati, che caldamente imploriamo, noi apporteremo nell'anno VI che siamo per incominciare quei miglioramenti che sono compatibili sia riguardo la parte morale, sia riguardo la parte materiale dei fascicoli.

                Per questo però abbisognamo che nessuno degli associati ci abbandoni, che anzi vorremmo che ogni antico associato si adoperasse e fosse da tanto di procurarcene uno nuovo.

                Per questo non ci vuole che un po' di buona volontà, ed un po’ di zelo pel bene del nostro prossimo.

                Pur troppo sappiamo che in molti villaggi sono tuttora pressochè sconosciute le Letture Cattoliche, ma che vi penetrano cattivi giornali e libri scritti a bella posta per falsare la morale e corrompere i cuori. Ci duole all'anima che quei nostri fratelli abbiano il veleno e siano privi dell'antidoto.

                Supplichiamo pertanto e scongiuriamo i nostri confratelli sacerdoti a volersi adoperare onde ottengano le medesime tutta la possibile pubblicità, e ne avranno, speriamo, il merito agli occhi di Dio e della stessa società cristiana.

 

                NOTE. La direzione ha tenuto conto di tutti i consigli e suggerimenti, che tanto gli associati quanto i corrispondenti e gli amici le porsero per quei miglioramenti che sono possibili sia nella pubblicazione dei fascicoli, sia riguardo alla materia da trattarsi: la medesima sarà sempre riconoscente a coloro che le faranno amichevoli osservazioni.

                Preghiamo caldamente quei signori associati i quali non leggono i fascicoli o per mancanza di tempo o per la semplicità della materia che trattano, di non tenerli inoperosi ed ammucchiati nei loro scaffali, ma bensì di farli passare alle mani di coloro che non possono o non vogliono associarsi.

                Nell'uffizio della Direzione centrale delle Letture Cattoliche, via S. Domenico n. II in Torino, si trovano vendibili le operette già pubblicate negli anni precedenti. Coloro che acquistano [798] cinquanta copie di una medesima operetta avranno dieci copie gratis, e chi ne acquista cento ne avrà venticinque gratis. Le spese di posta o di porto sono a carico dei committenti.

 

                D. Bosco aveva così provvisto al bisogno di tale pubblicazione, ormai diffusa nella Lombardia, nella Toscana, nella Sardegna, nella provincia di Nizza marittima e nel Trentino, coi rispettivi centri di corrispondenza; ma egli finalmente non era più solo a prepararla. Un giovanotto di famiglia distinta, impiegato alle regie poste, fornito d'ingegno e di grande bontà, bene istrutto nella religione, che aveva frequentato l'Oratorio festivo ne' suoi primordi, Cesare Chiala, invitato da D. Bosco, già aiutavalo a preparar materiale per scrivere que' fascicoli; e poi continuava per più anni. Correggeva stampe, traduceva opuscoli dalla lingua francese. Vari libretti anonimi, sono opera sua, riveduti però da D, Bosco con grande diligenza. Alla sera, dopo aver pranzato colla sua signora madre in città, veniva in Valdocco, si ritirava in una cella per lui destinata e lavorava fino ad ora tardissima. Molte volte dormiva all'Oratorio, e al mattino faceva le sue divozioni in mezzo ai giovani con una pietà edificante. Era il buon esempio di tutti. Venuta l'ora della colazione, si rifocillava mangiando un po' di pane asciutto coi chierici e poi andava al suo ufficio delle Poste. Talora accompagnò D. Bosco ai Becchi, per continuare sotto la scorta del suo maestro quelle composizioni; ma anche qui si,contentava al mattino di mangiare pane scusso, e non voleva altro.

                Assicurato così il regolare andamento delle Letture Cattoliche anche pel tempo della sua assenza, D. Bosco ultimava eziandio qualche pratica presso il Governo in favore di ecclesiastici che valevansi del suo appoggio pel [799] conseguimento di qualche diritto o favore o per la rimozione di qualche ingiusto gravame.

                La seguente lettera, per riportarne una fra molte, è scritta in questi stessi mesi dalla consorte del Conte Ponza di S. Martino. La nobile signora assicurava D. Bosco di interessarsi per un affare riguardante il Canonico Degaudenzi, arciprete della Basilica Metropolitana di Vercelli.

 

                               Molto Rev.do Signore,

 

                Mi perdoni s'io l'incomodo mandandole la lettera pel signor Arciprete di Vercelli di cui temo non sapere fare bene la soprascritta non avendo sottocchio il suo nome, che fu da me consegnato, colla lettera ch'egli scrisse, a mio marito per gli appositi schiarimenti. Vorrei che la cosa riuscisse per questo principalmente che lo desidera V. S. M. Reverenda, per la quale io sono compresa non dico di quella stima, ma di quella ammirazione che si deve avere del suo nome fatto oramai sinonimo di vera carità cristiana. Epperò Ella ha singolarmente confortato l'animo mio, dicendomi che si ricordava dei miei figli nelle sue preghiere, ch'io tengo per loro come arra di grazia particolare del Signore. Il mio Coriolano si prepara per la prima comunione a questa Pasqua. Da quest'atto solenne forse dipende la sua futura condotta religiosa. Si pensi V. S. con che sollecitudine il mio cuore materno ne vegga approssimare il tempo, e se qualche esortazione, qualche santa parola di V. S. varrà ed infervorarlo, io ne La benedirò per tutta la vita. I miei figli sono la mia cura e la mia delizia, e se il Signore me li vuol render tutti veramente cristiani e religiosi, qualunque cosa mi avvenga di poi, Egli mi avrà sempre dato più che abbondantemente la mia parte di bene su questa terra. V. S. M. Reverenda mi perdoni la digressione e voglia Ella credere ai sensi del mio più profondo osseqnio.

 

MINERVINA DI S. MARTINO

nata Di BAGNOLA.

 

                D. Bosco intanto, previo consiglio di D. Cafasso e del teologo Borel, aveva scritto una seconda lettera a [800] Mons. Fransoni, esponendogli alquanto diffusamente il modo col quale intendeva fondare una Società religiosa di voti semplici, i membri della quale, anche dopo la professione, potessero godere di tutti i diritti civili, ed in riguardo alla legge dello Stato fossero liberi cittadini. Nello stesso foglio gli dava notizia come egli, per obbedienza alla sua raccomandazione, era sulle mosse per recarsi a Roma. L'Arcivescovo accolse di buon grado questa comunicazione di Don Bosco e dal luogo del suo esiglio lo munì dì un'ampia Commendatizia. In essa quell'ottimo Pastore rivelava la sua più alta benevolenza verso D. Bosco, ne esaltava la carità e lo zelo per la buona educazione della gioventù, segnalava il bene religioso e morale, che aveva già fatto in Torino coll'opera degli Oratorii, e rispettosamente, ma colla più viva istanza, pregava il Santo Padre, che gli fosse largo de' suoi illuminati consigli e dell'appoggio della suprema sua Autorità.

 

 

CAPO  LXIV. Preparativi della partenza per Roma - Commissione di D. Cafasso - Dolore e preghiere dei giovani - In treno: un giovanetto ebreo - Il Ch. Savio in Alessandria - A Busalla: un vecchio montanaro - Genova: D. Montebruno e il Collegio degli Artigianelli - Il Padre Cottolengo - In mare: trista notte per D. Bosco Livorno: un giovane cameriere compassionevole - Arrivo a Civitavecchia - La dogana - Visita al Delegato Pontificio - La S. Messa ai Domenicani - In vettura; a Palo; la ricetta per le febbri; - un carabiniere - Arrivo a Roma - Casa De Maistre.

 

                Don Bosco, fatte copiare con bel carattere dal chierico Turchi Giovanni le regole del suo ideato sodalizio, da presentarsi al Papa, il giorno 9 di febbraio otteneva dal Provicario Generale, il Canonico Celestino Fissore, licenza per iscritto di uscire e rimanere fuori diocesi per due mesi. Dal Governo procuravasi il passaporto. Aveva stabilito di andare a Roma per via di mare e fare ritorno per via di terra attraversando la Toscana, gli Stati di Parma, Piacenza, Modena e il Regno Lombardo Veneto. [802] Amici e lettere venivano ad augurargli un buon viaggio e a pregarlo di commissioni. In un biglietto così gli diceva uno dei più antichi catechisti dell'Oratorio:

 

                Il sottoscritto prega il M. R.do D. Bosco a voler celebrare una santa messa, ove gli sia possibile senza disturbo, a sua intenzione, all'altare di S. Francesco Zaverio nella Chiesa del Gesù in Roma il giorno 12 marzo; o se non può in tal giorno in uno dei giorni della novena che si fa al predetto santo detta della Grazia, la quale comincia il 4 e termina il 12 del detto mese.

                Torino, il 15 febbraio 1858.

 

ZAVERIO PROVANA DI COLLEGNO.

 

                Intanto i chierici e i giovani apparivano mesti per dover stare più mesi senza vedere il loro buon padre e D. Bosco per tranquillarli una sera diceva loro: - Voi siete inquieti temendo che qualora D. Bosco venisse a mancare, potreste rimanere abbandonati. Non istate in apprensione. In ogni cosa la volontà di Dio è sempre pel nostro meglio. Vi sono altri ottimi sacerdoti disposti a venire tra voi per esservi padre; e pochi giorni sono il Canonico Gastaldi, che voi conoscete, mi disse che non avrebbe nessuna difficoltà a stabilirsi nell'Oratorio e fare le mie veci. Il vostro avvenire è dunque assicurato. Tuttavia, se a voi rincresce la mia partenza, io pure sono dolente nel dovermi allontanare per qualche tempo da voi. Ma ciò io sono costretto a fare per vostro grande vantaggio. Uno dei motivi che mi conduce a Roma è quello di ottenere dal Papa speciali favori a parecchi dei vostri più insigni benefattori, i quali mi hanno promesso di continuare a soccorrervi. - E dopo aver parlato con entusiasmo del Papa, e fatte loro varie raccomandazioni pel mantenimento dell'ordine nella casa, li mandò a riposo. [803] Il Canonico Anfossi era presente a questo discorso, come pure il giovane Giacomo Costamagna di Caramagna, entrato pochi giorni prima nell'Oratorio, cioè il 12 febbraio.

                Disposta ogni cosa per la partenza, D. Bosco recavasi al Convitto Ecclesiastico per ricevere gli ordini e le commissioni di D. Cafasso, il quale gli consegnò una supplica pel Sommo Pontefice, della quale aveva già a lungo tenuto ragionamento col suo discepolo. Noi qui esponiamo il pensiero di D. Cafasso, ricavandolo dalla sua preziosa biografia scritta dal Can. Giacomo Colombero.

 

                L'ardente desiderio che D. Cafasso nutriva di assicurare a sè e ad altri l'ingresso immediato al Paradiso, senza toccare le pene del Purgatorio, lo portò a riflettere come non ostante le molte concessioni d'indulgenze plenarie in articulo mortis fatte dalla Chiesa, succede tuttavia non di rado che qualcuno muoia, senza conseguire così grande benefizio. E ciò o perchè manca il sacerdote ad impartire le necessarie benedizioni, o perchè il moribondo non ebbe cura di farsi iscrivere a tempo nelle compagnie arricchite dell'indulgenza plenaria in articulo mortis, ovvero perchè la morte sorprende in circostanze tali in cui è sprovvisto di oggetti indulgenziati, oppure anche sopravviene così improvvisamente da non lasciar tempo a compiere qualcuno degli atti ordinariamente richiesti dalla S. Chiesa per l'acquisto di tale indulgenza. Per queste condizioni egli pensò di far arricchire dell'indulgenza plenaria un atto tale che esercitato per una volta tanto in vita, perseverasse e si compisse a così dire di per sè nel momento del morire, cosicchè annessa l'indulgenza a tale compimento, la si conseguisse senza bisogno d'alcuna nuova azione da parte del moribondo. E studiando un atto capace di tali condizioni e di gran merito ad un  tempo, acciocchè fosse causa sufficiente per ottenere tale indulgenza, credette trovarlo nell'accettare mentre si è in vita qualunque genere di morte sia per piacere al Signore, ed accettarla per compiere la sua santa volontà. Compita questa risoluzione essa continua finchè non si revoca, perchè voluntas semel habita perseverat donec retractetur, dimodochè se soppravviene la [804] morte mentre uno è in tale stato di animo, essa resterà perciò stesso accettata nel momento in cui succede, ed ecco quindi compiuto l'atto cui è annessa l'indulgenza. Che questa accettazione poi sia un'azione di gran merito è dottrina chiara di sant'Alfonso il quale scrive che: “L'accettare la morte per adempire la volontà divina e dar gusto a Dio è un atto di virtù il più eccellente che esser possa (Vittorie dei martiri. Vol. I, Rifles. n. 24)”.

                Che se tanto è della semplice accettazione della morte in generale per adempire la volontà di Dio, più eccellente ancora si è l'accettare volentieri qualunque genere di morte allo stesso fine, perchè tale disposizione d'animo estendesi a qualunque morte per quanto dolorosa, ignominiosa e ripugnante all'umana natura.

                Ben ponderate tutte queste massime Don Cafasso pensò di domandare al Sommo Pontefice che l'atto d'accettare la morte con tutte le circostanze che giusta la volontà di Dio l'accompagneranno, ed accettarla per compiere il divino beneplacito fosse arricchito dell'indulgenza plenaria in articulo mortis, a nessun altra condizione che quella di tale accettazione fatta nel corso della vita e non revocata prima di morire.

 

                D. Bosco dopo aver promesso a D. Cafasso che avrebbe fatto del suo meglio per ottenergli dal Santo Padre un così segnalato favore, volle confessarsi. Fu sua pratica costante, ogni qualvolta si metteva in cammino per una regione alquanto lontana, accostarsi al Sacramento della Penitenza prima di partire, ancorchè non fossero ancor passati gli otto giorni dopo l'ultima sua confessione.

                Il domani, 18 febbraio, giorno per sempre memorando, D. Bosco si alzò di buonissima ora, e celebrò la Santa Messa. Nella notte era caduto quasi un palmo di neve, sopra due palmi che già coprivano il terreno; ma risoluto di partire egli pure, come usavasi in quel tempo dalle persone prudenti, prima di cimentarsi a questo viaggio, in allora abbastanza pericoloso, volle fare il suo testamento a fine, diceva egli, di non lasciare incaglio di [805] sorta intorno alle cose dell'Oratorio, qualora la Provvidenza volesse chiamarmi all'eternità, dandomi in cibo ai pesci del Mediterraneo. - Il notaio venne, ma in ritardo, e sebbene ci fosse necessità di trovarsi allo scalo della ferrovia per tempo, D. Bosco non volle differire questo affare. Buzzetti Giuseppe e Rossi Giacomo, il maestro della scuola diurna elementare, servirono di testimoni. La cosa fecesi con tutta fretta.

                Alle otto e mezzo del mattino, mentre ancora nevicava, colla commozione che prova un padre, D. Bosco si strappava da' suoi alunni. Molti di questi, vedendolo uscire dall'Oratorio, ne piangevano a calde lacrime, quasi temendo di non più rivederlo. Nell'uscir di casa D. Bosco, come quasi sempre, erasi munito del segno della Santa Croce dicendo: - Ed ora andiamo in nomine Domini e si affrettò per giungere alla ferrovia, non ostante che difficile fosse il camminare.

                Lo accompagnava come segretario il Ch. Michele Rua; ma come figli affezionati, cogli augurii più fervidi, colla mente e col cuore, gli fecero compagnia tutti i giovani dell'Oratorio. Da quel giorno, ogni mattina una eletta schiera dei più devoti facevano la santa comunione, moltissimi la visita al SS. Sacramento nelle ore di ricreazione, e non pochi praticavano eziandio varie mortificazioni, a fine di ottenergli un viaggio felice. Le preghiere ed i sacrifizi di tanti figliuoli affettuosi tornarono graditi al Signore, che li accolse e benedisse largamente il nostro buon padre.

                D. Bosco, giunto allo scalo, osservò se fosse arrivato il Ch. Angelo Savio; ma questi non compariva. Savio era stato il primo, fra quelli dell'Oratorio, nel subire, e con buon esito, l'esame per le patenti di maestro elementare; e [806] D. Bosco avevalo destinato a fare scuola per un anno in un Ospizio di carità pei poveri giovanetti nella di Alessandria, cui doveva eziandio prestare vigilante assistenza, della quale mancavano. Ei faceva quel sacrifizio per accondiscendere alle vive istanze degli amministratori di quell'Istituto, appoggiate probabilmente dal Canonico della Cattedrale, suo grande amico, Braggione Carlo. Il chierico Savio in quella stessa mattina doveva recarsi alla sua destinazione.

                A D. Bosco e al Ch. Rua si era unito per compagno di viaggio il Sig. D. Mentasti, eccellente pittore, al quale alcuni suoi quadri avevano procurato una bella fama.

                Alle dieci si ode il fischio della locomotiva. D. Bosco si era seduto vicino ad un fanciullo di dieci anni, e vedendolo grazioso e parlantino, intavolò tosto con lui un discorso. In breve dalle parole del padre che gli stava a fianco e dalle parole del fanciullo medesimo si accorse che era ebreo. Il padre lo assicurava che egli faceva la, quarta elementare; ma la sua istruzione non eccedeva quella della nostra seconda. Egli era però d'ingegno svegliato. Il padre godeva che D. Bosco lo interrogasse, e lo invitò a farlo ragionare intorno alla Bibbia. D. Bosco prese a fargli domande sopra la creazione del mondo, dell'uomo, sul paradiso terrestre e sulla caduta dei nostri progenitori. Il fanciullo rispondeva abbastanza bene; ma D. Bosco rimase molto meravigliato quando si accorse che egli non aveva alcuna idea del peccato originale e nemmeno della promessa di un Redentore.

                - Non c'è nella tua Bibbia, gli disse D. Bosco, quanto Iddio promise ad Adamo nell'atto che lo scacciava dal paradiso terrestre?

                - Non c'è, gli rispose il giovanetto; favorisca dirmelo. [807]

                - Ecco: Iddio disse al serpente: Perchè tu hai ingannata la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, ed uno che nascerà dalla donna ti schiaccerà il capo.

                - Chi è quest'uno di cui qui si parla?

                - Quest'uno è il Salvatore che doveva liberare il genere umano dalla schiavitù del demonio.

                - Quando verrà il Salvatore?

                - Non verrà più. Egli è già venuto, ed è quello che noi chiamiamo .......

                Qui il padre lo interruppe, e disse: - Queste cose noi non le studiamo, perchè non riguardano alla nostra legge.

                - Voi però fareste bene, gli osservò D. Bosco, di farle studiare, perchè sono contenute nei libri di Mosè e dei profeti a cui voi prestate fede.

                - Va bene, rispose l'altro, ci penserò; ma gli domandi qualche cosa d'aritmetica.

                Vedendo D. Bosco che l'Ebreo non desiderava che parlasse di religione a suo figlio, mutò ragionamento e gli fece vari discorsi intorno a cose indifferenti, in modo però che il padre, suo figlio ed altri che erano insieme in quello scompartimento ebbero a ricrearsi e a ridere non poco.

                Alla stazione di Asti il fanciullo doveva discendere, e non sapeva come distaccarsi da Don Bosco. Aveva le lagrime agli occhi, teneva per mano il buon prete e tutto commosso gli potè solamente dire: - Io mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo: si ricordi di me; andando a Torino spero di poterle fare una visita. -Il padre forse poco soddisfatto da quella dimostrazione di simpatia, per distrarre il figlio gli disse che, per secondare un desiderio da lui manifestato, aveva cercato in Torino la Storia d'Italia, ma che non gli era stato dato di poterla trovare in [808] nessuna libreria. Quindi rivoltosi a D. Bosco lo pregò di farne la ricerca e di mandargliene in regalo una copia; e D. Bosco promise che ritornato da Roma gli avrebbe spedita una Storia d'Italia composta per istruzione della gioventù.

                Ad Alessandria D. Bosco vide il Ch. Angelo Savio che usciva da un carrozzone e lo potè ancor salutare e dargli qualche avviso; la qual cosa gli fece piacere perchè si pensava che Savio non fosse giunto a tempo per la partenza.

                Dopo la stazione di Serravalle la macchina correndo velocemente tra le gole degli alti e ripidi Apennini, per viadotti e gallerie si fermò a Busalla. Qui salirono e si assisero vicini a D. Bosco due montanari. Uno di essi era pallido infermiccio e muoveva a pietà. L'altro aveva un'aria vivace e, sebbene toccasse i settant'anni, palesava la vigoria di un giovinotto di venticinque anni. Egli aveva le brache corte e le uose quasi sbottonate, in guisa che vedevansi le gambe, le ginocchia nude e sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia colla sola maglia e una giubba di grosso panno che portava come per cerimonia sopra le spalle. D. Bosco, che amava intrattenersi colla gente del popolo, dopo averlo fatto discorrere di varie cose gli disse: - Perchè non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo?

                L'altro rispose: - Veda, signore; noi siamo montanari e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Non ci accorgiamo quasi nemmeno della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano anche oggidì coi piedi nudi in mezzo alla neve e ci vanno anche per divertirsi senza badare al freddo o al caldo. - D. Bosco _poi diceva: - Da ciò ebbi prova novella che secondo [809] si dà più o meno al corpo, più o meno il Corpo è disposto a ricevere. Coloro che ad ogni cosa sensibile vorrebbero porvi riparo, si mettono nella necessità di patire gravi incomodi, a cui l'uomo abituato è insensibile.

                La neve intanto diminuiva a mano a mano che il treno si avvicinava alla riviera di Genova. Prima si videro ripe verdeggianti, poi giardini con fiori, e finalmente i mandorli fioriti e i peschi coi bottoni presso ad aprirsi. Ma ecco Genova, ecco il mare! e il treno entra nella stazione.

                Il cognato dell'Abate Montebruno con alcuni giovani attendeva D. Bosco e il Ch. Rua, che appena discesi, andò loro incontro con grande bontà, consegnò ai giovani i bagagli dei due viaggiatori, e questi condusse in Carignano all'Opera pia degli Artigianelli. D. Montebruno li accolse con festa; ma essendo già le tre e mezzo pom. e non avendo D. Bosco preso altro in tutto quel giorno che una tazza di caffè puro, si posero tosto a mensa e quindi visitarono la casa, le scuole, i laboratorii e i dormitori. Sembrava a D. Bosco di trovarsi nell'antica casa Pinardi, tanta rassomiglianza aveva questa con quella. Il numero dei ricoverati in Carignano era di trenta, e altri venti qui lavoravano e mangiavano, andando a dormire nella primiera abitazione in Canneto. Il loro vitto a pranzo era una capace scodella di minestra, e a colazione e a cena una pagnotta che mangiavano facendo ricreazione.

                Vista ogni cosa, D. Bosco intrattenutosi alquanto con D. Montebruno sui progetti di unione delle loro opere, uscì col Ch. Rua per la città; ma levatosi un vento molesto, dopo alcuni giri andò a S. Maria di Castello, ove i Domenicani hanno il loro convento. Il Padre Cottolengo, fratello del venerabile fondatore della Piccola Casa della [810] Divina Provvidenza in Torino, parroco di quella antichissima chiesa, usò tutte le finezze di cortesia ai due graditi visitatori, li fece servire di qualche bibita e li obbligò a stare con lui alla refezione e al riposo. Passarono una bellissima sera, e D. Bosco e il Padre Cottolengo rimasti soli protrassero la loro conversazione fino ad un'ora dopo la mezzanotte.

                Il mattino D. Bosco disse la S. Messa nella Chiesa dei Padri Predicatori ad un altare dedicato al B. Sebastiano Maggi, frate Domenicano morto da oltre tre secoli. Il suo corpo è un prodigio continuato, perchè si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti defunto da pochi giorni. Molti ex - voto e altri segni di grazie ricevute pendono intorno a quell'altare, oggetto di grande venerazione e méta di un concorso numeroso di fedeli, che vengono ad implorare le grazie del Signore, per intercessione del suo fedel servo.

                D. Bosco sperava di partire il giorno 19 al mattino, ma fu deluso nella sua aspettazione. Il vento contrario aveva impedito l'arrivo del bastimento, su cui egli doveva imbarcarsi e perciò suo malgrado dovette attendere fino al cader del giorno. Si può dire che le ventiquattro ore passate in Genova furono per lui una vera bilocazione. Col corpo era a Genova, ma col pensiero sempre a Torino, giacchè pensava che, previsto questo contrattempo, avrebbe potuto passare un giorno di più in famiglia.

                Trattavasi poi di andare a far vidimare il passaporto. Il cav. Scorza, Console Pontificio risiedente in Genova, accolse D. Bosco con molta cortesia e volle egli stesso spedire le carte alla polizia. Cercò pure di fargli avere qualche sconto sui posti del battello, ma non fu possibile. Perciò limitossi a dargli alcune commissioni per [811] Civitavecchia e per Roma, con una lettera commendatizia al Delegato Pontificio in Civitavecchia.

                D. Bosco adunque dopo di aver fissati i posti sopra il battello a vapore detto Aventino, andò a pranzo col suo chierico presso i padri Domenicani, che gli usarono mille gentilezze e gli diedero varie lettere per Civitavecchia e per Roma. Di qui ritornò col suo compagno sul colle di Carignano per congedarsi dal Montebruno; e alle sei e mezzo di sera dava l'addio a parecchi distinti ecclesiastici che eransi radunati nella casa degli Artigianelli per augurargli un buon viaggio. Fra questi era il santo prete, il zelantissimo apostolo dei fanciulli, ritornato da poco tempo dalle missioni di Aden nell'Arabia, D. Luigi Sturla.

                I medesimi giovanetti di quel Collegio, allettati e dalle buone parole di D. Bosco e dall'aggiunta che egli aveva fatto di una pietanza a sue spese al loro pranzo ordinario di quel giorno, erano diventati suoi amici. Sembrava che provassero rincrescimento nel vederlo partire. Parecchi di loro lo accompagnarono fin sulla riva del mare, e saltando con destrezza in una barchetta, vollero essi stessi remigando, condurlo al piroscafo. Il vento era assai gagliardo: i nostri due viaggiatori, non avvezzi al mare, temevano di essere capovolti ad ogni alzarsi di flutto; e i giovani ridevano.

                Dopo venti minuti, D. Bosco e il Ch. Rua, giunti al battello, montarono a bordo e portato il loro equipaggio in una sala, ambedue sedettero in silenzio per riposarsi dopo le scosse sofferte sulla barchetta, ed osservando curiosamente un luogo sul quale si trovavano per la prima volta. Questa fermata portò un inconveniente.

                Erano giunti là nel momento che i viaggiatori pranzavano, e ignari delle costumanze di bordo, non erano andati cogli altri. Quando fecero domanda di prender [812] cibo si udirono rispondere che le mense erano già sparecchiate. Il Ch. Rua perciò dovette cenare con una mela, una pagnottella ed un bicchiere di vino; D. Bosco pure mangiò un pezzetto di pane e bevette un sorso di quel vino.

                Dopo tale refezione andarono sul ponte per farsi un'idea dell'Aventino. Era una nave delle più grosse che fossero in porto. Soleva partire da Marsiglia, passava a Genova, a Livorno, a Civitavecchia, a Napoli, a Messina e quindi a Malta. Toccando di nuovo i medesimi porti faceva ritorno a Marsiglia.

                Intanto erano state assegnate ai due nostri viaggiatori le rispettive cuccette nella cabina. Erano le dieci, quando si tolsero le ancore e il battello, spinto dalla macchina e da un vento favorevole, cominciò a correre con grande velocità verso Livorno. In alto mare D. Bosco fu assalito dal male che cagiona il moto della nave, dal quale fu tormentato per circa due giorni. L'unica cosa che gli potè recare alcun conforto fu mettersi a letto e stare, quando lo stomaco glielo permetteva, col corpo lungo e disteso.

                La prima notte però quell'incomodo lo prostrò a segno da non poter più reggere nè in letto nè fuori di letto; gettatosi giù della cuccetta, andò a vedere se anche il Ch. Rua non patisse per qualche disturbo. Il buon figliuolo però, che non aveva sofferto alcun incomodo, ad eccezione di un po' di languidezza, si levò tosto e volle prestare a D. Bosco l'assistenza che in quel momento gli occorreva.

                Sul fare dell'alba del 20 febbraio il piroscafo entrava nel porto di Livorno. I passeggieri potevano smontare a terra e fermarsi dalle sette del mattino fino alle cinque della sera, a condizione però di far vidimare il passaporto; e ciò importava pagare diritti, mance e soffrir noie che non aveano più fine. [813] Sebbene D. Bosco desiderasse di visitare la città, dire messa e andare a salutare qualche amico, tuttavia nol potè fare. Anzi, dopo esser venuto sul ponte per qualche istante, dovè ritornare nella sua cuccetta, rinunziare ad ogni sorta di alimento e starsene alla buona ventura. Un giovane cameriere intanto, per nome Charles, cominciò a guardarlo con occhio di compassione. A quando a quando gli andava vicino offrendogli il suo servizio. D. Bosco vedendolo così buono e cortese si fece a discorrer con lui, e fra le altre cose gli domandò, se non temesse di esser deriso venendo spesso a visitare il prete, mentre era osservato da molti signori. - No, rispose il cameriere in lingua francese, vede che nessuno fa le meraviglie, anzi tutti lo mirano con bontà, mostrando desiderio di poterlo in qualche modo sollevare. D'altronde la mia buona madre mi ha tante volte raccomandato di usare gran rispetto ai preti e che questo era un mezzo per guadagnarci la benedizione del Signore.

                Il bravo Charles, sempre nel desiderio di sollevare D. Bosco, andò a chiamare il dottore di bordo. Il dottore venne e le sue maniere affabili sollevarono alquanto il paziente.

                - Comprendete il francese? disse il dottore.

                - Io comprendo, disse D. Bosco, tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, fino al linguaggio dei sordomuti. - D. Bosco diceva questo per sollevarsi un po' da una specie di letargo che pareva lo sorprendesse. L'altro comprese la facezia e si mise a ridere, dicendo: Peut ètre, peut ètre! - Intanto si fece ad esaminare lo stato dell'infermo e gli disse che al mal di mare erasi aggiunta la febbre, cagionata da traspirazione soppressa, e che una bibita dì the gli avrebbe fatto bene. D. Bosco [814] ringraziò il dottore e gli chiese il suo nome. - Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia.

                Charles, attento agli ordini del dottore, in brevi istanti apparecchiò a D. Bosco un'ottima tazza di the, di lì a poco un'altra e poi un'altra. Questa bibita lo confortò veramente e rompendo in un tenue sudore potè prendere un po' di sonno. Ma intanto giungevan le cinque, e tolte le ancore il piroscafo fu in alto mare. Di nuovo D. Bosco fu sorpreso dal vomito, che con sforzi ancor più violenti lo agitò intorno a quattro ore; dietro a cui e per lo sfinimento di forze e perchè non aveva più nulla nello stomaco e forse anche perchè già alquanto abituato all'ondulazione del bastimento, si addormentò, e con un sonno tranquillo riposò fino alle sei del mattino, ora dell'arrivo al porto di Civitavecchia.

                Il riposo avevagli ridonato le forze, sebbene fosse sfinito dalla lunga privazione di cibo. Mentre i viaggiatori ponevano sesto ai loro bagagli, il capitano del bastimento era andato a consegnare i loro passaporti alla Polizia, e ritornato consegnò a tutti un biglietto che loro permetteva di prendere terra.

                D. Bosco raccontava poi a' suoi giovani come fosse entrato in Civitavecchia. - Scesi nella barca, e da questo momento spese sopra spese. Una lira caduno pel barcaiuolo, mezza lira pel bagaglio che ciascuno portava sulle proprie spalle, mezza lira di mancia alla dogana, mezza all'ufficio della vettura per visitare i passaporti, mezza per chi ci invitava a prendere la sua carrozza, mezza pel facchino che aveva posto i bagagli sulla vettura, due lire pel visto della polizia sul passaporto, una lira e mezzo al Console Pontificio. Fatto sta che non si trattava di altro che di tener [815] la borsa aperta e parlare e tosto pagare. E la mia borsa non era certamente troppo ben provvista. Si aggiunga ancora che, variando le monete di nome e dì valore, si doveva sempre stare al giudizio di chi era compiacente di farcene cambio. Però la dogana rispettò un pacco indirizzato al Card. Antonelli col bollo Pontificio, entro cui io aveva posto le mie cose e carte di maggior importanza; anzi i doganieri furono abbastanza gentili da non farmi aprire i sacchi de' miei bagagli, riputandomi un galantuomo incapace di fare frode.

                Essendo giorno festivo e l'incomodo del mare avendo impedito a D. Bosco di celebrare la S. Messa, egli si diede premura di informarsi ove avrebbe potuto ascoltarla, e udito che rimanevagli un intervallo di tempo, andò a far visita al Delegato Pontificio, che gli fece molte e buone accoglienze, offrendosi in tutto quello che potesse aver bisogno di lui. Osservando poi il nome di Don Bosco nella lettera del console di Genova, disse che aveva più volte sentito a parlare di un D. Bosco di Torino, e chiese a lui stesso se per caso conosceva quel sacerdote piemontese. D. Bosco ridendo, rispose: - Io sono quel desso! -Dopo alcuni brevi quesiti, il Delegato invitò D. Bosco a passar nuovamente da lui al ritorno; e si congedarono.

                Di qui D. Bosco recossi col Ch. Rua al convento di S. Domenica per ascoltare la S. Messa. Entrarono in chiesa al momento che dovevasi incominciare la messa cantata. Ammirò il contegno di quelli che intervenivano e grandemente lo soddisfece il canto che ivi era eseguito. Le intonazioni erano regolari, le voci chiare d'accordo e sonore: l'insieme poi unito ad una musica semplice formava una tale armonia, che appagava la divozione. [816] Intanto D. Mentasti era tutto in furia perchè non trovava i due suoi compagni di viaggio, essendo pronta per partire la vettura postale. D. Bosco e Rua avvertiti corsero per recarsi al luogo indicato, e saliti nel cuopè della vettura, tirata da sei robusti cavalli, presero la strada da Civitavecchia per Roma. La distanza tra queste due città è di quarantasette miglia italiane, che corrispondono a trentasei miglia piemontesi. La strada era molto amena, i prati e le ripe verdeggianti e coperte di fiori. D. Bosco dimostrava una viva gioia con osservazioni argute ed amene.

                Frattanto dopo aver percorse diciotto miglia, sempre sulle rive del Mediterraneo, i nostri viaggiatori entrarono in un piccolo paese detto Palo.

                Quivi il vetturino invitò i passeggeri a discendere perchè intendeva di far riposare i cavalli e dar loro la biada. Dovendo la fermata durare un'ora, D. Bosco il Ch. Rua e D. Mentasti se ne giovarono per entrare in una vicina locanda. Il mal di mare, le faccende alla dogana, la smaniosa premura che aveva D. Mentasti di lasciare Civitavecchia loro avevano impedito, anzi fatto quasi dimenticare di prender cibo. La mensa fu subito apprestata e i tre viaggiatori affamati si misero intorno alle pagnottelle e mangiarono tutto quello che loro fu portato davanti.

                Intanto l'uomo che li aveva serviti erasi rannicchiato in un angolo della sala ravvolto nel mantello, scarno, sfinito, tremante e pallido, sicchè sembrava l'immagine della morte. Costui a metà del pranzo si avvicinò a D. Bosco egli disse: - Ella, Reverendo, ha patito mal di mare, non è vero?

                - Verissimo; ed ora mi sento grande appetito, rispose D. Bosco.

                - Ebbene, Reverendo, ascolti me: non mangi più; [817] maggior cibo le arrecherebbe fastidio e danno; ora ha mangiato abbastanza: io sono pratico di queste cose.

                D. Bosco lo ringraziò, ed entrato con lui in discorso venne a sapere essere quell'uomo il padrone dell'albergo e da molti mesi essere preso da febbri così terribili da sentirsi ridotto in fin di vita.

                - Conoscerebbe ella forse qualche medicina pel mio male? chiese l'albergatore.

                - Sì che l'avrei, rispose D. Bosco.

                - Oh se mi favorisse! Le assicuro che gliene sarei molto grato.

                - Io l'ho; ma prima avrei bisogno di sapere, se parlo con un buon cristiano.

                - Si, che sono cristiano.

                - Ebbene fin da quest'oggi incominciate a dire un,Pater ed un'Ave in onore di San Luigi e una Salve Regina alla Vergine SS., e ciò per tre mesi. Domenica andate a fare le vostre divozioni, e se avete fede state sicuro che la febbre vi lascia.

                - Le mie divozioni è da un po' di tempo che non le ho più fatte.

                - Appunto per questo, concluse D. Bosco, e abbiate fiducia in Dio. Intanto lasciate fare a me, soggiunse; vi prescrivo una ricetta che vi caccerà per sempre lontano il malanno delle febbri.' -Preso quindi un pezzetto di carta, scrisse colla matita la sua ricetta, raccomandandogli di portarla a qualche farmacista. L'albergatore era trasportato fuori di sè dalla gioia. Non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mano a D. Bosco.

                Fu pure amena la conoscenza ivi fatta con un carabiniere pontificio di nome Pedrocchi. Egli pensavasi di [818] conoscere D. Bosco, e a D. Bosco parve di conoscere lui: con aria di festa sì salutarono. Dopo si avvidero dello sbaglio, ma l'amicizia, le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono. D. Bosco per compiacerlo dovette permettergli che pagasse a lui una tazza di caffè ed egli pagò al carabiniere un rhum. Richiesto poi D. Bosco dal nuovo amico di una qualche divota memoria, gli diede una medaglia di S. Luigi Gonzaga. La serena cordialità di D. Bosco in qualunque luogo egli mettesse il piede, attirava sempre a lui novelli amici in ogni ordine di persone.

                Montati i viaggiatori nuovamente in vettura e volando più col desiderio che col corso dei cavalli, pareva loro ad ogni momento di essere a Roma. D. Bosco non risentivasi del moto della carrozza. Intanto si faceva notte; per l'oscurità nulla sì poteva scorgere, e continuò la corsa fino alle dieci e mezzo della sera.

                Un certo brivido sorprese i viaggiatori al pensiero che entravano nella Città Santa. Uno diceva: - Siamo a Roma! - Un altro: - Siamo nella terra dei santi! - Fra queste e consimili espressioni pervennero ove il vetturino aveva il suo luogo di fermata.

                D. Bosco era giunto alla città dei Papi il 21 febbraio. Non avendo egli alcuna conoscenza del luogo, cercò una guida che per dodici baiocchi lo accompagnò alla casa abitata dal Conte De - Maistre, via del Quirinale n. 49 alle Quattro Fontane. D. Bosco e i suoi compagni giunsero là alle undici, e furono accolti con tanta bontà dal Conte Rodolfo e dalla Contessa; gli altri della famiglia erano già a riposo. Preso un po' di ristoro, si ritirarono anche essi nelle stanze loro assegnate.

 

 

CAPO LXV. La prima messa di D. Bosco in Roma - Una predica del P. Rossi al Gesù - Il Panteon - S. Pietro in Vincoli - Visita al Card. Gaude -Il Marchese Patrizi e le Conferenze di S. Vincenzo - S. Maria Maggiore - Le reliquie di S. Galgano - Una Messa a Santa Pudenziana - Santa Prassede - Il Battistero di Costantino - La Basilica di S. Giovanni in Laterano - La Scala Santa - Prima visita alla Basilica Vaticana - L'Ospizio di Tata Giovanni - Predica del P. Curci - Udienza dal Card. Antonelli - Ospizio di S. Michele e il Cardinale Tosti - Il Campidoglio.

 

                Don Bosco aveva preso alloggio in quella parte dei monte Quirinale detta le Quattro Fontane, perchè quattro fontane perenni zampillano dagli angoli di quattro contrade che ivi mettono capo. Il Conte Rodolfo De Maistre, la signora contessa e le loro buone figliuole, i loro figli Francesco, Carlo ed Eugenio uffiziale nelle truppe Pontificie lo trattavano con una attenzione ed una carità pari alla stima e all'antica amicizia che gli professavano. Non avevano cappella in casa, ma all'uopo D. Bosco poteva celebrare la Santa Messa in quella di [820] certe suore del Belgio, le quali occupavano un appartamento nel medesimo palazzo.

                Il Ch. Rua per qualche giorno abitò con D. Bosco, ma poi andò a prendere ospizio dai Rosminiani in via Alessandrina n. 7. Il Padre Pagani, Generale della Congregazione dei Preti della Carità, lo aveva accolto volentieri e gli usava molti riguardi.. Quivi albergava eziandio il Teol. Colli Canonico della Cattedrale di Novara, che fu poi Vescovo d'Alessandria.

                Il mattino dopo il suo arrivo, 22 febbraio, D. Bosco accompagnato dal Ch. Rua e dal Conte Rodolfo De Maistre, si recò per celebrare la Santa Messa alla vicina chiesa dedicata a S. Carlo, uffiziata da religiosi tutti spagnuoli, appartenenti all'Ordine della Redenzione degli schiavi.

                Desiderando quindi di udire qualche predica, poichè si era in quaresima, ed egli fu sempre avido della parola di Dio, si recò alla chiesa del Gesù ad ascoltare il Padre Rossi, il quale prese per argomento: Le tentazioni. La gravità della persona, la voce grata e insinuante, la purezza di lingua, la grazia nell'esporre, e, quel che è più, l'unzione, gli affetti per la salute delle anime, che naturalmente sgorgavano dal cuore, erano le qualità del predicatore; e D. Bosco ne fu pienamente soddisfatto.

                Ritornato a casa, il resto del giorno lo impiegò nel disporre tutte le cane che aveva portate con sè, mandò il Ch. Rua a consegnare lettere al loro ricapito, e recossi al Convento dei Domenicani a S. Maria sopra Minerva per visitare il Card. Gaude, il quale però era uscito. Infine approfittando di un'ora che rimaneva ancora prima del tramonto, andò al Panteon, uno dei monumenti più antichi e più celebri di Roma pagana, dedicato al culto del vero [821] Dio, di Maria SS. e di tutti i Santi dal Pontefice Bonifacio IV. Fu chiamato Sancta Maria ad Martyres perchè il detto Pontefice vi fece trasportare dalle catacombe ventotto carri di reliquie, le quali collocò sotto l'altar maggiore.

                Ritornato alla propria stanza, ordinò il suo programma che fu: mettersi in relazioni con ragguardevoli personaggi dell'alma città e colla loro scorta incominciare subito le, sue visite ai luoghi più celebri, ai santuari, alle basiliche, alle chiese che s'incontrano ad ogni passo. La sua divozione ardente aveva bisogno di uno sfogo, la sua intelligenza desiderava contemplare le opere che i Papi avevano innalzate in Roma, la sua memoria fra i ruderi maestosi dell'impero anelava ad evocare le scene mirabili dei gloriosi martirii. Era suo impegno far acquisto di esatte cognizioni per continuare a scrivere le Letture Cattoliche, specialmente quelle che trattavano della Storia Ecclesiastica e della vita dei Papi. Bramoso di visitare tutto minutamente, anche le meraviglie dell'arte antica e moderna, decise di consacrarvi un mese intero senza altre distrazioni.

                Il Ch. Rua doveva essergli e gli fu di grande aiuto, poichè anche abitando presso i Rosminiani, recavasi quasi tutti i giorni al palazzo dai De - Maistre, e D. Bosco gli dettava molte note intorno a ciò che aveva appreso, o vedendo, o leggendo, ovvero ascoltando dalle persone bene istrutte intorno alla storia ed alle tradizioni dell'eterna città. Ne risultò una memoria tuttora inedita, ricca di preziose notizie, colla scorta della quale noi seguiremo passo passo il nostro D. Bosco, omettendo ogni descrizione che ci allontani dal nostro scopo. Il Ch. Rua accompagnavalo sovente nelle sue escursioni e gli prestava mano a sbrigare la corrispondenza. Un altro lavoro procuravagli D. Bosco, [822] poichè nelle ore libere o nei giorni di pioggia, egli componeva un nuovo Mese di Maggio in onore di Maria SS. ed il Ch. Rua portando con sè i fogli scritti e corretti, con molte cancellature ed aggiunte, li ricopiava in nitidi caratteri per mandarli al tipografo torinese.

                Il 23 febbraio D. Bosco fu molto consolato della visita fatta a S. Pietro in Vincoli, posta al mezzodì della città, chiesa affidata ai Canonici regolari di S. Agostino. Si crede, per costante tradizione, che il primo Vicario di Gesù Cristo abbia eretta in questo sito la prima cappella cristiana. Il giorno era memorabile, perciocchè si potevano vedere le catene di S. Pietro, sorte che avviene assai di rado. D. Bosco e il suo chierico ebbero adunque la fortuna di toccarle colle loro mani, baciarle, mettersele al collo e sulla fronte.

                Usciti dalla chiesa muovevano i primi passi per ottenere una protezione necessaria nelle pratiche per l'approvazione delle regole della Pia Società. Verso le nove si portarono alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, così detta perchè costrutta sopra le rovine di un tempio dedicato a tale Dea. Entrati nel convento, furono accolti con somma bontà dal Card. Gaude, che quivi aveva la sua dimora e li attendeva. Quel porporato, che era in ottima relazione con D. Bosco, lo trattenne ad udienza privata circa un'ora e mezzo. Egli si compiaceva di parlare il patrio dialetto piemontese, lo interrogava intorno alle cose degli Oratorii festivi, chiedeva altre notizie più essenziali sulle condizioni della Chiesa negli stati sardi e ascoltava benignamente ciò che D. Bosco gli disse sulle Costituzioni che aveva seco portate. Colle sue parole e co' suoi modi dimostrava che l'alto grado del quale era insignito non aveva alterato punto la sua umiltà, e nemmeno gli aveva [823] fatto diminuire l'amor patrio e l'affezione verso i suoi antichi amici. In occasione di questa visita e in tutto ciò che poi occorse a D. Bosco nel trattare col Cardinale, gli die' aiuto il Padre Marchi Domenicano, che per lui ebbe molta deferenza e si offrì pure di servirlo in tutto quello che gli sarebbe potuto occorrere durante il suo soggiorno in Roma.

                Dopo il mezzo giorno andò a fare una visita al Marchese Giovanni Patrizi, nipote del Cardinal Vicario, che dimorava nella piazza detta di S. Luigi de' Francesi. Don Bosco gli consegnò una lettera del Conte Cays e quindi tenne con lui un lungo ragionamento sulla società di S. Vincenzo in Roma, della quale il Marchese era un presidente dei più animati. Venne così a conoscere che vi erano quindici conferenze, che abbondavano tutte di mezzi pecuniari, e provò viva soddisfazione nell'apprendere che estendevano eziandio le sollecitudini dei confratelli al patronato dei giovani abbandonati, pei quali nell'anno scorso avevano spese duemila lire.

                Di fronte al palazzo Patrizi sorge la splendida chiesa di S. Luigi de' Francesi; D. Bosco dopo averla visitata, si avviava alle quattro fontane, stanco per aver anche eseguite alcune delle molte commissioni che gli erano state affidate prima di partir da Torino. Quand'ecco ode il saluto di una voce amica. Era il Padre Bresciani Gesuita, il quale lo invitò a recarsi all'ufficio della Civiltà Cattolica ove lo attendevano altri padri della Compagnia. E Don Bosco promise che avrebbe ciò fatto nei giorni seguenti.

                Il 24 febbraio egli entrava nella famosa basilica di Santa Maria Maggiore costrutta per comando della Madonna sul monte Esquilino, ove il 4 agosto del 352 cadde miracolosamente e abbondante l'annunziata neve. Qui [824] venerò la santa culla del Salvatore, il teschio dell'Apostolo Mattia esposto nella cappella sotto l'altare papale, essendo tempo di stazione; e un dipinto attribuito a S. Luca che rappresenta la S. Vergine.

                Alla sera, dopo il pranzo di magro stretto, come era prescritto in Roma in tutti i mercoledì di quaresima, si venne a parlare da' suoi nobili ospiti di questa legge rigorosamente osservata da ogni classe di persone, a segno che nelle pubbliche piazze e nelle botteghe neppur troverebbesi a comperare carne, uova, butirro. Ne venne per conseguenza il riflettere l'abborrimento che nutrono i protestanti contro la mortificazione cristiana, le reliquie dei santi, ricordo di eroiche sofferenze e a tutto ciò che sa di penitenza e di soprannaturale.

                La Signora Francesca De - Maistre raccontò allora un fatto degno di memoria.

                - L'anno scorso fu qua il Vicario Generale di Siena. Fra le altre cose che egli soleva raccontare fu quella che riguarda S. Galgano soldato. Questo Santo è morto da più secoli, e il suo corpo si conserva intatto; ma la meraviglia si è che ogni anno gli si tagliano i capelli, i quali crescono insensibilmente e tornano della stessa lunghezza nell'anno seguente. Un protestante, udito un tal prodigio, prese a ridere e disse: - Lascino sigillare a me l'urna del capo, e se i capelli crescono ugualmente, io riconosco il dito di Dio nel prodigio e mi faccio cattolico. Riferita la cosa al Vescovo: -Sì, tosto rispose; io metterò i sigilli vescovili per l'autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu. Ma il protestante impaziente di vedere se il prodigio incominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l'urna del Santo. Ma quale non fu la sua meraviglia quando vide i capelli [825] di S. Galgano cresciuti già ad una considerevole lunghezza con quella stessa proporzione che se egli fosse ancora vivente!? - Verità, verità! egli esclamò; io sono cattolico! - Difatti l'anno seguente, al giorno della festa del Santo, egli colla sua famiglia abiurò gli errori di Calvino e di Lutero, ed abbracciò la religione cattolica, che al presente professa con esemplarità.

                Il 25 febbraio D. Bosco andò alla chiesa di Santa Pudenziana, costrutta alle radici del Viminale, sul luogo ove fu alloggiato S. Pietro, quando venne a Roma, nella casa del Senatore Pudente. Nella chiesa vi è un pozzo, in fondo al quale si vede una quantità di sacre reliquie, e la storia narra che ivi furono nascosti, per essere seppelliti, i corpi di tremila martiri. Don Bosco celebrò la santa messa, con grande divozione, ad un altare sopra il quale si crede aver offerto, S. Pietro il divino sacrifizio, posto in una cappella di forma molto oblunga a fianco dell'altar maggiore. In un'altra cappella si conserva il testimonio di un miracolo del SS. Sacramento. Dubitando un Sacerdote celebrante dell'esistenza di Gesú nell'ostia consacrata, questa gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento fece due balzi sui gradini di marmo. Il primo gradino fu quasi forato, e nel secondo si formò una cavità assai profonda avente la forma di un'ostia. Questi due marmi sono conservati nel luogo medesimo e custoditi con appositi cancelli.

                Da Santa Pudenziana D. Bosco saliva il colle Esquilino ed entrava nella chiesa di Santa Prassede che, sorge a poca distanza di S. Maria Maggiore. Quivi nelle terme di Novato, fratello di Prassede, si rifugiavano gli antichi fedeli in tempo di persecuzione. La Santa si adoperava a fornir loro quanto occorreva: trafugava i corpi dei martiri che seppelliva, e il loro sangue colle spugne e le zolle [826] che lo avevano raccolto lo riponeva nel pozzo che ora sta in mezzo alla chiesa. In una cappella si conserva una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che si ritiene per quella a cui fu legato il divin Salvatore nel tempo della flagellazione.

                Dal monte Esquilino D. Bosco passava al colle detto Celio. Visitato il Battistero di Costantino, che è una vasca di gran larghezza lavorata di marmi preziosi collocata in mezzo alla chiesa di S. Giovanni in fonte, traversata una vasta piazza, salutato l'obelisco egiziano, sormontato da un'alta croce, D. Bosco s'innoltrava nella celeberrima prima e principale chiesa del mondo Cattolico, la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa è la sede del Romano Pontefice come Vescovo di Roma, e dopo la sua esaltazione ne prendeva solennemente possesso. Qui è custodito, sotto l'altar maggiore, il capo dei due principi degli apostoli S. Pietro e S. Paolo, e conservasi una tavola, quella medesima su cui Gesù Cristo celebrò l'ultima cena co' suoi Apostoli.

                Uscito da questa immensa basilica a cinque navate, attraversò la piazza e si recò all'edifizio costrutto da Sisto V per la Scala Santa. È  formata di ventotto gradini di marmo bianco, gli stessi che erano alla casa di Pilato in Gerusalemme e pei quali il divin Salvatore salì e discese più volte in tempo della sua passione, lasciandovi le vestigia de' suoi piedi sanguinosi. Queste si veggono per mezzo di fori aperti ne' grossi tavoloni di legno che ricoprono i gradini, incavati pel gran numero di Cristiani che li hanno saliti in ginocchio. Si discende per una delle quattro scale laterali e alla sommità vi è la celebre cappella domestica dei Papi, ripiena delle più insigni reliquie. Il 26 febbraio D. Bosco, accompagnato dal signor Carlo [827] De Maistre e dal Ch. Rua, si diresse al Vaticano, colle il quale contiene quanto vi ha di più memorabile nella religione, di più eccellente nelle arti. Passando sopra il ponte Sant'Angelo recitarono il Credo per acquistare i cinquanta giorni d'indulgenza concessi dai Sommi Pontefici; e salutata la statua di S. Michele, dominante la mole Adriana ridotta a fortezza, eccoli sulla gran piazza della Basilica. In questo spazio fu il circo nel quale Nerone condannava i cristiani al supplizio del fuoco. Ora è circondato da 284 colonne con 88 pilastri disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file che dividono il porticato in tre ambulacri, dei quali il più ampio nel mezzo può dar transito a due carrozze; sopra il colonnato campeggiano 96 statue di santi. In fondo alla piazza una magnifica gradinata mette al vestibolo del tempio, tutto adorno di marmi, di pitture statue ed altri ornamenti. Superiormente è la gran loggia per la benedizione papale. Tutta quella facciata maestosa ed imponente regge tredici statue colossali, rappresentanti il Salvatore con a destra S. Giovanni Battista, e gli Apostoli, meno S. Pietro, disposti ai lati. Nel centro della piazza fiancheggiato da due meravigliose fontane, che gettano continuamente a grande altezza torrenti di acqua, s'innalza un obelisco egiziano, sormontato da una croce, nel mezzo della quale è incassato un pezzo del Santo Legno. Don Bosco e i suoi compagni si levarono il cappello e gli fecero riverenza, lucrando con quest'atto altri cinquanta giorni d'indulgenza.

                La Basilica ha cinque porte; chiunque la visita in qualsiasi giorno dell'anno, può guadagnare l'indulgenza plenaria, purchè abbia premessa la Confessione e la Comunione.

                D. Bosco appena vi entrò, a tanta magnificenza ed immensità rimase buon tratto di tempo come estatico, [828] senza proferir parola; e la prima cosa che lo colpì furono le statue in marmo dei fondatori degli Ordini religiosi, intorno ai pilastri della navata maggiore. Gli parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della Basilica nella nave maggiore, dalla porta di bronzo alla cattedra di S. Pietro, è di metri 185,37 el'altezza fino alla volta di 46. È  il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro, il più vasto è quello di S. Paolo in Londra. - Se a questo, diceva D. Bosco scherzando, aggiungiamo la chiesa del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza della Basilica Vaticana. - Ciascuna cappella ha le dimensioni di una chiesa ordinaria.

                D. Bosco incominciò a visitare la navata minore a diritta entrando, ed esaminò in ogni sua parte cappella per cappella, altare per altare, quadro per quadro. Osservò ogni statua, ogni bassorilievo, ogni mosaico; contemplò le tombe così splendide di vari Papi. Fra queste notò quella della famosa Matilde contessa di Canossa, la quale sostenne l'autorità Pontificia contro Enrico IV imperatore di Germania; e l'altra di Cristina Alessandra regina di Svezia, che, essendo protestante, conosciuta la falsità di quella setta, rinunziò al trono per farsi cattolica, morendo in Roma nel 1655. D. Bosco di ogni cosa prendeva e scriveva memoria, con dati storici; ma sopratutto appagava la sua devozione.

                Entrò nella cappella detta della colonna santa, ove si conserva una colonna qui trasportata dal tempio di Gerusalemme a cui si appoggiò Gesù Cristo allorchè predicava alle turbe. Si ammira che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai coperta di polvere.

                Si mise in adorazione nella cappella del SS. Sacramento, il cui altare è dedicato a S. Maurizio e a' suoi compagni [829] martiri che sono i protettori principali del Piemonte. Accanto a questo altare avvi uno scalone per cui si ascende al palazzo pontificio.

                Nella cappella gregoriana osservò venerata sull'altare un'antica immagine di Maria SS., opera dei tempi di Pasquale II eletto nel 1099.

                L'ultima stazione in quella chiesa la fece innanzi alla tribuna principale detta della Cattedra, posta in fondo allo spazio che forma come il coro dell'altare papale. Sono quattro statue gigantesche di metallo, sopra un altare che sorreggono una gran sede pontificale della stessa materia. Le due anteriori rappresentano S. Ambrogio e S. Agostino; le due posteriori S. Atanasio e S. Giovanni Grisostomo. Incassata nella sedia di bronzo se ne conserva, come preziosa reliquia, una di legno intarsiata d'avorio a vari bossorilievi. Questa sedia appartenne al Senatore Pudente, e servì all'Apostolo San Pietro e a molti altri Pontefici dopo di lui.

                Venerato quel simbolo dell'infallibile magistero della Chiesa, D. Bosco ritornò a prostrarsi innanzi alla Confessione  di S. Pietro; quindi si recò a piegare il capo dinanzi alla statua in bronzo del Principe degli Apostoli collocata presso un pilone a destra, e a baciarne rispettosamente il piede, che sporge alquanto fuori del piedestallo, in gran parte consumato dalle labbra dei fedeli. È  una statua fatta gettare da S. Leone Magno, servendosi del bronzo di quella di Giove Capitolino, in memoria della pace ottenuta da Attila.

                Scoccavano le cinque pomeridiane, e D. Bosco sentivasi molto stanco, poichè dalle undici del mattino egli, sempre in piedi, erasi aggirato per quella navata della Basilica. Perciò ritornava alle Quattro Fontane. [830] Il sabato, 27 febbraio, essendo tempio piovoso D. Bosco non potè proseguire la visita al Vaticano, essendo molto distante; ed impiegò col Ch. Rua gran parte del giorno a scrivere. Dopo mezzodì fu da Mons. Vicario per farsi segnare A celebret, non potendosi altrimenti celebrare nelle varie chiese di Roma. Di qui risolse di recarsi in alcuni Istituti dì beneficenza, a pro dei giovani, dove sperava di aver lume e conforto a zelare viemaggiormente lo spirituale e materiale vantaggio dell'Oratorio.

                Si recò pertanto a visitare l'Ospizio di Tata Giovanni, posto nella via detta di Sant'Anna de' Falegnami, che fu per lui oggetto di vera compiacenza e per l'origine e per lo scopo, non che pel suo andamento. - Sul finire del secolo XVIII, un povero muratore di nome Giovanni Burgi, vedendo ogni giorno tanti poveri fanciulli orfani andar vagando per Roma cenciosi e scalzi, ne fu tocco di compassione e provò di raccoglierne alcuni in una piccola casa presa a pigione. Benedicendo Iddio quest'opera, il numero dei giovanetti andò aumentando; fu ampliato il locale, e i fanciulli pieni di riconoscenza e di affetto presero a chiamare il loro benefattore col nome di Tata, che nella favella del volgo romano significa padre. Di qui derivò all'Istituto il titolo di Tata Giovanni, che conserva tuttora. Il Burgi aveva pochi mezzi dì fortuna, ma possedeva un gran cuore, onde pei suoi figliuoli adottivi non si adontava punto dì andare questuando. Papa Pio VI, che vide sorgere sotto il suo Pontificato quell'Istituto, gli comprò una casa, se ne fece insigne benefattore, e i suoi successori ne imitarono l'esempio.

                Vi è un direttore, che sceglie un compagno coadiutore; morendo quello, succedegli il coadiutore.

I giovanetti vi sono accolti dai nove ai quattordici anni, [831] e vi si tengono sino ai venti. I più maturi e virtuosi presiedono alle camerate, ed i meglio istruiti insegnano agli altri gli elementi del leggere e dello scrivere e dell'aritmetica. Alcuni chierici e laici fanno scuola alla sera. La maggior parte dei ricoverati imparano un mestiere, scegliendo quello che loro talenta. Non avendo i laboratorii interni, uscivano ad imparare il mestiere in vari laboratorii della città, come da principio facevasi anche tra noi. A taluni si permette l'apprendimento delle arti belle e lo studio delle lettere, ma dopo lunghe e sicure prove di una eminente pietà e di perspicace ingegno. 1 fondi di sussistenza erano centocinquanta lire al mese che dava Pio IX, qualche elemosina e una parte di ciò che guadagnavano gli orfani stessi. Questi di lor guadagno rilasciavano all'Opera fino a quindici baiocchi della loro paga giornaliera, cioè sedici soldi; e il sopra più era tenuto in cassa per loro conto.

                L'Istituto, che dipende direttamente dal Papa, è posto sotto la protezione di Maria Vergine Assunta in Cielo e di 5. Francesco di Sales. L'ora della levata e del riposo, i dormitori e l'assistenza, un Santo per protettore a ciascuna camera, tutto insomma portava l'impronta del nostro Ospizio, e D. Bosco apprese con soddisfazione di aver piantata in Torino l'opera di Tata Giovanni senza neppure conoscerla. Le opere di carità, quali più quali meno, si assomigliano tutte, perchè hanno per autore Iddio, e per ispiratrice la Chiesa che non mutano mai nè per mutar di tempo nè per mutar di luogo.

                Pio IX da semplice Sacerdote fu sette anni Direttore di quell'Ospizio, e lo considerava sempre come cosa sua, e vi si conservava ancora la medesima camera da lui occupata. In quell'anno i giovani erano circa 150. [832]

                “La Domenica, 28 febbraio, scrisse D. Bosco, fu giorno pure piovoso e abbiamo potuto uscire poto di casa. Dopo mezzodì siamo andati al Gesù alla predica del P. Curci, il quale faceva l'esposizione della Bibbia, descrivendo Giuseppe al cospetto di Faraone. La popolarità e la chiarezza del predicatore ci diedero ragione della numerosa udienza che lo ascoltava.

                Alle cinque era a casa per andare a far visita all'Eminentissimo Cardinale Giacomo Antonelli Segretario di Stato, che due giorni prima ci aveva fissata udienza privata alle sei di domenica a sera. Il Conte Rodolfo De Maistre fu cortese di provvedermi la vettura e di accompagnarmi fino al palazzo Vaticano. Io era in mantelletta quando smontai dalla vettura ed entrai per le maestose scale del palazzo Papale. Al primo piano vi è l'appartamento del S. Padre e nel piano superiore quello del Segretario di Stato. Fui immediatamente introdotto nel gabinetto di quell'illustre porporato. Il Card. Antonelli è una persona cui bisogna avvicinarsi per conoscerne la bontà, la prudenza, la vastità delle sue cognizioni e l'affetto particolare che egli dimostra pei nostri paesi.

                Il trattargli insieme è un divenirgli affezionatissimo. Questa fu una delle belle giornate di mia vita”

                La stessa favorevole impressione provò nel suo animo il Cardinale fin dal primo istante che vide D. Bosco, il quale trattava con tutti senza accettazione di persone. Di qui la libertà di spirito nel conversare alla buona coi principi, coi ministri, coi più eminenti prelati e poi coi Re e colla stesso Romano Pontefice, senza però venir meno all'ossequio, e rispetto dovuto al loro grado e autorità. Sempre compito, semplice ed umile, operando o parlando, era per i grandi, come per i piccoli, quel D. Bosco medesimo così scherzevole [833], tranquillo ed amabile che piaceva tanto ai giovanetti dell'Oratorio.

                Il Cardinale adunque, ricevuti da D. Bosco i plichi confidenziali recati da Torino, gli concesse un'udienza di quasi due ore. Sua Eminenza si compiacque di discorrere delle Letture Cattoliche, della Storia d'Italia, degli Oratorii festivi, dei giovani della Casa e delle varie loro categorie; passò indi a parlare del Santo Padre, di sua fuga da Roma nel 1848, della sua dimora a Gaeta, della offerta di 33 lire de' fanciulli torinesi, e delle corone benedette, che in segno di gradimento Pio IX aveva loro regalate. In fine D. Bosco manifestò all'Eminentissimo lo scopo principale per cui era venuto a Roma e il bisogno che aveva di comunicare le sue idee al glorioso Pio IX, e di averne gli alti consigli; e il Cardinale promise che lo avrebbe annunziato a Sua Santità, e procuratagli l'udienza privata.

                Poco lungi dalla strada di Porta Pia trovasi la chiesa detta di S. Maria della Vittoria ed una immagine miracolosa di Lei conservasi sull'altare maggiore. D. Bosco il primo di marzo fu a venerarla, perchè quel titolo rispondeva troppo bene a quell'altro di Aiuto de' Cristiani, che egli doveva rendere popolare in tutto il mondo. Quanto dovette rimaner commosso nel vedere i trofei della potente protezione di Maria. Sopra i cornicioni sono issate molte bandiere tolte ai nemici dal Duca Massimiliano di Baviera nella grande vittoria da lui riportata contro i protestanti, che con esercito numerosissimo avevano messo sossopra il regno d'Austria. Parimenti si vedevano pendere altre bandiere strappate ai Turchi, nella liberazione di Vienna e nella battaglia di Lepanto.

                In quel mattino non ebbe altro a visitare e nel pomeriggio si decise di portarsi col Conte Rodolfo al grande [834] Ospizio di S. Michele in Ripa posto di là del Tevere, per ossequiare il Cardinale Antonio Tosti che ne era il Presidente. Sua Eminenza era stato in Torino, incaricato d'affari presso il Governo di Piemonte dal 1822 sino al 1829 acquistandosi l'affettuosa stima del fiore dei nobili e dei dotti.

                Don Bosco e il Conte passato il fiume, dopo aver prestato ossequio nell'Isola Tiberina alla chiesa di San Bartolomeo, che conserva sotto l'altar maggiore le ossa dell'Apostolo; vista pure la chiesa di S. Cecilia edificata nel sito medesimo ove fu la casa di questa Santa, veneratone il corpo, che dopo tanti secoli conservasi incorrotto, giunsero all'Istituto di S. Michele.

                La facciata principale dell'edifizio si estende per ben 345 metri, avendone 80 di profondità e 23 nella massima sua altezza: il suo circuito è di circa un chilometro. Albergava oltre ad 800 persone, la maggior parte giovanetti.

                D. Bosco e il suo nobile compagno ebbero tosto una graziosa accoglienza dal Cardinale, che raccontò ad essi varii episodii accaduti a lui nel tempo della repubblica e come fosse stato costretto a vivere alcun tempo lontano dall'Ospizio per non restare la vittima di qualche assassinio.

                Mentre si congedavano, l'illustre porporato li invitò a visitare l'Ospizio, pregandoli ad avvertirlo del giorno e dell'ora nella quale avrebbe avuto il piacere di rivederli.

                Ritornando al Quirinale, D. Bosco e il Conte salirono il Campidoglio dove osservati il palazzo senatorio e quello dei conservatori, i musei, la pinacoteca, entrarono a pregare nella maestosa chiesa di S. Maria in Ara Coeli, [835] costrutta nel terreno sul quale una volta esisteva il famoso tempio di Giove Capitolino. Sovra l'altar maggiore si venera un'immagine della Madonna creduta di S. Luca, e in una stanza vicino alla sagrestia conservasi una statua di Gesù bambino assai miracolosa. Le sue fasce sono arricchite di moltissime pietre preziose. Uscendo da Ara Coeli incontrarono, nella parte occidentale del Campidoglio, la rocca Tarpeja dalla quale, nel fondo sottoposto, furono precipitati molti martiri in odio alla fede.

 

 

CAPO LXVI. D. Bosco celebra la messa nel Carcere Mamertino - Le scuole di Carità - Una conferenza della Società di S. Vincenzo de' Paoli -Seconda visita alla Basilica Vaticana - La S. Messa sull'altare di S. Pietro, e a S. Croce di Gerusalemme - Il Padre Lolli - L'Ospizio di S. Michele - Saggie risposte  di un bifolco - La santa Messa a S. Maria del popolo e alla chiesa del Gesù - A Bosco è conosciuto in Roma: una predizione La cupola di S. Pietro - I Musei - I Padri della Civiltà Cattolica - Insistenze amichevoli del sig. Foccardi coronato - Biglietto per l'udienza Pontificia.

 

                Il 2 marzo, lunedì, D. Bosco colla famiglia De Maistre scendeva al Carcere Mamertino, ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale, il quale consiste due sotterranei sopraposti. Nel sotterraneo più basso, a fianco di una colonna di pietra a cui furono, legati S. Pietro e S. Paolo, avvi un piccolo altare ove D. Bosco celebrò la santa Messa, assistita dai suoi nobili ospiti e da altre pie persone. Quindi tutti bevettero un sorso di acqua della polla che si dice fatta quivi scaturire miracolosamente da S. Pietro per battezzare i suoi carcerieri S. Processo e S. Martiniano con altri quarantasette loro compagni morti poi martiri. Questa fonte sgorga da [837] un piccolo bacino scavato nel pavimento e lo riempie, senza mai versare, nè mai diminuire, per quanta se ne attinga.

                Nel pomeriggio l'illustre Duca Scipione Salviati lo condusse a Santa Maria dei Monti, per visitare le scuole dì carità sostenute dalle Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli.

                Entrato nella scuola, trovò che i giovanetti erano circa sessanta. Il maestro li fece leggere alquanto, indi recitare il catechismo, ed infine eseguire alcune operazioni di aritmetica. Gli scolari erano disinvolti, attenti alle dimande, e rispondevano senza confondersi. D. Bosco volle pure conoscere se capivano anche quanto leggevano, e interrogatine alcuni, si accorse che intendevano poco; onde in modo cortese e prudente diede alcune norme opportune al maestro, che le ricevette con gratitudine. La grammatica e un po' d'aritmetica insegnata a viva voce, il catechismo, il libro delle massime eterne, la storia sacra formavano la materia dell'insegnamento. In sostanza egli trovò quella scuola condotta secondo lo scopo delle scuole di carità, le quali devono essere essenzialmente dirette a togliere i ragazzi dai pericoli delle strade, ad ammaestrarli nelle verità della fede e nei precetti della morale cristiana, e a fornirli di quelle cognizioni che sono più acconce alla condizione loro, senza pretendere punto di farne dei saccenti e degli spostati, che finiscono poi per divenire ambiziosi e superbi, inutili a se stessi e fors'anche perniciosi alla civile società. Tali pure erano le scuole serali, diurne e festive attivate pei giovani esterni e per gli artigianelli del nostro Oratorio.

                La sera stessa, alle quattro e un quarto, Don Bosco andò ad assistere ad una Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli sotto il titolo di S. Nicola, presieduta dall'egregio [838] Marchese Patrizi. Pregato di volgere ai Soci alcune parole, Don Bosco tenne loro un breve discorso, col quale li esortò a coltivare con ardore lo spirito delle Conferenze, ma di riguardare e promuovere come opera prediletta il patronato dei giovani poveri ed abbandonati. Loro narrò come da qualche tempo, mediante il concorso dell'egregio conte Carlo Cays, si fossero stabilite negli Oratorii festivi di Torino tra i giovani adulti alcune conferenze sotto il titolo di Conferenze annesse; dimostrò come queste tra la gioventù avessero lo scopo di esercitarla per tempo nelle opere di carità verso le famiglie più bisognose, e intanto con tale mezzo indurle più facilmente ad inviare i proprii figliuoli al catechismo.

                D. Bosco fu ascoltato con entusiasmo, e que' Soci s'invogliarono e promisero tutti di praticare la stessa cosa tra i giovani delle scuole serali della città di Roma; e lo invitarono a visitarle egli stesso per far prova di scegliere alcuni alunni che formassero il primo nucleo di una conferenza annessa.

                Dopo tale esposizione e scambio di idee si passò alle consuete relazioni delle visite fatte, all'esame delle nuove domande di soccorsi, ed alle deliberazioni delle somme o dei buoni da distribuirsi. A D. Bosco parve che si desse molto ai poveri, ma non con quella regolarità e ripartizione che apre la strada a far del bene morale e spirituale ad un maggior numero di famiglie, primo scopo della Società: intese però facilmente che la generosità dei Papi e di cento opere pie in favore dei poveri non permetteva, per ragione di costumanze e confronti, largizioni più esigue.

                La conferenza era stata alquanto lunga e già si faceva notte. D. Bosco ne usci molto soddisfatto, ma essendo [839] grande la distanza da quel luogo al Quirinale e avendo premura, egli non badò a farsi accompagnare da qualcuno di quei soci, i quali si intrattenevano ancora in conversazione animata. Ed ecco D. Bosco smarrito per Roma senza più sapere per dove si avviasse. Dopo aver vagato pazientemente di qua e di là incontrò una vettura cittadina che lo condusse al suo alloggio.

                Il tre marzo era destinato a proseguire la visita della Basilica Vaticana. D. Bosco col Ch. Rua e il Conte Carlo usciva di casa alle sei e mezzo, ed eccolo in S. Pietro presso all'altare papale, che isolato, in mezzo alla crociera si erge maestoso sopra sette gradini di marmo bianco. Innanzi a questo avvi nel pavimento un vasto vacuo regolare, cinto da una preziosa balaustrata sulla quale ardono continuamente centododici lampade sorrette da cornucopie di metallo dorato; e nel quale, per mezzo di doppia marmorea scala, si discende al ripiano della Confessione, posta sotto l'altare papale. È  una cappella ornata di preziosi marmi, di stucchi dorati e di ventiquattro bassorilievi in bronzo rappresentanti i fatti principali della vita di S. Pietro; nel sotterraneo di essa è nascosta la tomba del Principe degli Apostoli. D. Bosco sull'altare di questa cappella, adorna di due antichissime immagini dei Santi Pietro e Paolo dipinte sopra lastra d'argento, ebbe la fortuna di celebrare la S. Messa.

                Dopo aver lungamente pregato, risalì nella Basilica e diede uno sguardo attento alla navata di crociera, lunga circa centotrentacinque metri.

                Di sopra all'altare papale si aderge la sterminata cupola, con metri quarantadue e sette di diametro, la quale sia per l'altezza e vastità, sia per gli splendidi lavori in mosaico eseguiti da' più celebri artisti, fa restare incantato [840] chi la rimira. È  sostenuta da quattro piloni; ciascuno di essi gira settanta metri e ottantacinque centimetri ed ha una loggia detta delle reliquie. Racchiudono in custodia il volto santo della Veronica, una porzione della santa Croce, la sacra lancia ed il teschio di Sant'Andrea. È  celebre la reliquia, del sacro Volto che si crede essere quel pannolino, di cui servissi il Divin Salvatore per tergersi la faccia grondante sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che diede a Santa Veronica, mentre saliva al Monte Calvario. Persone degne di fede raccontano che quel sacro volto l'anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cangiò colore, in guisa da variarne i primieri lineamenti. Questi fatti furono consegnati agli scritti, e i canonici di S. Pietro ne facevano testimonianza.

                D. Bosco, penetrato da questi pensieri così atti a commuovere un'anima piena di fede, si avvicinò alla cattedra di S. Pietro e, dopo averle rinnovato l'atto del suo ossequio, volse il passo verso la parte meridionale della Basilica e osservò altre tombe di Pontefici, esaminò le sontuose cappelle e gli altari, specialmente quello della Vergine della Colonna, così detto per l'immagine di Maria Santissima dipinta sopra una colonna dell'antica basilica Costantiniana. Venerava eziandio le urne che racchiudono i corpi di varii Santi: degli Apostoli Simone e Giuda, di S. Leone Magno, dei Ss. Leone II, III, IV, di S. Bonifacio IV, di S. Leone IX, di S. Gregorio Magno e di S. Giovanni Grisostomo. Infine si fermò all'ultima cappella della navata minore, ossia al battistero, la conca del quale è di porfido.

                Questa seconda visita a S. Pietro terminava alla mezz'ora dopo il mezzodì, sicchè il sig. Carlo De Maistre riserbò per altra volta la salita alla cupola. [841] Dopo il pranzo e qualche ora di riposo D. Bosco si recò a dare uno sguardo al palazzo apostolico del Quirinale, ed entrò nella chiesa di S. Andrea, presso al Noviziato dei Padri Gesuiti, ove in una cappella tutta ornata di marmi i più preziosi, riposava sotto l'altare il corpo di S. Stanislao Kostka.

                Il 4 di marzo D. Bosco lo dedicò a visitare la basilica di S. Croce in Gerusalemme, accanto alla quale avvi un convento di Cisterciensi; e vi giunse col Ch. Rua sotto una pioggia dirotta inzuppato dalla testa ai piedi; ma la consolazione provata in questa chiesa lo compensò di quell'incomodo.

                E’ questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Essa fu eretta da Costantino il Grande in memoria del ritrovamento della Santa Croce, fatto da S. Elena sua madre, in Gerusalemme. Qui si conserva una parte considerevole del S. Legno e il Titolo della croce.

                D. Bosco discese nella cappella di S. Elena, detta la cappella santa, poichè ivi quell'Imperatrice fece trasportare molta terra del monte Calvario. Di fronte a quella avvi la cappella Gregoriana ove si può guadagnare indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio da chi celebra la Messa e da quelli che l'ascoltano. A questo altare D. Bosco celebrò il santo sacrifizio.

                Il Padre Abate, certo Marchini, piemontese, gli usò molte gentilezze e fra l'altro gli fece vedere la biblioteca molto ricca di pergamene antiche.

                Il 5 marzo fu quasi tutto piovoso e D. Bosco lo impiegò a scrivere. Mentre era così occupato, il conte Carlo gli recò una triste notizia. Alle ore dieci del mattino, dopo breve malattia, ricevuti con esemplarità tutti i con [842] forti della Religione, era passato a miglior vita il Padre Lolli, Rettore del Noviziato dei Gesuiti nella chiesa di S. Andrea a Monte Cavallo. Essendo piemontese aveva dimorato lungo tempo in Torino, celebre per la predicazione e per la sollecitudine nel ministero delle confessioni. La defunta regina di Sardegna, Maria Teresa, lo aveva scelto per confessore. D. Bosco prese parte all'universale rincrescimento e alle preghiere di suffragio, essendo il Padre Lolli una sua antica conoscenza.

                Intanto il Conte Rodolfo lo avvertiva che le malattie in Roma eransi moltiplicate assai; e che la mortalità nei mesi di gennaio e di febbraio era stata quattro volte maggiore dell'ordinario. Il pericolo delle febbri però non impediva a Don Bosco le divote ed istruttive peregrinazioni.

                La mattina del 6 marzo D. Bosco accompagnato dalla famiglia De Maistre e dal Ch. Rua, si recò a visitare il magnifico Ospizio di S. Michele in Ripa. Il Cardinale Tosti, che li attendeva, avea imbandito per loro una sontuosa colaziuncola, alla quale però D. Bosco e i suoi amici non presero parte. Una leggera refezione era stata loro servita prima di uscir di casa, e non volevano mancare alla legge del digiuno.

                Allora il Cardinale ebbe la degnazione di accompagnarli per ogni piano e sala dell'Ospizio, seguito da uno dei direttori. Quivi i giovani apprendevano le arti meccaniche e le arti liberali. Quelli che si occupavano nelle prime avevano i loro opificii per calzolai, sarti, fabbri ferrai, falegnami, tintori, cappellai, sellai, ebanisti. Molti lavoravano in una tipografia e in una legatoria di libri. Pio IX, a fine di beneficare questo Ospizio, avevagli concesso il privilegio, in forza del quale soltanto colà [843] potevansi stampare i libri scolastici, che si usavano in tutti gli stati Pontificii.

                Quelli che accudivano alle arti liberali, sotto la direzione di abili maestri, ed erano il maggior numero, davano opera alla fabbricazione dei tappeti ed arazzi del genere di quelli dei gobelins, come pure all'intaglio in legno, alla pittura, alla scultura, all'incisione in camei, in rame e di medaglie.

                D. Bosco passava di laboratorio in laboratorio. Era già stato fatto consapevole dell'andamento di quella casa dal conte De Maistre e da varii signori romani laici ed ecclesiastici, i quali si lamentavano che gli amministratori avevano alquanto eluso lo scopo di quella fondazione. Infatti l'Ospizio, invece di ricoverare giovani tutti poveri, manteneva fanciulli anche di famiglie benestanti coi redditi della carità, e figli e nipoti d'impiegati e di personaggi molto autorevoli qui ricevevano la loro educazione. Perciò inevitabili le preferenze e le gelosie.

                Il vitto giornaliero della comunità era abbondante di carne e di vino, e i prudenti facevano osservare che la maggior parte degli alunni non avrebbero potuto onestamente procurarsi tale imbandigione quando fossero usciti dall'Ospizio.

                Alle arti meccaniche, trascurate perchè umili e che avrebbero dovuto assicurare il pane alla gran maggioranza dei ricoverati, erano preferite le arti liberali, perchè recavano più lustro allo stabilimento, specie gli arazzi ed i tappeti che ornavano i palazzi dei varii principi. Dava causa eziandio a lamentanze il sistema repressivo adoperato per mantenere la disciplina fra i giovani; e si infliggevano punizioni corporali antiquate, non troppo severe, ma che avvilivano il trasgressore dei regolamenti. [844]

                In quella stessa mattina gli amici avevano cercato di indurre D. Bosco a tentar la prova per far cessare quei disordini, col palesare al Cardinale Presidente le voci per Roma diffuse contro certi amministratori dell'Opera Pia. D. Bosco però non credette doversi immischiare in questioni di tal genere.

                Tuttavia egli osservava ogni cosa: i giovani, i capi d'arte, gli istitutori ed assistenti; esaminava con qual perfezione si eseguissero i lavori; interrogava gli uni e gli altri, con quella finezza bonaria, che era tutta sua propria, in modo da potersi dar ragione dello spirito dominante: e notava nella sua mente ciò che parevagli più degno di considerazione. Vide intanto pareti e pavimenti tersi come specchi: fiorente la sanità degli alunni, assidua la vigilanza degli assistenti, insegnata con amore la scienza del catechismo, fissati i giorni per i sacramenti della Confessione e della Comunione. Ad ogni classe poi di alunni veniva impartita un'istruzione letteraria conveniente al loro stato.

                Egli adunque constatò che, se vi era qualche difetto più o meno grave, dal quale non va esente nessuna opera umana, pure un gran bene ne risultava a vantaggio dei figli del popolo. Non però tutto quello che poteva aspettarsi; infatti non gli sfuggiva l'impaccio e l'evidente timore che manifestavasi in molti alunni, quando i superiori comparivano in mezzo a loro, oppure quand'essi dovevano recarsi a render conti negli uffici della direzione, Ciò faceva male a D. Bosco, perchè l'indole dei fanciulli romani era espansiva ed affettuosa; quindi pensava al modo di dare una lezione pratica a que' superiori, del suo sistema nell'educare; e il destro gli venne agevole.

                Mentre D. Bosco si aggirava per que' immensi locali, [845] accompagnato dal Cardinale e da qualche superiore subalterno, si udì zufolare e poi cantare. Ed ecco un giovanetto che discendeva lo scalone, e che ad uno svolto si trovò all'improvviso alla presenza del Cardinale, del suo Direttore e di D. Bosco. Il canto gli morì subito in bocca e stette col berretto in mano e colla testa bassa.

                - È  questo, dissegli il Direttore, il profitto degli avvisi e delle lezioni che vi sono date? Screanzato che siete! Andate al vostro laboratorio ed aspettatemi per ricevere la meritata punizione. E lei sig. D. Bosco, scusi .....

                - Che cosa? replicò D. Bosco mentre quel giovane si era allontanato. Io non ho nulla da scusare, e non saprei in che abbia mancato quel poveretto.

                - E quel zufolare villano non le sembra un'irriverenza?

                - Involontaria però; e lei, mio buon signore, sa meglio di me che S. Filippo Neri era solito a dire ai giovani che frequentavano i suoi Oratorii: - State fermi se potete! E se non potete, gridate, saltate, purchè non facciate peccati. Io pure esigo, in certi tempi della giornata, il silenzio; ma non bado a certe piccole trasgressioni cagionate dall'irriflessione; del resto lascio a' miei figliuoli tutta la libertà di gridare e cantare nel cortile, su e giù per le scale: soglio raccomandarmi soltanto che mi rispettino almeno le muraglie. Meglio un po' di rumore che un silenzio rabbioso o sospetto... Ma ciò che ora mi fa pena è che quel povero figliuolo sarà in grave fastidio per la sua sgridata.... nutrirà qualche risentimento.... Non le sembra che sia meglio che lo andiamo a consolare nel suo laboratorio?

                Quel Direttore fu tanto cortese da aderire al suo desiderio, e come furono nel laboratorio, D. Bosco chiamò a sè quel giovane, che dispettoso e avvilito cercava di [846] nascondersi, e: - Amico, gli disse, ho una cosa da dirti, Vieni, qui che il tuo buon superiore te lo permette.

                Il giovane si avvicinò e D. Bosco proseguì:

                - Ho accomodato tutto, sai; ma con un patto che d'ora in avanti sii sempre buono, e che siamo amici. Prendi questa medaglia e per compenso dirai un'Ave Maria alla Madonna per me.

                - Il giovane vivamente commosso baciò la mano che gli presentava la medaglia e disse:

                - Me la metterò al collo, e la terrò sempre per sua memoria.

                I suoi compagni, che già sapevano il caso succeduto, sorridevano, e salutavano D. Bosco che attraversava quella vasta sala, mentre il Direttore faceva il proponimento, di non più rimproverare alcuno tanto forte per un nonnulla; e ammirava l'arte di D. Bosco per guadagnarsi i cuori.

                Il Conte De Maistre narrava più volte questo fatto.

                Finalmente, visitate tutte le sale, l'Em.mo porporato, D. Bosco e la comitiva erano giunti sul terrazzo che ricopre tutto l'edifizio, del quale a mezzodì il Tevere rasenta il muro, formando un angolo ove erano legati parecchi battelli. Questo si può chiamare il porto delle navi mercantili che da Ostia vengono a Roma. Mentre D. Bosco osservava con un colpo d'occhio tutta l'estensione di quel vasto edifizio, provava una grande soddisfazione nel pensare ai tanti giovani quivi avviati alla virtù e ad una vita onorata; e pare che abbia concepito il santo desiderio, e domandato a Dio di portare i suoi giovanetti di Torino allo stesso numero delle persone quivi raccolte. Pochi anni dopo, quel suo desiderio era una realtà.

                Quando discese dal terrazzo erano le dodici e mezzo. I ragazzi erano andati a pranzo, e sentendosi Sua Eminenza [847] molto stanca, il Conte e D. Bosco presero congedo. A lui e a' suoi amici il Cardinale aveva regalato il disegno dell'Ospizio e un'incisione rappresentante S. Gerolamo, lavori eseguiti dai giovani.

                Ripassato il Tevere al ponte rotto, D. Bosco e gli altri dovettero ricoverarsi sotto il vestibolo della chiesa di S. Maria in Cosmedin, ove si conserva la cattedra sulla quale S. Agostino insegnò la rettorica. Quivi attesero che si calmasse un acquazzone che inondava tutte le vie, e osservavano in una piazza, detta della bocca della verità, molti buoi aggiogati che riposavano nel fango, esposti al vento e alla pioggia. I bovari erano venuti sotto al medesimo vestibolo e si posero a pranzare con un appetito invidiabile. Invece di minestra o pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un brano di mano in mano che gliene occorreva. Le loro pagnotelle erano di segala e di meliga. Acqua la bevanda.

                Scorgendo in loro un'aria di semplicità e di bontà, D. Bosco si avvicinò:

                - Eh! avete buon appetito?

                - Molto! - rispose uno di essi.

                - Vi basta quel cibo a togliervi la fame e a sostentarvi?

                - Ci basta; e grazie a Dio quando si può averne, giacchè essendo poveri non possiamo pretendere di più.

                - Perchè non conducete quei buoi nella stalla?

                - Perchè non ne abbiamo.

                - Li lasciate sempre esposti al vento e alla pioggia, giorno e notte?

                - Sempre, sempre.

                - Fate lo stesso ai vostri paesi?

                - Sì, facciamo lo stesso, perchè abbiamo poche stalle; [848] perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte, stanno sempre all'aperto.

                - E le vacche e i vitelli piccoli sono anch'essi esposti a tali intemperie?

                - Egualmente. Tra noi si usa che gli animali di stalla stanno sempre in stalla, e quelli che cominciano a stare fuori, se ne stanno sempre fuori.

                - State molto lontano di qui?

                - Quaranta miglia.

                - Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?

                - Oh! chi ne dubita? Ci abbiamo la nostra cappella, ci abbiamo il prete che ci dice messa, fa la predica e il catechismo, e tutti comunque lontani si dánno premura d'intervenire.

                - Andate anche qualche volta a confessarvi?

                - Oh! senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.

                Da questi discorsi appariva la buona indole di quei paesani, i quali vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purchè possano adempire i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda l'umile loro mestiere. Mentre essi parlavano, D. Bosco pensava al gran bene che avrebbero fatto continuate missioni apostoliche nella vastità dell'agro Romano, pensiero che non lo abbandonò più nel corso intero della sua vita.

                Il 7 marzo, Domenica, era destinato per la visita della grandiosa chiesa detta S. Maria del popolo, alla quale è annesso il Convento dei Padri Agostiniani. Nell'altar maggiore si venera un'immagine miracolosa della Madonna, attribuita a S. Luca. Alcune pie e nobili persone desideravano che D. Bosco andasse colà a celebrare la [849] santa Messa, nella quale intendevano fare la loro santa Comunione. Erano le 9 quando il signor Filippo Canori Foccardi, coronaio dei sacri palazzi apostolici e che teneva anche negozi di reliquiarii, mosaici, camei ed altri oggetti di belle arti, persona piena di fede e di fervore, venne a prendere D. Bosco colla propria vettura. D. Bosco, celebrata la S. Messa e appagata la sua divozione e quella dei fedeli, dato uno sguardo alla Villa Borghese e all'artistica gran piazza del popolo, alle due chiese S. Maria dei miracoli e S. Maria di Monte Santo che decorano ai due lati l'ingresso alla via del Corso, salì di nuovo in vettura e si recò a casa della principessa Potocka, appartenente alla famiglia dei Conti e principi Sobieski, antichi sovrani di Polonia. Qui era stata preparata la colazione; ma più di questa gli riuscì gradita la conversazione cristiana e assai animata delle signore invitate dalla Principessa.

                Il rimanente del giorno fu impiegato da D. Bosco nel visitare alcune altre pie persone, dal cui contegno e parlare rimase molto edificato.

                La fama della bontà di D. Bosco andava diffondendosi in Roma per le testimonianze di quanti si erano avvicinati a lui in quei pochi giorni. Anzi D. Rua afferma come fosse noto a molti Romani, e a lui lo narrassero, il fatto, accaduto in Torino nel 1849, di quel giovanetto restituito alla vita, perchè si potesse confessare, mostrandosi essi benissimo informati di tutto ciò che era accaduto in quella circostanza. Infatti si trovavano in Roma qualche prelato, varii sacerdoti e alcuni Padri della Compagnia di Gesù, tutti nativi del Piemonte e che conoscevano per bene D. Bosco e la sua vita. Sopratutto il Conte De - Maistre non cessava di far conoscere chi fosse D. Bosco, nelle [850] case patrizie e nei palazzi dei Cardinali; e ai racconti di un signore, del quale tutti ammiravano la virtù e la lealtà, era prestata piena fede.

                D. Bosco però in questa prima sua visita a Roma non pare che operasse alcunchè di straordinario, benchè talora fosse richiesto della sua benedizione, se tale non si giudica il seguente fatto, del quale fu testimone D. Rua.

                Egli fu a visitare un signore, che aveva un tumore al ginocchio; lo benedisse, pronunciò alcune parole di conforto e quindi uscì dalla stanza. La moglie del signore seguitò D. Bosco nella sala e gli domandò se suo marito sarebbe guarito.

                D. Bosco rispose esser noi nelle mani di Dio, che è buon Padre, il quale avrebbe fatto ciò che era meglio per l'infermo.

                La signora instò vivamente perchè voleva sapere se sarebbe morto di quel male.

                D. Bosco replicò: - Mettiamoci nelle mani di Dio con piena fiducia, preghiamo, e tutto andrà bene. E intanto rassegnamoci a ciò che Egli sarà per disporre.

                Ma la donna continuò ad importunare talmente D. Bosco colle sue preghiere da costringerlo a dire tutta la verità; ed egli con belle parole le aggiunse che si rassegnasse a fare il sacrificio a Dio di suo marito.

                La signora restò vivamente colpita e ammutolì. Quel signore non stava ancora a letto; ma dopo pochi mesi che D. Bosco era ritornato in Torino, gli giunse notizia della sua morte.

                Il giorno 8 di marzo fu dedicato a salire sulla cupola di S. Pietro. Il Canonico Lantiesi aveva procurato a Don Bosco e a' suoi amici il biglietto, di cui deve essere munito chiunque desidera di procurarsi questa soddisfazione. [851] Il tempo era sereno, e D. Bosco detta messa nella chiesa del Gesù all'altare dedicato a S. Francesco Zaverio, per mantenere la promessa fatta in Torino al Conte Zaverio Provana di Collegno, giunse al Vaticano alle ore 9 in compagnia del sig. Carlo De - Maistre e del Ch. Rua. Consegnato il biglietto, fu loro aperta la porta, e incominciarono a montar su per una scala assai comoda. Quasi vicino al ripiano della Basilica sono notati i più celebri personaggi, Re, principi che salirono fino alla palla della cupola, e osservarono con piacere il nome di varii Sovrani del Piemonte e di altri membri di Casa Savoia. Qui diedero un'occhiata al terrazzo del gran tempio, che si presenta come una vasta piazza selciata, la quale nel mezzo ha una sorgente d'acqua perenne. Visitarono anche la campana maggiore, il cui diametro è di oltre tre metri.

                Ed eccoli per una scaletta fatta a lumaca, entrare nella prima e poi nella seconda ringhiera interna della cupola e farne il giro. Intanto D. Bosco notò che i mosaici, da lui contemplati ad uno ad uno, i quali dalla chiesa apparivano tanto esigui, visti di lassù prendevano forma gigantesca. Guardando poi in basso, gli uomini che lavoravano o camminavano nel tempio parevano altrettanti bambini e l'altare papale, sormontato dal baldacchino di bronzo alto dal pavimento circa 29 metri, un semplice seggiolone.

                L'ultimo piano sovra cui ascesero è quello che posa sopra la punta della cupola medesima. Avevano raggiunta l'altezza di metri 118 e più. Quasi tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte vastissimo.

                C'era ancora la palla, per giungere alla quale bisogna passare per una scaletta a perpendicolo arrampicandosi per sei metri, come dentro ad un sacco. Ma D. Bosco [852] salì intrepidamente col Conte e col Ch. Rua, ed eccoli nella palla che aveva intorno intorno alcuni fori come piccole finestre, e che poteva dar comodo ricetto a sedici persone. Qui, all'altezza di circa 130 metri, D. Bosco prese a parlare di varie cose riguardanti l'Oratorio di Torino, ricordò con affetto i suoi giovani, ed espresse il desiderio di rivederli al più presto possibile e di lavorare per la loro salvezza. Ripreso fiato, discese senza più arrestarsi finchè pervenne co' suoi amici alla porta d'uscita. Bisognoso di prendere un po' di riposo, andò ad ascoltare la predica che da poco era incominciata nella Basilica. Il predicatore gli piacque per la buona lingua e un bel gestire: trattava dell'osservanza delle leggi civili.

                Dopo la predica, restando a D. Bosco ancora un po' di tempo, lo impiegò a visitare la sacrestia, che è una vera magnificenza, degna di S. Pietro in Vaticano.

                Intanto erano giunte le undici e mezzo, ed essendo ancora digiuno andò a fare co' suoi compagni una piccola refezione. Quindi il Ch. Rua ritornava ai Rosminiani, avendo molto da scrivere; e D. Bosco col sig. Carlo De Maistre andarono a far visita a Mons. Borromeo, maggiordomo di Sua Santità. Furono accolti tanto bene, e dopo di aver parlato molto delle cose del Piemonte e di Milano, sua patria, Monsignore prese il nome di D. Bosco, del signor Carlo e di Rua, per metterli sul catalogo di quelli che desideravano di ricevere la Palma dalle mani del Santo Padre.

                Accanto alla loggia di questo prelato, intorno alle corti del palazzo Pontificio vi sono i musei. D. Bosco vi entrò, vide cose veramente grandi, ma si fermò specialmente in un vasto salone oblungo, ove è il museo Cristiano. Ivi notò i varii strumenti con cui i persecutori [853] della Chiesa solevano tormentare i martiri. Ammirò pure molte pitture del Salvatore, della Madonna, dei Santi e tra le altre un Buon Pastore che porta una pecorella sul collo. Tali oggetti furono ritrovati nelle catacombe. - È  questo un argomento, diceva D. Bosco al Conte, che deve far tacere i protestanti quando accusano i cattolici, che i primi cristiani non avessero nè statue nè pitture.

                Dal Vaticano inoltrandosi nel centro di Roma, Don Bosco passò a piazza Scossacavalli, ove lavoravano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Andò a far loro una visita, come aveva promesso al P. Bresciani, e provò vero piacere notando che i principali sostenitori di tale pubblicazione erano piemontesi.

                D. Bosco sentiva un vivo desiderio di ritornare a casa; perciò troncando ogni indugio era ormai giunto al Quirinale, quando il coronaio Foccardi lo vide col signor De Maistre davanti alla sua bottega e li invitò ad entrare. A forza di cortesie intrattenutili alquanto, nell'atto che volevano assolutamente partire - Ecco, disse loro, ecco la vettura; io li accompagno e li porto a casa. -Sebbene D. Bosco si mettesse di mala voglia in carrozza, tuttavia per compiacenza accondiscese. Il sopportare pazientemente con volto ilare, quasi ogni giorno, o gli sgarbi degli avversari o le importunità degli amici e anche degli ammiratori, fu per lui un esercizio continuo di virtù per tutta la sua vita. E il Foccardi, pel desiderio di trattenersi più a lungo con D. Bosco, lo condusse assai lontano e lo fece girar tanto, che giunse a casa a notte oscura.

                “Entrato in casa, scrisse D. Bosco, mi viene consegnata una lettera: l'apro, la leggo, ed era del tenor seguente: “Si previene il sig. Abate Bosco che S. Santità si è degnata di ammetterlo all'udienza domani nove di [854] marzo dalle ore undici e tre quarti ad un'ora”. Tale notizia, sebbene aspettata e molto desiderata, mi diede una rivoluzione al sangue, e per tutta quella sera non mi fu più possibile di parlare d'altro se non che del Papa e dell'udienza”.

                Il Cardinale Antonelli non aveva dimenticato la sua promessa.

 

 

CAPO LXVII. D. Bosco celebra la messa a Santa Maria sopra Minerva - D. Bosco alla presenza di Pio IX - I sotterranei  della Basilica Vaticana.

 

                IL 9 marzo fu adunque il giorno dell'udienza papale; e D. Bosco, avendo bisogno di parlare prima di questa al Card. Gaude, andò a dir messa alla chiesa di S. Maria sopra Minerva, che è uno dei più belli e ricchi edifizi sacri di Roma. Sotto l'altar maggiore avvi il corpo di S. Caterina da Siena. Offerto il S. Sacrifizio, egli si recò dal Cardinale, al quale potè parlare subito, ed avuti consigli ed informazioni, ritornò alle Quattro Fontane, affrettandosi di' preparare le domande da farsi al S. Padre.

                Non erano lontane le undici, e D. Bosco e il Ch. Rua in mantelletta, occupati da mille pensieri, giungono al Vaticano e ne montano le scale più macchinalmente che scientemente. Entrati nelle sale Pontificie, custodite da guardie svizzere e da guardie nobili, i camerieri li salutano, facendo un profondo inchino; prendono la lettera per l'udienza che D. Bosco teneva in mano, e di sala in sala lo conducono col suo compagno, fino all'anticamera del Pontefice. [856] Siccome vi erano parecchi altri in attesa di essere introdotti, così dovettero aspettare circa un'ora e mezza. “Quel tempo, scrisse poi D. Bosco, l'abbiamo impiegato ad osservare i luoghi ove ci trovavamo. Le sale sono grandi, maestose, ben tappezzate, ma niente di lusso. Un semplice tappeto verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa, ma senza ornati, le sedie di legno duro. Un solo seggiolone, posto sopra un palchetto alquanto elegante, indicava che quella era la sala Pontificia. Questa cosa abbiamo veduta con piacere, ricordando le mordaci ed ingiuste imputazioni che taluni vanno facendo contro allo sfarzo ed al lusso della corte Pontificia”.

                All'improvviso suona un campanello, e il prelato d'anticamera fa loro cenno di avanzarsi e di entrare nella stanza del Papa. In quel momento D. Bosco restò come confuso e dovette farsi una specie di violenza per non perdere l'equilibrio. - Coraggio, disse, andiamo. - Il Ch. Rua lo segue portando una copia, legata artisticamente, di tutti i fascicoli delle Letture Cattoliche. Entrano, ed eccoli finalmente alla presenza di Pio IX; fanno una genuflessione all'ingresso della sala, l'altra nella metà e la terza ai piedi del Pontefice. Ma cessò quasi intieramente la loro apprensione, quando videro in Pio IX l'aspetto di un uomo il più affabile, il più venerando e nel tempo stesso il più soave che possa dipingere un pittore. Non gli poterono baciare il piede, perchè era seduto al tavolino; gli baciarono la mano, e il Ch. Rua, memore della promessa fatta a' suoi compagni, la baciò una volta per sè e una volta per essi. Allora il Santo Padre fe' loro segno di alzarsi e mettersi davanti a lui. Obbedirono, ma D. Bosco volendo parlare secondo che l'etichetta prescriveva, si rimise ginocchioni - No, replicò il Papa, alzatevi pure. [857] Conviene qui notare, che annunziando Don Bosco al Papa, il prelato introduttore aveva letto male il suo nome perchè invece di scrivere Bosco aveva scritto Bosser; perciò il Papa incominciò ad interrogarlo così:

                - Voi siete piemontese?

                - Si, Santità; sono piemontese e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Gesù Cristo.

                - E in quale cosa vi occupate?

                - Santità, io mi occupo nella istruzione della gioventù e nelle Letture Cattoliche.

                - L'istruzione della gioventù fu cosa utile in tutti i tempi; ma oggidì è più necessaria che mai. Vi è anche un altro in Torino che si occupa dei giovani.

                Qui D. Bosco si accorse che non era dato giusto il suo nome, e in pari tempo il Papa comprese altresì che egli non era Bosser, ma Bosco, Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Allora prese un aspetto assai più ilare e continuò: - Che cosa fate nel vostro Ospizio?

                - Un po' di tutto, santo Padre: dico la messa, predico, confesso, faccio scuola; alcune volte mi tocca andare in cucina ad insegnare al cuoco, ed anche scopar la chiesa.

                Il Santo Padre sorrise a questa risposta, e gli domandò più cose riguardanti ai giovani, ai chierici, ed agli Oratorii, dei quali era già informato. Lo richiese pure del numero e del nome dei sacerdoti che lo aiutavano, e di coloro i quali collaboravano nella pubblicazione delle Letture Cattoliche. Voltosi poi al Ch. Rua, gli chiese se era già Sacerdote, ed egli rispose:

                - Santità, non ancora, ma sono solamente chierico e percorro il terzo anno di teologia.

                - Che trattato studiate? [858]

                - Studio il trattato de Baptismo e de Confirmatione - e mentre voleva terminare l'elenco degli altri, il Papa osservò:

                - Questo è il trattato più facile. - Quindi vóltosi nuovamente a Don Bosco, con aria ridente gli disse: Mi ricordo dell'oblazione mandatami a Gaeta, e dei teneri sentimenti con cui quei giovanetti l'accompagnarono.

                D. Bosco approfittò di quel medesimo discorso per esprimergli l'attaccamento di tutti i suoi giovani alla Sacra sua persona, e lo pregava di gradirne un segno in una copia delle Letture Cattoliche.

                - Santità, gli disse, Le offro una copia di quei libretti finora stampati, e la offro a nome della Direzione; la legatura è lavoro dei giovani di nostra Casa.

                - Quanti sono questi giovani?

                - Santità, i giovani della casa sono circa 200: i legatori 15.

                - Bene, egli rispose, io voglio mandar una medaglia a caduno. - Quindi, andato in un'altra camera, dopo brevi istanti ritornò, portando quindici piccole medaglie della Concezione. - Queste saranno pei giovanetti legatori, disse a D. Bosco, mentre gliele porgeva. - Rivoltosi poi al Ch. Rua, gliene diede una più grande, dicendo: Questa è pel vostro compagno. - Quindi rivoltosi nuovamente a lui, gli porse una piccola scatola, che ne rinchiudeva un'altra ancora più grande, dicendo: - E questa è per voi. - Essendosi essi inginocchiati per ricevere i preziosi regali, il Santo Padre loro disse di alzarsi.

                Credendo poi che eglino volessero già partire, Pio IX stava per congedarli, quando Don Bosco prese a parlargli così: -Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.

                - Va bene, rispose il Papa. [859] Allora si fè cenno al Ch. Rua di ritirarsi, ed egli fatta la genuflessione in mezzo alla camera, se ne uscì.

                Il Santo Padre ragionò di nuovo con D. Bosco intorno agli Oratorii e sullo spirito che vi s'insinua, e lodò la pubblicazione delle Letture Cattoliche, dicendogli d'incoraggiarne i collaboratori, che egli di cuore benediceva. Tra le cose che ripetè con vera compiacenza fu questa: Quando penso a quei giovani, rimango ancora intenerito per quelle trentatre lire inviatemi a Gaeta. Poveri giovani, aggiungeva, si privarono del soldo destinato alla pagnottella e al companatico: gran sacrifizio per loro!

                D. Bosco rispose: - Il nostro desiderio era di poter fare di più, e fummo grandemente consolati alla notizia che l'umile nostra offerta tornò gradita a Vostra Santità. Vostra Santità sappia, che là in Torino ha una numerosa schiera di figli, che la amano teneramente, ed ogni qualvolta loro accade di parlare del Vicario di Gesù Cristo, lo fanno col più vivo trasporto di gioia.

                Il Santo Padre udì ciò con molta soddisfazione, e fatto ricadere il discorso sugli Oratorii, ad un certo punto uscì spontaneamente in questa dimanda a D. Bosco:

                - Mio caro, voi avete messo molte cose in movimento, ma se voi Veniste a morire che cosa ne sarebbe dell'opera vostra?

                Don Bosco, che stava per entrare nel suo argomento principale, colse tosto la propizia occasione, e risposto che era appunto venuto a Roma per provvedere all'avvenire degli Oratorii, gli presentò la lettera commendatizia di Mons. Fransoni. E soggiungeva: - Supplico Vostra Santità a volermi dare le basi di una Istituzione che sia nei tempi e nei luoghi in cui viviamo. - Il Vicario di Gesù Cristo, letta la raccomandazione dell'incompatibile [860] trepido esiliato, conosciuti i progetti e le intenzioni di Don Bosco, se ne mostrò molto contento e disse: - Si vede che andiamo tutti e tre d'accordo. - Pio IX esortò pertanto D. Bosco a redigere le regole della Pia Società, secondo lo scopo che ne aveva concepito, e gli diede in proposito importanti suggerimenti. Tra le altre cose gli disse: - Bisogna che voi stabiliate una Società, la quale non possa essere incagliata dal Governo; ma nel tempo stesso non dovete contentarvi di legarne i membri con semplici promesse, perchè altrimenti non esisterebbero gli opportuni legami tra soci e soci, tra superiori ed inferiori; non sareste mai sicuro dei vostri soggetti, nè potreste fare lungo assegnamento sulla loro volontà. Procurate di adattare le vostre regole sopra questi principii, e compiuto il lavoro, sarà esaminato. L'impresa però non è tanto facile Si tratta di vivere nel mondo senza essere conosciuti dal mondo. Tuttavia, se in questa opera avvi il volere di Dio, Egli vi illuminerà. Andate, pregate e dopo alcuni giorni ritornerete e vi dirò il mio pensiero.

                Pio IX era pronto nel capire le domande e spedito nel dare le risposte. In cinque minuti si poteva trattare con lui di affari pei quali con altri si sarebbe richiesta un'ora. Per il che, non solo il progetto della nuova Istituzione, ma più altri affari si trattarono in quell'udienza. D. Bosco gli domandò pure vari favori, che benignamente gli furono concessi. Fra questi vi fu l'Oratorio privato per la nostra Casa e per quella dell'Abate Montebruno di Genova[31].[861]

                Presentò anche la supplica di D. Cafasso, per quella indulgenza straordinaria in punto di morte e nello stesso, tempo pregò perchè fosse eziandio concessa e in modo distinto a lui e a tutti coloro che attualmente si trovavano, nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, formanti famiglia; e anche a un certo numero indeterminato di benefattori; e il Papa, letta la supplica, annuì a tutto e promise il Rescritto per D. Cafasso.

                In fine D. Bosco chiese la benedizione sopra le persone che in qualche modo lo riguardavano.

                Allora fu richiamato il Ch. Rua, rientrato il quale D. Bosco domandò al Papa la santa benedizione, ed ambedue s'inginocchiarono per riceverla. - Ve la do di cuore, rispose il Santo Padre con voce intenerita, mentre erano ancor essi del pari commossi. Ed ecco la formula speciale che usò Pio IX, e che giudichiamo bene di registrare quale gloriosa rimembranza.

                Benedictio Dei Omnipotentis, Patris et Filii et Spiritus Sancti descendat super le, super socium tuum, super tuos in soriem Domini vocatos, super adiutores et benefactores [862] tuos et super omnes pueros tuos, et super omnia opera tua, et maneat nunc et semper et semper et semper.

                Questa singolare benedizione di Pio IX produsse il suo effetto, e il Ch. Rua Michele ne ebbe la sua parte distinta. Ne sono prova eloquente le opere dell'Oratorio, compiutesi da quel giorno in poi.

                Sul finir dell'udienza il Papa, chiesto a D. Bosco se già avesse visitata la Basilica di S. Pietro, gli dava il più ampio permesso di poter vedere ogni monumento o cosa notabile che vi fosse nell'alma città, ordinando al Monsignore dell'anticamera che innanzi a D. Bosco si aprisse ogni più recondito ripostiglio. - Procurate di vedere tutto ciò che è visibile - gli disse.

                “La bontà del Santo Padre, notò D. Bosco, il mio vivo desiderio d'intrattenermi con lui avevano portata l'udienza oltre a mezz'ora, tempo assai considerevole, sia riguardo alla sua persona, sia riguardo all'ora del pranzo che per nostra cagione gli era ritardato. Compresi di stima e di venerazione, confusi da tanti segni di benevolenza partimmo dal palazzo pontificio e ce ne andammo al Quirinale. L'impressione di questa udienza sarà certamente incancellabile dal nostro cuore, ed è poi per noi un argomento di fatto per poter dire che basta l'accostarci al Pontefice per ravvisare in esso un padre che altro non desidera che il bene dei suoi figliuoli, i fedeli di tutto il mondo. Chi lo ascolta a parlare, egli è costretto a dire in cuor suo: - In quell'uomo avvi qualche cosa di sovra umano che non apparisce negli altri uomini”.

                D. Bosco si giovò della licenza del Papa per visitare i sotterranei della Basilica Vaticana. Nell'innalzare la nuova basilica per preservarla dall'umidità ne fu elevato il piano; quindi si lasciò intatto il pavimento della chiesa Costantiniana [863]: come pure la parte più bassa di essa per tre metri e mezzo, con tutte le colonne in piedi troncate al punto ove stan loro sopra i voltoni. Questo spazio tra l'antico e nuovo pavimento costituisce appunto quei sotterranei detti anche grotte Vaticane. Qui furono posti quasi tutti i monumenti che esistevano nella chiesa antica, fra i quali pregevolissime opere di scultura e pittura: e quadri in mosaico, sepolcri dei Papi, sarcofaghi di personaggi celebri, statue, lapidi e altari. D. Bosco narrava poi ai giovani: “Ci vorrebbe un volume per notare le grandi cose ivi vedute; ma noto una cosa sola ed è un'immagine di Maria detta della bocciata. Questa immagine è posta in un altare sotterraneo ed è molto antica. Tal nome le fu dato pel fatto seguente. Un giovane, per disprezzo o forse inavvertitamente, con una boccia andò a colpire in un occhio l'immagine di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall'occhio, che si vede ancora rosseggiante sopra le gote dell'immagine. Due gocce sprizzarono lateralmente sovra un sasso che conservasi gelosamente riparato con due cancelli di ferro.

                Ma in que' sotterranei ciò che più attraeva D. Bosco era la memoria del Principe degli Apostoli. Accompagnato da Mons. Borromeo consumò la maggior parte di quel giorno a visitare la Confessione. Poi si fece aprire la cripta sotterranea dove era la tomba di San Pietro. Guardò, esaminò ogni oggetto, ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento. Quindi chiese se non vi era più nulla da vedere. - Più nulla, gli fu risposto.

                Ma proprio la tomba del santo Apostolo ove è? - Qui sotto! È  sita profondamente sottoterra nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l'antica [864] Basilica; e non fu più aperta da molti secoli per timore che taluno possa tentare di spezzarne qualche reliquia.

                - Ma io vorrei giungere fin là.

                - Non è possibile.

                - Mi hanno detto però che in qualche modo si potrebbe vedere.

                - Tutto ciò che si può far vedere glielo ho fatto, vedere: il di più è rigorosamente proibito.

                - Ma il Papa mi ha detto essere ordine suo che nulla mi si tenga celato. Quando ritornerò a lui e mi chiedesse se ho visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter dire di sì.

                Monsignore mandò a prendere alcune chiavi ed aprì una specie di armadio. Qui vi era un foro che scendeva sotterra. D. Bosco guardò, ma tutto era tenebre.

                - È  contento? disse il Monsignore.

                - Non ancora; vorrei vedere.

                - E come vuol fare?

                - Mandi a prendere una canna ed un cerino.

                Venne la canna ed il cerino, che appiccicato sulla punta di quella venne calato giù. Ma si spense tosto nell'aria morta. La canna però non giungeva al fondo. Allora fu fatta venire una seconda canna, che aveva all'estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di S. Pietro. Era sepolta a sette od otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su, ora indicava che l'uncino urtava nel ferro ed ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi. D. Bosco visitava tutto con ogni diligenza per servirsene nel correggere la vita da lui già scritta di S. Pietro, guidato dalle opere di Sartorio, di Cuccagni, e dai Bollandisti, 29, 30 giugno.

 

 

CAPO LXVIII. S. Pancrazio e le Catacombe - S. Pietro in Montorio Mons. Pacca - La Messa a S. Andrea della Valle - Chiesa di S.  Gregorio Mons. Artico - Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo L'arco di Tito e di Costantino - S. Lorenzo in Lucina - Due conferenze - Mons. Di San Marzano - La stazione a S. Maria degli Angioli -Visita agli Oratorii festivi della Madonna della Quercia, di S. Giovanni dei Fiorentini e di S. Maria Assunta - Mons. De - Merode visita D. Bosco - D. Bosco della gli esercizi spirituali alle detenute presso le Terme di Diocleziano - Nell'Oratorio di Torino i giovani sospirano D. Bosco - Corrispondenze epistolari.

 

                IL 10 marzo, ad un'ora e mezzo pom., il Padre Giacinto dei Carmelitani scalzi venne a prendere Don Bosco con un calesse per condurlo col Ch. Rua alla Basilica di S. Pancrazio e a S. Pietro in Montorio. Queste due chiese sorgono sul monte Gianicolo al di là del Tevere. Presso la prima, allora quasi rovinata pei rivolgimenti del 1849, è il Convento dei Carmelitani scalzi. D. Bosco stesso ci lasciò memoria ne' suoi scritti, di questa giornata. [866]

                “Entrati nella Basilica di S. Pancrazio, mentre ci eravamo inginocchiati a pregare innanzi all'altare del giovanetto martire, - Venite meco, ci disse il P. Giacinto, e andremo nelle catacombe. - Aveva apparecchiato un lume per caduno; e, con una guida pratica di que' sotterranei, ci siamo messi a seguirlo. Quasi nel mezzo della chiesa avvi uno sportello nel pavimento. Quello si alza e di là si apre un foro oscuro e profondo. Cominciano le catacombe.

                Sull'entrata sta scritto: In hoc aditu decollatus est S. Pancratius marytr Christi: In questo adito ebbe troncata la testa S. Pancrazio Martire. Ed eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora stretti e bassi, ora alquanto più aperti ed alti; ora piani, ora in discesa; ora diritti, ora tortuosi; ora attraversati da altri corridoi non più larghi di un metro che sì perdono nelle tenebre; avrete il primo aspetto di que' sotterranei. Talvolta queste gallerie formano quattro o cinque piani soprapposti e vi si discende per scale strettissime ed anche pericolose. Di qua e di là vi sono le tombe scavate parallelamente nel tufo in più ordini a somiglianza di scaffali. Ivi anticamente seppellivansi i cristiani e specialmente i martiri. Quelli che davano la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro ai tiranni; l'ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il P significa, pax Christi, oppure pro Christo passus. In altri vi si disegnavano gl'istrumenti con cui avevano sofferto il martirio. Talvolta questi emblemi si rinchiudevano nella piccola tomba del Santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome, cognome del martire con qualche parola esprimente alcun luminoso tratto della sua vita. Ai semplici cristiani poi non mettevasi generalmente alcun segno, oppure qualche iscrizione brevissima greca o latina che indicasse la persona sepolta. Ma l'emblema ordinario era il pesce, perchè la parola greca che esprime pesce viene colle sue lettere a significare le iniziali delle seguenti parole: GESU' CRISTO FIGLIUOLO DI DIO SALVATORE.

                - Ecco, ci disse la guida, quivi è il luogo dove era seppellito S. Pancrazio, accanto a lui S. Dionigi suo zio, e qui vicino un altro suo parente. - Noi abbiamo visitate quelle tombe che rappresentano una cameretta, intorno a cui sì vedono iscrizioni [867] antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta avvi dipinto un giovanetto che ci parve rappresentare S. Pancrazio. Il dipinto non è molto perfetto per l'arte, ma è assai prezioso perchè ci rammenta come nei primi secoli della Chiesa i santi fossero venerati nelle loro immagini.

                - Ecco qua una cripta, ci disse di nuovo la guida. - La cripta, parola greca che vuol dire profondità, è un luogo un po' più spazioso dell'ordinario. Qua i cristiani solevano radunarsi in tempo delle persecuzioni, e assistevano ai divini misteri. In un lato esiste ancora l'altare antico sopra cui si celebrava il S. Sacrifizio. Per lo più la tomba di qualche martire serviva di altare. Dopo un po' di cammino ci fece vedere la cappella ove San Felice Papa era solito venire per riposarsi e celebrare la santa Messa. A poca distanza è il luogo dove egli fu sepolto. Di qua e di là vedevamo scheletri di corpi umani ridotti a pezzi dall'edacità del tempo, e la nostra guida ci assicurò che, continuando più avanti, saremmo giunti a ritrovare il luogo ove erano martiri e le lapidi colle iscrizioni intatte. Ma noi eravamo già molto stanchi. L'aria sotterranea, l'afa che là si sente, la pena che si prova a camminare, giacchè ognuno deve badare a non dare del capo, a non urtare colle spalle e a non sdrucciolare coi piedi, tutte queste cose affaticano assai. Di più, ci diceva la nostra guida, che quei sotterranei si vanno ognora moltiplicando e che taluno di essi giunge fino alla lunghezza di quindici e venti miglia. Fummo pertanto ricondotti là donde eravamo partiti, e giunti sulla piazza della chiesa prima di partire abbiamo veduto una iscrizione a sinistra della porta maggiore. Era scritto così: Coe meterium sancti Calipodii presbyteri et martyris Christi. Di là si apre una porta e si entra in un cimitero, ovvero in altre catacombe, chiamate di San Calepodio, sia perchè questo santo sacerdote si adoperò per scavarle, sia anche perchè egli fu ivi sepolto. Era nostro desiderio di andare anche qui a fare una visita; ma ci fu detto che il locale era pericoloso, e che, correndo pericolo della vita, non conveniva andarci. Montati di nuovo in vettura col Padre Giacinto, c'incaminammo giù dal monte Gianicolo verso Roma alla volta di S. Pietro in Montorio.

                E’ questa una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di molte statue, dipinti, e marmi. Qui si venera un'immagine [868] miracolosa della Madonna detta della Lettera. Tra la chiesa e il convento avvi un tempietto di forma rotonda, opera tra le più insignì del Brabante. Esso è edificato nel luogo ove, asserivasi, fu martirizzato S. Pietro. Nella parte posteriore avvi una scaletta che conduce ad una sala sotterranea anche rotonda; nel mezzo di quella cappella si vede un foro ove arde continuamente un lume. Colà posava in terra la testa della croce su cui San Pietro fu posto a capo rovescio.

                Vista la magnifica fontana di Paolo V, e passato il Tevere, il fontanone di Ponte Sisto e Porta S. Pancrazio, detta anticamente gianicolense, il Padre Giacinto ebbe la bontà di condurci colla sua vettura a casa, e noi ci siamo volentieri andati per prendere un po' di riposo, poi recitare il breviario e scrivere alcune particolarità riguardanti le cose vedute.

 

                L'11 marzo fu occupato da D. Bosco nello scrivere e nel fare commissioni particolari. Andato a visitare Monsignor Pacca, prelato domestico di S. Santità, ove incontrossi col P. Bresciani, mandò il Ch. Rua a cercare Don Botaudi, nativo di Nizza Piemonte, che alloggiava a Ponte Sisto, col quale erasi già intrattenuto per la diffusione in Roma delle Letture Cattoliche.

                Il 12 marzo celebrò la messa a S. Andrea detto della Valle, chiesa edificata sul luogo del martirio di S. Sebastiano.

                Dopo mezzogiorno, ad un'ora e mezzo, D. Bosco partiva col sig. Francesco De Maistre per andare alla chiesa di S. Gregorio il Grande, edificata sopra il pendio del Monte Celio, sull'area della casa di questo Pontefice, da lui convertita in monastero. È  uffiziata dai monaci Camaldolesi.

 

                Questa chiesa, notò D. Bosco, è una delle più belle di Roma. Una cappella a destra è quella del SS. Sacramento sopra cui celebrava la Messa S. Gregorio Magno. In una lapide antica posta [869] a lato dell'altare vi è un'iscrizione latina, della quale ecco la traduzione nella nostra lingua: - A Dio Ottimo Massimo. Questo altare, venerabile pel titolo e patrocinio di S. Gregorio Magno, fu reso celebre per tutto il mondo dai privilegi di molti Romani Pontefici. Presso al qual altare un monaco di questo monastero, avendo per comando di S. Gregorio offerto il S. Sacrificio per trenta giorni continui in suffragio dell'anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

                “Accanto a questa cappella avvene un'altra più piccola. Ivi ritiravasi S. Gregorio per riposarsi, e notasi precisamente il luogo ove era il suo letto. Ricordo delle lunghe sue veglie sta una sedia di marmo sopra cui sedeva il Santo quando scriveva o quando annunciava la parola di Dio al popolo. Ritornando in chiesa e passato l'altare maggiore, vi è una cappella in cui conservasi un'immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella medesima che il Santo teneva in sua casa, e alla quale ogni volta che passava avanti diceva: Ave, Maria. Un giorno il buon Pontefice per la premura di alcuni affari uscendo di casa non  fece alla Vergine il consueto saluto. La Madre celeste gli fece questo dolce rimprovero: Ave, Gregori; colle quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a Lei tanto tornava gradito.

                In altra cappetla vicino alla medesima chiesa è posta la statua di S. Gregorio seduto in trono, lavoro disegnato e diretto da Michelangelo Buonarotti Il Santo ha una colomba vicino all'orecchio, la qual cosa ricorda quanto asserisce Pietro Diacono famigliare del Santo, cioè che ogni volta il Santo predicava al popolo, o scriveva sopra la Sacra Scrittura, vedeva sempre una colomba che gli parlava all'orecchio. Nel mezzo alla cappella è collocata una gran tavola di marmo, sopra la quale il Santo Pontefice dava da mangiare a dodici poverelli in ciascun giorno, servendoli di propria mano. Un bel dì si assise a questa mensa cogli altri, un angelo sotto forma di giovinetto, che poi disparve ad un tratto. Da quel dì il Santo accrebbe fino a tredici il numero dei poveri da lui pasciuti. Da ciò ebbe origine il costume di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì Santo il Papa serve di sua mano. [870] Uscito da S. Gregorio, D. Bosco salì alla maestosa chiesa dei santi fratelli martiri Giovanni e Paolo, costrutta sopra la loro abitazione. In mezzo a questa si trova una cancellata di ferro che circonda il luogo del loro martirio i loro corpi, chiusi in un'urna preziosa, riposano sotto l'altare maggiore.

                D. Bosco anche qui prendeva alcune note.

 

                Accanto all'altar maggiore avvi una cappella sotto al cui altare riposa il corpo del B. Paolo della croce. Esso è fondatore dei Passionisti, a cui è affidata l'uffiziatura della chiesa. Questo servo di Dio è piemontese, nato in Castellazzo, paese della diocesi e provincia d'Alessandria. Egli morì nel 1775 in età di anni 82. I Molti miracoli che in Roma ed altrove si vanno ogni giorno operando, hanno fatto dilatare assai la sua Congregazione, che suole chiamarsi dei Passionisti a motivo del quarto voto che essi fanno di promuovere la venerazione verso la passione di N. S. Gesù Cristo.

                Uno di quei religiosi, genovese, detto Fra Andrea, dopo di averci accompagnati a vedere le cose più ragguardevoli della chiesa, ci introdusse nel convento. È  questo un bell'edifizio; ivi sono circa ottanta religiosi in gran parte piemontesi: - Qua, ci disse Fra Andrea, avvi la camera in cui morì il nostro Santo Fondatore. - Ci siamo entrati ed abbiamo in divoto raccoglimento ammirato il luogo donde partì quell'anima benedetta per volare al cielo. Là c'è la sedia, abiti, libri, ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è cappella ove si celebra la santa Messa.

 

                Su quella vetta del Celio, dopo una serie di amarezze e aver vissuto per dieci anni solitario nella sua 'Villa di Camerano, abbandonato il Piemonte e rinunciata la diocesi, erasi ritirato Mons. Artico, Vescovo d'Asti, nel 1857. Una visita del suo amico D. Bosco dovette riuscirgli di [871] grande consolazione. Poco tempo gli rimaneva da vivere e quivi nel 1859 chiudeva con afflitto e forte animo i suoi giorni ed era sepolto nella vicina chiesa.

                Dato un saluto al cortese Fra Andrea, D. Bosco si avviò per andare alla stazione di S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po' di strada, si trovò sotto l'arco trionfale di Costantino, monumento della vittoria della Croce sul paganesimo; e poi incontrò quello di Tito, il quale co' suoi bassorilievi testifica l'avveramento della profezia di Gesù Cristo contro Gerusalemme.

                Giunto in fine a S. Lorenzo in Lucina, che è una delle più vaste parrocchie di Roma, desiderava guadagnar le indulgenze e contemplare il famoso crocifisso di Guido: ma non potè entrare in chiesa, perchè, a motivo dei lavori di restaurazione che ivi si eseguivano, non avea luogo la stazione.

                Il 13 marzo alle dodici e mezzo, presente D. Bosco, fu tenuta radunanza dei Confratelli della Società di S. Vincenzo in casa del Marchese Patrizi, per trattare del modo di stabilire le conferenze annesse, fra i giovani degli Oratorii. Furono presi e notati tutti i suggerimenti dati in proposito da D. Bosco, perchè avevasi vivo desiderio di stabilirle in Roma.

                Verso le due pomeridiane D. Bosco andò a Ponte Sisto a far visita, col Ch. Rua, al sig. D. Botaudi. S'intrattenne con lui con gran piacere, perciocchè era persona molto zelante per tutto ciò che riguarda la gloria di Dio e la salute delle anime. Sistemate alcune cose che riguardavano le Letture Cattoliche, fu stabilito quanto occorreva per l'avvenire, dimostrando D. Botaudi volervi mettere gran sollecitudine per diffonderle.

                Nel ritorno da Ponte Sisto D. Bosco recossi col suo [872] compagno presso Mons. San Marzano Arciv. di Efeso. Questo nobile piemontese dimorava nel palazzetto Sciarra nella piazza di questo nome. Lo accolse con gran bontà e cortesia, e, dopo che D. Bosco gli ebbe fatte alcune commissioni affidategli in Torino, parlarono assai della Biblioteca e de' codici del Vaticano. Monsignore finì con promettere a D. Bosco che lo avrebbe condotto dal celebre Cav. De Rossi, uomo assai erudito nell'archeologia cristiana.

                Oggi la stazione era nella chiesa di S. Maria degli Angioli alle Terme di Diocleziano. È  così chiamata perchè costrutta ove anticamente erano i famosi bagni di questo imperatore, intorno ai quali faticarono migliaia di cristiani condannati per la fede ai lavori forzati. Per incarico ricevuto dal Sommo Pontefice Pio IV, Michelangelo Buonarotti aveva ridotte in chiesa una parte di quei superbi edifizi.

                Quivi D. Bosco andò, sia per guadagnare l'indulgenza plenaria che i Papi concedono a chi fa tale visita, sia per pregare Iddio acciocchè benedicesse il nostro Oratorio e i nostri giovanetti.

                Nel giorno della stazione la chiesa è ornata con ispeciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni, in una cappella accanto all'altar maggiore. Erano in numero grandissimo, fra le quali il corpo di S. Prospero, di S. Fortunato, di S. Cirillo, la testa di S. Giustino martire, di S. Massimo martire e di moltissimi altri.

                D. Bosco non tralasciava di visitare gli Oratorii festivi. A quest'uopo consacrò una domenica intera, che fu il 14 di marzo. Così scrisse egli stesso.

 

                Oggi, domenica, abbiamo detto messa in casa e poi siamo andati a visitare un Oratorio di giovani, accompagnati dal Marchese [873] Patrizi. La chiesa ove si radunavano è detta S. Maria della Quercia. Entrati in chiesa, fummo in sacristia, che è assai spaziosa, e ci rallegrò la vista di circa quaranta giovanetti, i quali col loro contegno e colla loro vivacità rassomigliavano molto ai nostri biricchini di Valdocco. Le sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione per quelli che son preparati, catechismo e una breve istruzione, è quanto ivi si fa. Ci sono due sacerdoti; uno confessa, l'altro assiste. I fratelli della Società di S. Vincenzo fanno il catechismo e dirigono le pratiche di pietà; il Marchese Patrizi segna i biglietti di frequenza, che ciascun giovane porta a casa ogni domenica. Se fossero eziandio istruiti dopo il mezzodì, certamente ne verrebbe loro maggior bene.

                “Dopo mezzogiorno però quei fanciulli, per difetto di apposito locale alla Madonna della Quercia, vanno a riunirsi in un altro Oratorio detto di S. Giovanni dei Fiorentini, ma colà avvi soltanto la ricreazione senza funzioni di chiesa. Noi ci siamo andati nell'ora competente ed abbiamo veduto un centinaio circa di altri giovani che si divertivano a più non posso con vari giuochi, lontani dai pericoli e dall'immoralità.

                “Ci è molto rincresciuto che non avessero altro vantaggio, poichè non si teneva punto istruzione religiosa. Invece di Oratorio doveva piuttosto chiamarsi Ricreatorio. Se ci fosse qualche ecclesiastico, che si occupasse di loro, potrebbe fare del bene alle anime di cui appare grande bisogno; e questo tanto più ci rincrebbe perchè abbiamo trovato in quei giovani molte buone disposizioni. Parecchi di essi godevano nel discorrere con noi, baciando più volte la mano tanto a me quanto a Rua, che suo malgrado era costretto ad acconsentire.

                Intrattenutici alquanto con que' ragazzi: - Andiamo, ci disse il Sig. Marchese Patrizi, andiamo a vedere al di là del Tevere un altro Oratorio, dove ci sono giovani più adulti! - Trattandosi di oratorii abbiamo subito accondisceso e, montati sopra una barca, andammo in Trastevere in un terzo oratorio detto dell'Assunta. Questo ci piacque assai: un giardino spazioso e aggiustato per qualsiasi divertimento, chiesa vicina, giovani adulti, canto e sacre funzioni ci facevano trovar presenti collo spirito al nostro Oratorio di S. Francesco di Sales. Provammo pure gran piacere nel vedere il Direttore di quell'Oratorio, Abate Biondi, [874] a fare l'istruzione e interrogare i giovani più istruiti come spesso si fa tra noi, dopo il racconto della storia Ecclesiastica. Ma anche qui ci manca qualche cosa: non ci sono le funzioni del mattino, non si dà la benedizione, il numero è di circa ottanta, mentre il locale è capace di averne anche quattrocento. Tuttavia siamo rimasti contenti ed abbiamo contratto amicizia con alcuni di loro, e due ci vollero accompagnare fino a casa, quantunque loro costasse oltre un'ora di cammino. Giunti a casa ebbi una visita di Mons. De Merode, maestro di Camera di S. Santità. Dopo alcuni brevi discorsi: - Il Santo Padre, egli disse, mi manda a pregarla che voglia dettare gli esercizi spirituali alle condannate detenute nelle carceri, presso S. Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano. - La preghiera del Papa è per me un comando, e accettai con vero piacere. Mentre però prestava il consenso: - S'intende eziandio, soggiunse il prelato, che li voglia dettare ai carcerati di S. Michele. - A questo secondo invito, che non mi pareva fatto a nome del Papa, e che non era persuaso potesse riuscir gradito ai signori che li custodivano, mi riserbai a rispondere, dopo di avere ricevute notizie del nostro Oratorio.

                Intanto non posi tempo in mezzo e il domani, 15 marzo, alle due pomeridiane sono andato dalla monaca superiora delle condannate nelle carceri. Era mio scopo di combinare il giorno e l'ora per cominciare gli esercizi spirituali. Ella mi disse: - Se sta bene per lei può predicare a momenti, giacchè le donne sono in chiesa e non ci abbiamo predicatore. - Cosi ho cominciato sul momento gli esercizi, e la settimana fu quasi interamente impiegata in questo lavoro di sacro ministero. In questa casa correzionale sono detenute le colpevoli di grave delitto, che noi chiameremmo condannate alla galera. Il loro numero era di duecento sessanta, di cui duecentoventiquattro già condannate; le altre stanno qua a beneplacito dei parenti e della polizia. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare, che usiamo tra noi, riuscì pure fruttuosa in questa carcere. Al sabato, dopo l'ultima predica, la madre superiora mi partecipò con gran piacere che di tutte le recluse nessuna aveva omesso di accostarsi ai Santi Sacramenti. Gli esercizi sono durati dal 15 al 20 del mese. [875] Così con pochi tratti di penna D. Bosco accennava con umiltà a questa sua missione; ma ben altrimenti ne parlò il Cappellano della prigione. Egli aveva osservato attentamente quella turba di infelici, che colle pupille luccicanti di lagrime, penetrate dal sentimento del male che avevano commesso, ascoltavano D. Bosco con meravigliosa attenzione. Era pure rimasto intenerito dall'aria di pietà del predicatore e dalle sue parole calde pel desiderio della salute delle anime. Fin dal secondo giorno molte di quelle donne chiesero di confessarsi da lui, perchè le togliesse dal pauroso inferno dei rimorsi; e nei giorni seguenti tutte si presentarono al suo confessionale colle migliori disposizioni.

                Un mattino D. Bosco fece la predica sul peccato mortale. È  impossibile dire a parole ciò che succedette in quel momento. Dopo aver egli descritto tutti i benefizi che Dio fa continuamente alle sue creature, le misericordie senza numero colle quali tratta i peccatori, ricordando le offese che tutto dì soffre da tanti ingrati cristiani, commosso all'estremo e quasi singhiozzando, interrogava le sue ascoltatrici: - E noi lo offenderemo ancora questo buon Dio?

                Fu sentito allora un profondo sussurrìo che diceva: - No, No.

                E D. Bosco rivoltosi al crocifisso riprese: - Signore, le avete sentite: aiutatele ad essere perseveranti. Vogliono amare Voi, e se vi hanno offeso, non sapevano ciò che si facessero.

                Il cappellano entusiasmato narrò al Cardinale Presidente, Nicola Clarelli Paracciani, del gran bene che si era fatto per la predicazione di D. Bosco; e l'Eminentissimo Principe ne fece parola al Papa, ringraziandolo di aver [876] provvisto così bene ai bisogni delle prigioniere, coll'inviar loro D. Bosco, il quale aveva saputo, col suo santo zelo, guarire tante piaghe anche incancrenite. Il Papa ne fu contentissimo, perchè, col dare a D. Bosco quell'incarico, aveva voluto vedere se proprio egli fosse quale gli era stato dipinto, e quale gli era apparso la prima volta che se lo era veduto davanti. Prese perciò a stimarlo e ad amarlo grandemente.

                Intanto all'Oratorio di Valdocco le funzioni della domenica, la solennità di San Giuseppe, le novene della Madonna, i catechismi della quaresima procedevano regolarmente. Il Teol. Borel era sempre pronto a supplire allorchè mancava un predicatore. Le comunioni pasquali ormai erano imminenti ed i giovani ben preparati. Per la disciplina interna dell'Ospizio vigilava D. Alasonatti, che di quanto accadeva in casa teneva sempre informato .D. Bosco.

                Un inconveniente era però occorso nelle prime settimana dell'assenza di D. Bosco. I giovani interni, ed anche un certo numero di esterni, non volevano andarsi a confessare dagli altri sacerdoti. Il Padre Oblato Dadesso e D. Giacomelli avevano pochissimi penitenti. Ci vollero molte esortazioni e un biglietto di D. Bosco, perchè si rassegnassero per qualche tempo, ad accettare altra guida spirituale: prova evidente e rassicurante della confidenza illimitata che avevano nel loro buon padre.

                Fu obbedito, ma sembrava non potessero vivere senza di lui. Non assuefatti ad essere privi per lungo tempo di sua presenza, ora individualmente, ora collettivamente, non mancavano di chiedergli e dargli notizie per lettera. Tutti gli scrissero più volte sopra biglietti di carta velina, sicchè se ne chiudevano ben cinquanta in una sola busta. [877] D. Bosco nel riceverle provava una grande consolazione e faceva le risposte sempre a tutti, con lettere individuali; oppure metteva sopra un solo foglio una breve risposta a ciascuno, preceduta col nome del destinatario. Il foglio veniva poi tagliato dal Ch. Celestino Durando in tante liste quante erano le risposte e queste consegnate al proprio indirizzo. Quando D. Bosco era impedito, faceva rispondere dal Ch. Rua. Talora qualche studente scrivevagli in lingua latina ed egli presentava lo scritto al cardinale Marini che leggeva quei biglietti con vivo interesse. Fin dal primo incontro col Cardinale, D. Bosco, era venuto suo amico intrinseco.

                Eziandio i chierici dell'Oratorio avevano scritto tutti a D. Bosco, come si rileva nella seguente lettera.

 

                               D. Alasonatti carissimo,

 

                Due parole perchè è tempo di montare in pulpito e la posta parte. Stiamo bene, ottima e paterna accoglienza dal S. Padre. Rua Le scriverà la benedizione che ci ha dato: le lettere de' Chierici, parte sono scritte; le altre le scriverò; ne faccia le parti. Dio Le doni sanità e grazia. Vale in Domino

                Roma, 17 marzo 1858.

 

aff.mo amico

Sac. Giov. Bosco.

 

                Di queste lettere una sola pervenne a noi.

 

                               Carissimo Anfossi,

Roma, 18 Marzo 1858.

 

                Chi sa che ne sia di Anfossi? Egli avrà senza dubbio fatta sempre la parte sua. Dunque perge. Ma ricordati bene che Dominus promisit coronam vigilantibus; e che momentaneum est quod [878] delectat, aeternum est quod cruciat; e che non sunt condignae passiones hujus temporis ad futuram Ioriam quae revelabitur in nobis.

                Amami nel Signore e Maria ti benedica.

 

aff.mo Sac. Bosco.

 

                Oltre queste lettere altre egli ne spedì, indirizzate a tutta la comunità, e il suddetto Ch. Anfossi, con altri molti, si ricorda ancora di averle udite a leggere in pubblico, e testifica: “Erano tutte ripiene di grande entusiasmo pel Sommo Pontefice, e per molti eminenti personaggi ecclesiastici; e così procurava d'ispirare anche a noi grande venerazione per l'autorità pontificia.

 

 

CAPO LXIX. Visita a S. Maria in Via Lata, e ai Fori Traiano e Romano - Seconda udienza concessa dal Papa a D. Bosco, che gli presenta le regole della Pia Società di San Francesco di Sales e gli narra la storia pubblica e la confidenziale dell'Oratorio - _Proposta onorifica e favori segnalati di Pio IX a D. Bosco - lì Card. Vicarioe le Letture Cattoliche - Visita a S. Paolo fuor delle mura; alle Tre Fontane; alla cappella della separazione di S. Pietro e Paolo - Conferenza e il Corrispondente Romano per la diffusione delle Letture Cattoliche - E Colosseo - La scienza di D. Bosco messa alla prova.

 

                IL giorno 21, Domenica, celebrandosi la festa dei dolori della Madonna SS., D. Bosco visitò la chiesa di S. Maria in Via Lata, Si crede sia eretta nel luogo ove dimorò S. Paolo presso il centurione, che lo aveva condotto a Roma per comando di Festo; e quivi l'Apostolo abbia battezzati i primi Romani coll'acqua di una sorgente scaturita per miracolo. Di qui D. Bosco passò ad ammirare la colonna Traiana, che s'innalza 42 metri trai ruderi del suo foro. Dalla base al capitello è ornata da bassorilievi con duemilacinquecento figure, uno dei quali rappresenta la vittoria miracolosa riportata da una legione [880] cristiana sopra i Daci, detta perciò Legione fulminante. Dato quindi uno sguardo all'antichissimo sepolcro di Poblicio Bibulo, dei tempi della repubblica, si avviò al Foro Romano, passando presso l'arco trionfale di Settimio Severo. In mezzo a tante splendide rovine di templi, portici, basiliche, curie, dalle quali un giorno si dettava legge al mondo intero, vide e visitò la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. Questa, col suo vestibolo e colla sagrestia dietro l'abside, corrisponde a tre templi pagani e fu la prima chiesa cristiana in quel foro. Ogni cosa parlava al cuore di D. Bosco dei trionfi di Gesù Cristo sopra l'idolatria.

                Ritornato al Quirinale, sul far della sera ricevette l'invito di recarsi al Vaticano. Il Papa desiderava intrattenersi a lungo con lui, e lo accolse nel modo più benevolo e paterno. Prese subito a parlargli così. - Ho pensato al vostro progetto, e mi sono convinto che potrà procacciare assai del bene alla gioventù. Bisogna attuarlo. I vostri Oratorii senza di esso come potrebbero conservarsi e come provvedere ai loro bisogni spirituali? Perciò mi sembra necessaria una nuova Congregazione religiosa, in mezzo a questi tempi luttuosi. Essa deve fondarsi sopra queste basi: Sia una società con voti, perchè senza voti non si manterrebbe l'unità di spirito e di opere; ma questi voti debbono essere semplici e da potersi facilmente sciogliere, affinchè il malvolere di alcuno dei soci non turbi la pace e l'unione degli altri. Le regole sieno miti e di facile osservanza. La foggia di vestire, le pratiche di pietà non la facciano segnalare in mezzo al secolo. Forse a questo fine, sarebbe meglio chiamarla Società, anzichè Congregazione. Insomma studiate in modo che ogni membro di essa in faccia alla Chiesa sia un religioso, e nella [881] vile società sia un libero cittadino. - Quindi accennava ad alcune Congregazioni, le cui Regole avevano speciale analogia con quella che meditavasi d'istituire.

                D. Bosco allora presentava umilmente a Pio IX il manoscritto delle sue Costituzioni. - Ecco, Beatissimo Padre, gli diceva, il regolamento che racchiude la disciplina e lo spirito che da venti anni guida coloro, i quali impiegano le loro fatiche negli Oratorii. Mi era già prima d'ora adoperato a ridurre gli articoli in forma regolare; ma nei giorni passati vi ho fatto correzioni ed aggiunte secondo le basi che Vostra Santità degnavasi tracciarmi la prima volta, che ebbi l'alto onore di prostrarmi ai Vostri piedi. Siccome però nell'abbozzare i singoli capitoli avrò certamente in più cose sbagliata la traccia proposta, così io rimetto il tutto nelle mani di Vostra Santità e di chi Ella si degnerà di stabilire per leggere, correggere, aggiungere, togliere quanto sarà giudicato a maggior gloria di Dio ed al bene delle anime.

                Il Pontefice prese dalle mani di D. Bosco quel regolamento, svolse alcune di quelle pagine, approvò di bel nuovo l'idea che le aveva ispirate e pose quel manoscritto sopra di un tavolino. Così fu stabilito dallo stesso Vicario di Gesù Cristo, che D. Bosco avrebbe messo mano alla fondazione di una nuova Società religiosa.

                Quindi il Papa si fece esporre minutamente i primordii dell'opera degli Oratorii in Torino e ciò che aveva mosso D. Bosco a cominciarla, tutto ciò che si faceva e come si faceva e gli ostacoli che si erano dovuti superare. Nell'udire le tante contraddizioni, minacce, persecuzioni e lusinghe, esclamò, alludendo anche a quanto egli stesso aveva sofferto dalla rivoluzione: - Davvero! Ambulavimus per vias difficiles! [882] E D. Bosco gli rispose, sorridendo: - Ma, colla grazia di Dio, non lassali sumus in via iniquitatis; - e continuò a narrare il gran bene che il Signore erasi degnato di operare nella sua infinita misericordia, e come molti giovani di straordinaria virtù fossero vissuti e vivessero ancora nell'Oratorio. Il discorso quindi si aggirò sulla vita di Savio Domenico, e Don Bosco raccontò al Papa la visione del buon giovanetto sull'Inghilterra. Pio IX ascoltò con bontà e con piacere e disse: - Questo mi conferma nel mio proposito di lavorare energicamente a favore dell'Inghilterra a cui ho rivolto le mie più vive sollecitudini. Tal racconto, se non altro, mi è come consiglio di un'anima buona.

                Ma questa rivelazione fece nascere un sospetto nella mente di Pio IX, e, guardando fisso D. Bosco, gli chiese se anche egli avesse talora avuto arcana indicazione per procedere nell'opera che aveva fondata; e siccome gli parve che D. Bosco esitasse alquanto, insistette perchè gli raccontasse minutamente tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturale. E D. Bosco con figliale abbandono gli narrò quanto si era presentato alla sua fantasia in sogni straordinari, che in parte già si erano verificati, incominciando dal primo, quando egli era in età di circa nove anni.

                Il Papa lo ascoltò con viva attenzione e molto commosso, non dissimulando che ne faceva gran caso; e gli raccomandò: -Ritornato a Torino, scrivete questi sogni ed ogni altra cosa che mi avete ora esposta, minutamente e nel loro senso naturale; conservatele qual patrimonio per la vostra Congregazione; lasciatele per incoraggiamento e norma ai vostri figli.

                Da ciò trasse argomento per esaltare la missione di [883] chi si occupa della gioventù, usando le più affettuose espressioni di compiacenza; e nello stesso tempo accennò al bene che si operava in Roma dagli Oratorii festivi e da molti Istituti; e diede lode all'educazione ed all'istruzione impartita ai giovanetti nell'Ospizio apostolico di S. Michele. D. Bosco ascoltava e taceva; ma parve al Santo Padre che egli non fosse pienamente del suo parere riguardo all'Ospizio di S. Michele: - Voi dunque, gli disse, sapete qualche cosa che io non so.

                Prego il Santo Padre a scusarmi, se non mi credo lecito fare alcune osservazioni; ma se V. S. me lo comanda, parlerò.

                - Allora ve lo comando e voglio che parliate.

                D. Bosco parlò, usando tuttavia una prudente riserbatezza, ed espose i giudizii di eminenti personaggi intorno all'Ospizio di S. Michele, dei quali desideravasi che ne fosse informato il Pontefice. Pio IX, sorpreso a quelle non aspettate rivelazioni, disse senz'altro che sarebbesi giovato di quelle notizie per rimediare ai segnalati inconvenienti, ed essendosi parlato di laboratori, gli chiese di quali mestieri, arti e studi si occupassero i giovanetti in Valdocco. Quindi lo interrogò: - Fra le scienze, alle quali vi siete applicato, quale è quella che vi è maggiormente piaciuta?

                - Santo Padre, rispose D. Bosco, non sono molte le mie cognizioni; quella però che mi piacerebbe e desidero si è scire Jesum Christum et hunc crucifixum.

                A questa risposta il Papa rimase alquanto pensoso, e forse volendo mettere alla prova questa sua dichiarazione, gli manifestò come fosse stato molto soddisfatto per la riuscita degli esercizi spirituali alle detenute, e che, per dargli un pegno della sua stima ed affezione, aveva risoluto di nominarlo suo cameriere segreto, col titolo di [884] Monsignore. D. Bosco, che mai non aveva ambito onori, modestamente ringraziò il Pontefice, dicendogli in bel modo e scherzando: - Santità! che bella figura io farei, quando fossi Monsignore, in mezzo a' miei ragazzi! I miei figli non saprebbero più riconoscermi ed avere in me tutta la loro confidenza se dovessero darmi il titolo di Monsignore! Non oserebbero più avvicinarsi e tirarmi ora da una parte ed ora dall'altra come fanno adesso. E poi il mondo, per questa dignità, mi crederebbe ricco, ed io non avrei più coraggio di presentarmi a questuare per il nostro Oratorio e per le nostre opere. Beatissimo Padre! t meglio ch'io resti sempre il povero D. Bosco!

                Il Papa ammirò un'umiltà così graziosa, mentre Don Bosco senz'altro passava a chiedergli un'approvazione ed un permesso per poter diffondere anche negli stati Pontificii le sue Letture Cattoliche, e l'esenzione, se fosse possibile, dalla tassa postale per i suoi libretti. Pio IX gli promise che volentieri lo avrebbe contentato; ma lo consigliò a presentarsi al Cardinal Vicario per farne parola eziandio con lui, acciocchè incominciasse ad aver notizia della sua promessa. Gli disse quindi di aver dato uno sguardo alla sua Storia d'Italia ed alle Letture Cattoliche; lodò molto la pubblicazione che da lui si andava facendo delle vite dei Sommi Pontefici de' primi tre secoli, e lo incoraggiò a scrivere, poichè in tal modo sarebbe stato benemerito della Chiesa, massime in questi tempi; e soggiunse, congratulandosi con lui: -Voi fate, colle vostre opere, rivivere i miei Antecessori, specialmente quelli la cui vita era poco nota ai fedeli. - E, dopo averlo interrogato da quali autori traesse le notizie spettanti ai Papi, gli accordava a viva voce varie facoltà personali, che D. Bosco aveagli domandate: quella in perpetuo di [885] poter confessare in omni loco Ecclesiae, e la dispensa dall'obbligo di recitare il breviario. Infine, non ancora soddisfatta la bontà dell'impareggiabile Pontefice, concedevagli ogni possibile facoltà con queste parole: - Vi concedo tutto quello che posso concedervi. - E ciò detto impartivagli la sua benedizione.

                D. Bosco usciva dalla camera del Papa confuso e commosso per tanta degnazione e narrava al Ch. Rua Michele quanto eragli occorso in questa memorabile udienza. La dispensa dal breviario era un gran sollievo per la sua delicata coscienza, poichè sovente dal mattino alla sera era occupato dalla moltitudine dei penitenti, dalle visite e dagli affari. Tuttavia, finchè potè, continuò a recitarlo per intero; o almeno in parte anche quando aveva stanca e inferma la vista e indebolito lo stomaco.

                Ma intanto, quanto è da ammirarsi l'affezione del Sommo Pontefice per Don Bosco! Pio IX da quel momento fu sempre padre ed amico per lui: lo ebbe in grandissima stima, desiderava la sua conversazione, richiedevalo più di una volta di consiglio, gli offriva ripetutamente dignità ecclesiastiche per tenerlo vicino a sè. Don Bosco però, sempre obbediente, eziandio a' suoi desiderii, non credette dover accondiscendere a tale offerta. Mentre egli chiedeva onorificenze per altri, per conto suo sempre se ne sottrasse.

                Il giorno 22 marzo D. Bosco andava a riferire al Cardinale Vicario, l'Em. Costantino Patrizi, il colloquio da lui tenuto col Papa sulla diffusione delle Letture Cattoliche negli stati Ponifici; e vedendo benevolmente disposto in suo favore l'illustre porporato, gli espose la sua idea di stabilire in Roma un ufficio per accettare e registrare le associazioni. Il Cardinale approvò quel progetto e si [886] disse pronto a secondarlo, anche per mezzo di una lettera circolare ai Vescovi dei territorii Papali. Lieto della buona piega presa da un affare, che tanto gli stava a cuore, uscito D. Bosco dal palazzo del Vicariato, peregrinò alla Basilica di S. Paolo fuor delle mura per pregare alla Confessione, venerando il sepolcro del grande apostolo delle genti e vedere le meraviglie di quel tempio immenso. Di qui, dopo un miglio di strada, fu al celebre luogo denominato ad Aquas Salvias, ove S. Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Su questo luogo è costrutta una chiesa con due altari, ove si trovano tre miracolose scaturigini d'acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, D. Bosco pregò anche in una chiesa vicina sotto l'invocazione di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di S. Zenone, tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, con diecimila duecento e tre suoi commilitoni. Presso queste chiese ve n'è una terza dedicata a S. Vincenzo ed Anastasio, di architettura gotica, con tre navate divise da pilastri. È  l'avanzo di una celeberrima antica abbadia. Ritornando D. Bosco in Roma, si fermò innanzi alla grande piramide sepolcrale, di Caio Cestio. Presso questa avvi un'antica cappella, che segna il luogo ove S. Pietro e S. Paolo, condotti al martirio, furono separati dai carnefici e donde il primo avviossi al Gianicolo e l'altro alle Acque Salvie. Don Bosco richiamò alla memoria le scene gloriose, tenerissime e i miracoli strepitosi del 29 giugno, l'anno 67 di Gesù Cristo; e profondamente commosso, esponeva in quella sera al suo ospite le impressioni di quella giornata.

                Il 23 marzo D. Bosco teneva conferenza a Ponte Sisto con vari signori per la definitiva e stabile organizzazione delle Letture Cattoliche in Roma, per la corrispondenza [887] con Torino, per la spedizione de' fascicoli e per il modo di fare il versamento delle somme pagate dagli associati. D. Bosco parlò dell'approvazione del Santo Padre e dell'appoggio promesso dal Cardinal Vicario, e quindi pregò il Sig. Abate Botaudi di assumere l'ufficio di Corrispondente destinato a ricevere le Associazioni, a tenere in deposito i fascicoli ed a distribuirli. Il buon sacerdote accettò volentieri quell'incarico. Fecesi anche parola di studiare il modo per creare vari centri di associazione in altre città degli stati Pontificii.

                Concluso questo affare, al quale D. Bosco annetteva grande importanza, egli volle rivedere attentamente gli archi trionfali di Tito e di Costantino, e passando presso il conico avanzo della Meta sudante il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell'anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora cinquanta metri, per lungo tratto. Nei tempi del suo splendore era tutto coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell'interno sosteneva tutto all'intorno immense gradinate, che potevano capire circa 200.000 persone, perchè assistessero ai combattimenti delle bestie feroci, de' gladiatori, ed alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. D. Bosco entrò nell'arena degli spettacoli la quale conserva l'antico spazio Cioè 241 metri di circonferenza. Nel bel mezzo, tra rottami, erbe e cespugli s'innalzava un'umile croce, e tutt'intorno erano allora disposte quattordici cappelle per le stazioni della Via crucis. D. Bosco desiderò guadagnare le indulgenze di quelle stazioni, e appagata la sua pietà dal Colosseo si recò al Vaticano essendo invitato a pranzo dal Cardinale Antonelli.

                Ovunque D. Bosco andasse, era accolto graziosamente e [888] invitato talora a mensa e a conversazioni perchè i suoi modi, faceti e disinvolti, lo rendevano bene accetto presso tutti. In tali ritrovi però, specialmente nelle prime settimane del suo arrivo in Roma, Cardinali e prelati mettevano a prova i suoi studii e la sua abilità nel ragionare. Le loro interrogazioni mosse con molta cortesia e destrezza facevano cadere il discorso sulle varie discipline ecclesiastiche: e così esploravano, in modo indiretto, in qual misura egli ne avesse fornita la mente. Più volte lo sottomisero ad un vero esame, in specie sulla storia ecclesiastica. Ora la questione aggiravasi sulla cronologia, ora sui motivi della convocazione di certi concilii e sui loro decreti; sulla vita e sulla influenza nell'ordine sociale di alcuni Papi, sulla patria e sugli atti di qualche confessore della fede Ma D. Bosco se ne cavò sempre con molta lode.

                La sera del 23 marzo adunque il Card. Antonelli, dopo il pranzo, teneva conversazione. Sopraggiunsero vari Vescovi, illustri e nobili personaggi, fra i quali il Card. Marini, il Card. Patrizi e Mons. De - Luca, Segretario della Sacra Congregazione de' Vescovi e Regolari. A un tratto il Card. Marini interrogò D. Bosco ove fosse andato in quel mattino e qual monumento avesse visitato.

                - Il Colosseo, rispose D. Bosco.

                - Ha visto in quelle parti il sepolcro delle sante martiri Perpetua e Felicita?

                - Io non saprei se vi siano sepolcri in que' dintorni. Ho letto che Perpetua e Felicita furono martirizzate in Africa; e a meno che il loro corpo non sia stato trasportato in Roma senza che io lo abbia saputo, credo che si trovi ancora ove era una volta. Il breviario nelle lezioni dice forse essere Roma il luogo del loro martirio?

                Tutti i convenuti si guardavano in viso ridendo, e il [889] Card. Antonelli, voltosi al Card. Marini, esclamò: - Ve la siete meritata questa risposta.

                D. Bosco, fu eziandio interrogato se conosceva le antichità Vaticane prima dell'era cristiana. Egli aveva lette attentamente più opere voluminose che trattavano di questo argomento, e per lui leggere una volta un libro era lo stesso che ritenerlo tutto a memoria. Quindi prese a parlare con franchezza di Pallante, delle sue geste e dell'essere quegli stato adorato come Dio dalle genti etrusche, le quali sul colle Vaticano aveangli consacrato un boschetto. Provò il nome di Vaticanum provenire dalla parola Vagitanum, in quanto che Pallante era la divinità che presiedeva ai vagiti dei bambini; quindi passò a parlare del colle Vaticano al tempo dei Romani, del circo fabbricato da Nerone, del luogo della sepoltura di S. Pietro fatta da S. Lino, S. Marcello, S. Apuleio e S. Anacleto, e descrisse l'origine e la storia della Basilica Costantiniana.

                Mons. De Luca fece pur narrare a D. Bosco la storia del Carcere Mamertino, incominciando dall'epoca di Anco Marzio, e D. Bosco lo interessò grandemente con fatti e particolarità che quel Monsignore non aveva mai udite. Anche di que' principi della Chiesa egli aveva eccitata tutta l'attenzione, sicchè a un certo punto disse sorridendo: - Io credeva che solo i miei giovanetti fossero curiosi di udire i miei racconti; ma vedo che non lo sono meno gli eminentissimi cardinali.

                S. E. il Card. Antonelli raccontò al Papa di questi esami dati a D. Bosco, le sue risposte, l'amabile ed erudita sua conversazione; e il S. Padre ne fu contentissimo.

                D. Bosco però aveva talvolta saputo rivolgere abilmente contro i suoi esaminatori, essendo questi sacerdoti [890] o semplici monsignori, le stesse loro armi. Quando si accorgeva di essere interrogato per secondi fini, sulle prime rispondeva con quella precisione che gli era propria, e quando la questione si faceva più intricata, passava egli alle interrogazioni e queste essendo insistenti, chi aveva data la prima risposta non poteva esimersi dalla seconda e dalla terza. Quindi accadeva che quegli il quale aveva incominciato a far domande, sorpreso da quella mossa del suo opponente, inoltravasi in dispute sulle quali non aveva preveduto che sarebbe costretto a rispondere; e non essendosi preparato, restava preso allo stesso suo laccio, e finiva con dire ridendo: - Non so più che cosa rispondere; di questo punto, estraneo a' miei studii, non mi sono occupato di proposito.

                D. Bosco coglieva allora questo momento per far divergere il discorso e diceva: - Dopo tanto parlare abbiamo la gola asciutta, anzi secca, fate venire qualche rinfresco.

                - Ma sì, ma sì, rispondeva quel prelato, contento di uscir fuori da quell'imbroglio.

                Il servo compariva coll'occorrente, e D. Bosco, con qualche facezia indirizzata al servo, distraeva l'attenzione dei convenuti alla conversazione, destava l'ilarità, e rimediava a quel po' di confusione provata da chi si era dato per vinto. Così finiva allegramente la serata con scherzi e qualche novella amena.

                Questo fu anche il metodo di Don Bosco in ogni altra circostanza, nella quale desiderava impedire il proseguimento di un discorso, e senza che nessuno rimanesse offeso.

                I signori romani intanto avendo conosciuto che non era facile cosa prenderlo in fallo e avvilupparlo con interrogazioni [891], cessarono di metterlo alla prova, ed all'affetto per lui unirono una grande stima e venerazione per le nuove virtù che in lui scoprivano. Trovandosi una sera in conversazione, non sappiamo bene se presso il Card. Gaude o il Card. Altieri, ed essendo presenti vari prelati, l'Eminentissimo gli disse: - D. Bosco, ci faccia un po' una predica come è solito a farla a' suoi ragazzi.

                - Ma, interrogò D. Bosco, come debbo farla? L'ho da fare indirizzando la parola a Vostra Eminenza ed a questi Reverendissimi?

                - Bene faccia così

                - Ma non sarebbe meglio che essi facessero la predica a me ed io stessi ad udirli?

                - No, no, soggiunse il Cardinale; predichi proprio come se noi fossimo i suoi ragazzi.

                E D. Bosco tutto tranquillo incominciò: Me cari fieui, e continuò per un po' di tempo a narrare in piemontese un tratto di storia ecclesiastica, intromettendo dialoghi pieni di brio, proverbi e frasi lepide, avvisi, rimproveri, promesse, interrogazioni ed esortazioni a' suoi uditori e via via. Quei signori, e per ciò che intendevano e per ciò che non capivano, incominciarono a ridere di cuore finchè il Cardinale non potendone più lo interruppe dicendogli a stento: - Basta! basta così! - Nello stesso tempo però tutti conobbero la meravigliosa potenza della parola di D. Bosco sull'animo dei fanciulli.

                Il Card. Marini, venerando vecchio che tanto amava e stimava D. Bosco, parecchie volte lo volle commensale in sua casa, ed invitava alcuni degli Eminentissimi suoi colleghi ed altri amici a passare la serata col servo di Dio. D. Bosco però non invanivasi di tante distinzioni e dell'onore che gliene veniva, e intratteneva que' personaggi [892] splendori della Chiesa per scienza e virtù, narrando loro con vera compiacenza i fatti della sua giovinezza: e quando conduceva la vaccherella al pascolo, o andava alle nidiate degli uccelli; quando era servitore in casa del Sig. Moglia, o studente a Chieri e che doveva pagare la pensione con faticosi lavori in casa di vari cittadini. Di ciò aveva parlato eziandio col Sommo Pontefice, e tutti ammiravano la sua grande semplicità ed umiltà.

                Queste virtù formavano il carattere che in lui spiccava costantemente ovunque andasse. Narrava il teologo Leonardo Murialdo: - Nel 1858, trovandomi io a Roma in compagnia di un avvocato di Torino, e scorgendo Don Bosco per una contrada, lasciai per un istante l'avvocato, per andarlo a salutare. Ritornato presso il mio compagno, questi mi domandò:

                - Chi è quel sacerdote?

                - D. Bosco, gli risposi io.

                - D. Bosco? rispose l'avvocato: quel D. Bosco che raccoglie centinaia di giovanetti? Mi ricordo d'aver incontrato quel prete per le vie di Torino, e non conoscendolo e vedendo così dimesso il suo portamento ed il suo vestito, mi chiedeva chi si fosse quel semplicione di un cappellano.

 

 

CAPO LXX. Visita alle chiese di S. Clemente, dei Quattro Coronali, di S. Giovanni avanti la porla latina, e del Domine quo vadis - Messa alla Madonna della Quercia - Don Bosco in mezzo ad una turba di ragazzi - Il Papa alla Minerva - S. Stefano Rotondo e S. Maria in navicella - Il Can. Colli - Il Padre Pagani e le regole della Pia Società - La chiesa di S. Agostino -Pellegrinaggio alla Madonna di Genazzano - D. Bosco in San,Pietro riceve la palma dalle mani del Papa - Esclamazione di un milord inglese - D. Bosco, caudatario del Card. Marini, assiste nella Cappella Sistina alle sacre funzioni del giovedì, venerdì e sabato santo D. Bosco in adorazione nella Cappella Paolina - La festa di Pasqua in S. Pietro - La benedizione dei, papa dalla loggia Vaticana - D. Bosco nell'imbarazzo su quella loggia - Un pranzo diplomatico.

 

                IL 24 marzo D. Bosco recavasi alla Basilica di San Clemente per venerare le reliquie del quarto Papa dopo S. Pietro, quelle di S. Ignazio martire Vescovo d'Antiochia; e per ammirare l'architettura dell'antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all'altare della Confessione, vi ha un recinto di [894] marmo bianco, che costituisce il coro per il clero minore, con due pulpiti: uno pel canto del vangelo, presso il quale si alza una colonnina destinata pel cero pasquale, e l'altro per il suddiacono che doveva leggere l'epistola; a fianco di quest'ultimo un leggìo per i chierici cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle sacre scritture. Intorno all'abside vi è il sedile destinato per i sacerdoti, e in fondo, nel centro, sorge su tre gradini la cattedra del Vescovo. Tutti questi oggetti furono tolti dalla Basilica Costantiniana, che ora forma come i sotterranei di quella che visitava D. Bosco, e nei quali si vedono, sulle pareti, immagini di santi dipinte indubbiamente nel secolo IV, altri affreschi dei secoli successivi fino all'XI, ed una Madonna col bambino sulle ginocchia del secolo IX. Quanti errori dei protestanti vide D. Bosco essere confutati dai monumenti di questa doppia basilica!

                Di qui D. Bosco procedette alla chiesa di forma basilicale, detta dei quattro coronali, a visitare i sepolcri dei santi martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano; passò a S. Giovanni avanti la porta latina, presso la quale sta una cappella edificata sul luogo ove S. Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d'olio bollente; s'inoltrò fino alla chiesina del Domine quo vadis, così chiamata perchè apparve in quel punto il Divin Salvatore a S. Pietro che usciva da Roma, per sottrarsi, pressato dai fedeli, al furore della persecuzione: - Signore, dove vai? gridò l'Apostolo stupito. E Gesù gli rispose: - Vengo per essere crocifisso un'altra volta. S. Pietro comprese, e ritornò in Roma dove lo aspettava il martirio.

                Da questo tempietto D. Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si [895] contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, i quali ricordano qual fine sovrasti ad ogni grandezza umana.

                Il 25 marzo, festa della SS. Annunziata, il Marchese Patrizi condusse D. Bosco a celebrare la S. Messa alla Madonna della Quercia. Lo accompagnavano vari confratelli della Società di S. Vincenzo de' Paoli. D. Bosco confessò, predicò e s'intrattenne coi giovani dopo le sacre funzioni; parlò della fondazione, dello sviluppo delle conferenze annesse, e dei vantaggi che da queste sarebbero provenuti; e nel ritirarsi fece promessa che sarebbe ritornato in quel caro Oratorio.

                Una scena graziosa accadeva in questa mattina. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz'altro si portò in mezzo a loro, che, sospendendo i vari giuochi, lo guardavano meravigliati. D. Bosco alzò allora la mano, tenendo fra le dita una medaglia, e poi esclamò amorevolmente: - Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi.

                Que' ragazzi, preso animo, gridarono a pieno coro sporgendo le mani: - Non importa, non importa... a me! a me!

                D. Bosco soggiunse: - Ebbene; noti avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?

                - Sono io, sono io - schiamazzarono tutti insieme.

                D. Bosco continuò: - Ma come posso fare io, se tutti siete buoni ugualmente? Ebbene: voglio donarla al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?

                - Sono io, sono io - risposero con grida assordanti.

                Il Marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel veder D. Bosco [896] trattare così famigliarmente con que' ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano: - Ecco un altro S. Filippo Neri, amico della gioventù. - D. Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da que' fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la S. Messa, in quale chiesa solessero andare, se conoscevano gli Oratorii che erano in quelle parti, se avessero già parlato con l'Abate Biondi. I fanciulli rispondevano. Il dialogo era animato, e finalmente D. Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, prometteva che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe recato una medaglia ovvero un'immagine per ciascuno di essi. D. Bosco, salutato affettuosamente, usciva di mezzo a quella turba, e ritornando a que' signori che lo aspettavano, loro mostrava quell'unica medaglia che teneva ancora in mano. Nulla aveva dato a que' fanciulli, eppure li aveva lasciati contenti. Il Marchese Patrizi osservò allora: - Il Beato Sebastiano Valfré diceva: “Bisogna essere santamente furbi nel saper adoperare talora mezzi futili e anche strani per tendere le reti e cogliere la gente semplice: e così facilmente s'induce ad ascoltare la parola del Sacerdote, e a far opere vantaggiose per le anime proprie, pel sollievo del prossimo, e per la gloria di Dio; ma più particolarmente colla gioventù riescono certe industrie che talora parrebbero bizzarre”.

                In questo giorno il Papa doveva recarsi alla chiesa di S. Maria sopra Minerva ove, dalla confraternita dell'Annunziata, si assegnavano doti alle zitelle bisognose. Invitato dal Card. Gaude, D. Bosco potè contemplare il nobile corteggio che accompagnava la carrozza del Papa tirata da sei cavalli, essere testimonio dell'amore e dell'entusiasmo della moltitudine per il Vicario di Gesù Cristo. [897] assistere alla bella solennità e ricevere più volte la benedizione pontificia. Non consta da documenti, ma sembra molto probabile che il Card. Gaude abbia presentato Don Bosco all'angelico Pio IX.

                Alla sera sedeva a mensa di casa De - Maistre il Marchese Fassati giunto da Torino per le funzioni della settimana santa.

                Il 26 marzo D. Bosco ritornava sul Monte Celio ed entrava nella chiesa molto spaziosa di S. Stefano rotondo, così detta per la sua forma. Il suo cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Su tutte le pareti intorno sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della Fede, S. Primo e S. Feliciano.

                Da S. Stefano rotondo D. Bosco passava a S. Maria detta in Dominica, perchè fabbricata sulla casa di S. Ciriaca, e anche S. Maria della navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza. Ha tre navi spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX, Fra questi si vede la Vergine benedetta, al posto d'onore fra molti angeli e ai piedi di essa inginocchiato il Papa Pasquale.

                D. Bosco dopo aver preso note ritornava a casa, ove ebbe l'onore di una visita del Teol. Can. Colli Giacomo Antonio. D. Bosco era già stato ad ossequiarlo nella casa dei Rosminiani. Più volte egli andava a pranzo con questi buoni religiosi, suoi cordiali amici, coi Superiori dei quali aveva molta confidenza. Infatti, siccome a tavola i loro discorsi cadevano sempre su argomenti di filosofia, un giorno preso a parte il Padre Pagani, potè dirgli: Sembra che se talora essi lasciassero un po' da parte [898] la filosofia, e si dessero con più impegno alla Teologia, forse sarebbe meglio. - Il Padre Pagani gli rispose: Ma, la filosofia non è la base, la porta della Teologia?

                D.Bosco nulla aggiunse, poichè, conosceva la scienza di quell'uomo anche nelle materie teologiche e si contentò dell'avviso.

                Tuttavia il Padre Pagani provò un po' di turbamento a quelle parole, sicchè le confidò al Ch. Rua, facendo sue ragioni. Il chierico per la sua pietà, virtù e specie la prudenza, si era acquistato la sua stima, come pure quella degli altri religiosi. Tanto più che speravano di vederlo un giorno con D. Bosco membro della loro Congregazione.

                Avendo essi di ciò sparsa voce in Roma, Rua incominciò a riceverne congratulazioni da personaggi eminenti. Egli però, senza palesare le sue propensioni e per cavarsi d'impaccio, rispondeva sempre: - lo dipendo da D. Bosco, e farò ciò che egli mi dirà.

                Ma D. Bosco non aveva tale intenzione e una sera, per usare un atto di fiducia verso il Padre Pagani, per mezzo del Ch. Rua, che era andato a casa De Maistre, gli mandò il manoscritto delle Regole della Pia Società, pregandolo che avesse la bontà di esaminarle e dare il suo parere. Il Padre Pagani le lesse, e restituendole a D. Bosco con una sua lettera consegnata allo stesso Rua, gli diceva di averle lette con molta sua edificazione e non aver trovato nulla da osservare. Uno stile così laconico svelava la sorpresa incresciosa cagionata da tale rivelazione Il Ch. Rua non tardò ad accorgersene, da certa freddezza di modi, quantunque gli si usassero sempre i riguardi della più squisita ospitalità.

                Il 27 marzo, sabato, precedente la Domenica delle Palme, era stato convenuto colla famiglia De Maistre ed altri [899] signori, un pellegrinaggio in onore, di Maria SS. D. Bosco era andato a far sue divozioni alla chiesa di S. Agostino, sull'altar maggiore della quale ha culto un'immagine della Madonna, tolta da S. Sofia in Costantinopoli, e trafugata dai Greci quando i Turchi ebbero invasa quella città. Venerate la reliquie di S. Monica e la camera, ora sotterranea, ove S. Luca scrisse il suo vangelo, dai Padri Agostiniani che abitavano l'annesso vastissimo convento, D. Bosco era stato invitato a recarsi al loro santuario di Genazzano, diocesi suburbicaria di Palestrina. Qui si custodisce una pittura della Madonna detta del Buon Consiglio. Questa, sotto Paolo II, apparve miracolosamente sulla parete di quel tempio e quivi rimase. Tale effigie era scomparsa da Scutari al tempo dell'invasione dei Musulmani, e gli Albanesi per molti anni venivano a visitarla piangendo e a pregarla di voler ritornare in mezzo a loro.

                D. Bosco annuì, e in questo mattino in compagnia del Conte Rodolfo e colla sua famiglia e la servitù fu a quel santuario ove il Generale degli eremiti di S. Agostino procurò che fosse accolto con ogni riguardo. Celebrata la S. Messa, distribuita agli altri la santa Comunione, passate lietamente alcune ore, rientrò in Roma a notte fatta.

                Il Santo Padre intanto aveva espresso il desiderio che D. Bosco assistesse in Vaticano al divoto e magnifico spettacolo di tutte le funzioni della settimana santa. Quindi aveva dato incarico a Mons. Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse con suo agio essere spettatore dei sacri riti. Monsignore lo fece ricercare per ogni dove; ma il messo in tutto il giorno non potè incontrarlo, poichè egli si trovava a Genazzano. Finalmente, ritornato all'abitazione del Conte De Maistre ad [900] ora tardissima, seppe che D. Bosco erasi già ritirato in sua camera. Tuttavia, dicendo egli che veniva per ordine del Papa, fu introdotto nella camera, e presentò a D. Bosco la lettera d'invito, colla quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani di Sua Santità. D. Bosco la lesse subito, ed esclamò che sarebbe andato con suo gran piacere. Anche il Ch. Rua ebbe un simile biglietto.

                Il domani, domenica 28 marzo, D. Bosco col Ch. Rua, entrò nella Basilica di S. Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il Conte Carlo De Maistre lo accompagnò alla tribuna de' diplomatici, ove eragli preparato il posto. Don Bosco era tutto occhio poichè conosceva l'importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato a quella solennità di riti. A un certo punto un cantore soprano della cappella Sistina cantò una parte da solo, ma così bene che Don Bosco ne fu commosso fino alle lagrime e quel milord era rimasto come estatico. Terminato quel canto il milord si volse a Don Bosco ed esclamò in latino, perchè in altra lingua non sapava come farsi intendere: - Post hoc paradisus! - Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicismo e poi fu prete e Vescovo.

                Come il Papa ebbe benedette le palme, venuto il proprio turno, il corpo diplomatico, sfilò verso il trono del Pontefice, ed ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche D. Bosco e il Ch. Rua s'inginocchiarono ai piedi del Pontefice ed ebbero la palma. Così Pio IX volle. E non era D. Bosco un ambasciatore dell'Altissimo? Il Ch. Rua ritornato presso i Rosminiani regalò la sua palma al Padre Pagani, che gradì molto quel dono. La messa era stata celebrata pontificalmente dal [901] Cardinale Alessandro Bernabò, Prefetto della S. Congregazione di Propaganda.

                Il Card. Marini, che era uno dei due Cardinali diaconi assistenti al trono, perchè D. Bosco potesse assistere da vicino, anche nella cappella Sistina a tutte le altre funzioni della settimana santa, se lo prese come caudatario.

                -Così il servo di Dio, in veste violacea, stette quasi a fianco del Papa nel tempo dell'intero cerimoniale, e potè gustare i canti gregoriani e le musiche dell'Allegri e del Palestrina. Nel giovedì vide pontificare la messa dal Cardinal Mario Mattei come il più anziano dei Vescovi Suburbicarii invece del Cardinale decano del sacro collegio che era impedito; seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento alla Cappella Paolina per riporlo nell'urna ivi preparata; lo accompagnò sulla loggia vaticana dalla quale Roma attendeva la solenne benedizione; assistè in due vastissime gallerie del palazzo alla lavanda dei piedi fatta dal Papa a tredici sacerdoti, e alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

                A proposito del venerdì santo così leggiamo in un opuscolo stampato in Parigi nel 1883 col titolo Dom Bosco à Paris par un ancien Magistrat, a pag. 66.

                A Roma un magistrato francese stava inginocchiato vicino ad un sacerdote il giorno di venerdì santo nella,cappella Paolina adorando Gesù in Sacramento nel Santo Sepolcro.

                Il magistrato era accompagnato da un signore italiano, che nell'uscire gli disse: - Avevate vicino a voi D. Bosco, un santo, il Vincenzo De'Paoli di Torino.

                E D. Bosco lo fu dell'Italia, e se Dio lo vuole, del mondo intero” [902] D. Bosco dopo l'adorazione aveva ripreso il suo ufficio di caudatario presso il Card. Marini; in quel giorno celebrava il Card. Gabriele Ferretti come penitenziere maggiore. Sabato santo pontificava il Cardinale Francesco Gaude.

                Il 4 aprile le salve d'artiglieria dal Castel S. Angelo annunciavano l'aurora del giorno di Pasqua. Pio IX scendeva verso le dieci nella Basilica in sedia gestatoria e cantava la S. Messa. Dopo i pontificali egli doveva benedire secondo il solito urbi et orbi dalla loggia di S. Pietro. Sfilò il corteggio dei Vescovi e dei Cardinali e salì alla loggia.

                D. Bosco col Card. Marini ed un Vescovo restò per un istante vicino al davanzale, coperto di un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre aurei triregni. Il Cardinale disse a D. Bosco: -Osservate quale spettacolo! - D. Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L'esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l'obelisco e la scalinata di S. Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l'artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un'idea di tale spettacolo.

                D. Bosco, che aveva lasciato il Papa nella Basilica nell'atto che venerava le esposte reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare [903] tanta gente di ogni nazione, a un tratto s'accorge che i due prelati sono scomparsi, e vede a destra e a sinistra le stanghe della sedia gestatoria che gli era sopraggiunta alle spalle senza che se ne avvedesse. Si trovò allora in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, appena poteva muoversi; tutto intorno alla sedia stavano pigiati i Cardinali, i vescovi, i cerimonieri e i sediari, sicchè non vedeva un varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle un'inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa posava sulla sua spalla. In quel mentre un silenzio solenne regnò sulla piazza in modo che si sarebbe potuto udire il ronzío di una mosca che vola. Gli stessi cavalli stavano immobili. D. Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo incidente, osservo che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa seduto recitava alcune preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della loggia era sparso di frondi e di fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni di que' fiori li metteva tra i fogli del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al Cielo le mani, le stese sulla moltitudine, la quale curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formola della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

                La folla rispose alla benedizione del Papa con una immensa calorosa ovazione. Allora il Card. Ugolini Giuseppe lesse in latino il Breve dell'indulgenza plenaria e subito il Card. Marini lesse lo stesso Breve in lingua italiana. D. Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò la sedia [904] ed il Papa erano scomparsi. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava continuamente il cannone da Castel Sant'Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il Card. Marini allora, accompagnato dal caudatario, discese e andò alla sua carrozza. Ma appena questa si mosse, D. Bosco sentissi preso dal male prodotto da quel moto e gli si rivoltava lo stomaco. Sofferse alquanto; ma non potendo più resistere, manifestò al Cardinale quel suo incomodo. Per consiglio del Cardinale, salì in cassetta col cocchiere; ma continuando il malessere, scese per caminare a piedi. Essendo in veste paonazza, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma tutto solo; allora il segretario, anche buonissimo prete e gentile, scese di carrozza e lo accompagnò al palazzo del Cardinale.

                Era scomparso quel momentaneo disturbo cagionato dalla commozione provata in quel mattino, ma non cessò così presto l'ilarità di tanti suoi amici piemontesi, fra i quali Tamietti Giovanni di Cambiano, che lo avevano visto sulla loggia Vaticana. Quando lo incontrarono: - Ma bravo, gli dicevano, ma bene. Faceva una bella figura così esposto a tutta la piazza! - E D. Bosco apriva il suo libro e mostrava loro i fiori che lassù aveva presi, i quali disseccati conservò sempre, cari ricordi di quel giorno.

                Ma a questi fiori raccolti da D. Bosco ai piedi del Papa, al piede di Pio IX sulla spalla di D. Bosco non si potrebbe dare un significato non oscuro? Ce lo darà il corso dei nostri racconti.

                Colla benedizione del Papa non erano ancor terminate quelle solennità. Il lunedì, dopo la Pasqua, nella Basilica Vaticana pontificava la messa il Cardinale Ludovico Altieri e il martedì il Cardinale Carlo Reisach. D. Bosco [905] non volle trascurare alcuna di queste meravigliose funzioni che lo trasportavano alla meditazione del Paradiso; e noi le ricordiamo anche perchè la maggior parte dei Cardinali nominati furono protettori ed amici del nostro buon padre.

                Frattanto in uno di questi giorni il Conte Rodolfo De - Maistre, volendo dar testimonianza della grande stima che aveva per D. Bosco, lo invitò ad un pranzo diplomatico. Intervennero tutti i vari personaggi accreditati dalle varie corti di Europa presso la santa Sede. Fra costoro è massima gloria per chi sa parlare il maggior numero,di lingue, ed il Conte De - Maistre ad uno indirizzava il discorso in francese, ad un altro in tedesco, a quello in ispagnuolo. Finalmente si volse a D. Bosco che stava silenzioso in mezzo a persone che parlavano tutte le lingue, eccettuata l'italiana. D. Bosco sedeva in faccia al Conte, il quale lo interrogò in buon piemontese se avesse in quel mattino udita la musica della cappella pontificia, quale giudizio si dovesse dare sull'abilità dei cantori romani, se fossero a lui piaciuti gli strilli di qualche soprano, e certe voci squarciate di alcuni bassi. D. Bosco, disinvolto ad alta voce, gli rispondeva nel linguaggio di Gianduja con frasi, proverbi, frizzi, paragoni in proposito. E ambedue proseguirono alquanto di questo piede snocciolando le parole più strane, e le meno intelligibili per gli stranieri, nel proprio dialetto.

                I convitati stavano attenti con occhi sbarrati e orecchie tese, e siccome nessuno conosceva questa lingua, domandarono al Conte da qual nazione fosse parlata.

                - Il Sanscrito! - rispose solennemente.

                Tutti sulle prime rimasero stupiti a tale risposta; poi risero, si congratularono e applaudirono ad una lingua nuova in diplomazia.

 

 

CAPO LXXI. Terza udienza di Pio IX e sua generosità - Indulgenze e benedizioni - I1 Teologo Murialdo - Parola del Santo Padre per i giovani degli Oratorii - Lettera di D. Bosco a D. Alasonatti - Letture Cattoliche: IL MESE DI MAGGIO CONSACRATO A MARIA IMMACOLATA - D. Bosco a pranzo cogli scrittori della Civiltà Cattolica - Visite di congedo - Ultimo saluto agli Oratorii festivi di Roma - Una passeggiata in carrozza col Cardinale Tosti - Le Catacombe di S. Sebastiano.

 

                DON Bosco il 6 aprile ritornava ad un'udienza particolare di Pio IX col Ch. Rua e il Teol. Morialdo, ammesso in Vaticano per gentile interposizione dello stesso D. Bosco.

                Entravano nell'anticamera alle ore nove di sera, e subito D. Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio: - Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua in tempo della benedizione Papale? Lì, innanzi al Papa! E tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da D. Bosco. - Santo Padre, rispose D. Bosco tranquillo ed umile, fui colto all'improvvista e Le domando venia se io in qualche modo l'ho offeso! [907]

                - E aggiungete ancora l'affronto, col domandarmi se mi avete offeso?

                D. Bosco guardò il Papa, gli parve fittizio tale suo contegno; e infatti un sorriso accennava di comparire su quelle labbra venerande. E il Pontefice continuò: - Ma che cosa vi è saltato in testa di cogliere fiori in quel momento? Ci volle tutta la gravità di Pio IX per non scoppiar dalle risa. - E il Papa allora sorrise, e amorevolmente passò a dirgli senz'altro di aver letto con attenzione il manoscritto delle Costituzioni dal primo all'ultimo articolo. E presolo dal tavolino, glielo porse soggiungendo: - Consegnatelo al Cardinale Gaude, il quale lo esaminerà, e a suo tempo ve ne parlerà: - D. Bosco lo aperse e vide che Pio IX aveva avuta la degnazione di aggiungervi alcune note e modificazioni di propria mano.

                Il Santo Padre propendeva che quel regolamento fosse tosto dato ad una Commissione incaricata di riferire; ma D. Bosco gli chiese che permettese di metterlo per qualche tempo in esecuzione, per poi umiliarlo di nuovo a Sua Santità. Pio IX approvò e nello stesso tempo gli indicò tutto il tramite che avrebbe dovuto percorrere per ottenere la definitiva approvazione della sua Pia Società colle relative Costituzioni.

                Quindi D. Bosco gli rammentò varie suppliche che aveagli presentate per ottenere concessioni di indulgenze nominatamente per alcuni suoi benefattori, e per coloro che avessero promosso il canto di laudi sacre. E il Papa benignamente assicurò che avrebbe provveduto.

                D. Bosco gli chiese eziandio un'induldenza plenaria per tutti i giovani che intervenivano agli Oratorii festivi, per quel giorno da essi scelto in cui si accosterebbero ai SS. Sacramenti; la benedizione apostolica a quelli che [908] prendono parte attiva a questi oratorii; a coloro che in qualunque modo si adoperano per la diffusione delle Letture Cattoliche; e ai giovani dell'Ospizio di S. Francesco di Sales; infine alcune facoltà speciali per D. Morizio e D. Reviglio. E Pio IX gli concesse tutti i favori a lui chiesti.

                - Ed ora, Beatissimo Padre, soggiunse D. Bosco, abbia la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere a' miei giovani, come ricordo uscito dalle labbra del Vicario di Gesù Cristo.

                - La presenza di Dio! rispose il Papa: dite ai vostri giovani in mio nome che si regolino sempre con questo pensiero!... Ed ora non avete più nulla da domandarmi? Voi desiderate certamente ancora qualche cosa.

                - Santo Padre, rispose egli, la Santità Vostra si è degnata di concedermi quanto ho domandato, e per ora non mi resta che di ringraziarla dal più intimo del cuore.

                - Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.

                A questa replica D. Bosco stava là come sospeso senza proferir parola, quando il Pontefice soggiunse:

                - E come? Non desiderate voi di fare stare allegri i vostri giovanetti, quando sarete ritornato in mezzo di loro?

                - Santità, questo sì.

                - Dunque aspettate.

                Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il Teol, Murialdo, il Ch. Rua e D. Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità colla quale il Papa trattava benignamente D. Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne traeva fuori colle due mani un bel gruzzolo di monete romane d'oro e senza contarle porgevale a D. Bosco, dicendo: -Prendete e [909] date poi una buona merenda ai vostri figliuoli. - Ognuno può immaginare l'impressione che fece sopra Don Bosco questo atto di sì paterna bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti divoti che gli presentarono, e dava a tutti un prezioso ricordo in medaglie.

                Erano tutti commossi, e quando il teologo Murialdo potè rivolgere la parola al Papa, gli domandò una speciale benedizione per l'Oratorio di S. Luigi, a cui l'aveva preposto D. Bosco. Pio IX gli rispose; - Sta bene occuparsi dei fanciulli: vi sono degli apostoli, che vorrebbero allontanare i ragazzi da Gesù; ma il Salvatore diceva: Sinite parvulos venire ad me; e così dobbiamo fare noi. Iddio da molte benedizioni a chi si occupa a pro dei fanciulli, ed è grande consolazione il salvarsi in compagnia di altri salvati da noi, mentre è poltroneria volersi salvare da soli. - Disse allora il Teol. Murialdo: - Il bisogno è grande specialmente nel nostro paese.

                E subito ripigliò il Santo Padre: - Dappertutto, e certo anche nel vostro paese, dove per le sregolatezze della stampa avvengono gravi mali. Si stampa in un luogo; ma penetrano dappertutto gli scritti, perchè non si ha il muro della Cina per impedire loro l'entrata. L'anno scorso nel mio viaggio a Firenze e a Bologna ebbi a sequestrare migliaia di opuscoletti provenienti da Torino e da Milano.

                Non è a dire quanto tali parole confortassero più che mai il Teol. Murialdo nella sua impresa, e il Papa non dimenticò lo zelante giovane prete torinese, domandandone poi notizie a D. Bosco nel 1867.

                Omai l'udienza era al suo termine: tutti si inginocchiarono per ricevere ancora una benedizione dal Papa, [910] il quale incoraggiò D. Bosco, che si ritirava per l'ultimo, a proseguire l'opera sua, a praticare per esperimento le regole che avevagli presentate; e lo esortò una seconda volta a scrivere minutamente quanto aveva narrato a lui di cose soprannaturali, anche di quelle stesse di minor importanza, ma che avevano relazione colla prima idea formata degli Oratorii: ripetendo che saperle, sarebbe stato di grandissimo conforto, nei tempi avvenire, per coloro che avrebbero fatto parte della nuova Congregazione. Mentre così parlava, entrò un Cardinale per sottoporre alla sua firma alcune carte, e Pio IX interruppe il discorso e congedò D. Bosco dicendogli:

                -Rammentatevi quel che vi ho detto.

                All'indomani il Papa firmava i Rescritti di proprio pugno e li faceva consegnare a D. Bosco[32]; il quale illuminato dai consigli e confortato dalle parole del Vicario di Gesù Cristo, nei giorni che si fermò ancora a Roma, ritoccava le regole della Pia Società di S. Francesco di Sales, e ne toglieva e aggiungeva più altre per renderne la sostanza conforme ai sentimenti di Pio IX. [911]

                Fattele tracopiare dal Ch. Rua, le recò all'Eminentissimo Cardinale Gaude, che tutte le volle leggere con molta bontà, perchè il Papa erasi degnato di raccomandargli tale affare che stavagli a cuore. Egli conosceva l'Oratorio, essendo venuto a visitarlo l'anno innanzi come abbiamo già narrato; laonde D. Bosco tenne con lui parecchie conferenze in proposito, udì i suoi savii riflessi e consigli; e si andò d'accordo che le regole fossero praticate per qualche tempo come si erano modificate, e infine rimesse a Sua Eminenza che le avrebbe presentate alla Santa Sede per l'approvazione.

                D. Bosco erasi intanto affrettato a spedire a Torino il rescritto delle Indulgenze ottenute al fine di promuovere il canto delle lodi sacre fra i popoli cristiani; ed un annunzio della benedizione del Santo Padre a coloro che cooperavano alla diffusione delle Letture Cattoliche. Questi due fogli dovevano essere stampati nel fascicolo di aprile.

                Nello stesso tempo D. Bosco scriveva a D. Alasonatti. Si noti che nell'Oratorio di Torino continuava l'usanza, che permetteva a que' chierici e a que' giovani, che lo avessero desiderato, di andare alle loro case per le vacanze pasquali.

 

                               Carissimo Sig. D. Alasonalti,

 

                Ho ricevuto le sue due ultime e va bene quanto mi disse. Ho piacere che si sia fatto il Lavabo, e lodo lo zelo e la sommessione de' Chierici coll'aver fatto le vacanze all'Oratorio. Questo mi spinge a portare loro a casa qualche cosa di più speciale.

                Ho scritto a D. Picco ed al Teol. Belasio, secondo le norme accennate. Gli esercizi sarebbero fissati pel Lunedì della terza Domenica dopo Pasqua. Ieri ho avuto l'udienza dal santo Padre, e fu un vero tratto di bontà da confondere qualsiasi galantuomo. Mi ha concesso quanto ho dimandato; quindi ce n'è anche per [912] Lei. Tra le altre cose ha conceduto un'indulgenza plenaria per tutti i giovani che intervengono agli Oratorii; di più quaranta scudi d'oro per dare una colazione ai medesimi. D. Morizio, D. Reviglio hanno abbondantemente ottenuto quanto desideravano. L'udienza passò i tre quarti d'ora. Il Teol. Murialdo, Rua, gongolavano dalla gioia. Quante cose avrò da raccontare, quante cose da regalare, tutte benedette oppure donate dal Papa! Da noi non si poteva desiderare di più. Dica ai Chierici e a tutti i giovani della casa, e dicano pure lo stesso gli altri fuori di casa: Deo gratias et semper Deo gratias.

                Oggi doveva partire per Loreto, e non ho più trovato alcun posto nella vettura e mi sarà forza di differire fino a Domenica a sera. Ho divisato di partire per Loreto - Ancona - Venezia - Milano e nella settimana trovarmi a Torino. Le scriverò definitivamente da Venezia si Dominus dederit.

                Favorisca di mandare a prendere un foglio di stampa mandato a D. Picco e si porti tosto a Paravia.

                Faccia coraggio nel Signore a tutti i figli della casa e comunichi loro una cordialissima benedizione da parte del Santo Padre data ieri appositamente per la Casa nostra. Dia gli uniti biglietti a chi sono diretti. Dio La conservi e l'aiuti a fare la sua santissima volontà in tutte le cose. Amen.

                Sempre suo

                Roma, 7 aprile 1858.

 

aff.mo amico

Sac. Giov. Bosco.

 

                D. Alasonatti consegnava ai giovani i biglietti inclusi nella sua lettera, dei quali un solo è a noi pervenuto scritto ad uno studente, ed ha un titolo scherzevole nell'indirizzo riguardante la vocazione. Sta scritto sulla busta: Al Signor DON Garbarino, Avigliana.

 

                               Amatissimo Garbarino,

 

                La tua lettera mi ha fatto piacere e il desiderio che dimostri del mio ritorno è un motivo per amarti sempre più nel Signore. [913] Intanto sta allegro, ma pensaci bene a preparare il tuo cuore e farne un dono al Signore; il che farai certamente vestendo l'abito chiericale: il faremo giunto ch'io sia in Torino. Prega per questo motivo prega eziandio per me e credimi sempre in quel che posso

                Roma, 8 aprile 1858.

 

tuo aff.mo

Sac. Giov. Bosco.

 

                Il rescritto era nel frattempo giunto a Torino, e Paravia aveva ultimata la stampa del fascicolo d'Aprile Il mese di MAGGIO consecrato a Maria SS. Immacolata ad uso del popolo per cura del Sacerdote Bosco Giovanni. In queste pagine sono esposti i vantaggi della pia pratica, e numerate le indulgenze che ponno lucrare i fedeli, proposti i fioretti per ogni giorno del mese, insegnato il modo col quale si può in famiglia onorare ogni sera Maria SS. Vi si leggono bene svolte trentatre considerazioni sulle massime eterne e morali, sulla divozione a Maria SS. e intorno alla Chiesa di Gesù Cristo, al suo capo il Romano Pontefice, ed ai Pastori delle Diocesi. Ad ogni considerazione fa seguito una giaculatoria ed un esempio adattato all'argomento, e che narra a quando a quando la bontà di Maria nel convertire i peccatori.

                Uno di questi fatti lo ricopia dall'Amico della gioventù, e con ciò si conosce che uno de' suoi scopi nello stampare tale giornaletto fosse anche quello di esaltare le glorie di Maria. Non dimentica la morte preziosa di Savio Domenico, e ne fa cenno nel giorno 24. Conclude la sua operetta con un'offerta del cuore a Maria SS.

                Paravia, eseguendo l'ordine di D. Bosco, prima che il fascicolo fosse distribuito vi aggiungeva un annunzio ed il Rescritto del Papa. [914]

                “Con grande consolazione annunciamo ai nostri lettori, come il Santo Padre il regnante Pio IX si degnò compartire l'apostolica, benedizione a tutti quelli che in qualche maniera si adoprano per

la diffusione delle Letture Cattoliche.

                Il Sac. Giovanni Bosco nel vivo desiderio di promuovere le lodi e i cantici spirituali in onore di Dio, della B. Vergine Maria e dei santi, ha supplicato il regnante Sommo Pontefice a voler concedere le seguenti indulgenze, cui il Santo Padre benignamente annui firmando il venerato rescritto di proprio pugno.

                I. Indulgenza di un anno a chi gratuitamente insegnerà il canto delle laudi sacre, praticandone o in pubblico o in privato almen qualche volta l'esercizio; altra di cento giorni a chi ne praticherà l'esercizio in oratorio pubblico o privato ogni qual volta esso avrà luogo.

                2. Indulgenza plenaria da lucrarsi alla chiusura del mese Mariano da coloro che nel decorso di esso sonosi in modo particolare occupati a cantare lodi sacre in chiesa e intervenuti alla devozione del mese Mariano.

                3. Indulgenza Plenaria una volta al mese per quelli che in quattro giorni festivi almeno, od anche feriali prenderanno parte a cantare od insegnare laudi sacre; e questa indulgenza si lucrerà in que! giorno in cui si premetterà la Confessione e la Comunione. Affinchè si possano lucrare le mentovate indulgenze si richiede che le laudi abbiano l'approvazione dell'Autorità Ecclesiastica.

                4. Tali indulgenze si possono applicare alle anime dei fedeli defunti.

                Romae apud S. Petrum, die 7 Aprilis 1858.

                Benigne annuimus juxta petita,

 

PIUS P. P. IX.

 

                Era pronto eziandio il fascicolo del mese di maggio, come dichiarazione naturale di ciò che era stato esposto nel libretto di aprile, col titolo: Il Tesoro delle Sante Indulgenze ad uso del popolo. L'autore anonimo insegna che cosa siano le sante indulgenze; il valore di queste riguardo [915] a noi e riguardo alle anime del purgatorio; il modo pratico di acquistarle. Coll'esposizione del dogma combatte le negazioni dei protestanti, e fa come il catalogo ragionato di molte orazioni e pie pratiche, alle quali sono annesse le sante indulgenze.

                Mentre così D. Bosco terminava in Roma gli affari per i quali era venuto e dava impulso in Torino alle sue opere, gli scrittori della Civiltà Cattolica, che abitavano in piazza Borgo Nuovo n. 66, gli mandavano il seguente biglietto:

 

                Al M. Rev.do Sig. Don Bosco in casa di Sua Ecc. il conte De Maistre, Quirinale in faccia a S. Carlino.

 

Roma, 8 aprile 1858.

                D. Bosco veneratissimo,

                P. X.

 

                I padri della Civiltà Cattolica potrebbero la Domenica in Albis averlo a consolare la nostra povera mensa? Oh sì, l'ultimo ovo di Pasqua bisogna mangiarlo con noi.

                Caro D. Bosco, mi presenti alla generosa famiglia De - Maistre, e dica a tutti per carità che mi perdonino le gravi mancanze che mi pesano sulla coscienza. Non esser venuto per Pasqua, non aver ancora visitato Maria! Ed è mia figliuola specialissima, perchè l'ho apparecchiata io alla prima comunione. Sono in vero un vecchio rimbambito: poco cammino; quel Quirinale è per me il finimondo. Ma ci verrò. Anche alla signora Contessa di Fherai e a Celina tanti doveri. Ma poi preghi pel suo

 

aff.mo e dev.mo servitore

ANTONIO BRESCIANI D. C. D. G.

 

                D. Bosco non mancò all'invito e passò una giornata veramente gradevole. Quelle dottissime persone che lo [916] circondavano sembravano fanciulli per la semplicità e famigliarità dei loro modi.

                Trovandosi presente eziandio il Preposito generale dei Gesuiti ed essendo sopravvenuti alcuni Domenicani, non si tardò a fare cadere il discorso sopra alcune antiche controversie sorte fra i due Ordini. D. Bosco taceva. Il Preposito dei Gesuiti scorgendo che la tranquilla discussione poteva finire in vera disputa: - Olà, disse, rimettiamo la lite ad un giudice. Vi è qui D. Bosco. Egli decida.

                D. Bosco si schermì; ma tutti essendosi rivolti verso di lui, dissero che assolutamente volevano la sua decisione.

                D. Bosco allora, dopo qualche preambolo, finì con dire. - Mia opinione si è esser meglio che non vi sieno questioni.

                Questa risposta tornava poco gradita ai contendenti, ma ottenne l'effetto desiderato. D. Bosco conosceva benissimo tutti quei fatti storici sui quali si aggirava la controversia; ma quale altra risposta avrebbe egli potuto dare? in questa occasione D. Bosco, sulle mosse per ritornare a Torino, aveva preso congedo da' buoni Padri e nei giorni seguenti recavasi a fare atto di ossequio ed a ringraziare tante ragguardevoli persone che lo avevano colmato di benevolenza. Visitò anche il sig. Filippo Canori Foccardi, del quale conservò sempre l'amicizia, e ritornato in Torino alle persone sue conoscenti che andavano a Roma dava cartellini stampati coll'indirizzo de' negozi di Foccardi, scrivendovi sopra di suo pugno: Coi saluti dell'amico Sac. Bosco.

                E non dimenticò i giovani dell'Oratorio di S. Maria della Quercia, e quelli dell'Assunta diretti dall'Abate Biondi. La mattina di Pasqua erasi recato fra loro per [917] disporli alla Santa Comunione, e la Domenica in Albis accompagnato dal Marchese Patrizi ritornò a S. Maria della Quercia, vi celebrò la Santa Messa e fece la predica ai giovani salutandoli per l'ultima volta.

                Fra i Cardinali che passò ad ossequiare  vi fu l'Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva altra volta indirizzate alcune parole ai giovani dell'Ospizio di San Michele. Il Cardinale, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l'ora della sua passeggiata, palesò il desiderio di averlo per compagno, ed ambedue salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all'educazione dei giovani. Don Bosco erasi sempre meglio persuaso che gli alunni di quell'Ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, comandando ivi i preti. Perciò diceva: - Veda, Eminentissimo, è impossibile poter bene educare i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.

                - Ma come, replicava il Cardinale, si può guadagnare questa confidenza?

                - Col cercare che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che da noi li allontani.

                 - E come si può fare per avvicinarli a noi?

                 - Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?

                - In Piazza Termini, in Piazza del Popolo; rispose il Cardinale.

                - Ebbene: andiamo dunque in Piazza del Popolo.

                Il Cardinale diede ordine al carrozziere, e si andò. D. Bosco scese di carrozza, e il Cardinale rimase osservando. Don Bosco, visto un crocchio di giovanetti che [918] giuocavano, si avvicinò, ma i biricchini fuggirono. Allora li chiamò colle buone maniere e i giovani dopo qualche esitanza ritornarono. D. Bosco li regalò di qualche cosuccia, domandò notizia delle loro famiglie, chiese a qual giuoco si divertissero, li invitò a ripigliarlo, si fermò a presiedere al loro trastullo, ed egli stesso vi prese parte. Allora altri giovani che stavano guardando in lontananza corsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti li accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola ed uno regaluccio; loro chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, e solo lo lasciarono allorchè risalì in carrozza. Il Cardinale era meravigliato. - Ha visto? gli disse D. Bosco.

                - Avevate ragione; esclamò il Cardinale.

                Ma questa ragione parve che non lo distogliesse dal riguardare necessario il sistema adoperato nel reggere l'Ospizio di S. Michele. Sua Em. era autoritario; per lui doveva essere un assioma che la confidenza fa perdere la riverenza. Pio IX infatti, dopo che ebbe parlato con D. Bosco, convocati presso di sè alcuni dei capi dell'Ospizio e udite le loro rimostranze, si persuase di dover rimediare a qualcuno dei più gravi inconvenienti. Ma il Cardinale Tosti si oppose a qualunque riforma. Fu come un muro di bronzo e a nulla si potè rimediare, benchè egli dirigesse con amore e zelo quell'ammirabile istituzione.

                Intanto D. Bosco dal 28 marzo al 13 aprile non aveva lasciato trascorrere alcun giorno senza recarsi in più chiese, insigni o per divozione 4 Maria SS., o per reliquie di santi, o per ricordi dei trionfi della fede. Fu alla [919] basilica dei Santi Apostoli, a Sant'Agnese fuori delle mura, e a Sant'Ignazio prostrandosi innanzi allo splendido altare ove riposano le venerate spoglie di S. Luigi Gonzaga.

                Le ultime sue visite furono alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella Basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo Tribuno e la colonna cui fu legato, scese nelle sacre gallerie che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri ed ove San Filippo Neri tante notti vegliò in fervorose orazioni. Passò quindi alle catacombe di S. Callisto. Quivi attendevalo probabilmente il Cavaliere G. B. De - Rossi, che aveva scoperte quelle catacombe., ed al quale avevalo presentato Mons. di San Marzano.

                Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che rimane indimenticabile per tutta la vita; e D. Bosco era assorto in santi dolcissimi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, coll'assistere al S. Sacrificio, colle preghiere in comune, col canto dei salmi e delle profezie, colla santissima Comunione, coll'ascoltare la parola dei Vescovi e dei Papi, avevano trovato la forza necessaria per il martirio che li aspettava. È impossibile mirare ad occhi asciutti que' loculi che aveano rinchiuso i corpi sanguinosi o arsi di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici Papi che avevano data la vita per testificare ciò che insegnavano, e la cripta di S. Cecilia. D. Bosco osservava i molti antichissimi affreschi che simboleggiano N. S. Gesù Cristo e l'Eucarestia; e le care immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con S. Giuseppe, l'Assunzione di Maria in cielo; ed altre la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Egli era incantato dal sentimento di modestia che splende in queste immagini, nelle quali [920] l'arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell'anima e l'ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine Divina.

                Non mancavano altre figure di santi e di martiri.

                D. Bosco usciva dalle catacombe alle 6 della sera e vi era entrato alle 8 del mattino. Aveva preso un po' di refezione presso i religiosi che le hanno in custodia.

 

 

CAPO LXXII. Partenza di D. Bosco da Roma - Paio e una guarigione - Traversala in mare - A Genova,: fede nel popolo - Arrivo a Torino e feste - Il  Rescritto del Papa consegnalo a D. Cafasso - Indulgenze annunziate ai giovani dell’Ospizio di Valdocco - Esercizi spirituali Lettera del Marchese Patrizi: Le conferenze annesse e le Letture Cattoliche negli stati pontificii - Lettura del Card. Marini - Giudizi sulla virtù di D. Bosco nel fondare la, Pia Società.

 

                DON Bosco il 14 aprile partiva da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di S. Francesco di Sales, e per tal modo venisse sempre meglio assicurata la sorte di tanti giovanetti poveri ed abbandonati non solo di allora, ma dell'avvenire. Aveva desiderato di fare il viaggio per via di terra; ma tale era stata la folla straordinariamente grande dei forestieri, venuti a Roma per la settimana santa,  che non potè mai trovar posto sulle pubbliche vetture, che percorrevano l'itinerario da lui scelto. Decise pertanto di ritornare a Torino per via di mare, non ostante che avesse nel primo viaggio sofferto orribilmente: e prese una carrozza a nolo. [922] Fece una breve fermata nel paese di Palo e trovò l'albergatore perfettamente libero dalle febbri. La sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticò poi mai il benefizio e, dopo molto tempo, verso il 1875 o 76, per ragioni di commercio venuto a Genova, volle inoltrare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo, che D. Bosco era all'Oratorio, venne; ma D. Bosco in quel giorno era a pranzo dal Sig. Occelletti Carlo. Andò subito a trovarlo, facendogli feste senza fine; il Sig. Occelletti ricordava sempre con grande piacere il racconto da liti udito di quella guarigione.

                Arrivato D. Bosco a Civitavecchia e fatta una visita al Delegato Pontificio, andava al porto per imbarcarsi. Un sacerdote piemontese che lo incontrò sul piroscafo, il 12 marzo 1891 ci scriveva alcune preziose notizie su quella traversata:

 

                Proveniente da Costantinopoli io arrivava a Civitavecchia a bordo della messaggeria Francese: verso sera salivano a bordo molti passeggieri, fra cui vari Sacerdoti, i quali dalla forma del cappello conobbi essere piemontesi. Tra questi ne scorsi due che parevano più avvicinabili: non avendo l'ardire di rivolgere la parola al più anziano, interrogai il più giovane (era D. Rua) domandandogli chi fosse il suo compagno dall'aspetto così venerabile e simpatico: mi disse essere D. Bosco, il quale io conoscevo per fama e non di vista. Allora mi affrettai per baciargli la mano, ma Egli tosto la ritirò, privandomi di tal onore e piacere: discorremmo indi di molte cose siccome accade in siffatti patriotici incontri. Venne intanto la notte ed i passeggieri si ritivano nelle loro cabine. D. Bosco, o perchè non ci era più posto per Lui nelle cabine, o perchè soffriva di mare, fatto sta che si coricò sul nudo tavolato lungo il parapetto della nave che già era in viaggio. Mi fece compassione epperciò gli offrii il mio posto ed il mio letto: ma non volle accettarlo, e mi ringraziò calorosamente. Non mi reggeva il cuore di lasciar quel buon prete a riposare [923] sulle tavole ed all'aperto; andai in cabina, presi il mio materasso e glie lo portai, e si che ebbi a lottare non poco onde farglielo accettare!

                Questo fortunato incontro mi procurò l'amicizia di D. Bosco, sacerdote modello, e conobbi in pratica ciò che di maraviglioso di Lui portava la fama nella capitale musulmana: era ammirato per la sua abnegazione e semplicità.

 

D. ABRATE MATTEO

Cappellano e Sesseno presso Carignano.

 

                Le onde questa volta furono calme e bello il tempo sicchè D. Bosco potè scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, Don Rua si ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. D. Bosco, appena messo piede in terra, si recò al Collegio degli Artigianelli, ove aspettavalo Don Montebruno e il Sig. Giuseppe Canale; e dopo il mezzogiorno saliva in ferrovia. Nell'attraversare la città aveva provata una grata sorpresa. Sonando le campane l'Angelus, molte persone per le vie e per le piazze si erano levato il cappello, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli descriveva poi questo spettacolo per edificazione de' suoi alunni.

                Giungeva a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tale tripudio ed affetto, che niun padre potrebbe augurarsene un maggiore dai proprii figliuoli.

                Il 17 aprile si tratteneva in casa per informarsi degli affari che aveagli riserbati D. Alasonatti; e confessava tutta la sera e il mattino seguente i moltissimi giovani interni ed esterni. Il 18, domenica seconda dopo Pasqua, [924] in Valdocco si festeggiava il suo arrivo in chiesa, in refettorio, in cortile; e con musiche, poesie ed un inno composto per quell'occasione.

                Accrebbero la gioia dei giovani i doni che D. Bosco loro aveva portati da Roma. Ciascun di essi ebbe una copia di un libretto intitolato il Nuovo pensateci bene, ed i legatori delle Letture Cattoliche, le quindici medaglie mandate loro da Pio IX; a tutti fu ancor distribuito un bel numero di piccoli crocifissi, regalo del Papa, ai quali era annessa l'indulgenza plenaria da conseguirsi in punto di morte col baciarli pronunciando il nome di Gesú. Ai cantori aveva recata musica romana, essendone per lettera stato pregato da Buzzetti Giuseppe.

                Quindi in quella e in altre sere successive loro esponeva, colle espressioni della più tenera riconoscenza, la bontà colla quale era stato accolto dal Papa, gli insigni favori spirituali che avevagli concessi, il ricordo della presenza di Dio che loro ripeteva in suo nome, e annunziava gli scudi d'oro destinati dal Papa per una merenda a tutti i giovani dei tre Oratorii festivi, notizia accolta con strepitosi applausi. Narrava eziandio a' suoi alunni quanto era conveniente che sapessero di ciò che aveva fatto o gli era occorso o aveva visto a Roma. Con alcuno dei membri del nucleo piccoletto della sua associazione fu però più espansivo e loro mostrò le note apposte da Pio IX alle Regole.

                Egli intanto erasi affrettato nel consegnare a D. Cafasso il Rescritto da lui tanto desiderato. Colla data del 7 aprile Pio IX lo aveva firmato concedendo a D. Cafasso la facoltà di comunicare ed estendere quell'indulgenza ad un numero non piccolo, ma tuttavia determinato di persone. Di questo numero dovevano essere gli ecclesiastici [925] che attendevano in quell'anno allo studio della morale nel Convitto di S. Francesco in Torino.

                D. Cafasso, fuori di sè per la consolazione di aver ottenuto una tanta grazia, la sera del 19 aprile invece della scuola solita, s'intrattenne intorno all'indulgenza ottenuta, spiegando a' suoi alunni la diversità di questa dalle altre indulgenze accordate in articulo mortis ed i vantaggi della medesima. Egli teneva tra le sue mani il Rescritto e premendolo con una espressione che partiva dal cuore, raccomandava a' convittori che tenessero presenti le sue osservazioni, ne prendessero nota e pensassero di fare gran conto dell'elargito favore, se non volevano rendersene immeritevoli nel punto della loro morte.

                Eziandio D. Bosco tenne un simile discorso a' suoi giovani interni e scriveva di proprio pugno le seguenti linee, che noi conserviamo e che faceva dettare nelle classi e nelle sale di studio, acciocchè ognuno ne conservasse una copia.

 

                Il 9 di marzo dell'anno 1858 sono stato compreso, perchè convittore, tra il numero di coloro a cui il comune nostro santo Padre Pio IX ha concessa la benedizione papale anticipata, ossia l'indulgenza plenaria, ma da lucrarsi solo al punto preciso in cui l'anima mia si separerà dal mio corpo a fine di poter così essere sicuro di volarmene subito in braccio al mio Dio e goderlo per tutta quanta l'eternità.

 

                Con tale preparazione gli studenti dell'Oratorio il lunedì 26 aprile incominciarono gli esercizi spirituali. In questo anno, l'unica volta, vi prendevano parte anche i giovani delle scuole private di Umanità e Rettorica tenute dal Professore D. Matteo Picco, i quali da gran tempo venivano a confessarsi regolarmente da D. Bosco. [926] Predicò il Teol. Belasio Antonio da Sartirana, Missionario apostolico, la cui valentia nel descrivere paragoni, parabole, fatti storici si può argomentare da quanto diede alle stampe. Alcuni chierici, desiderosi di imitarlo, gli domandarono a quali norme dovessero attenersi per riuscire veri oratori sacri. Egli rispose: -Molta conversazione col Signore, studio e grande meditazione, frequenza di buone e dotte compagnie.

                D. Bosco in quei giorni non tralasciava di fare la parte sua. Giuseppe Reano scrisse in questi termini alcune rimembranze delle parlate di D. Bosco agli alunni prima che andassero a riposo. “Una sera interrogò Tomatis e gli chiese: - Quali sono i tre nemici dell'uomo? - Non era facile la risposta, ma D. Bosco voleva destare l'attenzione di tutti. Tomatis ed altri giovani risposero, ma non adeguatamente a ciò che D. Bosco pensava, e allora egli spiegò: - I tre nemici dell'uomo sono: la morte (che lo sorprende), il tempo (che gli sfugge), il demonio (che gli tende i suoi lacci).

                “Altra volta domandò al giovane Fiorio: - Sai dirmi quale sia la beatitudine che l'uomo deve avere in questo mondo? - Il giovane non seppe rispondere con precisione, e D. Bosco disse: - Beato in questa vita è colui che non ha rimorsi di coscienza.

                “Talora descrisse il paradiso, il bene che possiede un beato, il godimento che prova, lo spettacolo del vedere gli angioli, le anime dei santi, Iddio nel suo pieno splendore e Maria SS. Quando entrava in questo argomento strascinava con sè l'uditorio verso la felice eternità”.

                Gli esercizi spirituali ebbero termine con frutti consolantissimi, e D. Bosco continuava per lungo tempo a parlare del suo viaggio a Roma, della Chiesa, del Papa. [927] E descriveva le virtù dì Pio IX, l'amore che portava alla gioventù, e molti fatti della sua vita.

                Ma se D. Bosco tenea vive le rimembranze di Roma, nell'eterna città egli aveva pur di sè lasciata una cara memoria nel cuore dei Romani. Ciò prova un foglio del Marchese Patrizi.

 

I.M.I.

 

                               D. Bosco stimatissimo,

Roma, I luglio 1858.

 

                Sembra strano rispondere con questa data ad una lettera che porta quella del 22 maggio, ma come fare altrimenti? Non ebbi la sua car.ma che l'altro ieri; portommela Canori che la trovò acclusa entro una a lui diretta, e che l'E.mo Marini aveva fino allora tenuta presso di sè.

                Basta; spero che non ne avrà a male, e che mi perdonerà questa involontaria mancanza.

                Veniamo subito ai nostri prediletti argomenti, e prima di tatto eccomi a darle qualche cenno delle Conferenze Annesse. Perchè non esservi presente il nostro carissimo Istitutore? Sono certo che si compiacerebbe nel Signore vedendo la cosa stabilita, benchè in picciole proporzioni, ma in modo però da farne sperare una stabile durata. Il numero dei giovani ascritti non supera gli otto, mentre undici son i giovanetti da essi patrocinati. Questi frequentano l'Oratorio con assiduità e ancora il Giardino. Alcuni, secondo quello che asseriscono i padroni delle botteghe dove lavorano, hanno cambiato condotta e sembra che debba attribuirsi alle premure dei loro patroni. I libretti sono stati adottati con grande soddisfazione. Vi si mettono i numeri dal cinque, dieci, venti secondo la condotta del giovanetto. Vi si nota con un bollo che porta la lettera G. se vennero al Giardino. E parroco poi ha la bontà dì mettervi il suo bollo se in quello stesso giorno furono al Catechismo. Ogni due mesi si stabilì fare una piccola premiazione, e la cosa sembra che proceda bene l'abate Biondi prende grande interesse e presiede alle nostre settimanali riunioni. [928] Quei giovani furono tenutissimi per la memoria che serba di loro, e sperano rivederla presto. Pregheranno anch'essi per i loro Confratelli di Torino. Se mi fosse possibile vorrei per la festa di S. Vincenzo aggregarli, perchè possano lucrare le indulgenze concesse alla Società nostra: se ne mostrano ansiosi. Lei preghi il Signore per noi affinchè faccia prosperare questa opera che sembra debba portare ottimi frutti.

                Le Letture Cattoliche, come avrà già saputo, sembra che saranno qui stampate e a miglior prezzo potremo darle che a Torino. Era impossibile sostenere la spesa del trasporto.

                Avremo ottimi collaboratori e potremo dare dodici opuscoli in 16 di 100 pagine l'uno a baiocchi 30 per ogni associato. Il Santo Padre ha fatto dirigere una circolare ai decurioni per animarli a proteggere questa associazione. Appena avremo tremila associati cominceremo.

                Scriverà per noi il Canonico Audisio, il P. Paria, il conte Tullio Dandolo: insomma speriamo bene. Spero nell'autunno venirla a trovare. Intanto preghi per me e per tutti noi, che tanto La amiamo.

                Riceva tanti saluti dall'Ab. Biondi, Catini e da tutti i nostri Confratelli e mi creda

 

suo affmo e dev.mo servitore

G. PATRIZI.

 

                Eziandio il Card. Marini mandando a D. Bosco alcune notizie e spiegazioni da lui chieste per lettera, sui riti che aveva visto svolgersi nella settimana santa in Vaticano, così gli scriveva:

 

                               Molto Rev. Signore,

 

                Spero che il mio ritardo nel rispondere alla sua pregiatissima ultima non l'avrà messo in sospetto, che io mi sono dimenticato di V. S. Molto Rev.da. I libri che ha voluto mandarmi, e più le distinte qualità che l'adornano, e che ho avuto agio di ammirare qui in Roma, continuamente me La tengono impressa non tanto nella memoria, guanto nel cuore. Ed è per me una vera [929] compiacenza il ricordarla spesso, non solo co' miei famigliari, ma anche colle altre persone, perchè vorrei che i Sacerdoti zelanti e virtuosi fossero da tutti conosciuti.

                Qui unita troverà la risposta ai vari quesiti che ha voluto farmi coll'ultima sua, e La ringrazio della retribuzione che mi ha promessa. I suoi giovanetti diranno un'Ave alla Vergine Immacolata per me, ed io farò altrettanto perchè possano conservare e far fruttificare il seme del santo timor di Dio, che Ella sparge nei loro cuori.

                Desidero che adoperi la povera mia persona dove potesse valere e intanto salutandola cordialmente mi confermo con stima profonda

                Di V. S. Molto Rev.da,

                Roma, 27 luglio 1858.

 

Servitore vero ed aff.mo in Xto.

P. Card. Marini.

 

                D. Bosco intanto co' suoi addetti, che tante cure gli costavano e continui sacrifizi, incominciò a praticare le Costituzioni della Pia Società, come erano state presentate al Papa; e d'accordo con quelli andava osservando se, e quali modificazioni potessero introdursi in tale regolamento. Questa sua occupazione, per varie circostanze, doveva durare assidua fino al 1874; e ne sono prova il gran numero di copie delle Regole da lui fatte manoscrivere e corrette e ricorrette con molte varianti.

                Ma ciò è nulla a petto degli ostacoli che dovette rimuovere, delle contraddizioni che lo afflissero, delle fatiche che dovette sopportare. Eppure doveva giungere alla meta e vi giunse.

                Ci riferiva il Can. Anfossi: “Molte volte mi avvenne di udire religiosi di vari Ordini esclamare: - Come fa D. Bosco a formare una Congregazione religiosa in questi tempi in cui noi andiamo deperendo? - Ed alcuni giunsero [930] a dire: - Se D. Bosco non avesse fatto altro miracolo, L'istituzione della sua Congregazione sarebbe già di per sè un miracolo grandissimo.

                Monsignor Bertagna diceva: - Le difficoltà che Don Bosco superò per fondare la sua Congregazione, la costanza in ciò dimostrata, la fermezza con cui persistette, se fu informata, come è da credersi, dalla speranza Cristiana, questa in lui fu senza dubbio eroica e sublimissima. È  cosa d'altissima meraviglia.

                Noi concluderemo dicendo La sua fiducia in Dio fu incrollabile e fu sua regola la parola dello Spirito Santo: Expecta Dominum, viriliter age, et confortetur cor tuum, et sustine Dominum[33].

 

 

APPENDICE. Regole primitive della Pia Società di S. Francesco di Sales presentate da D. Bosco a Pio IX nel 1858.

 

                In ogni tempo fu speciale sollecitudine de' ministri della Chiesa d adoperarsi secondo le loro forze per promuovere il bene spirituale della gioventù. Dalla buona o cattiva educazione di essa dipende un buono o tristo avvenire ai costumi della società. Il medesimo Divin Salvatore ci diede col fatto evidente prova di questa verità, quando compieva in terra la sua divina missione invitando con parziale affetto i fanciulli ad appressarsi a lui: Sinite parvulos venire ad me. I Vescovi e specialmente i Sommi Pontefici seguendo le vestigia del Pontefice eterno, il Divin Salvatore, di cui fanno le veci sopra la terra, promossero in ogni tempo e colla voce e cogli scritti la buona educazione della gioventù e favorirono in modo, speciale quelle istituzioni che a questa parte di sacro ministero dedicano le loro cure. A' nostri giorni però il bisogno è di gran lunga più sensibile. La trascuratezza di molti genitori, l'abuso della stampa, gli sforzi degli eretici per farsi dei seguaci, mostrano la necessità di unirci insieme a combattere la causa del Signore sotto allo stendardo del Vicario di Gesù Cristo per conservare la fede ed il buon costume soprattutto in quella classe di giovani che per essere poveri sono esposti a maggior pericolo di loro eterna salute. Egli è questo lo scopo della Congregazione di S. Francesco di Sales iniziata in Torino nel 1841.

 

ORIGINE DI QUESTA SOCIETÀ.

 

                Fin dall'anno 1841 il Sac. Bosco Giovanni si univa ad altri ecclesiastici per accogliere in appositi locali i giovani più abbandonati della città di Torino a fine di trattenerli con trastulli e nel tempo stesso dar loro il pane della divina parola. Ogni cosa facevasi d'accordo coll'autorità ecclesiastica. Benedicendo il Signore questi tenui principii, il concorso [932] dei giovani fu assai grande e l'anno 1844 S. E. Monsignor Fransoni concedeva di ridurre un edifizio a forma[34] di chiesa con facoltà di fare ivi quelle sacre funzioni che sono necessarie per la santificazione de giorni festivi e per l'istruzione dei giovani che ogni giorno più numerosi intervenivano. Ivi l'Arcivescovo venne più volte ad amministrare il Sacramento della Cresima.

                L'anno 1846 concedeva che tutti quelli che intervenivano a tale istituzione potessero ivi essere ammessi alla Santa Comunione e adempiere il precetto pasquale, permettendo di cantare la S. Messa, fare tridui e novene, qualora ciò si ravvisasse opportuno. Queste cose ebbero luogo fino all'anno 1847 nell'Oratorio detto di S. Francesco di Sales. In quell'anno crescendo il numero dei giovani, e così divenuta ristretta la chiesa attuale, col consenso sempre dell'autorità ecclesiastica si aprì in altro angolo della città, viale de' platani a Porta Nuova, un secondo oratorio sotto il titolo di S. Luigi Gonzaga col medesimo scopo dell'antecedente. Divenuti insufficenti anche questi due locali, l'anno 1849 se ne apriva un altro in Vanchiglia sotto il titolo del Santo Angelo Custode. I tempi rendendosi assai calamitosi per la religione, il superiore ecclesiastico con tratto di grande bontà approvava il regolamento di questi oratorii e ne costituiva il Sac. Bosco Direttore capo, concedendogli tutte quelle facoltà che potessero tornare necessarie ed opportune a questo scopo.

                Molti Vescovi adottarono il medesimo piano di regolamento e si adoperarono per introdurre nelle loro diocesi questi oratorii festivi. Ma un bisogno grave apparve nella cura di tali oratorii. Molti giovani già di età alquanto avanzata non potevano essere abbastanza istruiti col solo catechismo festivo e fu mestieri aprire scuole e catechismi diurni e serali. Anzi molti di essi trovandosi affatto poveri ed abbandonati furono accolti in una casa per essere tolti dai pericoli, istruiti nella religione ed avviati al lavoro. Il che si fa tutt'ora specialmente in Torino nella casa annessa all'Oratorio suddetto, ove i ricoverati sono in numero di duecento circa. Si fa eziandio in Genova nell'opera detta degli Artigianelli, ove è Direttore il Sac. Montebruno Francesco; ivi i ricoverati sono in numero di cinquanta. Per le radunanze di giovani solite a farsi negli oratorii festivi, per le scuole diurne e serali, e pel numero ognora crescente di coloro che venivano ricoverati, la messe del Signore divenne assai copiosa. Onde per conservare l'unità di spirito e disciplina, da cui dipende il buon esito degli oratorii, fin dall'anno 1844 alcuni ecclesiastici si radunarono a formare una specie di Società o Congregazione aiutandosi a vicenda e coll'esempio [933] e coll'istruzione. Essi non fecero alcun voto e si limitavano ad una semplice promessa di occuparsi in quelle cose che sembrassero di maggior gloria di Dio e vantaggio dell'anima propria. Riconoscevano il loro superiore nel Sac. Bosco Giovanni. Sebbene non si facessero voti tuttavia in pratica si osservavano presso a poco le regole che sono qui esposte.

 

SCOPO DI QUESTA SOCIETÀ.

 

                I. Lo scopo di questa società si è di riunire insieme i suoi membri ecclesiastici chierici ed anche laici a fine di perfezionare se medesimi imitando le virtù del nostro Divin Salvatore, specialmente nella carità verso i giovani poveri.

                2. Gesù Cristo cominciò fare ed insegnare, così i congregati cominceranno a perfezionare se stessi colla pratica delle interne ed esterne virtù, coll'acquisto della scienza; di poi si adopreranno a benefizio del prossimo.

                3. Il primo esercizio di carità sarà di raccogliere giovani poveri e abbandonati per istruirli nella santa cattolica religione, particolarmente ne' giorni festivi, come ora si pratica in questa città di Torino, nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, di S. Luigi e in quello del Santo Angelo Custode.

                4. Si incontrano poi alcuni giovani talmente abbandonati che per loro riesce inutile ogni cura se non sono ricoverati; a tale uopo per quanto sarà possibile si apriranno case di ricovero, ove coi mezzi che la Divina Provvidenza porrà fra le mani, verrà loro somministrato alloggio, vitto e vestito. Mentre poi verranno istruiti nelle verità della fede, saranno eziandio avviati a qualche arte o mestiere come attualmente si fa nella casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales in questa città.

                5. In vista poi de' grandi pericoli che corre la gioventù desiderosa di abbracciare lo stato ecclesiastico, questa congregazione si darà cura di coltivare nella pietà e nella vocazione coloro che mostrano speciale attitudine allo studio ed eminente disposizione alla pietà.

                Trattandosi di ricoverare giovani per lo studio saranno di preferenza accolti i più poveri, perchè mancanti di mezzi onde fare altrove i loro studii.

                6. Il bisogno di sostenere la religione cattolica si fa gravemente sentire anche fra gli adulti del basso popolo e specialmente nei paesi di campagna; perciò i congregati si adopereranno di dettare esercizi spirituali, diffondere buoni libri, usando tutti quei mezzi che suggerirà la carità, affinchè e colla voce e cogli scritti si ponga un argine all'empietà e all'eresia che in tante guise tenta d'insinuarsi fra i rozzi e gl'ignoranti; ciò al presente si fa col dettare di quando in quando qualche muta di esercizi spirituali e colla pubblicazione delle Letture Cattoliche. [934]

 

FORMA DI QUESTA SOCIETÀ.

 

                1. Tutti i congregati tengono vita comune stretti solamente dal vincolo della fraterna carità e dei voti semplici che li unisce a formare un cuor solo ed un'anima sola per amare e servire Iddio.

                2. Ognuno nell'entrare in congregazione non perderà il diritto civile anche dopo fatto i voti, perciò conserva la proprietà delle cose sue, la facoltà di succedere e di ricevere eredità, legati e donazioni. Ma per tutto il tempo che vivrà in congregazione non potrà amministrare i suoi beni se non nel modo e nei limiti voluti dal Superiore Maggiore.

                3. I frutti di tali beni per tutto il tempo che rimarrà in congregazione, devono cedersi a favore della congregazione. Il superiore però può concedere che in parte ed anche totalmente tali frutti cedano a favore di qualche parente o di altra persona di cui riconosca il bisogno.

                4. I Chierici e sacerdoti anche dopo fatti i voti ritengono i loro patrimonii o benefizi semplici; ma non li amministrano nè possono goderli in particolare.

                5. L'amministrazione de' patrimoni, de' benefizi e di quanto è portato in congregazione, appartiene al Superiore Generale, il quale o per sè o per altri li amministrerà, e De riceverà i frutti annui finchè l'individuo sarà in congregazione.

                6. Al medesimo superiore ogni sacerdote consegnerà eziandio la limosina delle messe; gli altri poi o chierici o laici gli consegneranno ogni sorta di danaro che in qualsiasi modo loro possa pervenire, affinchè serva a bene comune.

                7. La Società provvederà a ciascheduno tutto quello che è necessario al vitto, agli abiti e quanto può occorrere nelle varie vicende della vita, sia nello stato di sanità, sia in caso di malattia. Anzi occorrendo ragionevole motivo il Superiore può mettere a disposizione di qualche socio, quel danaro o quegli oggetti, che egli giudicherà bene impiegati a maggior gloria di Dio.

                8. Parimenti colui che volesse disporre per testamento nella congregazione, può lasciare gli stabili di cui è padrone a chi meglio giudicherà.

                9. Chi morisse senza testamento gli succederà chi di diritto.

                10. I voti obbligano l'individuo finchè egli dimorerà in congregazione. Quelli che o per ragionevole motivo o dietro a prudente giudizio dei Superiori partono dalla congregazione, possono essere sciolti dai loro voti dal Superiore Generale della casa Maestra.

                11. Ognuno faccia di perseverare nella sua vocazione fino alla morte; che se taluno uscisse dalla congregazione, non potrà pretendere corrispettivo pel tempo che ivi è rimasto, nè portar seco altre cose se non quelle [935] che il Superiore della casa giudicherà a proposito. Potrà però portar seco quelle cose di cui conservò la proprietà entrando in congregazione, ma non potrà dimandare conto alcuno dei frutti e dell'amministrazione dei medesimi pel tempo che egli passò nella Società.

                12. -Se avvenisse di dover stabilire altrove qualche nuova casa, il Superiore Generale concerti prima quanto riguarda allo spirituale ed al temporale col Vescovo della Diocesi in cui quella intende aprirsi, secondo le regole del governo di casa come infra.

                13. I Soci che vanno ad aprire una nuova casa, non devono essere meno di due, di cui almeno uno sacerdote. Ogni casa sarà arbitra nell'amministrazione dei beni donati o portati in congregazione per quella casa determinata: ma sempre nei limiti fissati dal Superiore Generale.

                14. Il Superiore Generale ammetterà i novizi, li accetterà alla professione oppure li rimanderà secondo che gli sembrerà meglio nel Signore. Ma osserverà quanto è prescritto nell'articolo dell'accettazione ed avrà cura di non licenziare alcuno senza aver prima consultato il Superiore di quella casa cui egli appartiene.

 

DEL VOTO DI UBBIDIENZA

 

                1. Il profeta Davide, pregava Iddio che lo illuminasse per fare la sua santa volontà. Il Divin Salvatore ci assicurò che egli non è venuto per fare la sua volontà ma quella del suo celeste Padre. Egli è per assicurarci di fare la santa volontà di Dio che si fa il voto di ubbidienza.

                2. Questo voto in genere si estende a non occuparci in altre cose se non in quelle che il rispettivo superiore giudicherà di maggior gloria di Dio e vantaggio dell'anima propria.

                3. In particolare poi si estende all'osservanza delle regole contenute nel piano di regolamento della casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Però l'osservanza di questo regolamento non s'intende obbligare sotto pena di colpa se non in quelle cose che sono contrarie ai Comandamenti di Dio e di Santa Madre Chiesa ed alle disposizioni dei superiori, con obbligo speciale di ubbidienza.

                4. La virtù dell'ubbidienza è quella che ci assicura di fare la divina volontà: Chi ascolta voi, dice il Salvatore, ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me.

                5. Ciascuno adunque abbia il superiore in luogo di padre, a lui obbedisca interamente, prontamente, con animo ilare e con umiltà.

                6. Niuno diasi sollecitudine di domandare cosa alcuna neppure di ricusarla. Se però alcuno giudicasse qualche cosa essergli nocevole o necessaria la esponga rispettosamente al superiore, e si rassegni nel Signore qualunque ne sia per essere la risposta. [936]

                7. Ognuno abbia grande confidenza nel superiore, niun segreto del cuore si conservi verso di lui. Gli tenga sempre la sua coscienza aperta ogni qual volta ne sia richiesto ed egli stesso ne conosca il bisogno.

                8. Ognuno obbedisca senza alcuna resistenza, nè col fatto, nè colle parole, nè col cuore. Quanto più una cosa sarà ripugnante a chi la fa, tanto più accrescerà il merito dinanzi a Dio facendola.

                9. Niuno mandi lettera fuori di casa senza permesso del superiore della medesima, o di un altro da lui delegato. Ricevendosi lettere si consegneranno prima al superiore, che le leggerà qualora lo giudichi a proposito.

 

DEL VOTO DI POVERTÀ.

 

                1. L'essenza del voto di povertà nella nostra congregazione consiste nel condurre vita comune riguardo al vitto, vestito e riserbar nulla sotto chiave senza speciale permesso del superiore.

                2. È  pure parte di questo voto il tenere le camere nella massima semplicità studiando di ornare il cuore di virtù e non la persona o le pareti della camera.

                3. Niuno in congregazione o fuori tenga denaro presso di sè nemmeno in deposito per qualsiasi causa.

                4. In caso di viaggio o in caso che il superiore mandi ad aprire o ad amministrare qualche casa di beneficenza; o a compiere qualche parte del sacro ministero, o v'intervenga qualche bisogno particolare, allora il superiore darà le disposizioni secondo le esigenze dei tempi dei luoghi e delle persone.

                5. Il dare a mutuo o ricevere, o dispensare quelle cose che sono presso di sè o nella casa, non solamente è proibito di farlo cogli esterni, ma nemmeno con quelli della casa senza licenza del superiore.

                6. Se a taluno fosse data qualche elemosina, egli tosto la porti al superiore che la darà al procuratore della casa affinchè la riponga nella cassa della congregazione.

 

DEL VOTO DI CASTITÀ.

 

                I. Chi tratta colla gioventù abbandonata deve certamente studiare di arricchirsi di ogni virtù. Ma la virtù angelica, virtù tanto cara al Figliuolo di Dio, la virtù della castità, deve essere coltivata in grado eminente.

                2. Chi non è sicuro di conservare questa virtù nelle opere, nelle parole, ne' pensieri, non si faccia ascrivere in questa congregazione; perchè ad ogni passo egli è esposto a pericoli. Le parole, gli sguardi anche [937] indifferenti sono talvolta malamente accolti dai giovani già stati vittima delle umane passioni.

                3. Perciò massima cautela nel discorrere e trattare con giovani di qualsiasi età o condizione.

                4. Fuggire le conversazioni delle persone di diverso sesso e dei medesimi secolari, ove si prevede pericolo per questa virtù.

                5. Niuno si rechi a casa di conoscenti od amici senza espressa licenza del superiore, il quale se può gli destinerà sempre un compagno.

                6. Mezzi efficaci per custodire questa virtù sono la pratica esatta dei consigli del confessore, mortificazione e modestia di tutti i sensi del corpo; frequenti visite a Gesù Sacramentato, frequenti giaculatorie a M. SS., a S. Francesco di Sales, a S. Luigi Gonzaga, che sono i principali protettori di questa congregazione.

 

GOVERNO INTERNO DELLA CONGREGAZIONE.

 

                1. La congregazione sarà governata da un capitolo composto di un Rettore, Prefetto, Economo, Direttore Spirituale, o catechista, e tre consiglieri.

                2. Il Rettore sarà a vita; a lui appartiene il proporre l'accettazione dei postulanti o non proporla; assegna a ciascuno le incombenze sia riguardanti allo spirituale, sia riguardanti al temporale.

                3. Il Rettore si nominerà un vicario fra gl'individui della congregazione e lo designerà con nome e cognome in foglio di carta sigillata, tenendo tutto in segreto e sotto chiave. Sul piego sia scritto: Rettore provvisorio.

                4. Il vicario farà le veci del Rettore dalla morte di esso finchè ne sia definitivamente eletto il successore.

                5. Affinchè uno possa essere eletto Rettore deve essere vissuto almeno sei anni in congregazione, aver compiuti trent'anni di sua età; abbia tenuta esemplare condotta in faccia a tutti i congregati. Qualora concorressero tutte le altre doti in grado eminente, il vescovo ordinario può diminuire l'età fino a 26 anni.

                6. Il Rettore non sarà definitivamente eletto finchè non sia approvato dal superiore ecclesiastico del luogo ove trovasi la casa maestra.

                7. L'elezione del successore al Rettore defunto si farà così: otto giorni dopo la morte del Rettore si raduneranno il Prefetto, Economo, Direttore spirituale, i tre consiglieri e il vicario. Se il tempo e il luogo lo permettono saranno pure invitati i direttori delle case particolari. Recitato il De profundis in suffragio del Rettore defunto, invocata l'assistenza dello Spirito Santo coll'inno Veni Creator Spiritus, si daranno i voti. Colui il quale riporterà due terzi dei voti, sarà il novell\o Rettore. [938]

 

DEGLI ALTRI SUPERIORI.

 

                1. Gli uffizi proprii degli altri superiori della casa saranno dal Rettore ripartiti secondo il bisogno.

                2. Il Direttore spirituale però avrà cura dei novizi, e si darà la massima sollecitudine per far loro imparare e praticare lo spirito di carità e,di zelo che deve animare colui che desidera dedicare interamente la sua vita a bene dei giovani abbandonati.

                3. È  pure ufficio del Direttore avvisare rispettosamente il Rettore qualora scorgesse qualche trascuranza nel praticare le regole della congregazione.

                4. Ma è poi cura speciale del Direttore invigilare sopra la condotta morale di tutti i congregati.

                5. Il Prefetto, il Direttore spirituale saranno eletti dal Rettore. L'Economo e i tre consiglieri saranno eletti a pluralità di voti.

                6. Il Prefetto fa le veci del Rettore in assenza di esso, e in tutte le cose di cui avrà ricevuto carico speciale.

                7. L'Economo avrà cura di tutto l'andamento materiale della casa.

                8. Studi esso di far evitare ogni guasto o spesa inutile in cucina, nei laboratori, nei dormitori, nella cantina e simili. Dovendo egli far eseguire qualche lavoro studierà che ogni cosa sia fatta colla debita economia, ma per le spese e pei contratti di maggior rilievo dovrà andare d'accordo col prefetto.

                9. I consiglieri prenderanno parte a tutte quelle deliberazioni che riguardano all'accettazione e allontanamento di qualche membro della casa; e in tutte le cose di maggior importanza che riguardano il buon andamento generale della congregazione.

                10. Quando un congregato è mandato alla direzione di qualche casa prende il nome di Direttore, ma la sua autorità è limitata nella casa a lui affidata. Alla morte del Rettore è anch'egli invitato ad intervenire per la elezione del futuro Rettore, e, se la elezione non è ancor fatta, darà anch'egli il suo voto.

                11. Ciascuno dei superiori, ad eccezione del Rettore, durerà tre anni nella sua carica, e potrà essere rieletto.

 

ACCETTAZIONE.

 

                1. Fatta dimanda che taluno voglia entrare in congregazione, il Direttore spirituale ne prenderà le debite informazioni le quali farà tenere al Rettore.

                2. H Rettore poi lo presenterà o no per l'accettazione secondo che [939] gli sembrerà meglio nel Signore. Ma quando è proposto al Capitolo, sarà solo accettato se otterrà almeno la maggioranza dei voti.

                3. La prova per essere ammesso ai voti sarà di un’anno; ma niuno li potrà fare se non ha compiuti sedici anni di età.

                4. I voti saranno per due volte rinnovati di tre in tre anni. Dopo i sei anni ognuno è libero di continuarli di tre in tre anni, oppure farli perpetui, cioè di obbligarsi all'adempimento dei voti per tutta la vita[35].

                5. Affinchè un socio possa essere ricevuto nella Società, oltre le qualità morali nel grado richiesto dalle regole, deve pure confermare la sua,condotta anteriore con un certificato: I. di nascita e battesimo; 2. di stato libero; 3. sciolto da debiti; 4. non essere mai stato processato; 5. nè avere alcun impedimento che lo allontani o lo renda irregolare nello stato ecclesiastico; 6. approvazione dei parenti prima che faccia i voti.

                6. Lo stato di sanità sia tale che almeno nell'anno di prova possa osservare tutte le regole della Società senza fare eccezione di sorta.

                7. Ogni socio, se destinato allo studio, entrando dovrà portare con sè: I. Corredo di vestiario almeno pari a quello che è prescritto pei giovani della casa; 2. Cinquecento franchi nell'entrata, che serviranno a sopperire le spese che occorreranno nel vitto e vestito nell'anno di prova; 3. franchi 300 in fine dell'anno di prova prima di fare i voti.

                8. I fratelli coadiutori porteranno soltanto il corredo e franchi 300 nella loro entrata senza ulteriori obbligazioni.

                9. Il Rettore potrà dispensare dalle condizioni poste nell'articolo 7, qualora intervengano motivi ragionevoli per cui egli giudichi di fare eccezioni più o meno ristrette.

                10. La comunità appoggiata alla Divina Provvidenza che non manca mai di venire in aiuto di chi in lei confida, si dà carico di provvedere quanto occorrerà a ciascun socio, sia che egli trovisi in sanità, sia che cada in qualche malattia. La comunità però si obbliga in questo, soltanto riguardo a quei soci che hanno già fatto i voti.

                11. A tutti si raccomanda caldamente di guardarsi attentamente dal contrarre abitudini di qualsiasi genere anche di cose indifferenti; procurare la nettezza e la decenza degli abiti, del letto, e della camera; ma farsi un grande studio per evitare la ricercatezza e l'ambizione. L'abito più pregevole per un religioso è la santità della vita, congiunta con un edificante contegno in tutte le nostre operazioni.

                12. Ognuno sia disposto di soffrire, se occorre, caldo, freddo, sete fame, stenti e disprezzo, ogni volta tali cose contribuiscono a promuovere la gloria di Dio, il bene delle anime, la salute dell'anima propria. [940]

 

PRATICHE DI PIETA'.

 

                1. La vita attiva cui tende la nostra congregazione, fa che i suoi membri non possono avere comodità di fare molte pratiche in comune; procureranno di supplire col vicendevole buon esempio, e col perfetto adempimento dei doveri generali del cristiano.

                2. La frequenza ebdomadaria dei Santi Sacramenti, la compostezza della persona, la pronunzia chiara, divota, distinta delle parole dei divini uffizi, la modestia nel parlare, vedere, camminare in casa e fuori di casa devono essere cose caratteristiche nei nostri congregati.

                3. Ogni giorno non vi sarà non meno di mezz'ora di preghiera tra mentale e vocale, ad eccezione che uno sia impedito dall'esercizio dal sacro ministero.

                4. Ogni giorno si reciterà la terza parte del Rosario di Maria SS. e si farà un po' di lettura spirituale.

                5. In ciascuna settimana al venerdì si farà digiuno in onore della passione di N. S. G. C.

                6. L'ultimo giorno di ciascun mese sarà giorno di ritiro spirituale, ciascuno farà l'esercizio della buona morte aggiustando le sue cose spirituali e temporali come se dovesse abbandonare il mondo ed avviars all'eternità.

                7. Il Rettore potrà dispensare da queste pratiche per quel tempo o per quegli individui che giudicherà meglio nel Signore.

                8. Quando la divina provvidenza chiamasse alla vita eterna qualche socio sia laico che Sacerdote i confratelli di tutta la Società celebreranno una messa in suffragio dell'anima del defunto. Quelli che non sono Sacerdoti procureranno di fare almeno una volta la S. Comunione a questo fine.

                9. La stessa opera di cristiana pietà si farà alla morte del padre o della madre di qualcheduno dei congregati, ma solamente nella casa dove dimora il socio che ha subito quella perdita.

 

A. M. D. G.

 



[1] Giova osservare che i due interlocutori parlavano in dialetto piemontese, e quindi la frase “ quel grande Rattazzi” in italiano, corrisponde nel dialetto a “ col gran Ratass”; e in piemontese ratass significa un gran topo, un topaccio. D. Bosco pronunziando questa parola le aveva anche dato un tono di sorpresa, che fece sorridere il Ministro.

[2] XXXVII, 33

[3] Rom. VIII, 29

[4] Il Campanone era un giornaletto cattolico quotidiano, sorto in, Torino quell'anno stesso, scritto con molto brio e vivacità. Era il martello degli eretici, che perciò lo odiavano a morte. In un manifesto della setta evangelica in data del 5 agosto 1854, tra le molte espressioni piene di astio e di livore, si leggevano queste: “Imploriamo l'aiuto del Governo, l'autorità delle Leggi e dell'opinone pubblica, perchè sia distrutta la nidiata di quei facinorosi, che stampano, il Campanone.” Bella tolleranza!

[5] Prov. VIII, 34

[6] MATT. XXVIII, 9

[7] Codice Albertino; titolo preliminare

[8] TAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza. Vol. I,  pag. 150

[9] TAVALLINI, id., ibid., pag. 150

[10] CITTÀ DI TORINO

 

Gabinetto particolare.              Torino, addì 15 gennaio 1855]

                Uno dei deputati della Camera si è rivolto al Sindaco sottoscritto per ottenere il ricovero in qualche pio stabilimento di un povero orfano per nome Cominoli Giuseppe di anni 13 circa, nativo di Margozzo, il quale gode ottima salute, ed è dotato di robusta costituzione fisica ed anche di svegliato ingegno, i parenti del quale, al pari di lui, sono affatto poveri, tranne un di lui zio, il quale sebbene in condizione limitatissima, si disporrebbe tuttavia a fare un'assegnazione di annue lire 80 allo stabilimento, che porgesse asilo all'infelice suo nipote.

                Lo scrivente si trova perciò nel dovere di ricorrere alla ben nota carità di S. V. Molto Rev.da pregandola a voler vedere se fosse possibile di dare nel di Lei stabilimento il desiderato ricetto al povero orfanello, anche in riguardo all'annua prestazione, sebbene tenue, che il detto di lui zio sarebbe disposto di fare pel di lui asilo.

                Attenderà chi scrive un cenno di riscontro, e frattanto le anticipo i suoi sensi di gratitudine per quanto vorrà fare a vantaggio del raccomandato.

Il Sindaco

NOTTA.

[11] [Vedi nata a pag. 204]

Nota della Pag. 203.

 

                               Direzione centrale delle Letture Cattoliche.

 

                Pregiatissimo Signore,

Torino, li 8 febbraio 1855.

 

                Dovendo sistemare il conto colla Tipografia, preghiamo la S. V. Ill.ma a volerci far pervenire l'ammontare dell'associazione da Lei ritirata delle Letture Cattoliche. La preghiamo di significarci il numero di copie che intende ricevere per il terzo anno. In attesa di un suo riscontro abbiamo l'onore di dichiararci con distintissima stima

                Della S. V. III. Rev.ma

Dev.mo obbl.mo servitore

I. C. VALINOTTI.

[12] Società Reale Pel patrocinio dei giovani liberati dalla Casa di educazione correzionale. - Oggetto. - Istruzioni pei Patroni dei giovani liberati ammessi al Patrocinio.

 

                A mente degli Statuti approvati con R. Brevetto 21 novembre 1846 tutti i Soci contraggono l'obbligo di ricevere, alla loro uscita dalla Casa di educazione correzionale, di collocare, invigilare e soccorrere, coi mezzi che loro somministra la Società, i giovani liberati ad essi affidati, e di rendere conto alla Società dei risultati delle loro cure.

                In conseguenza di questa disposizione, il Socio che viene nominato Patrono di un liberando da detta Casa, deve: 

                I° Cercare anticipatamente un maestro d'arte, fabbricante o artista, il quale voglia ricevere nella sua bottega, fabbrica o negozio il liberando, a seconda del desiderio che avrà manifestato di voler apprendere più l'una che l'altra professione o mestiere, come sarà indicato nella lettera d'avviso della di lui nomina, ovvero giusta l'inclinazione che il Patrono avrà meglio potuto conoscere nel giovane stesso, in una visita, che sarebbe a desiderare, gli potesse fare nella Casa di educazione, prima della di lui uscita (a termine dell'art. 132 del Regolamento disciplinare della medesima, approvato con Decreto Reale del 5 giugno 1853, i membri della Società di Patrocinio hanno libero l'ingresso nella stessa Casa);

                2° Regolare colla persona, che si disporrà accettare il giovane, le condizioni ed il tempo dell'apprendisaggio, avvertendo che la durata del patrocinio è stabilita per soli tre anni;

                3° Procurare che la persona medesima gli somministri pure vitto ed alloggio, ed in caso contrario cercargli altra casa o famiglia a quest'oggetto, ritenendo che la Società non può pagare un corrispettivo maggiore di 80 centesimi al giorno per la pensione e l'alloggio di cadun giovane;

                4° Riferire al signor Segretario generale della Società le intelligenze, e patti come sopra concordati, onde si proceda il più presto possibile, e non più tardi d'un mese, da computarsi dal giorno della liberazione (durante il quale si possono fare gli esperimenti occorrenti sulla capacità e disposizioni del liberato) alla stipulazione di apposita capitolazione tra la Società, rappresentata dal detto Segretario generale, ed il maestro d'arte che riceverà il giovane, coll'intervento di questo, assistito dal Patrono;

                5° Visitare successivamente di quando in quando il proprio patrocinato nella bottega o laboratorio in cui sarà accettato, ed informarsi della di lui condotta sia sotto il rapporto religioso e civile, che sotto quello del lavoro;

                6° Ragguagliare periodicamente, cioè la prima domenica d'ogni mese, la Commissione di collocamento, e per essa il signor Segretario generale della Società, del contegno del proprio patrocinato, dell'assiduità al la voro, come del compimento dei doveri di religione, per le osservazion ed ammonizioni che occorressero farsi al giovane su tali argomenti;

                7° In caso di mancanze gravi, o di fuga del patrocinato, informare immediatamente lo stesso Segretario generale, ed il Presidente della Commissione di collocamento per li provvedimenti necessari;

Alla scadenza d'ogni mese fare l'opportuna richiesta (sugli stampati che gli saranno dalla Società somministrati) pel pagamento della pensione del mese antecedente portata dalla suddetta capitolazione, in favore del maestro d'arte, od avente diritto;

                9° La Società somministra ai suoi patrocinati il vestiario nei limiti dello stretto indispensabile.

                Il Patrono riconoscendone il bisogno dovrà quindi farne la richiesta, sugli appositi stampati, e procurare che la spesa non ecceda mai le lire 60 per ogni anno, e per ogni liberato, e per tutto ciò che deve costituire il corredo o vestiario compiuto da un giovane apprendista, ripartendo la stessa somma fra le due stagioni di estate e di inverno;

                10° Le richieste, di cui nei due precedenti numeri, devono essere presentate al signor Segretario generale per l'emissione dell'occorrente mandato di pagamento, a seconda delle regole di contabilità, il quale verrà soddisfatto dal Tesoriere della Società, signori banchieri fratelli Ceriana (via dei Conciatori, n. 14, al piano terreno, casa propria;

                11° E finalmente deve il Patrono suggerire alla Commissione di collocamento, e per essa al suo Presidente, tutto ciò che crederà utile nell'interesse del di lui patrocinato, sia per la migliore sua istruzione ed educazione, sia per la compiuta sua moralizzazione, proponendo all'uopo premi di incoraggiamento, ammonizioni ed eziandio l'espulsione dal Patrocinio.

 

                Torino, li 15 aprile 1854.

Per la Commissione di collocamento

Il Vice - Presidente anziano della Società

Cagnone.

[13] TAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza. Vol.I,  pag. 110

[14] Vedi nota a pag. 261

                Nota della pag. 260. Illmo Signor Presidente della Pia Opera della mendicità istruita di Torino.

 

                Pieno di sentimenti della più viva gratitudine verso di V. S. Ill.ma e verso i Signori della amministrazione della Pia Opera della mendicità istruita pei sussidii altre volte prestati a favore dei giovani poveri ricoverati nell'Oratorio maschile di Valdocco e di quelli che frequentano la scuola serale e le istruzioni morali negli Oratorii di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova, del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, mi trovo in quest'anno nella critica posizione di dover nuovamente ricorrere al medesimo fonte di beneficenza.

                La maggior carezza di commestibili e la cessazione di lavoro misero al più grave rischio parecchi giovani abbandonati e pericolanti, i quali forse andrebbero a finir male se non fossero aiutati coi mezzi materiali e morali. Parecchi di costoro, circa cento, in gran parte di quelli fatti orfani nella fatale invasione del colèra dell'anno scorso sono attualmente ricoverati in Valdocco, altri sono altrimenti aiutati nel modo che si può, e costoro oltrepassano il mille e cinquecento tra tutti e tre gli Oratorii.

                Egli è per questi poveri ed abbandonati giovanetti che io ricorro alla nota e provata bontà di V. S. Ill.ma supplicandola caldamente a voler prendere in benigna considerazione la calamitosa posizione de' giovani accennati, e accordarmi a loro favore quel caritatevole sussidio, che la gravezza del caso Le farà parer beneviso.

                Con vera gratitudine e riconoscenza, anche a nome dei beneficati giovanetti, auguro a Lei ed a tutti i Signori dell'Amministrazione copiose benedizioni del cielo reputando massimo onore il potermi dire con pienezza di stima di V. S. Ill.ma

Obblig.mo ricorrente

Sac. Giovanni Bosco.

[15] I TIMOTEO, IV, 8

[16] Ordine del funerale di Gurgo. - Ventuna figlia in divisa e due vicecurati con cera della parrocchia; quattro giovani dell'Oratorio con rocchetto e cera propria; bara accompagnata da quattro torcie della parrocchia; seguito di giovani ad onore con cera propria; musica avanti al clero senza fermata; accompagnamento di chierici in mantello talare e con torcia; il parroco lascia portar via la cera propria; i tappeti neri alla porta.

                Le spese furono: 55 lire per messa cantata in parrocchia; io lire allo stato civile per la bara; una lira al becchino che ripone il cadavere.

[17] Ordine pel funerale di Gavio: Non intervennero le figlie; Musici; Croce e clero, due vicecurati e due chierici; Bara con quattro torcie; 40 lire, cera della parrocchia; Messa cantata breve; Accompagnamento dei giovani con cera propria

                Spese: Non si pagarono le 10 lire allo stato civile perchè accompagnavamo noi soli; 1 lira al becchino.

[18] Vedi nota a pag. 443

Nota della Pag. 442. Conclusione dell'Armonia nel suo numero del 22 febbraio 1856, riportando la suddetta circolare:  Noi raccomandiamo vivamente questa opera di vera carità: giacchè se è tale l'impedire che un uomo sia avvelenato, avvertendolo del veleno che sta per inghiottire, non può certamente essere opera di carità di minor importanza il premunire lo spirito dal veleno dell'errore. E chi per poco conosce gli orrori della stampa del nostro paese, converrà facilmente che non mai si ebbe tra noi maggior bisogno di opporre antidoti a tanti veleni che si spargono”.

[19]                                                                             PIUS P.P. IX.

                Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem.

                Quae ad religionem fovendam animarumque salutem procurandam fieri possunt, ea libenti animo concedere solemus. Jam vero cum nuper Nobis exponendum curaveris, Te, ad Passionis et Agoniae Redemptoris et D. N. j. Ch., unde nobis vita, salus et resurrectio manavit, memoriam in omnium Christi fidelium animis excitandam, nec non cultum et venerationem B. M. V. I., ab ipso Catholicae Ecclesiae exordio ubique gentium semper exhibitam, promovendam et adjuvandam, cruces, sacra numismata et coronas precatorias benedicere et consuetis indulgentiis ditare vehementer cupire, atque adeo a nobis petieris ut hanc tibi facultatem de Apostolica benignitate concedere dignaremur; Nos piis hujusmodi votis annuendum censuimus. Igitur de Omnipotentis Dei misericordia ac B. B. Petri et Pauli Apostolorum ejus auctoritate confisi, tibi et deinceps ad Triennium proximum tantum, dummodo ad excipiendas sacramentales Christi fidelium confessiones sis approbatus, extra urbem ac de consensu Ordinarii tui (quem nisi obtinueris has litteras nullas volumus) cruces et sacra numismata cum applicatione indulgentiae plenariae in mortis articulo consequendae, nec non coronas precatorias cum applicatione indulgentiarum S. Birgittae nuncupatac, privatim in forma Ecclesiae consueta benedicere possis et valeas auctoritate Apostolica tenore praesentium, concedimus et indulgemus. In contrarium facientibus non obstantibus quibuscumque.

                Datum Romae apud S. Petrum sub Annulo Piscatoris die XXII februarii MDCCCLVI, Pontificatus Nostri anno Decimo.

 

Pro Domino Cardinali Macchi

G. B. Brancaleoni Castellani subs.

[20]                                                                                             PIUS PP. IX.

Universis Christi fidelibus praesentes litteras inspecturis salutem et Apostolicam Benedictionem.

                Ad augendam fidelium religionem et animarum salutem, coelestibus Ecclesiae thesauris pia charitate intenti, omnibus et singulis utriusque sexus Christi fidelibus vere poenitentibus et confessis ac S. Comunione refectis, qui Ecclesiam Instituti, vuIgo Oratorio nuncup sub titulo Sancti Francisci Salesii, juvenibus ad pietatem exercendis qui in periculo versantur, canonice ut probatur erecti in Civitate seu Dioecesi Taurinensi, in praecipuis B. M. V. I. festivitatibus, Conceptionis videlicet, Nativitatis, Praesentationis, Annunciationis, Purificationis, Visitationis et Assumptionis, Transitus S. Josephi sponsi eiusdern B. M. V. ac S. Francisci Salesii, a primis vesperis usque ad occasun solis dierum eiusmodi, singulis annis devote visitaverint, ibique pro Christianorum Principum concordia, haeresum extirpatione ac S. Matris Ecclesiae exaltatione pias ad Deum preces effuderint, quo die talium festorum id egerint, plenariam omnium peccatorum suorum indulgentiam et remissionem misericorditer in Domino concedimus, Praesentibus ad septennium tantum valituris.

                Datum Romae apud S. Petrum sub Annulo Piscatoris die X junii MDCCCLVI Pontificatus nostri anno decimo.

Pro D.no Cardinali Macchi

I. B. Brancaleoni Castellani subs.

 

PIUS PP. IX.

 

                Universis Christi fidelibus praesentes litteras inspecturis salutem et Apostolicam Benedictionem.

                Ad augendam fidelium religionem atque animarum salutem, coelestibus Ecclesiae thesauris pia charitate intenti, omnibus et singulis utriusque sexus Christi fidelibus, corde saltem contritis, qui pio bonae mortis exercitio, in Ecclesia seu publico Oratorio Instituti, vulgo Dei giovani pericolanti nuncupatum, Civitatis seu Dioecesis Taurinensis, semel quolibet anni mense de Ordinarii licentia peragent, devote interfuerint ac ibi pro Christianorum Principum concordia, haeresurn extirpatione, ac Sanctae Matris Ecclesiae exaltatione pias ad Deum preces effuderint, quo die id egerint, septem annos totidemque quadragenas de injunctis eis seu alias quomodolibet poenitentiis debitis, in forma Ecclesiae consueta relaxamus, Presentibus ad septemnium tantum valituris.

                Datum Romae apud S. Petrum sub annulo Piscatoris die XIII junii MDCCCLVI Pontificatus nostri anno decimo.

Pro D.no Card. Macchi

I. B. Brancaleoni Castellani.

[21] L'Armonia del 21 ottobre così annunziava la Storia d'Italia di D. Bosco: -Il turpe commercio che si fa dalla cricca dei Calandrini della pubblica istruzione di libri scioccamente abborracciati e, quel che è peggio, sovente contaminati di massime perverse a danno della gioventù, ci fa sentire più vivo il piacere che proviamo avendo alle mani libri da far conoscere adattati a' bisogni dell'educazione e dell'istruzione della parte più cara della società qual è la gioventù. Si sa in particolare quanto sia stata malmenata la storia di questa nostra povera Italia per farla servire alle ire più sfrenate politiche e antireligiose.

                Quell'infaticabile e zelante educatore della gioventù che tutti conoscono nel sacerdote Giovanni Bosco, applicò l'animo anche a questa parte dell'istruzione, e ci diede testè una Storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai giorni nostri in un volume di poco meno di 600 pagine in 12, con una carta geografica dell'Italia. Non vogliamo per ora parlare del merito letterario o scientifico dell'opera, giacchè un volume di 6oo pagine non si può leggere in un sol fiato, massime per darne un sodo e ragionato giudizio, ma per non differire a far conoscere quest'operetta agli educatori della gioventù ed a' padri - famiglia, ricorderemo che il nome dell'autore già conosciuto per molte opere, tutte dedicate all'istruzione della gioventù, è pegno più che sufficiente sia della sodezza della materia, sia della convenienza della forma per lo scopo cui il libro è diretto.......

                Noi siamo sicuri che i maestri, i padri - famiglia e tutti coloro cui sta a cuore l'educazione della gioventù saranno riconoscenti all'egregio Sacerdote per essersi assunta questa grave ed ingrata fatica di preparare una storia dei nostro paese, che i giovani possono leggere con vero vantaggio e senza danno alcuno. Già in molte case di educazione ed in vari collegi e piccoli seminari venne accolta con favore la Storia d'Italia del Sig. Don Bosco e presa per testo da porre in mano ai giovani.

                Non dubitiamo che non andrà molto che questo favore diverrà generale negli stabilimenti d'educazione del nostro paese.

[22] Bèrlich, voce piemontese che indica demonio.

[23] MATT. VI, 31

[24] Luc. V, 33 e seg.

[25] Torino, 7 luglio 1857

                               Ill.mo e Rev.mo Signore,

 

                Il povero giovane orfano abbandonato Claudio Ardi, che il Reverendo Sac. Bosco con lettera del 13 giugno p. p. si dichiarava disposto ad accettare nel pio Ricovero da Lui diretto, avendo amato meglio di entrare con una sua sorella nell'ospizio Cottolengo, ed essendovi infatti stati ammessi entrambi, da quel Sig. Direttore Cav. Anglesio addì 3 corrente mese; il sottoscritto prega V. S. R. a voler disporre per l'ammissione, in cambio del ragazzo Ardi, di quell'altro non meno sgraziato per nome Guglielmo Giacomo Bertello, che gli veniva già raccomandato con nota di questo Ministero del 19 giugno ora scorso; alla quale perciò il Sac. Bosco resta pregato di fare al più presto possibile un riscontro per opportuna norma del sottoscritto.

Il Ministro

URBANO RATTAZZI.

[26] XXVII, 15.

[27] Giov. Capo IV.

[28]                              Ill.me ac R.nde D.ne D ne, Col.me.

                Liber cum litteris tuis obsequentissimis dono perlatus fuit ad Pontificem Maximum Pium IX, qui a te, Ill.me ac R.nde D.ne, exaratus est egregio eo consilio, ut adolescentibus cam Italiae historiam proponeres, quam cum nullo, ut scribis, religionis sanctissimae ac morum detrimento ipsi decurrerent. Quo de officio jussus ego sum a Sanctitate Sua debitas tibi persolvere gratias; licet gravissimae Supremi Apostolatus curae et occupationes nequidquarn sinerint, ut Tuum eundem librum Summus idem Pontifex perlegeret. Paternae Eius in Te charitatis pignus est Apostolica Benedictio, quam auspicem gratiac coelestis ipsi Tibi, Ill.me ac R.de D.ne, creditisque institutioni Tuae adolescentibus benignissimus idem Pontifex peramanter impertitus est.

                Ego interim cum Eius jussa facio, obsequii mei studium impense Tibi profiteor, ac lata et salutaria omnia enixe precor a Domino.

Tui, Ill.me ac R.nde D.ne,

                Dat. Romae die 3 octobris 1857.

 

Humilissimus et Addictissimus Servus

DOMINICUS FIERAMONTI S.mi D.ni N.

Segretarius pro Epistolis Latinis.

Ill.mo ac R.ndo D.no Presbytero Joanni Bosco

Augustam Taurinorum.

[29] ESODO XXII, 25.

[30] ISAIA, XXVII, 9.

[31]                              Beatissimo Padre,

 

                Il sacerdote Bosco Giovanni, Direttore degli Oratorii de' giovani abbandonati della città di Torino  (Piemonte), prostrato ai piedi di Vostra Santità, implora, per la casa di ricovero di Torino detta di Valdocco, e per quella di Genova detta Opera degli Artigianelli diretta dal Sacerdote Montebruno Francesco, la facoltà dell'Oratorio privato per queste due Case di ricovero, e che tale favore si estenda a poter ivi adempire il precetto festivo, fare la santa Comunione tanto pei giovani ricoverati, quanto per quelli che in qualche maniera sono applicati a servire o a prestare caritatevoli servigi.

                Pieno di gratitudine si prostra

Umile Supplicante

Sac. GIOVANNI Bosco..

                Die 9 Martii 1858.

                Benigne annuimus pro gratia.

                Serv. servandis.

                PIUS PP. IX.

(Autografo)

[32]                              Beatissimo Padre,

                Il Sac. Bosco Giovanni, prostrato ai piedi di Vostra Santità per dare un segno di gratitudine verso il Sig. Colonnello Roasenda Cav. Giacinto benefattore insigne degli Oratorii e del ricovero dei giovani poveri di Torino in Piemonte, implora sopra di esso l'Apostolica Benedizione col favore dell'Indulgenza plenaria in articulo mortis per lui, sua famiglia, affini e consanguinei fino al terzo grado.

Che della grazia

Umilissimo Supplicante

Sac. Giov. Bosco.

Romae abud S. Petrum die 7 aprilis 1858

Benigne annuimus pro gratia.

(Firmato) PIUS PP. IX.

[33] Salmo XXVI, 14

[34] Due camere dell'alloggio destinato i preti direttori del Rifugio, e nel 1845 l'Oratorio trasferivasi in Valdocco, casa Pinardi, ove tutt'ora esiste.

[35] Fino all'articolo 4. inclusivo è il manoscritto delle regole 1857-1858. Dall'articolo 5. fino al termine di questo capitolo sono aggiunte fatte da D. Bosco nel manoscritto 1898-359. Alcuni di questi articoli pare siano quelli suggeriti a D. Bosco dal Papa.




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