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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

LA PACE DELLA CHIESA OSSIA IL PONTIFICATO DI S. EUSEBIO E S. MELCHIADE

ultimi martiri delle dieci persecuzioni

 

P

 

La lett. dell’ alfabeto iodica il num. da' fascie. delle vite dei Papi.

 

 

TORINO

TIP. DELL’ ORAT.  DI S. FRANC. DI SALES.

1865. {1 [173]} {2 [174]}

 

[è premesso alle opere anonime]

 

 

 

 

INDEX

Nozioni topografiche Intorno alla citta' di Roma  2

Campo Marzio. 2

Teatro di Pompeo. 2

Teatro di Marcello. 3

Teatro Balbo. 3

Anfiteatro di Statilio Tauro. 3

Mausoleo di Augusto. 4

Il Panteon, le Terme di Agrippa. 5

Circo Flaminio. 6

Capo I. Giovinezza di Costantino il grande. 7

Capo II. Conversione di Costantino al Cristianesimo. 8

Capo III. Costantino a Roma - Morte di Massenzio. 9

Capo IV. Elezione di s. Eusebio. - Morte di Galerio. 10

Capo V. Istituzioni di s. Eusebio papa, principii di s. Eusebio vercellese. 11

Capo VI. Esiglio e morte di s. Eusebio Papa. 12

Capo VII. S. Melchiade dà sepoltura ai martiri e riceve l’ imperatore Costantino  13

Capo VIII. Palazzo Laterano. - Scisma de' Donatisti. 14

Capo IX. Lettera di Costantino a s. Melchiade, Concilio di Luterano. 15

Capo X. Lettera di Costantino ai vescovi cattolici. - Calunnie de' Donatisti contro s. Melchiade. 16

Capo XI. Solennità della Domenica e del giovedì. Distribuzione del pane benedetto. - Niuno è da condannarsi se non è convinto di reità. 17

Capo XII. Ultime fatiche di s. Melchiade. Sua morte. - Indizione Romana. 17

Indice  18

 


Nozioni topografiche Intorno alla citta' di Roma

 

 

Campo Marzio.

 

            Nella storia profana ed ecclesiastica, nelle vite de' santi, nelle antichità e nelle rimembranze che tuttora in Roma si conservano, si ricorda ad ogni momento il Campo Marzio; sarà pertanto cosa non disagradevole al lettore che qui se ne dia una breve descrizione. Si dava il nome di Campo Marzio ad una vasta pianura che spiegavasi innanzi a chi attraversando il Tevere entrava in Roma dalla parte del Vaticano. Ad un lato essa era chiusa con figura serpeggiante dal Tevere, ed al lato opposto dai dorsi del Pincio, del Quirinale e del Campidoglio. Questa valle era stata da Romolo, primo {3 [175]} re di Roma, riservata per appannaggio, cioè pel mantenimento della famiglia reale. Continuò a servire per quest’ uso sino a che furono cacciati da Roma i Tarquinia quando fu abolito il governo Monarchico. Detronizzato il superbo re Tarquinio e confiscati i beni suoi, una parte di detto fondo fu consacrata al Dio Marte, e tutta la valle fu chiamata Campo di Marte, ossia campo Marzio. La sua circonferenza è di ventimila piedi romani equivalenti a quattro miglia. Pell’ uso a cui serviva poteva chiamarsi la piazza d’ armi di Roma: ivi si esercitavano le milizie nelle arti della guerra con finti assalti ed attacchi; ivi il resto della  gioventù dedicavasi a giuochi ginnastici ed al nuoto, ivi ancora radunavasi il popolo per ratificare le leggi e per eleggere i magistrati. Roma essendosi di poi ampliata e divenuta potente, fu questo spazio di terreno in gran parte coperto di magnifiche fabbriche. Distinguevansi i teatri di Pompeo, di Balbo, l’ anfiteatro di Statilio Fauro, il Panteon, le terme di Agrippa, il circo Flaminio, il mausoleo di Augusto. Quindi la sua ammirabile grandezza, le fabbriche da cui era circondato, l’ erba che perennemente coprivalo, e le colline, che lo coronavano nella parte opposta {4 [176]} al fiume, porgevano uno spettacolo dal quale difficilmente un forestiero poteva distaccarsi.

 

 

Teatro di Pompeo.

 

            I primi teatri fabbricati in Roma erano di legno, e si rizzavano ogniqualvolta avveniva di dare spettacoli. Pompeo fu il primo a farne fabbricar uno di solida costruzione con ampiezza e magnificenza straordinaria, cui diede il proprio nome. Conteneva 28 mila persone tutte adagiate ne propri sedili, di dietro avea un portico chiamato Ecatonstilon, parola greca che significa cento colonne, perchè tante appunto ne contava. Aveva contigui boschetti di platani, i quali erano di una grandissima estensione, fino al' Tevere, e rendevano il passeggio delizioso. Immense furono le somme di danaro impiegate in questa costruzione. Pompeo per non essere tacciato di lusso smodato si valse del pretesto della religione, costrusse sull’ alto dell’ edilizio un tempio alla Dea Venere in modo, che i sedili gli, servissero còme di gradini.

            I romani avevano tanto amore pei loro Dei, che ogni spesa, per quantunque enorme, {5 [177]} non credevano poterla meglio impiegare che in loro onore.

            Nerone poi accrebbe la magnificenza di questo teatro in occasione che, essendo venuto a Roma Tiridate re di Armenia, per ostentare la Romana grandezza lo fece tutto dorare in un giorno solo. Davanti a questo teatro esisteva una gran sala che chiama vasi curia pompea ove il senato radunavasi nei giorni di spettacolo. Giulio Cesare dopo essere stato per la morte di Pompeo il solo padrone dell’ impero, sebbene sapesse colla sua dolcezza farsi da tutti amare, fu in essa ucciso a colpi di pugnale e cadde prostrato ai piedi della statua di Pompeo, che si conserva ancóra in Roma nel palazzo della famiglia Spada.

            Molti avanzi rimangono ancora del teatro Pompeo nel palazzo Pio, nelle case annesse al medesimo, e nel fabbricato situato lungo la via detta del paradiso.

 

 

Teatro di Marcello.

 

Giulio Cesare volendo edificare un teatro come.quello di Pompeo lo incominciò ma noi potè’ finire perchè prévvenuto dalla morte datagli dai congiurati. Ottaviano {6 [178]} Augusto nipote e figliuolo addottivo di Giulio Cesare lo compi a nome del proprio nipote Marcello nel 741 dopo la fondazione di Roma. Fu il secondo teatro stabile in Roma. Nel giorno della sua dedicazione si diedero feste sontuose e grandi spettacoli di caccie di fiere. Furono uccise sino a 600 belve affricane. Stando Augusto a vedere i giuochi avvenne che si ruppero i legami della sedia curule, nella quale era assiso e cadde supino.

            In questo teatro capivano 30 mila persone. Affinchè gli spettatori potessero ritirarsi in tempo di pioggia, giacché i teatri erano senza tetto, Augusto fece edificare un magnifico portico sotto il nome di Ottavia sorella sua, a cui dedicollo.

            Anch’ esso era immensamente spazioso, a doppia linea di colonne che si fanno ascendere al numero di 270. Entro lo spaziò circoscritto da questo portico stavano due templi, l’ uno dedicato a Giove e l’ altro a Giunone. Dopo la morte di Gregorio VII, avvenuta l’ anno 1086, fu questo teatro ridotto a fortezza, e chiuso entro le case di un certo Pier Leone, il quale die ivi ricovero a Papa Urbano II l' anno 1099 e in esso morì. Molte cose ci racconta la storia di cotesto Pier di {7 [179]} Leone personaggio molto potente in quei giorni. Allorquando il successore di Urbano , Pasquale II, lasciò Roma per andare nella Puglia commise a lui ed a Leone Frangipane il governo di Roma. Nella sedizione avvenuta l’ anno 1116 per la creazione del prefetto di Roma, carica alla quale Pier di Leone voleva far promuovere il figlio contro la volontà del popolo; questo infuriato corse ad assalirne il Castello.

            La potenza di Pier di Leone giunse a tal segno l’ anno 1130 da volere imporre alla Chiesa per Papa un suo figliuolo che è l’ antipapa Anacleto II, ed a sostenerlo fino alla sua morte che avvenne l’ anno 1138. L’ altro suo figliuolo Giordano si fece creare patrizio di Roma l’ anno 1143 e si ribellò dal Papa Lucio II. Laonde mòrto questo Pontefice e creato Papa Eugenio III lo scomunicò. Per tutti questi assalti molto soffri il teatro di Marcello che era il centro del potere de' Pier Leoni.

            Dalle rovine totali di questo teatro si è formato il piccolo colle che va sotto il nome di monte Savelli come quello che fu un tempo sede di questa famiglia.

            Rimangono peraltro ancora considerabili avanzi. {8 [180]}

 

 

Teatro Balbo.

 

            Il teatro Balbo terzo dei grandi teatri di Roma antica, con le sue rovine diede origine al colle Cenci come già si disse in un altro fascicolo. Fu innalzato nello stesso tempo che quello di Marcello e con la medesima capacità. Cornelio Balbo, amico di Ottaviano Augusto, lo fece edificare dopo aver riportata immensa quantità di danari da una spedizione di guerra contro i Garamanti popolo dell’ Affrica.

 

 

Anfiteatro di Statilio Tauro.

 

            Parlando del monte Citorio si disse essere esso un ammasso di scarichi, di roltami provenienti particolarmente dall’ anfiteatro di Statilio Tauro. Statilio Tauro era comandante dell’ esercito sotto l’ imperatore Ottaviano, ed il primo che abbia fatto innalzare un edifizio di simil genere da durare anche in tempo che non si davano spettacoli. A suo tempo parleremo dei teatri e degli anfiteatri di Roma. Per ora si ritenga solo questo: teatro è parola greca, che significa spettacolo, ovvero luogo degli spettacoli; anfiteatro {9 [181]} significa teatro di forma circolare. Nei primi rappresentavansi i giuochi scenici, come sono le commedie; i secondi erano specialmente destinati all’ uso delle caccie e dei combattimenti delle belve. Questo fu il campo glorioso di tanti eroi crisiani, i quali vi riportarono la palma del martirio. Spesse volte il Signore vi mostrò la sua potenza. Quelle fiere affamate da più giorni talvolta rispettavano i Santi martiri e per un miracolo straordinario andavano mansueti a lambire i loro piedi: altra volta assalivano i custodi e li sbranavano, e si ponevano alle difese dei cristiani; quando poi non era conveniente l’ operare un miracolo, o perchè inutile, o perchè quegli atleti avevano già troppo meritata la corona, le fiere aprivano loro la via del cielo divorandoli. Innumerevoli furono quelli che durante nove generali persecuzioni nell’ anfiteatro di Statilio Tauro raccolsero la palma del martirio, ed ora sono in cielo cinti di un aureola gloriosa che niun altro, che non sia martire, può conseguire. Preghiamoli questi santi eroi della fede, affinchè ci ottengano da Dio di combàttere anche noi coraggiosamente se non contro le fiere e contro i tiranni, almeno contro le nostre disordinate passioni. {10 [182]}

 

 

Mausoleo di Augusto.

 

            Chiamansi mausolei i sepolcri innalzati con grandissima magnificenza da Mausulo re della Caria a cui sua moglie Artemisia aveva fatto in Alicarnàsso un sepolcro così magnifico che veniva riguardato come una delle sette maraviglie del mondo.

            Cesare Augusto affinchè il luogo di sepoltura della sua famiglia avesse nobile distinzione fece edificare un celebre mausoleo l’ anno 726 dopo la fondazione di Roma. Lo scrittore Strabone ce lo descrive pressapoco in questi termini: Considerando i Romani il Campo Marzio come il luogo più sacro costrussero in esso i monumenti sepolcrali degli uomini é delle donne più illustri. Sopra tutti questi è degno di essere descritto il così detto mausoleo di Augusto. Esso consisteva in una base di 225 piedi di diametro in marmo bianco che aveva d’ intorno 14 camere delle quali una serviva di porla, le altre erano celle sepolcrali per Augusto, pei suoi congiunti e pei suoi famigliari. Rimaneva in mezzo un vuoto circolare di 130 piedi coperti da una volta che serviva di sala comune, e che dava ingresso alle celle ed a guisa di tempio conteneva {11 [183]} le statue dei cesari sepolti. Questa volta serviva di sostegno ad un gran tumulo o monticello di terra piantato di alberi sempre verdi che tutti ombreggiavano fino alla cima, sulla quale sorgeva la colossale statua in bronzo di Cesare Augusto. Dinanzi al mausoleo, forse nel vestibolo, leggevansi su tavole di bronzo i fasti scritti da Augusto medesimo e contenenti le sue gesta. Dietro poi era un gran bosco intersecato da viali ammirabili. In questo esisteva il rogo dove abbruciavano i cadaveri, anch’ esso di marmo bianco circondato da barriere di ferro e dentro piantato di pioppi. E poichè trattiamo del rogo de' Cesari non sarà fuori di proposito l’ esporre le cerimonie di questo abbruciamento raccontando quella di Augusto slesso descritta da Dione lib. LVI, c. XLII.

            Il letto mortuario, egli dice, portato in ispalle da senatori usciva dalla città per la porta trionfale, siccome aveva decretato il Senato. Erano presenti e facevano parte del corteggio il Senato, l’ ordine equestre, le loro mogli, la guardia, e tutti gli altri per cosi dire che allora trovavansi in Roma. Dopoché fu collocato sul rogo nel Campo Marzio, primieramente vi giraravano attorno tutti i Sacerdoti, poi i cavalieri, {12 [184]} poi i magistrati, poi gli altri. Le guardie facevano anch’ esse le loro corse intorno e vi gettarono sopra tutte le decorazioni che avevano avute da lui in premio del loro valore. Allora i centurioni, prendendo le faci accese, appicccarono il fuoco alla pira, cioè alla catasta di legno sovra la quale stava il cadavere; la pira si consumò ed un’ aquila lasciata in libertà volò in alto portando, come essi dicevano, l’ anima dell’ estinto in cielo. Giò fatto si raccolsero le ceneri di Marcello nipote di Augusto; anzi furono le prime. Agrippa il console Pedone ed Ottavia sorella di Augusto ed altri della famiglia di Augusto imperatore Claudio ed in ultimo l’ imperatore Nerva ebbero ivi riposo. Dopo quel tempo il monumento non ricevette più ceneri non essendovi più spazio.

            Così rimase chiuso fino all’ anno 409 dell’ era volgare, quando Alarico condottiero dei Goti, popoli delle regioni settentrionali , concepì l’ audace disegno di impadronirsi di Roma e dell’ impero. Il suo primo tentativo ebbe non pertanto un esito infelice, perchè venuto a battaglia col prode Stilicone generale romano, fu sconfitto e fuggi. Ma dopo la morte di Stilicone precipitò di nuovo in Italia con un nembo di barbari. Nessun ostacolo si {13 [185]} opponeva alla sua marcia. Laonde i romani per liberarsi dal crudele nemico ne saziarono l’ avidità coll’ oro, e con altri oggetti preziosi. Alarico ricevette il prezzo offertogli e si ritirò. Ma corse in Roma una terza volta, la strinse d’ assedio, la prese, e l’ abbandonò al saccheggio dei suoi barbari. Nell’ avidità di trovarvi oggetti preziosi sconvolsero anche le urne del mausoleo di Augusto; mentre nella notte la città fu illuminata dalle fiamme del proprio incendio. Dopo tale avvenimento non si trova più menzione del celebre mausoleo di Augusto fino al secolo XII in cui ne era padrona la famiglia Colonna.

            Nel 1167 vi fu guerra fra i Romani e quei di Toscoli, città in cui i Romani furono vinti. Tal perdita fu attribuita ad un tradimento della famiglia Colonna, onde il popolo sdegnato corse a vendicarsene su questo monumento, e lo distrusse da cima a fondo, rimanendo in piedi soltanto quelle parti che presentavano una solidità insuperabile, e che sono quelle che oggidi rimangono, cioè il recinto delle celle.

 

 

Il Panteon, le Terme di Agrippa.

 

            Sopra tutti gli edifizi che esistevano nel campo Marzio è da ammirarsi il Panteon {14 [186]} di Agrippa, che quasi per intero ci venne conservato e consacrato a S. Maria detta della Rotonda per la forma del tempio. Questo superbo e sontuoso tempio, il più insigne ed il più bel monumento superstite dell’ antichità romana, è riguardato per la sua architettura un capo di opera, si per l’ integrale sua conservazione, si per la solidità, per la eleganza delle sue forme, e la regolarità delle sue proporzioni, per cui ottenne mai sempre l’ ammirazione universale. Tempio che dalla sterminatrice mano e dei tempi,.dei barbari fu rispettato, perchè in certo modo fosse monumento ai posteri della primitiva grandezza di Roma. L‘ iscrizione che si legge sulla faccia esterna del portico ci dice che esso fu eretto da Marco Agrippa, genero di Augusto, nel terzo di lui consolato, circa 27 anni avanti la nascita di G. C. Dedicollo a Marte ed a Giove vendicatore, in memoria della vittoria ottenuta da Augusto contro Marc’ Antonio e Cleopatra. Lo dedicò peraltro anche a Cibele madre di tutti gli Dei, perchè tutti in questo tempio avevano la propria statua, chi di bronzo, chi d’ argento, chi d’ oro e chi di pietre preziose. Per questo il tempio fu chiamato con voce greca Panteon, che significa a tutti gli Dei. Sotto l’ Imperatore Traiano fu arso, {15 [187]} percosso dal fulmine; sotto Comodo soggiacque ad un altro incendio, ma altri mperatori lo restaurarono. Consisteva in un gran corpo rotondo ed un portico al davanti. Per sette gradini si ascendeva al portico; il che lo rendea ancora più maestoso. Ma al presente non ne rimangono che due soli, perchè cinque restarono caperti dalla strada. Il pòrtico viene sostenuto da 46 stupende colonne d’ un solo pezzo di granito orientale, e d’ ordine corintio: otto sono di fronte e sostengono il cornicione, su cui erari un basso rilievo di bronzo, il quale rappresentava Giove in atto di fulminare i giganti che, secondo la favola, avevano voluto dare la scalata al cielo; le altre sostengono la profondità del portico. La cupola ed il portico erano coperti di tegole di bronzo dorato, ma nel 363 furono tolte dall’ Imperatore Costantino per portarle a Costantinopoli. Due grandi nicchie laterali si osservano all’ ingresso del tempio, le cui pareti erano rivestite da lastre di marmo. In una di esse eravi la statua di Augusto e nell’ altra quella d’ Agrippa. Nel mezzo del portico è una straordinaria porta di bronzo. L’ interno del tempio è sorprendente per la sua maestà e bellezza. Riceve il lume da una sola apertura circolare, che sta nella {16 [188]} il sommità della volta della cupola. Sei sono le cappelle all’ intorno del tempio incavate nella grossezza del muro tre per parte, ciascuna ha due pilastri e due colonne di un solo pezzo di marmo bianco. Nel mezzo sta l’ altare maggiore, nel quale ergevasi la statua di Giove ultore, cui era principalmente dedicato il tempio. Nelle cappelle sugli altari vuolsi che fossero i simulacri e le statue delle altre superstiziose divinità. Il famoso Panteon sussiste tuttora, come già dissi, e deve la sua conservazione prima all’ Imperatore Costantino, che non permise si distruggesse; poi all’ Imperatore Onorio, il quale vietò la demolizione degli antichi edifizi. La deve finalmente in modo particolare alla Religione, che lo dedicò al culto del vero Dio, come ora sono per narrare. I Romani Pontefici gareggiarono in proteggere la sua conservazione; e non solo di questo, ma di tutti i monumenti dell’ antichità, che la barbarie avrebbe atterrati, o rubati. Imperciocché i Papi furono in ogni tempo coraggiosi ed instancabili coltori delle scienze, delle arti e dell’ architettura.

            Primieramente il Papa S. Bonifacio IV, a fine di purgare questo edifizio dalla superstizione dell’ idolatria, lo impetrò ed ottenne dall’ Imperatore Foca, e verso {17 [189]} l’ anno 670 a' tredici maggio lo consacrò solennemente al vero Dio, alla Vergine Beatissima ed a tutti i’ Ss. Martiri. Sotto l’ altare maggiore pose 28 carri de' corpi loro estratti dai tanti cimiteri di Roma. Quindi nell’ anno 685 S. Benedetto II vi fece alcuni miglioramenti. S. Gregorio IV dedicollo a tutti i Santi. Adriano I nel 772 vi operò alcuni ristauri, e senza nominare altri Pontefici, che lo imitarono, ricorderemo che, essendo stato elevato alla cattedra Apostolica nel 1153 Anastasio IV, Romano, vi edificò dappresso un Palazzo Pontificio. Urbano VIII tolse dai travi fodere e chiodi di bronzo, e fece erigere in compenso i due campanili laterali, e riparò le colonne.

            Lungo sarebbe il far menzione di tutti gli uomini grandi in questo tempio sepolti. Solo ci limiteremo a dire, che Raffaello di Urbino, famoso dipintore, che cessò di vivere nel fiore di sua età ai 6 aprile 1520, avendo ordinato che si ristaurasse una delle sue cappelle, e scegliendola per sepoltura sua, volle che nell’ altare fosse collocata una statua della B. Vergine portata da Gerusalemme in Roma, che si crede dipinta da S. Luca.

            Credesi che ne' dintorni del Panteon fosse la famosa palude Gaprea. Presso di {18 [190]} questa Romolo, fondatore di Roma, peri vittima di una cospirazione senatoria mentre in mezzo ad un orribile temporale faceva la rassegna dell’ esercito. (Piazza Enterologie di Roma a 4 febbraio).

 

 

Circo Flaminio.

 

            Oltre i teatri e gli anfiteatri avevano i Romàni altri luoghi per gli spettacoli, cioè i circhi. Di essi parleremo a suo tempo. Solo conviene sapere fin d’ ora che in essi avevano luogo le corse dei cavalli, dei carri, le corse a piedi, ed anche i combattimenti degli uomini tra loro.

            L’ anno 533 dopo la fondazione della città, ossia 221 avanti l’ era volgare fu eretto da Flaminio il secondo circo nel Campo Marzio, che da lui ebbe il nome. Fu Flaminio il censore che costrusse una via appellata Flaminia lungo l’ Italia, e che, essendo la seconda volta console, incontrò la morte nell’ infelice giornata in cui combattè contro Annibale al lago Trasimeno. Esistevano già i prati Flaminii nello stesso luogo, dove poscia fu il circo di questo nome. Questi prati furono chiamati con tal nome perchè donati al popolo dalla famiglia detta dei Flaminii (Plutarco, ques. CLXVI). La prossimità di questo circo al {19 [191]} Campidoglio, e nello stesso tempo la vastità dello spazio, la circonferenza delle stanze fuori delle mura lo fece scegliere sovente per luogo delle radunanze popolari. Augusto l' anno 748 di Roma empiè questo circo d’ acqua, e vi diede lo spettacolo di una caccia di coccodrilli, dei quali vennero uccisi 36. Vicino al circo era il tempio della Dea Bellona, edificato nell’ anno 452 di Roma dal console Appio Claudio. Innanzi ad esso eravi la colonna Bellica, cosi detta perchè da essa il console lanciava un dardo verso quella nazione, cui il Senato Romano dichiarava la guerra. La parte più intera di questo circo era dove al presente è il magnifico Palazzo Mattei.

            L’ area del circo, prima che fosse edificato il gran Palazzo De-Mattei ed il Monastero di S. Caterina, serviva a lavorarvi le corde, donde derivò il nome di Funari alla contrada.

            Vi sono ancora molti altri monumenti antichi e moderni innalzati nel Campo Marzio, e noi parleremo di essi di mano in mano se ne darà occasione nello esporre le azioni de' sommi Pontefici. {20 [192]}

 

 

Capo I. Giovinezza di Costantino il grande.

 

            Mentre s. Eusebio e s. Melchiade erano al governo della Chiesa, la provvidenza sollevò al trono quel grande Imperatore che facendo cessare lo spargimento del sangue umano diede ai cristiani quella sospirata pace che da tre secoli invano si era cercata. Egli è Costantino soprannominato il grande, figlio di Costanzo Cloro e di s. Elena. Era nato nel 274 in Nizza città che ora appartiene alla Turchia Europea. Questo principe fu assai fortunato e pel suo carattere e per la sua educazione. D’ ingegno precoce e intraprendente, {21 [193]} ben fatto nella persona, avvenente d’ aspetto , nemico dell’ ozio , avverso a qual siasi compagnia di sfaccendati, affezionato allo studio, amante della fatica , sono doti che contribuirono molto a rendere gloriose le azioni di questo monarca. Per maestro ebbe il dotto e virtuoso Lattanzio da cui imparò per tempo a conoscere ed amare la scienza e la virtù.

            Quando Diocleziano associò all’ impero Costanzo Cloro, e gli affilò il governo delle Gallie e della gran Brettagna, Costantino andò col padre a dimorare nella città di Iork in Inghilterra. Ivi nella casa paterna ebbe molti esempi di virtù. La madre si adoperava per fargli conoscere la cristiana religione. Il padre lo ammaestrava intorno alla vita onesta ed onorata quale si conviene a chi è destinato a reggere i popoli. Costanzo Cloro amava i cristiani, e mentre Diocleziano li perseguitava ostinatamente, egli li lasciava vivere ira pace ammettendoli eziandio ad importanti cariche dello stato. Fra le altre cose Eusebio di Cesarea, {22 [194]} scrittore contemporaneo, racconta il fatto seguente: Costanzo per mettere alla prova la fedeltà de' suoi soldati ordinò che gli ufficiali e semplici soldati cristiani facessero un sacrifìcio agli dei, o rinunciassero ai loro gradi e perdessero la sua amicizia. Alcuni si mostrarono pronti a sacrificare, ma la maggior parte dissero di volere rimaner fedeli alla loro religione, Costanzo allora biasimò quelli che per conservare la dignità e i beni della vita si mostrarono infedeli a Dio, e disse: Se voi non siete fedeli a Dio, nemmeno sarete fedeli al vostro principe. Al contrario lodò la fedeltà degli altri, li sollevò a cariche maggiori, e loro affidò i più gravi affari. In questo modo il padre di Costantino faceva due beni al suo regno; conservava i cristiani che pregavano per lui e per lo stato il supremo Creatore del cielo e della terra, e conservava i più fedeli sudditi e i più corraggiosi soldati all’ esercito.

            Quando Diocleziano eleggeva Cesare Costanzo Cloro dimandò Costantino in {23 [195]} ostaggio che era una garanzia di rispetto e di sommessione alla suprema sua autorità. Costantino per tanto da Iork si portò in Nicomedia e passò parecchi anni alla corte imperiale. Ma quanto più risplendevano le virtù di Costantino in mezzo al fasto mondano, altrettanto cresceva l’ invidia da parte del superbo Galerio. Esso doveva succedere a Diocleziano nel trono e pel timore che Costantino guadagnasse l’ animo di quel monarca a suo danno lo costrinse ad abdicare all’ Impero nel 304. Diocleziano voleva che Costantino fosse almeno eletto Cesare, cioè dovesse succedere a Galerio nel trono. Costantino, diceva a Galerio, è d’ indole amabile, ornato di virtù, e promette un governo ancor migliore di quello di suo padre. Ciò nulla di meno Galerio non acconsenti.

            Costantino continuò a dimorare presso Galerio con grande inquietudine del suo avvenire. Egli desiderava andare presso suo padre che lo richiamava, ma non gli fu mai permesso; anzi Galerio gli tese molte segrete insidie, lo costrinse {24 [196]} a combattere contro ad un furibondo leone, lo espose a maggiori pericoli in una guerra contro ai barbari. Tutto fu indarno; quegli agguati riuscirono tutti a vergogna di Galerio e a gloria di Costantino. La mano di Dio proteggeva il virtuoso giovanetto e lo riserbava a cose grandi. Finalmente Galerio finse di concedere a Costantino di recarsi da suo padre ammalato che desiderava vedere il figlio prima di morire. Anzi stabilì che si servisse della posta imperiale nelle varie stazioni delle strade. Costantino sospettando una trama parli nottetempo affinchè niuno potesse inseguirlo e ad ogni stazione faceva storpiare ed anche ammazzare i cavalli dopo essersene servito.

            Galerio aveva dato ordine che Costantino non partisse se non al mattino e prendesse i suoi ultimi comandi prima della partenza; ma per dar tempo a compiere le trame stette a letto fino a mezzogiorno. Quando seppe che egli era partito saltò sulle furie, die tosto ordine di seguirlo; ma i cavalli di posta {25 [197]} non essendo atti al servizio fu mestiere di rinunciare alla speranza di raggiungerlo. Cosi quella divina provvidenza che aveva liberato Mosè dai pericoli della corte di Faraone, liberava eziandio in modo maraviglioso questo nuovo capitano futuro liberatore de' cristiani. Costantino passò nella Palestina, quindi con felice viaggio arrivò nella città di Bologna in Francia dove ebbe il piacere di incontrare suo padre. Esso parti col figlio per Iork, meta del suo cammino e fine della sua vita.

 

 

Capo II. Conversione di Costantino al Cristianesimo.

 

            Morto il padre Costantino conoscendo le gravi difficoltà che si incontrano nel governo de' popoli voleva fuggire per non essere innalzato al trono. Ma i suoi soldati lo cercarono e quasi a forza portatolo in mezzo {26 [198]} delle legioni venne da loro proclamato imperatore , siccome suo padre morendo aveva raccomandato.

            Egli non era ancora istruito nella fede, ma amava molto i cristiani, e ne aveva più volte esperimentata la fedeltà perciò diede tosto ordine che si cessasse da qualsiasi persecuzione contro di loro, che ogni cristiano fosse considerato come ogni altro cittadino dell’ Impero.

            Costantino condusse le sue schiere contro a molti popoli barbari e ne riportò gloriose vittorie; la più importante per altro fu quella riportata contro Massenzio. Era questi figliuolo di Massimiano, e succedendo al padre nel trono aveva la sede a Roma. La sua avarizia, il vizio della crapula lo avevano reso dispregievole in faccia ai suoi popoli che egli opprimeva con imposte continue e con tributi di ogni genere. Da tutte parti s’ invocava il nome di Costantino. L' occasione non tardò a presentarsi a motivo di una guerra per cui si fecero formidabili apprestamenti. {27 [199]}

            Coloro che parlano delle forze di Massenzio gli danno centosessantamila soldati. E la cavalleria a diciottomila cavalli. Costantino quando partì dalla Gallia aveva novantamila fanti ed ottomila cavalli di cui soltanto quarantamila potè condurre contro Massenzio; la sproporzione delle sue forze con quelle del nemico coronò in Costantino qualche timore. Ma Iddio si servì della inquietudine di lui per distaccarlo dal culto degli Dei impotenti e trarlo alla cognizione del vero Dio. Le crudeltà esercitate verso i cristiani da Diocleziano e dagli altri principi lo inorridirono. Pose mente alla vendetta che Dio aveva fatto de' principi suoi antecessori.

            Siccome poi sapeva che il suo nemico impiegava le malie ed i sacrifica magici per procacciarsi l’ aiuto delle potenze infernali, egli pel contrario si fece ad invocare quel Dio che conosceva in usa confusa ed imperfetta maniera e lo pregò di manifestarsi a lui e dichiararsi suo protettore. {28 [200]} Dio n’ esaudì la preghiera con un segnalato prodigio.

            La storia non ci tramandò in quale luogo quella maraviglia avvenisse; alcuni asseriscono essere succeduta nelle vicinanza di Torino. Ecco dunque il racconto quale viene esposto da lunghissima schiera di autori. Marciando coll’ esercito dopo mezzodì quando il giorno cominciava a declinare, Costantino vide nel cielo al disopra del sole una croce luminosa che portava la iscrizione: In hoc vince. Vinci con ciò. Il suo esercito fu al pari di lui testimonio del miracoloso fenomeno il quale tutti rese attoniti gli spettatori. Costantino comunque vivesse in mezzo ai cristiani aveva non di meno si poca cognizione del Cristianesimo che non comprese qual cosa significasse quella croce. Fu d’ uopo farglielo intendere per un sogno. Di notte G. C. gli apparve colla sua croce e gli comandò di fare un’ immagine somigliante a quanto vedeva e se ne servisse nei combattimenti come di sicura difesa contro ai nemici. Appena {29 [201]} destato Costantino chiamò degli artisti ai quali comunicò l’ immagine che gli era rimasta in mente, ne fece delineare il disegno e comandò che lo eseguissero. Ecco la descrizione che ce ne dà Eusebio scrittore contemporaneo.

            Una lunga picca ricoperta d’ oro era ad una certa altezza traversata da un pezzo di legno, che formava una croce, ella parte superiore, che s’ innalzava al disopra delle braccia, era sodamente attaccata una corona risplendente per l’ oro e per le gioie, nel cui mezzo compariva il monogramma di Cristo formato da due lettere greche le quali che si incrociavano nella maniera a tutti nota. Dalle due braccia della croce pendeva un vessillo di porpora, tutta coperta di ricami d’ oro e di varie pietre preziose il cui splendore abbagliava gli occhi. Sulla parte inferiore della Croce sotto alla corona ed al monogramma, Costantino fece collocare il suo busto in oro e quelli de' suoi figliuoli. Questo.trofeo della Croce divenne lo stendardo imperiale di Costantino. Gli imperatori Romani avevano {30 [202]} sempre avuto il loro stendardo proprio, che si chiamava labarum, il quale carico d’ immagini di false divinità era oggetto di religiosa venerazione per le armate. Si dà comunemente alla parola labaro la significazione di finis laboris o fine delle fatiche, per dire ai soldati che dopo la battaglia avrebbero avuto riposo. Costantino sostituendo sul labarum il nome di G. C. alle immagini del paganesimo, ritraeva i soldati da un culto empio, e gli induceva senza sforzo a prestar le loro adorazioni a colui, al quale sono dovute. Questa preziosa insegna era affidata a 50 guardie dell’ imperatore scelte fra i più gagliardi e prodi e pii, che dovevano attorniarla, difenderla e prendersela successivamente sugli omeri secondochè il portatore se ne trovava stanco.

 

 

Capo III. Costantino a Roma - Morte di Massenzio.

 

            Assicurato della protezione del cielo Costantino col suo esercito si portò

coraggiosamente {31 [203]} dove le truppe di Massenzio si erano accampate; sebbene inferiori nel sumero i suoi soldati erano molto impazienti di venire alle armi. Uno scontro era già avvenuto a Susa, dove Costantino per non perder tempo in lungo assedio fece dare la scalata alle mura ed appiccare il fuoco alle porte della città, che cosi tosto costrinse ad arrendersi.

            Ma il grande combattimento succedette nella vasta pianura che giace tra Rivoli e Torino dove accreditati autori credono essere avvenuta la maravigliosa comparsa della croce. Prodigi di valore da ambe le parti, ma in fine la vittoria tornò compiuta a Costantino; i Torinesi chiusero le porte della loro città in faccia al nemico e le aprirono con gioia al magnanimo Costantino. Si dice che per ringraziare il cielo della grande Vittoria riportata nella pianura di Torino abbia fatto erigere la chiesa di s. Maria Maggiore che tuttora esiste nella città di Vercelli.

            Costantino con poca resistenza acquistò Milano, Brescia con molte città {32 [204]} che tutte si abbandonarono alla sua clemenza onde egli potè senza gravi contrasti avanzarsi fino alle porte di Roma.

            Mentre queste cose avvenivano, Massenzio, giudicando aver nulla a temere dal suo rivale, passava il tempo nella crapola, nello spogliar i suoi sudditi e nel condannare a morte i cristiani. Quando per altro venne assicurato che Costantino a grandi passi marciava alla volta di Roma, si scosse, mise in piede un forte esercito e lo inviò accamparsi al di là del Tevere. Fece eziandio un ponte levatoio di legno diviso in due parti, che potevansi con facilità congiungere e tenere fermo con due grossi cavicchi.

            Questo ponte, diceva, può servire di passaggio a me ed a' miei soldati specialmente in caso di ritirata, ma se Costantino tenterà di passarlo, io tolgo i legami, il ponte si divide, e Costantino co' suoi cadranno nel Tevere.

            Volendo poi rendersi propizi gli Dei faceva loro i più barbari sacrifici. Offeriva donne, fanciulli, e mentre {33 [205]} era tuttora fumante il sangue della vittima, egli cercava follemente nelle viscere di quegli infelici il presagio del suo destino. Di questo non soddisfatto mandò anche a consultar gli oracoli, da cui ebbe in risposta: Se l’ imperatore uscirà di Roma, il nemico del popolo romano perirà in battaglia. - Egli interpretò il vaticinio a suo favore pensando che Costantino fosse appunto il nemico del popolo romano.

            Questo principe all’ opposto preparava i suoi soldati colla preghiera, coll’ ordine e colla disciplina. Il cielo venne in suo aiuto, ed il Signóre gli rivelò di far, incidere sopra le armi di tutti i suoi soldati o la croce del Salvatore, o la lettera X, che è la prima consonante con cui in greco si scrive il nome di Cristo.

            Pieno di fiducia nel Signore Costantino andò coraggiosamente all’ attacco del nemico, che di gran lunga superiore in numero credeva sicura la vittoria. Dio non voleva cosi. Era tempo che l’ oppressore del genere umano {34 [206]} cessasse dalle barbarie. - Si combattè con valore e con accanimento da ambe le parti; ma in fine la vittoria si dichiarò per Costantino. Massenzio vedendo uccisi o sbaragliati i suoi più prodi tentò di salvarsi colla fuga; ma nel valicare il ponte da lui costrutto ad insidia altrui, per la moltitudine de' fuggiaschi rompendosi i legami precipitò col suo cavallo nel Tevere e si annegò. Il giorno dopo il suo cadavere fu trovato nella fanghiglia. I romani liberati da quel tiranno accolsero con gioia il vincitor Costantino. Questo degno monarca senza insuperbirsi fece la sua solenne entrata in città , ringraziò Dio delle vittorie cha per suo aiuto riconosceva aver riportate e in fine volle che la croce, la quale era stata pegno della protezione del cielo, fosse collocata in cima al suo diadema, portata in trionfo per la città ed inalberata sul campidoglio quasi per annunziare al mondo tutto trionfo di un Dio crocifìsso. Anno 312. {35 [207]}

 

 

Capo IV. Elezione di s. Eusebio. - Morte di Galerio.

 

            Ora che vi ho raccontato le principali azioni del prode Costantino passiamo a parlare de' sommi Pontefici che in tempo di queste guerre dovettero in Roma sopportar ogni genere di patimenti. Negli ultimi anni di Massenzio la Chiesa di Gesù Cristo era governata da s. Eusebio che è il trentesimo secondo pontefice dopo s. Pietro. Nato nella Grecia egli era venuto a Roma per istruirsi maggiormente nella fede. La sua pietà, la sua scienza e la sua prudenza lo elevarono al grado sacerdotale, in cui fece risplendere la sua autorità. Era già molto avanzato negli anni con una vita impiegata nel bene della Chiesa, e quando s. Marcello (16 gennaio 309) fu condotto al martirio non si trovò persona che per zelo, dottrina e santità fosse di lui più degna di salire al pontificato. La sua {36 [208]} elezione avveniva il cinque febbraio dopo che la santa Sede era rimasta vacante venti giorni.

            Eusebio impiegava le più vive sollecitudini pel bene della Chiesa quando succedette uno de' più strepitosi avvenimenti nelle parti dell’ Oriente. L’ imperatore Galerio, che si era fino allora adoperato per distruggere la fede cristiana, venne colto da un male che dimostrava chiari i segni della divina vendetta. Sorpreso nella città di Sardi da una piaga dolorosa ne rimase infetto in tutte le parti del corpo. Si vollero applicare rimedi, che nulla giovarono, anzi contribuirono a ridurlo in una cancrena che mandava fetor insopportabile. Si chiamarono medici da ogni luogo, si praticarono tutti i ritrovati dell’ arte, ma non se gli potè recare giovamento di sorta. Per la qual cosa montato in furore egli condannava a morte gli stessi suoi medici, perchè noi potevano guarire. Intanto niuno più voleva avvicinarsegli per la puzza che le sue membra esalavano. Tuttavia un coraggioso cristiano medico di pròfessione {37 [209]} fa abbastanza ardito di avvertirlo che quella malattia non poteva assolatamente guarirsi coi rimedii ordinari. Ricordatevi, o Principe, gli diceva, di quanto faceste contro dei cristiani e cercate il rimedio de' vostri mali in ciò che ne fu la cagione.

            Domato dall’ eccesso del dolore quel superbo confessò vero il Dio dei cristiani, riconobbe la santità della loro religione, che i romani imperatori avevano fino allora odiata, quindi comandò che non fossero più perseguitati. Ma ciò diceva non mosso dal rincrescimento del male operato sibbene dall’ atrocità de' dolori. Onde la mano del Signore continuò a pesare sopra di lui, e dopo un anno di sì orrenda malattia, cadendo a pezzi il suo corpo, miseramente spirò. (V. Baronio anno 311).

            L’ editto con cui questo imperatore ordinava di sospendere le persecuzioni porta la data dell’ anno 311 secondo del pontificato di s. Eusebio. Sebbene Galeno avesse emanato quel famoso decreto quasi per disperazione, tuttavia {38 [210]} fa promulgato nelle varie Provincie a lai soggette nelle parti di Oriente. È quésta la prima legge delle autorità romane che abbia proibito di perseguitar i cristiani. Niuno può esprimersi con quale allegria sia stato accolto da' fedeli che poterono cosi pubblicamente professare la loro religione; gli esigliati ritornarono in patria, i prigionieri uscirono dalle carceri, gli spogliati vennero indennizzati, gli impiegati dismessi venivano restituiti alle loro cariche, e ciascuno rimase libero di fabbricare Chiese, partecipare ai pubblici riti della religione. Ma in Italia e specialmente in Roma, dove comandava Massenzio, continuò la persecuzione contro ai cristiani.

 

 

Capo V. Istituzioni di s. Eusebio papa, principii di s. Eusebio vercellese.

 

            Mentre infieriva la persecuzione contro ai cristiani Eusebio si occupò con tutte le forze a propagare la fede e {39 [211]} sostenerla ne' paesi dove era già conosciuta; e mentre non risparmiava fatiche per sollevare gli oppressi e confortare i perseguitati si adoperava eziandio con zelo per far rifiorire la disciplina della Chiesa. (V. Burio ins. Eusebio.)

            Stabili egli adunque che per decoro e per rispetto soltanto i vescovi potessero amministrar il Sacramento della Cresima. E ciò instituì non come cosa nuova, ma còme cosa in ogni tempo praticata nella Chiesa. Soltanto gli Apostoli, egli dice, e non altri amministrarono questo augusto Sacramento.

            Decretò parimenti che i corporali, o sia quella specie di velo sopra cui il Sacerdote depone l’ ostia nel celebrare la santa messa, fosse di puro lino. Nel tempo delle persecuzioni si erano introdotti alcuni abusi; perciocché in certi luoghi usavansi corporali di seta, o di lana fina; altrove erano di tela, ma fiorati o tinti in colore. S. Eusebio ordinò che per l’ avvenire dovessero i corporali essere di puro {40 [212]} lino bianco e benedetto dal vescovo o da chi ne avesse speciali facoltà, siccome si è finora usato nella Chiesa. I corporali, egli dice, devono essere di puro e bianco lino in memoria della sindone monda in cui fu involto il corpo del Salvatore quando fu deposto dalla croce; ed anche per dinotare la purezza di vita che deve portar con se il sacerdote quando celebra la santa messa, ed il semplice fedele quando si accosta alla santa comunione.

            Diede anche molte regole che riguardano al modo con cui i vescovi devono regolarsi nelle loro mense, nel fare limosina, albergare i pellegrini, e soccorrere i poverelli.

            Si dice che egli abbia instituita la festa della invenzione di santa croce in memoria del prodigioso ritrovamento di questo sacro legno avvenuti per cura di s. Elena sul monte calvario il tre di maggio 311; ma sembra che questo fatto succedesse più tardi (326) perciò noi a quel tempo ne parleremo più di proposito. {41 [213]}

            È molto notabile la relazione di questo pontefice col celebre santo Eusebio vercellese. Esso era nato in Sardegna nella città di Cagliari. Rimasto orfano di padre in tenera età fu da Restituta sua madre condotto a Roma perchè avesse mezzi opportuni per istruirsi nelle scienze e nella religione. Qui il giovinetto contrasse relazioni col sommo Pontefice, che ebbe grande cura di lui, lo instrui convenevolmente nella fede, di poi gli amministrò egli stesso il sacramento del battesimo, e gli impose il medesimo suo nome. Egli divenne il celebre Eusebio vescovo di Vercelli di cui avremo più volte a parlare nel raccontare le azioni dei Papi. (V. Ughelli Italia sacrat. 4).

            Il santo Pontefice in mezzo alle apostoliche sue fatiche non dimenticò la grande cura che si deve avere pel Clero. Egli per altro potè una sola volta tenere la sacra ordinazione nel mese di dicembre in cui consacrò tredici sacerdoti, tre diaconi, quattordici vescovi che mandò in diversi {42 [214]} luoghi a stabilire nuove sedi, o a sottentrare a quei vescovi che per lo più in quei tempi terminavano la vita col martirio.

 

 

Capo VI. Esiglio e morte di s. Eusebio Papa.

 

            Abbiamo già esposte le azioni di 31 Pontefici i quali tutti diedero la vita per la fede o per mano di carnefici, oppure oppressi dalle lunghe e dure fatiche sostenute nel propagare, difendere e conservare le verità del vangelo. S. Eusebio, che è il trentaduesimo, dovette anch’ egli sottoporsi alla pena dell’ esigilo dove mori. La causa del suo esiglio è la seguente: (V. Boll. 26 sept.).

            Nella persecuzione dell’ imperatore Diocleziano avvenne che alcuni cristiani atterriti dalla lunghezza ed atrocità dei tormenti, non confidando nella grazia del Signore, e non più badando al premio eterno che loro {43 [215]} era preparato, rinnegarono miseramente la fede, facendo sacrifizi agli idoli. Quegli infelici che cadevano in questi lamentevoli eccessi erano chiamati Lapsi o traditori. Si dicevano Lapsi o sia caduti coloro che per evitare la carcere, l’ esilio, la confìsca dei loro beni, ed anche la morte rinunciavano alla fede per seguirò di nuovo le massime dell’ idolatria.

            Traditores o traditori erano coloro che spaventati dalle minaccie o dalle atrocità de' tormenti tradivano ovvero davano la sacra Bibbia o altri santi libri nelle mani dei persecutori. Imperciocché la legge di persecuzione comandava ai cristiani di consegnare tutti i libri che trattassero di religione; perchè, dicevano i gentili, i cristiani divenuti ignoranti nelle verità della fede non la potranno più propagare, né più si daranno tanta briga di professarla. Dobbiamo per altro notare a gloria della fede cristiana che un’ innumerevole moltitudine di cristiani si lasciavano con gioia condurre al martirio e pativano ogni genere di tormento {44 [216]} piuttostochè consegnare o svelare ai persecutori dove que' libri stessero nascosti; alcuni poi sedotti dalle promesse o per liberarsi dalle fiamme, li consegnavano ai persecutori che con gran gusto li abbruciavano.

            Ma tanto i caduti, quanto i traditori dopo i loro misfatti provavano tali rimorsi che si offrivano pronti a fare qualunque penitenza per ottenere il perdono dei lcro peccati. La Chiesa per altro non assolveva quei delitti se non dopo lunga e grave penitenza che era più o meno lunga secondo la gravità del peccato.

            Durante la decima persecuzione pur troppo non pochi fedeli caddero nell’ idolatria e divennero traditori, ma aiutati dalla divina grazia parecchi si sottomettevano alla penitenza dalla Chiesa stabilita; ma non pochi pretendevano di essere assolti ed ammessi alla comunione senza prima fare la penitenza prescritta dai sacri canoni ossia dalle regole stabilite dalla Chiesa e praticate dai tempi apostolici fino allora. Un malcontento condusse {45 [217]} ad un altro e le cose giunsero a segno, che molti caduti e traditori si unirono insieme tumultuando e recaronsi da s. Eusebio per ottenere da lui di essere ricevuti nella Chiesa senza fare la penitenza.

            Il santo Pontefice fece loro osservare che essendo stato pubblico lo scandalo; era indispensabile che se ne facesse pubblica penitenza prima di essere assolti. Che egli come capo della Chiesa era soltanto ministro delle divine leggi, ma non distruttore. Ecco le parole di s. Damaso papa a questo proposito:

            Eusebius miseros docuit sua crimina flere; Scinditur in partes populus gliscente furore, Sedet loca seditio, bellum, discordia lites. Exempio pariter pulsi feritate tiranni; Integra cum Rector servaret foedera pacis. Pertulit exilium omnino iudice laetus Littore trinacrio mundum vitamque reliquit.

            Questi versi possono tradursi in lingua volgare come segue: (V. Boll, luogo citato).

            Eusebio insegnava con fermezza che i miseri caduti e traditori dovessero piangere i loro peccati prima {46 [218]} di essere accolti nella comunione dei fedeli. Ma la turba dei colpevoli, incoraggiata dalla ferocia con cui Massenzio trattava i cristiani, la volle imporre al Pontefice. Muove questioni dispute, discordie, e in fine una vera guerra contro al coraggioso pontefice. Ma esso ad esempio del suo antecessore s. Marcello volendo serbare intatte le leggi e le discipline della chiesa, fu ad instigazione de' suoi nemici e per ordine dell’ imperatore mandato in esiglio nell’ isola di Sicilia, detta Trinacria dalla sua configurazione geografica che rassomiglia a tre lati di un medesimo triangolo.

            Qui il Pontefice ebbe a soffrire gravi patimenti finché consumato dagli stenti e dalle fatiche cessò di vivere nel mondo per andare a godere il premio celeste che colla santità della vita, col suo zelo, co' suoi patimenti si era guadagnato. La sua morte avvenne l’ anno 311 dopo aver tenuta la santa sede solamente due anni, sette mesi, sedici giorni. (V. Bar. an 314).

            Il corpo di questo Pontefice rimase {47 [219]} per qualche tempo sepolto in Sicilia, ma poco dopo, quando Costantino concedette pace alla Chiesa, fu trasportato a Roma e sepolto nel cimitero di s. Callisto.

 

 

Capo VII. S. Melchiade dà sepoltura ai martiri e riceve l’ imperatore Costantino

 

            Siamo a s. Melchiade, trentesimo terzo pontefice da s. Pietro, trionfatore e superstite della decima persecuzione, glorioso per molti titoli ma specialmente per aver accolto in Roma Costantino il grande. Questo pontefice, di nascita affricano, aveva già impiegato molti anni nella predicazione del vangelo ed era stato più volte esposto ai mali delle carceri, dell’ esilio, e quasi del martirio. Ma per una specie di miracolo ne fa sempre liberato.

            S. Agostino loda molto la prudenza ed accortezza di s. Melchiade fin da {48 [220]} quando era semplice sacerdote. Égli seppe, dice questo santo padre, insinuarsi nell’ animo dell’ imperatore Massenzio, gli fece conoscere la ragionevolezza della religione cristiana, e almeno in principio del suo regno quel sovrano si mostrò benevolo ai cristiani; anzi riusci ad ottenere la facoltà di andare con un diacono di nome Stratone e con altri del suo clero a ricuperare i poderi, e le abitazioni, di cui i cristiani erano stati spogliati in tempo della persecuzione. Il prefetto di Roma accondiscese, e così molti che erano stati ridotti all’ estrema indigenza poterono di nuovo riacquistare i loro averi; Ciò per altro deve soltanto intendersi dei cristiani di Roma, perocché nelle altre parti dell’ impero continuò ad infierire la persecuzione. (S. Aug. in Brev. die 3, c. 18).

            Mentre s. Melchiade come semplice sacerdote lavorava indefesso pel bene della Chiesa, compieva gloriosamente la sua carriera mortale s. Eusebio consumato dall’ età, dalle fatiche e dai {49 [221]} patimenti dell’ esiglio siccóme testò abbiamo raccontato e dopo sette giorni di sede vacante s. Melchiade fu innalzato alla sede pontificia il tre ottobre 311.

            Egli dovette ancora sostenere circa un anno i disastri della persecuzione provvedendo nel modo più segreto ai bisogni della Chiesa. Siccome sul finire del suo regno Massenzio era divenuto una furia infernale contro ai Cristani, cosi il novello pontefice dovette moltissimo faticare sia per provvedere ai bisogni spirituali e temporali dei fedeli, sia per dare sepoltura ai medesimi corpi di coloro che morivano per la fede. Tra gli altri si legge che egli sostenne nella fede il martire s. Timoteo durante il suo carcere, in mezzo ai patimenti fino all’ ultimo respiro. Preso di poi il corpo di lui coll’ aiuto di s. Silvestro, sacerdote che divenne di poi papa, gli diede onorevole sepoltura. (V. Bar, anno 312).

            Compievasi il primo anno del pontificalo di Melchiade, quando succedette {50 [222]} la disfatta e morte di Massenzio, la grande vittoria e la trionfale entrata di Costantino in Roma. È questo un avvenimento di grande importanza per la religione cristiana, perocché da questo tempo i romani imperatori con leggi e con fatti conobbero la santità del cristianesimo e concedettero favori, anzi aiutarono i vescovi e specialmente i papi ad esercitar liberamente la loro autorità verso i fedeli cristiani. Di più l’ imperatore Costantino divenuto padrone di Roma, non solo favorì i cristiani, ma cominciò egli stèsso una vita da buon credente, proibì la persecuzione, richiamò gli esigliati, liberò i carcerati, riparò i danni a coloro che erano stati spogliati. Finalmente i pontefici, che pel passato avevano dovuto vivere nelle tombe e ne' sotterranei, divennero la delizia del cristiano imperatore, che non cessava di usare i più rispettosi atti di ossequio al primo sacerdote, al vicario di quel Dio da cui egli riconosceva le sue glorie, le sue vittorie, il suo impero. {51 [223]}

 

 

Capo VIII. Palazzo Laterano. - Scisma de' Donatisti.

 

            La prima abitazione che i pontefici poterono avere fu il palazzo Laterano. La parola palazzo derivò da un magnifico edifizio che l’ imperatore Augusto fece costrurre sul monte palatino donde venne il nome palatium o palazzo. Di poi fu questo nome applicato agli edifizi di reale o principesca magnificenza.

            Il palazzo Laterano poi è assai celebre per memorie ecclesiastiche ed illustre ne' fasti della santa Sede, e si conserva tuttora in grande splendore. Laterano deriva da Plautio Laterano console romano ai tempi di Nerone. Egli aveva fatto fabbricare un magnifico edifizio sul monte Celio, che dopo lui servì sempre di abitazione agli imperatori fino a Costantino. Anche questo imperatore, divenuto padrone di Roma, andò a fissare dimora {52 [224]} sul monte Celio nel palazzo Laterano.

            Ma volendo onorare i Romani pontefici e concedere loro un’ abitazione dégna del vicario di Gesù Cristo, donò una parte del grande edifizio Laterano a s. Melchiade papa. Più tardi il medesimo Costantino lo donò per intiero ai pontefici e fece accanto di esso innalzare la grande basilica di San Giovanni in Laterano che suole chiamarsi la madre e il capo delle chiese di Roma e di tutto il mondo: Ecclesiarum urbis et orbis mater et caput.

            Nel palazzo Laterano vennero celebrati molti concilii, de' quali il primo fu sotto s. Melchiade contro ai Donatisti, di cui noi daremo un breve cenno.

            Essi furono cosi chiamati dal nome del loro maestro Donato. Il germe di questa setta derivò da certo Mensurio che ebbe Ceciliano successore nel vescovado di Cartagine. Era questi molto commendevole per scienza e virtù ma aveva eziandio non pochi nemici. Costoro principiarono attaccarlo {53 [225]} dicendo essere stata irregolare e nulla la sua ordinazione perchè fatta da Felice vescovo di Aptunga, che dicevasi traditore cioè che in tempo di persecuzione aveva consegnato i sacri libri ai persecutori della fede, e parche a quella ordinazione non prese parte il numero di vescovi che secondo loro si richiedeva. Dopo molte gare i nemici di Ceciliano elessero un altro vescovo di nome Maggiorino. Ma tutti i buoni cattolici ricusavano di comunicar col vescovo intruso ed invece si tenevano stretti e sottomessi al legittimo vescovo Ceciliano.

            I disordini crebbero a segno, che risolsero di appellarsi non al sommo Pontefice da cui temevano di essere condannati, ma all’ imperatore Costantino il quale essendo di recente venuto al vangelo e non ancora molto istrutto nelle cose ecclesiastiche, sarebbesi forse lasciato trarre al loro partito. L’ imperatore era allora nella Gallia e per farsi un’ idea chiara della quistione chiese una minuta relazione {54 [226]} dal suo governator d’ Affrica, di poi radunò tre vescovi a fine di conoscere bene lo stato delle cose.

            Quando per altro conobbe trattarsi di religione egli scrisse che non erano di sua competenza, e che come laico non poteva proferir giudizio intorno ai ministri di quel Dio da cui doveva egli stesso fra breve essere giudicato. Disse in fine che tanto gli accusatori quanto gli accusati si scegliessero ciascuno dieci vescovi e si recassero a Roma con Ceciliano e con Maggiorino; colà dal Gerarca Melchiade sarebbe ogni cosa discussa e con solenne giudizio esaminata e definitivamente giudicata.

 

 

Capo IX. Lettera di Costantino a s. Melchiade, Concilio di Luterano.

 

            Mentre compievansi gli ordini di Costantino in Affrica e gli invitati si preparavano alla partenza per Roma {55 [227]} egli scrisse una lettera a s. Melchiade che qui trascrivo voltata in lingua italiana. Noi ne ricorderemo i tratti seguenti:

 

Costantino Augusto a Melchiade vescovo e Gerarca salute.

 

            Da parecchie lettere inviatemi da Anolino mio chiarissimo proconsole in Affrica venni a conoscere che Ceciliano, vescovo di Cartagine, è dai suoi colleghi accusato di molti delitti. Per la qual cosa ho giudicato bene che Ceciliano vada a Roma con dieci vescovi di quelli che lo accusano, con altri dieci che egli reputa necessari per chiarire e tutelare la sua causa. Affinchè poi possiate essere pienissimamente informato della quislione vi spedisco copia delle lettere che Anolino mandommi dall’ Affrica contro ai colleghi di Ceciliano e ve le mando da me sottoscritte per togliere ogni pericolo di essere contraffatte. Quando voi le avrete lette con quell’ attenzione e con quel senno che vi distinguono, saprete certamente {56 [228]} come e con quali modificazioni questa questione abbiasi a risolvere secondo le norme dalle leggi prescritte. Dal canto mio posso assicurarvi che professo tanta stima e riverenza per la santa Chiesa cattolica, che vorrei non mai nascessero scissure tra voi, nemmeno in alcun luogo apparisse traccia di discordia. La somma maestà del grande Iddio, onoratissimi ministri, vi conservi per molti anni. (V. Euseb. libr. 10,15).

            Ricevuta questa lettera Melchiade si diede sollecitudine di preparare quanto era necessario pel concilio e affinchè ogni cosa fosse con profondità discussa e la sentenza avesse giudici competenti, oltre a tre vescovi mandati da Costantino dalla Gallia, chiamò a Roma altri quindici principali vescovi d’ Italia.

            Quel venerando concilio, che è il primo concilio tenutosi nel palazzo Laterano, era composto dei seguenti personaggi: Ceciliano con dieci vescovi difensori. Donato con dieci vescovi accusatori di Ceciliano. Capo {57 [229]} del concilio era Melchiade; i nomi dei véscovi Gallicani erano Reticio, Materno, e Marino. Gli italiani erano Mirocle vescovo di Milano, Floriano di Cesena, Zotico di Quirinziano, Stemnio di Rimini, Felice di Firenze in Toscana, Gaudenzio di Pila, Costanzo di Faenza, Proterio di Capila, Teofilo di Benevento, Savino di Terracina, Secondo di Preneste, Felice delle Tre Taverne, Massimo di Ostia, Evandro d’ Urbino, Domiziano Foro di Claudio oggidi. (V. Optato Mil. lib, 1).

            Cominciarono a radunarsi la prima volta al 2 ottobre 314. Dopo seria ed animata discussione Donato confessò che egli aveva ripetuto il battesimo a chi l’ aveva già ricevuto, e che aveva rinnovata la sacra ordinazione ad alcuni vescovi caduti in tempo di persecuzione, cose tutte in ogni tempo riprovate dalla Chiesa. Venendo poi alla causa di Ceciliano scrive Ottato di Milevi, furono interrogati i testimoni condotti da Donato, che confessarono non aver còsa da dire contro a Ceciliano. {58 [230]}

            S. Melchiade dopo di aver sentito il parere di tutti si alzò e proferi questa sentenza: Constando chiaramente che Ceciliano non è colpevole di alcuna cosa nemmeno da quelli stessi che Donato condusse per accusarlo , neppure Donato poterlo convincere di colpa alcuna giudico doversi rimandare alla sua diocesi e reintegrare in tutti i suoi diritti.

            Intorno alla sentenza di questo Pontefice s. Agostino contro ai Donatisti si esprime cosi: Quanto mai è maravigliosa questa ultima sentenza proferita da S. Melchiade! Si può immaginare sentenza più schietta, più integra, più provvida , più pacifica? Nemmeno i colleghi di Donato, in cui l’ innocenza punto non appariva, volle rimuovere dalla loro sede. Il solo Donato , che trovò autore di tutti quei mali, ne fu colpito. A tutti gli altri fece facoltà di ritornare alle proprie sedi, pronto a fare lettere commendatizie anche a quelli che erano stati ordinati da Maggiorino. Cosi che dove vi fossero stati ordinati due vescovi, {59 [231]} rimanesse nella sede colui che fosse stato ordinato il primo. Quello poi che fosse rimasto privo del posto sarebbe stato provveduto di un’ altra diocesi. O personaggio veramente ottimo! O figliuolo della pace evangelica! O affettuoso padre del popolo cristiano! (Agost. ep. 162).

 

 

Capo X. Lettera di Costantino ai vescovi cattolici. - Calunnie de' Donatisti contro s. Melchiade.

 

            Quando un concilio presieduto dal sommo Pontefice giudica di una questione religiosa, la sua sentenza è quella di un tribunale infallibile ed inappellabile. Quindi in ogni tempo, presso a tutti i buoni cattolici quando Roma parla ogni questione è terminata. I Donatisti allora che furono condannati da s. Melchiade nel concilio Lateranese finsero di sottomettersi confessando giusta la sentenza che condannava {60 [232]} loro stessi e proclamava l’ innocenza di Ceciliano. Ma secondo il costume degli eretici, ritornati in patria respinsero la decisione di Roma e si appellarono all’ imperatore. Esso dimorava tuttora nella Galliu quando se gli presentò una deputazione di vescovi affricani nella persuasione di sorprenderlo e condurlo a qualche passo inconsiderato. Ma l’ accorto monarca scoprì tosto le loro insidie , e come conobbe lo scopo del loro viaggio esclamò: Pazzi arrabiati che siete? Vi pensate che nelle cose di religione si possa introdurre l’ appello comesi fa nei tribunali dei gentili? Costoro sono in grande inganno; vogliono lasciare il giudizio celeste pronunciato a Roma per attenersi al giudizio terrestre, quale appunto è quello che potrei pronunciare io stesso. (V. Opt. Mil. lib. 1).

            Respinti così i Donatisti dovettero almeno per qualche tempo tacere; ma affinchè niuno fosse insidiosamente tratto in inganno, Costantino indirizzò una lettera a tutti i vescovi {61 [233]} cattolici del suo impero manifestando l’ appello fatto dagli eretici e la ripulsa che loro aveva dato protestando che in cose di religione egli doveva essere giudicato e non mai giudicare.

            I Donatisti non ignoravano che, condannati dal Papa, erano nel tempo stesso condannati da tutti i cattolici; perciò non sapendo più che cosa opporre alla sentenza di s. Melchiade studiarono più tardi di accusare il santo Pontefice di apostasia; perchè dicevano, in tempo della persecuzione minacciato dai carnefici, aveva consegnata i libri santi nelle loro mani. Ma s. Agostino riferisce a lungo quanto dissero gli eretici, di poi venne a queste conclusioni.

            1° Voi accusate s. Melchiade senza documento ed io colla medesima autorità nego quello che voi asserite. Niuno deve riputarsi colpevole se non ne è conosciuto e provato il delitto.

            2° Voi mi adducete l’ autorità d’ uomini che scrissero cento anni dopo quel pontefice, che è quanto dire che vivono oggi; e costoro non mi citano {62 [234]} nissun documento donde abbiano potuto attingere quella notizia. Io dico che non devono calunniare un pontefice con notizie recenti, mentre ha cento anni di storia che lo onora, lo applaude e lo riconosce per santo.

            3° Voi mi dite che se non fu traditore Melchiade lo fu almeno Stratone da lui mandato. Io dico di Stratone quello che vi dico di s. Melchiade, cioè l’ accusa di Stratone fu messa fuori cento anni dopo la sua morte; e i documenti autentici che parlano dei caduti al tempo delle persecuzioni niuno avvene che contenga il nome di Melchiade né quello del suo Diacono Stratone. (V. s. ag. ep. 50,152 ed altrove).

            Aggiustate le cose riguardanti i Donatisti Melchiade volse le sue sollecitudini alla disciplina ecclesiastica che per la lunga persecuzione di Diocleziano era stata molto sconvolta. {63 [235]}

 

 

Capo XI. Solennità della Domenica e del giovedì. Distribuzione del pane benedetto. - Niuno è da condannarsi se non è convinto di reità.

 

            Là Domenica (dies dominica) che vuol dire giorno del Signore fu sempre tenuto dai cristiani per giorno solenne, e fin dai primitivi tempi della Chiesa era dai cristiani santificato con opere di pietà e di religione in memoria della risurrezione del Salvatore.

            S. Melchiade ordinò che non solamente la Domenica fosse festivo ma anche la feria quinta ovvero il giovedì fosse parimenti santificato in memoria dell’ Ascensione del nostro Signor Gesù Cristo, e stabilì che niuno in que' giorni dovesse digiunare, affinchè non si facesse cosa che potesse rattristare la grande allegrezza che in que' giorni deve passare tra cielo e {64 [236]} terra, quando la natura umana nella persona di Gesù Cristo dalla terra salì al cielo e si assise alla destra di Dio Padre onnipotente.

            Da allora in poi la Domenica si ebbe sempre per giorno festivo con assoluta proibizione in esso di occuparsi in opere servili; nemmeno di fare alcun digiuno neppure in tempo di quaresima. La Domenica poi fra i cristiani si può considerare come una commemorazione che in ogni otto giorni si fa della solennità di Pasqua.

            In quanto poi al giovedi vi fu qualche modificazione. Quel giorno rimase solenne in quello dell’ Ascensione; negli altri giovedi poi vi è bensì un rito speciale per le pratiche religiose, ma non di precetto. La disciplina che prescrive il digiuno nella feria V fu conservata nelle quattro tempora, ma negli altri tempi dell' anno fu modificata, e presentemente sia di quaresima sia nel corso dell’ anno quando occorrono vigilie si osserva il digiuno anche di giovedi. {65 [237]}

            Il medesimo s. Melchiade richiamò in vigore le eulogie ossia la distribuzione del pane benedetto dato dopo la messa. Tutti quelli che andavano ad ascoltare la s. messa solevano fare la santa comunione purché ne fossero disposti; ma i penitenti, i fanciulli ed altri che non fossero in grado di comunicarsi, ricevevano l’ eulogia ossia il pane benedetto. Questo pane era da fedeli portato al Sacerdote dopo il vangelo e dicevasi offerta, donde, ne venne la parola offertorio. Dopo il Postcommunio ossia quando il sacerdote aveva fatta la comunione, si distribuiva la santa Eucaristia a quelli che erano preparati; agli altri poi si dava l’ eulogia in segno di carità e di fratellanza con cui devono amarsi, aiutarsi e consigliarsi tutti i fedeli cristiani.

            In certi paesi le Eulogie sono ricordate nella distribuzione di pane o di altri commestibili che soglionsi distribuire ne' giorni festivi dopo la messa che il paroco celebra ed applica pel popolo detta comunemente {66 [238]} messa conventuale. Quasi poi in tutti i paesi le eulogie sono ricordate in quel pane senza lievito colorato detto comunemente carità che si distribuisse sul finir della messa solenne in occasione della festa del santo titolare o del patrono del paese. (V. Burio. in S. Melchiade, Baronio an. 313. Morone artic. Eulogie).

 

 

Capo XII. Ultime fatiche di s. Melchiade. Sua morte. - Indizione Romana.

 

            Mentre s. Melchiade si occupava col massimo zelo per regolare la disciplina della Chiesa non mancava di portar le sue sollecitudini anche ne' paesi lontani da Roma. Una lettera che leggesi indirizzata si vescovi di Spagna dimostrava che egli era persona di grande dottrina. Fra le altre cose dice che tutti gli altri Apostoli riconobbero sempre s. Pietro per loro superiore. Da quegli stessi vescovi di {67 [239]} Spagna erasi fatta dimanda se fosse sacramento maggiore la confermazione o il battesimo. Il pontefice loro rispose: Il battesimo é di maggior necessità, perché senza di esso niuno può salvarsi; ma la confermazione é di maggior dignità perchè solamente si può amministrare dal vescovo. (V. Mansi acta condì).

            Il santo pontefice sebbene in età assai avanzata lavorava con gran zelo in tutto ciò che in qualche modo poteva contribuire al bene della religione. Egli potè vedere la Chiesa liberata dalla tirannia delle persecuzioni; il cristianesimo diventare religione dell’ impero e pubblicamente professata promossa, difesa dal medesimo imperatore. Al vedere la Chiesa di Gesù Cristo in solida pace dopo tre secoli di sanguinose persecuzioni egli esclamò col vecchio Simeone: Nunc dimittis servimi tuum, Domine. Ora è tempo, o Signore che se ne muoia in pace il vostro servo. La sua morte avveniva ai dieci dicembre 313. Egli tenne una sola volta l’ ordinazione {68 [240]} in dicembre in cui consacrò sei preti, cinque diaconi, undici vescovi. Il suo pontificato fu di due anni, due mesi e sette giorni. Il martirologio romano parlando di questo Pontefice dice: Esso nella persecuzione di Massimiano ebbe molto a patire per la fede; sotto al suo pontificato la Chiesa ebbe pace, dopo evi egli riposò nel Signore. Siccome fu più volte esposto ai pericoli di morte per la fede, cosi e pei patimenti sofferti e per le lunghe e dure fatiche sostenute nell’ apostolico ministero dalla storia è chiamato martire, ed è il trentesimo terzo the dopo s. Pietro abbia data la vita per la fede.

            Al primo anno del pontificato di s. Melchiade fu introdotta novella maniera di computare gli anni detta Indizione, quasi indicazione. Costantino vuole che questo circolo di anni cominciasse dal settembre 312 giorno in cui si crede gli sia apparsa la prodigiosa croce che gli presagi la vittoria coatro Massenzio. I greci solevano computare gli anni per olimpiadi che era {69 [241]} un periodo di cinque anni così detto dai giuochi che in ogni cinque anni si facevano in onore di Giove nella città di Olimpia con staordinario concorso di popoli di tutta la Grecia. I romani contavano gli anni per lustri. Questa parola deriva da lustrare oppure espiare perchè ogni cinque anni si verificavano i registri dei censi e delle popolazioni e si purificavano le loro città con acqua detta ferrate;onde presso ai cristiani ebbe il nome di acqua lustrale oppure espiatoria che comunemente diciamo acqua benedetta. Costantino comandò che dal 1 settembre 312 cessasse il computo delle olimpiadi e dei lustri e fosse introdotta l’ indizione che è un periodo di tre lustri o quindici anni dopo cui si fa ritorno al numero uno.

            La Chiesa cominciò ad usare l’ indizione Romana nel 1 gennaio 313, ed il concilio Niceno celebrato nel 325 abolì il computo delle olimpiadi e dei lustri e adottò l’ indizione romana che in più casi ed alcuni luoghi tuttora si pratica. {70 [242]}

            Si danno alcune ragioni per cui Costantino scelse il numero quindici a preferenza di un altro. Ogni tre lustri ovvero quindici anni solevansi fare gli aumenti agli stipendi militari, si rinnovavano le convenzioni con quelli che nuovamente si arruolavano nella milizia; i pubblici contratti, quali sono somministranze militari, pigioni od altro genere di contratto col governo, per via ordinaria erano di quindici in quindici anni. Parimenti quelli che avevano prestato servizio negli eserciti dopo quindici arini solevano ricevere la loro giubilazione con maggiore o minore stipendio secondo la maggiore o minore importanza del servizio che questi aveva prestato. (V. Baronio, anno 312).

            La regola per trovare l’ anno dell’ Indizione romana negli anni dell’ era volgare è espressa coi seguenti due versi:

            Si tribus adiunctis Christi diviseris annos, Ter tibi per quinos, indictio certa patebit.

            Vale a dire se agli anni del Signore aggiungerai tre e li dividerai per 15, {71 [243]} non calcolando il quoziente, il residuo ti darà gli anni dell’ indizione. Per esempio al 1865 aggiungi 3 ed avrai 1868, che divisi per 15 lascieranno 8 per resìduo. Questi 8 sono gli anni dell’ Indizione romana. Qualora infine non ci fosse alcun residuo allora gli anni dell’ Indizione sarebbero 15.

 

Con permissione Ecclesiastica. {72 [244]}

 

 

Indice

 

Nozioni topografiche intorno alla,città di Roma

pag 3

Capo I Giovinezza di Costantino il grande .

21

Capo II Conversione di Costantino al Cristianesimo .

26

Capo III Costantino a Roma - Morte di Massenzio

31

Capo IV Elezione di s Eusebio - Morte di Galerio .

36

Capo V Istituzione di s Eusebio papa - principii di s Eusebio vercellese .

39

Capo VI Esiglio e morte di s Eusebio Papa .

43

Capo VII S Melchiade dà sepoltura ai martiri e riceve l’ imperatore Costantino .

48

Capo VIII Palazzo Laterano - Seismo de' Donatisti .

52

Capo IX Lettera di Costantino a s Melchiade - Concilio di Laterano

55

Capo X Lettera di Costantino ai vescovi cattolici - Calunnie de' Donatisti contro s Melchiade.

60

Capo XI Solennità della Domenica e del giovedì - Distribuzione del pane benedetto - Ninno è da condannarsi se non è convinto di reità .

64

Capo XII Ultime fatiche di s Melchiade Sua morte - Indizione Romana .

67 {73 [245]}

{74 [246]}

 




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