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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

VITA E MARTIRIO DE' SOMMI PONTEFICI SAN LUCIO I E SANTO STEFANO I

 

per cura del saccerdote

BOSCO GIOVANNI

 

J

 

La lettera dell'alfabeto segna il numero progressivo de' fascicoli riguardanti la Vita dei Papi.

 

 

TORINO

TIP. G. B. PARAVIA E COMP.

1858 {I [147]} {II [148]}

 

 

 

 

INDEX

Breve di S. S. il Regnante Pio IX. 3

Capo I. Elezione di s. Lucio - Suo esilio - Suo ritorno a Roma. 5

Capo II. A Lucio Papa Romano tornato dall'esilio Cipriano coi colleghi manda salate. 6

Capo III. Pestilenza nel Romano impero - S. Gregorio Taumaturgo guarisce prodigiosamente gli appestati - Conversione di Gentili. 8

Capo IV. La Dalmatica. L'assistenza al vescovo nel predicare ed altre istituzioni di S. Lucio. 9

Capo V. Si rinnova la persecuzione, patimenti e martirio di s. Lucio. 10

Capo VI. Culto verso le reliquie di s. Lucio - Parole di s. Cipriano - Morte di Gallo e Volusiano. 11

Capo VII. S. Stefano e sue prime azioni nel Pontificato. 11

Capo VIII. Santo Stefano condanna Marciano di Arles; e Basilio e Marziale vescovi di Spagna. 12

Capo IX. Questione dei ribattezzanti - Dottrina cattolica sull'amministrazione del battesimo. 13

Capo X. Benedizione degli abiti sacri e uso de' medesimi in chiesa - Valeriano e Gallieno imperatori. 14

Capo XI. S. Ippolito conduce molti Gentili a s. Stefano, da cui sono battezzati - Messa celebrata nelle cripte. 15

Capo XII. Adria e Paolina abbracciano la fede - Scaltrezza di Massimo carceriere. 17

Capo XIII. Massimo, assalito da uno spirito maligno, si pente, chiede il battesimo e muore martire. 18

Capo XIV. Interrogatorio e ricerca de' cristiani. Martirio di s. Ippolito e de' suoi compagni. 18

Capo XV. S. Stefano esorta il suo clero alla fermezza nella fede. - Conferisce gli ordini sacri; a molti altri amministra il Battesimo. 20

Capo XVI. Santo Stefano battezza il tribuno Nemesio, e con un miracolo guarisce la figlia di lui dalla cecità. 21

Capo XVII. Massimo è punito mentre fa sacrifizio al demonio. - Nemesio è fatto prigioniero. 22

Capo XVIII. Valeriano fa mettere in prigione Lucilla e Sinfronio economo di Nemesio. - Facendo quegli una preghiera distrugge un idolo. 23

Capo XIX. Olimpio, sua moglie ed i figli si convertono alla fede e sono da s. Stefano battezzati. 24

Capo XX. Martirio di Nemesio e di Lucilla, di Sinfronio, d'Olimpio con sua moglie e suo figlio - Carità di s. Stefano. 25

Capo XXI. Martirio di dodici sacerdoti di s. Stefano - Conversione di Tertullino e suo martirio. 26

Capo XXII. Santo Stefano alla presenza di Valeriano. - Condotto ad un simulacro di Marte, fa una preghiera, e quello cade rovinato. 27

Capo XXIII. S. Stefano, accompagnato da cristiani, va al cimitero di s. Lucina, dove, celebrato il sacrifizio della s. Messa, compie il suo martirio. 28

Capo XXIV. Sepoltura di s. Stefano. - Martirio di s. Tarsiccio.- S. Melano, primo vescovo di Rouen. 29

Capo XXV. Santa Seconda e s. Rufina sorelle vergini e martiri. 30

Capo XXVI. Culto e miracoli operati ad intercessione di s. Stefano Papa e martire. 31

Indice  33

 


Breve di S. S. il Regnante Pio IX.

 

            Questo Breve essendo quasi interamente diretto a far conoscere le funeste conseguenze de' libri e de' giornali perversi; stimiamo far cosa grata ed utile ai nostri lettori col riprodurlo, affinchè ognuno possa scorgere il veleno, da cui deve guardarsi, tanto più che il Santo Padre suggerisce il rimedio da opporre al male, cioè la diffusione di buoni libri e tra essi raccomanda in modo particolare le LETTURE CATTOLICHE.

            Metteremo l'originale latino e di contro la traduzione italiana. Così ognuno potrà conoscere con quali sentimenti il Vicario di Gesù Cristo deplori il danno che la stampa perversa cagiona, la qual cosa certamente servirà ad incoraggiare tutti i cristiani ad invigilare sopra se stessi per non cadere in errore mercè la fuga de' libri cattivi, e la lettura e la diffusione di buoni libri. {III [149]}

 

Dilecto Filio

Presbytero IOANNl BOSCO

AUGUSTAM TAURINORUM.

 

 

 

PIUS P. P. IX.

 

DILECTE FILI, SALUTEM ET APOSTOLICAM BENEDICTIONEM.

 

            In literis tuis, V Idus Novembris proximi datis, novam invenimus eximiae tuae in Nos et Supremam Dignitatem Nostrani fidei, pictatis et observantiae testimonium.

            Facile intelligimus, dilecte Fili, qui tuus aliorumque ecclesiasticorum hominum sit animi doler in ingenti hoc Italiae tumultu, rerumque pubblicarum conversione, ac rebellione provinciarum quarumdam temporalis nostri status. {IV [150]}

 

Al Diletto figlio

Sacerdote BOSCO GIOVANNI

TORINO

 

 

PIO P. P. IX.

 

DILETTO FIGLIO, SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZIONE.

 

            Nella lettera, che ci scrivesti il 9 dell' ultimo Novembre, scorgemmo novella prova della tua singolare fede, pietà e riverenza verso di Noi e verso la suprema dignità Nostra.

            Di leggieri comprendiamo, diletto Figlio, quale sia il dolore dell'animo tuo e degli altri ecclesiastici in questo grande scompiglio d'Italia e stravolgimento delle pubbliche cose, e nella ribellione di alcune provincie del nostro temporale dominio. {V [151]}

            Hanc, ut omnes norunt, externa moverunt incitationes et machinationes, eamque omni data opera fovent tuenturque.

            Accessit nunc lucubratio sparsa in vulgus hypocri pienissima ad homines simplices decipiendos, ad communem christiani orbis in vindicando civili Sedis Apostolicae Principatu consensum extenuandum.

            Fides ipsa Italicae regionis adducitur in discrimen: colluvies pravorum librorum et ephemeridum non modo urbes, sed et pagos etiam Italiae pervasa, nec subalpinis istis regionibus tantum, sed et Hetruriae finitimis que provinciis protestantes virus evomunt pravitatis suae, scholis sive clandestinis, sive pubblicis institutis; ad quas proemiis etiam adolescentes pauperes student allicere. {VI [152]}

            Questa ribellione, come a tutti e noto, venne provocata da esterne istigazioni e macchinazioni, e con ogni sorta di mezzi fomentata e sostenuta.

            Ora si aggiunse uno scritto, pienissimo di ipocrisia, che diffuso nel popolo tende ad ingannare i semplici, ed a scemare il comune consenso dall'orbe cristiano nel difendere il civile Principato della Sede Apostolica.

            La fede stessa dell'italiana penisola è messa in pericolo: una colluvie di libri e di giornali perversi si divulgò non solo per le città, ma eziandio pei villaggi, nè solamente in cotesti paesi del Piemonte, ma anche nella Toscana e nelle provincie confinanti i protestanti vomitano il veleno delle loro malvagità, avendo a tal fine instituite scuole, vuoi clandestine, vuoi pubbliche, alle quali anche con premii si sforzano di allettare la povera ed incauta gioventù. {VII [153]}

            Verum in saevissima hac, quatti satanas excitavit, tempestate, summas in humilitate cordis Deo gratias per-solvimus, qui Italiae Episcopos roborat, et gratia sua confortat ad fidei depositum in suo quique grege strenue custodiendum.

            Solatio cordi nostro sunt summa animorum concordia qua et Clerum tristissimo hac tempore in salutem animarum incumbit, animique firmitas et constantia quibus pro Dei et Ecclesiae causa adversa quaeque perfert et sustinet.

            Haud vero possumus consolationem verbis explicare, quam nobis attulit illa litterarum tuarum pars qua intelleximus tibi, Dilecte Fili, aliisque viris Ecclesiasticis maiorem praesentes huius temporis aerumnas alacritatem addidisse. {VIII [154]}

            Se non che in questa fierissima procella, suscitata da Satana, Noi nell'umiltà del cuore sommamente ringraziamo Iddio, che colla sua grazia avvalora e conforta i Vescovi dell'Italia a custodire intrepidamente ciascuno nel proprio gregge il deposito della fede.

            Sono di sollievo al cuor Nostro la somma concordia degli animi, colla quale anche il Clero in questo tristissimo tempo attende alla salute delle anime, e la fermezza e costanza d'animo con cui per la causa di Dio e della Chiesa esso sopporta e sostiene ogni avversità.

            Non possiamo poi esprimere con parole la consolazione, che ci apportò quella parte della tua lettera, da cui conoscemmo che le presenti calamità di questo tempo resero maggiore l'alacrità tua, o Diletto Figlio, e quella delle altre persone ecclesiastiche. {IX [155]}

            Hinc qua praedicatione verbi Dei, qua bonis libris et scriptis distributis, coniunctis animis et studiis, hostium Ecclesiae machinamentis obsistere alacriter contenditis.

            Nihil hac agendi ratione praestantius, nihilque utilius ad populi pietatem fovendam, acuendamque.

            Neque fructu eximia illa tua solertia caruit, qua adolescentes plurimi in sacra oratoria diebus festis atque ad scholas quotidie opportunis horis convenientes institutione Christiana, ne sacramentorum frequentia evenerunt usque ferventiores.

            Cura, quam geris in pauperes iuvenes hospitio exceptos, feliciore in dies successu locupletatur, numerumque auget eorum qui utiles Ecclesiae ministri aliquando esse possunt.

            Perge, Dilecte Fili, cursum tenere, {X [156]}

            Quindi e colla predicazione della parola di Dio, e colla diffusione di buoni libri e di buoni scritti uniti di animo e di zelo vi sforzate a tutto potere di opporvi alle macchinazioni de' nemici della Chiesa.

            Non v' ha cosa più eccellente di questo operare, e non v' ha cosa più utile a promuovere ed infiammare la pietà del popolo.

            Ne fu priva di frutto quella tua esimia sollecitudine, per la quale moltissimi giovani recandosi ai sacri oratorii nei giorni festivi, e quotidianamente alle scuole ad ore opportune divennero ognora più ferventi sia per mezzo degli ammaestramenti cristiani, sia colla frequenza de' sacramenti.

            La cura che hai dei giovani poveri da te ricoverati ottiene di giorno in giorno più felice successo, ed accresce il numero di coloro che potranno poi diventare una volta utili ministri della Chiesa.

            Continua, Diletto Figlio, la carriera {XI [157]}

quem ad Dei gloriam et Ecclesiae utilitatem coepisti, perfer, si gravior tribulatio incubuerit, et sustine magno animo angustias et tribulationes huius temporis.

            Spes nostra in Deo est, qui, protegente nos coelorum Regina ac mundi Domina, Maria Virgine Immaculata, de tantis his malis eripiet, contristatamque Ecclesiam de sua in hostibus victoria consolabitur.

            Minime dubitamus quin in hunc finem, atque ad impetrandam infirmitati Nostrae praesentissimam Dei opem et auxilium pergas, Dilecte Fili, una cum tibi nobisque carissimis hospitii tui alumnis ac discipulis, in omne oratione et obsecratione Deum ipsum maiore usque studio obtestari.

            Eumdem Nos summis precamur votis, ut Te atque illos in sua pace custodiat, {XII [158]}

che hai intrapreso a gloria di Dio e ad utilità della Chiesa: Sopporta, se ti avverrà, qualche grave tribolazione, e sostieni con grandezza d'animo le tribolazioni di questo tempo.

            La nostra speranza è riposta in Dio, il quale, per la protezione della Regina del Cielo e Signora del mondo, la Madre di Dio Maria Vergine Immacolata, ci libererà da questi si grandi mali e consolerà la sua afflitta Chiesa facendola trionfare de' suoi nemici.

            Non dubitiamo punto che a questo fine e per impetrare alla Nostra debolezza prontissimo l'aiuto ed il soccorso di Dio continuerai, o Diletto Figlio, insieme cogli alunni e discepoli del tuo ospizio a te e a noi carissimi a supplicare lo stesso Iddio con sempre maggior fervore in ogui sorta di preghiere.

            Noi caldissimamente preghiamo il medesimo Dio che custodisca te e {XIII [159]}

dextera sua tegat, et brachio sancto suo defendat.

            Coelestis huius praesidii auspicem esse cupimus Apostolicam Benedictionem, quam Ubi, Dilecte Fili, iisdemque alumnis ac discipulis, atque omnibus, qui una tecum in pia illa opera incumbunt vel ea frequentant, effuso paterni cordis affectu, et amanter impertimur.

 

Datum Romae apud S. Petrum die 7 Januarii, An. 1860.

Pontificatus nostri anno XIV

PIUS P. P. IX. {XIV [160]}

 

quelli nella sua pace, vi copra colla sua destra e vi difenda col suo santo braccio.

            Pegno di questo celeste aiuto desideriamo che sia l'Apostolica Benedizione, che con effusione ed affetto di cuore paterno e con amore impartiamo a te, Diletto Figlio, ed anche agli alunni e discepoli, non che a tutti coloro che con te si occupano a favore di queste pie opere, ovvero le frequentano.

 

Dato in Roma presso S. Pietro il 7. Gennaio 1860.

Del nostro Pontificato l'anno decimo quarto.

PIO P. P. IX. {XV [161]}

 

 

Capo I. Elezione di s. Lucio - Suo esilio - Suo ritorno a Roma.

 

            S. Lucio I merita di essere con tal nome chiamato, perchè fa una vera luce; egli risplendette nella Sede Pontificia come il sole risponde in pieno giorno. Era nato in Roma sul principio del terzo secolo; suo padre chiamavasi Porfirio. Si crede che i suoi parenti fossero cristiani, e che siansi data grande sollecitudine per educare cristianamente il loro figliuolo. Per assicurarsi che le massime del mondo non guastassero il cuore dell' amato loro figlio, lo fecero inscrivere nel clero romano, che era una specie di collegio, dove i giovanetti erano allevati nella scienza e nel santo timor di Dio. Un antico ed accreditato scrittore dice {17 [163]} che s. Lucio per vincere le lusinghe della carne ed allontanare da sè tutti gli altri vizi fin dalla più tenera eta si adoperò con tutte le sue forze per conservare la purità dei costumi, ed a tal fine diedesi con fervore alle pratiche di pietà: Interdicturus sibi voluptates et vitia ab ineunte aetate totum se sacris moribus officiisque indulsit[1].

            Giunto all'età capace di conoscere la sua vocazione abbracciò lo stato ecclesiastico, in cui fece risplendere la sua scienza e pietà. Si rese specialmente celebre nel lavorare per la conversione dei gentili e nel sostenere la fede tra i cristiani durante il Pontificato di parecchi suoi antecessori. Quando s. Cornelio fu mandato in esilio a Civitavecchia, volle condurre seco un uomo, che col coraggio, colla scienza e colla santità della vita, lo potesse coadiuvare. Questi fu s. Lucio, il quale non esitò di sottomettersi ai patimenti di un penoso {18 [164]} esilio, per assistere ed aiutare il Sommo Pontefice. Appena coronato del martirio s. Cornelio, il clero Romano, ovvero i cardinali si radunarono per eleggergli un successore nel governo della Chiesa in quei difficili tempi. Con unanime consenso fu eletto s. Lucio, che era appena allora ritornato dall' esilio. La sua elezione avveniva il diciotto novembre l'anno 255. Egli è il ventesimo terzo de' Pontefici che governarono la Chiesa da s. Pietro fino a lui.

            Come s. Cipriano intese la elezione di s. Lucio, tosto gli indirizzò una lettera per congratularsi seco lui. considerando la sua elevazione al pontificato quale avvenimento dei più gloriosi alla Chiesa. Il novello Pontefice si occupò tosto a sedare lo scisma di Novaziano, che continuava a cagionare torbidi nella Chiesa. Diede pure opera a combattere le eresie, ad assistere e sostenere quelli che nella persecuzione erano mandati in esilio o condannati a morte in odio della fede. Se non che, mentre era tutto intento a procurare il bene della Chiesa, la burrasca della persecuzione si versò tutta sopra di lui. Egli fu preso, e senza alcuna forma di processo, come cristiano, {19 [165]} anzi come capo dei cristiani, fu mandato in esilio.

            Ma contro ad ogni umana aspettazione la Divina Provvidenza, che veglia al bene della sua Chiesa, dispose che Lucio fosse richiamato dall'esilio e ricondotto a Roma. I cristiani di quella città corsero con gioia incontro al loro amato pastore, e fra le espressioni di santa allegrezza lo accompagnarono fino al luogo ove i Papi solevano dimorare. Come seppesi che s. Lucio era ritornato dall'esilio, e che con zelo e sollecitudine ripigliava le cure della Chiesa universale, erangli indirizzate lettere dalle varia parti della cristianità, in cui i fedeli dimostravano la consolazione che provavano pel ritorno del Sommo Pontefico nella santa Sede. S. Cipriano a nome anche de' suoi colleghi scrisse a s. Lucio un'altra lettera, in cui, accennando le belle virtù del nostro santo, dimostra la sua venerazione ed il suo attaccamento al capo della Chiesa. Siccome questa lettera serve molto a dilucidare la storia ecclesiastica di quei tempi, stimo a proposito di riprodurla in lingua Italiana. Eccone il tenore: {20 [166]}

 

 

Capo II. A Lucio Papa Romano tornato dall'esilio Cipriano coi colleghi manda salate.

 

            Poco fa ci siamo rallegrati con voi, fratello carissimo, quando Dio si degnò di stabilirvi con doppio onore Confessore e Sacerdote nell' amministrazione della sua Chiesa; ma anche ora non meno ci congratuliamo con voi, coi compagni vostri, e con tutti i fratelli, perchè la benigna e grande protezione di Dio vi ebbe colla stessa gloria e lode vostra ricondotto nuovamente a' suoi; affinchè al gregge bisognoso di pascolo fosse restituito il pastore, alla nave da esser governata fosse renduto il piloto, ed alla plebe da essere retta ritornasse il rettore. E così comparisse manifesto, che il vostro esilio fu per divino giudizio permesso, non già aftinchè alla Chiesa mancasse il Vescovo rilegato e cacciato, ma aftinchè egli alla Chiesa tornasse più glorioso.

            Imperocchè nei tre fanciulli non fu minore là dignità del martirio, perchè dalla fornace uscirono sani e salvi, avendo delusa la morte; nè Daniele si merita minor {21 [167]} lode, perchè gettato in preda ai leoni egli protetto da Dio visse glorioso. Parimente nei Confessori di Cristo il martirio differito non scema punto il merito d'avere confessato Cristo, ma vale a dimostrare la gran potenza della divina protezione. Noi vediamo rinnovato in voi ciò che quei forti ed illustri fanciulli altamente protestarono al Re: esser pronti bensì ad essere bruciati vivi per non servire a' suoi dei, e per non adorare la statua da lui innalzata. Ma pubblicavano che quel Dio, il quale essi adoravano, ed è pure il nostro Dio, era potente a liberarli dalla fornace di fuoco, ed a scamparli dalle mani del re e dai tormenti presenti. Lo stesso appunto noi ora vediamo rinnovato nella saldezza della vostra confessione, e nella protezione che Dio vi accordò. Voi eravate pronto e disposto a soffrire qualunque supplizio, ma Dio ve ne sottrasse, e vi conservò per la Chiesa. Pel vostro ritorno dall' esilio punto non si scemò nel Vescovo la dignità di aver egli confessato Cristo, ma crebbe in lui l'autorità sacerdotale. Così all' altare di Dio assisterà un tal Pontefice, il quale non solo con parole ma con fatti esorterà la plebe a prender le armi per confessar Cristo e per sostenere {22 [168]} il martirio, e mentre a noi sovrasta l'anticristo, preparerà alla battaglia i soldati, eccitandoli non tanto colla voce e colle parole, ma ben più coll'esempio della fede e della virtù.

            Noi, o fratello carissimo, intendiamo e con tutta la luce del nostro cuore vediamo i salutari e santi consigli della divina Maestà. Si noi intendiamo perchè costi, a Roma, sia poc' anzi repentinamente sorta la persecuzione, e perchè il potere secolare siasi subitamente scagliato contro la Chiesa di Cristo, e contro al beato Vescovo e martire s. Cornelio, e contro voi tutti. Egli si fu, perchè Dio volendo confondere e rintuzzare gli eretici intendeva di mostrare qual fosse la Chiesa, quale l'unico suo Vescovo eletto per ordine divino, quali i sacerdoti uniti per l'onore sacerdotale col loro Vescovo, quale il vero popolo di Cristo unito colla carità propria del gregge divino, quali fossero coloro che il nemico perseguitava, e quelli che il demonio risparmiava, perchè suoi fidi. Imperocchè l'avversario di Cristo non perseguita, nè assale se non gli alloggiamenti ed i soldati di Cristo: laddove sprezza e trapassa gli eretici che già vinse e rese suoi seguaci. {23 [169]} Il demonio cerca di abbattere coloro che stanno in piedi.

            Oh potessimo pur noi, o fratello carissimo, trovarci ora presenti al vostro ritorno costà; noi che vi amiamo con carità vicendevole, noi stessi costi presenti coglieremmo insieme con gli altri un frutto lietissimo dal vostro ritorno. Quanto costì esultano tutti i fratelli! Come tutti accorrono per abbracciarvi! Appena gli occhi dei più vicini possono essere soddisfatti; appena i volti e gli occhi della plebe possono esser sazi mirandovi. Dal giubilo pel vostro arrivo costà i nostri fratelli impararono a conoscere quanta e quale sarà la letizia per l'arrivo di Cristo. E perchè questa venuta sarà vicina, il vostro ritorno ne fu come un'immagine anticipata; affinchè, siccome Giovanni suo precursore, che lo prevenne, predicò la venuta di Cristo, così ora pel ritorno del Vescovo confessore di Dio e sacerdote, si sappia che Dio omai ritorna.

            Per tenere le veci della nostra presenza, io, i colleghi ed i fratelli tutti mandiamo a voi questa lettera, o fratello carissimo, e con essa rappresentandovi il nostro gaudio vi attestiamo i fedeli ossequii di carità. {24 [170]} Anche qui nei nostri sacrifizi e nelle nostre preghiere non cesseremo di rendere grazie a Dio padre ed a Cristo suo figliuolo Signor nostro, e di pregare domandando che Egli, il quale è perfetto e perfeziona altrui, custodisca e perfezioni in voi la gloriosa corona della vostra confessione. Forse egli nel richiamarvi a Roma volle che la vostra gloria non rimanesse occulta, ove lungi da Roma aveste consumato il martirio della vostra confessione. Imperocchè la vittima, che dà ai fratelli esempio di virtù e di fede, dee pure essere immolata alla presenza dei fratelli.

            Facciamo voti, o carissimo fratello, per la vostra salute (S. Cip., ep. 58).

 

 

Capo III. Pestilenza nel Romano impero - S. Gregorio Taumaturgo guarisce prodigiosamente gli appestati - Conversione di Gentili.

 

            S. Cipriano scrisse eziandio altre lettere a s. Lucio, e dal suo canto s. Lucio filandogli pure alcune lettere in risposta; ma questi scritti andarono perduti forse per la pestilenza che cominciò ad infierire in tutto {25 [171]} il Romano impero in quel tempo, ed infieri per lo spazio di dieci anni.

            «Questa pestilenza, dice un celebre scrittore, fu una sensibile vendetta del cielo contro ai profanatori del nome cristiano. E per tutto il tempo che durarono i sanguinosi editti di Decio contro alla Chiesa, per tutto quel tempo, che fu di dieci anni, durarono i terribili flagelli della peste. Non ti fu alcuna provincia del Romano impero, non una città, non una casa, che non fosse desolata dal morbo sterminatore.» (V. Orosio, lib. 7.)

            Noi non ragliamo parlare della strage orribile fatta da quel morbo micidiale in tutti i paesi; ci limitiamo soltanto ad una provincia dell'Asia detta Ponto, siccome ci lasciò scritto s. Gregorio Nisseno. Questo celebre dottore della Chiesa parlando di san Gregorio Taumaturgo, che allora era vescovo in Neocesarea, principale città di quel regno, ha quanto segue.

            «Facevansi radunanze numerosissime in quella città per invocare l'aiuto del demonio, che quei miseri illusi credevano potesse venire in loro soccorso. Una di queste solennità fu veramente straordinaria, e vi concorsero non solo i cittadini, {26 [172]} ma tutti i popoli delle terre vicine. Era il momento del sacrifizio quando odesi da tutte parti una voce, che si innalza e va ad unirsi a quella degli altri per formare un solo suono, dicendo: O Giove, ascoltaci, Giove, liberaci dai flagelli.

            S. Gregorio Taumaturgo da qualche distanza udì tale diabolica invocazione, e trasportato da vivo zelo per la gloria di Dio e dal medesimo Iddio inspirato mandò un uomo che andasse in mezzo a quella immensa turba, dicendo: aspettate, aspettate, avrete un bell'aiuto: vi sarà dato un sollievo maggiore di quello che vi pensate. Queste parole furono accolte come presagio di mali imminenti; un timore ed uno spavento s'impadronirono di tutti gli astanti, per modo che i piaceri e le gioie di quel giorno in un momento si mutarono in tutto e calamità, cui tosto tenne dietro un terribile infierire della pestilenza. Il morbo era prenunziato così: compariva sopra lo case un orribile spettro, ovvero un fantasma in forma di mostro spaventoso, e tosto gli abitatori di quelle erano invasi dal morbo. La qual cosa dimostra che Dio servivasi degli spiriti maligni per punire coloro stessi che li avevano invocati. {27 [173]}

            Il morbo dilatavasi in questo modo: gli uomini erano assaliti da un caldo che a guisa di fuoco divoratore li tormentava, e in pochi momenti comunicavasi a tutti i membri della stessa famiglia. Le Chiese e gli ospedali erano ripieni de' cadaveri di coloro che in quelle andavansi a ricoverare nella speranza di guarigione o di rimedio. Le fontane, gli acquedotti, i torrenti ed i pozzi erano coperti di quelli che colà correvano per dissetarsi, e che invece cadevano estinti. L'acqua non valeva ad estinguere il fuoco interno che li divorava. Quelli che erano colpiti dal morbo, sentivansi egualmente arsi prima e dopo di aver bevuto qualunque quantità di acqua. Il numero dei morti divenne cosi grande, che i vivi non potevano più dar sepoltura ai morti. Perciò quelli che erano attaccati dal morbo andavano da se stessi al luogo della sepoltura, perchè non restava più alcuna speranza di guarigione.

            In breve fu conosciuta la cagione del morbo; cioè che quel demonio che eglino invocavano per esserne liberati era quello stesso che, permettendolo Iddio, ora parlatore del flagello. Allora fu che quegli infelici ricorsero a s. Gregorio pregandolo {28 [174]} di voler interporre la sua mediazione presso a quel Dio, che egli predicava e che eglino confessavano per solo vero Dio, affinchè li volesse liberare da quel flagello.

            Dio ascoltò le preghiere del santo vescovo e lo esaudì così: quando compariva lo spettro sopra qualche casa, quelli, che vi abitavano, non avevano altro rimedio per liberarsi dalla morte, che pregar s. Gregorio che vi entrasse egli stesso. La presenza di lui portava la benedizióne del cielo, o il morbo più non entrava in quella famiglia. Sparsa la fama di quel prodigioso rimedio, tutti correvano, invitavano e portavano anche a viva forza il santo prelato nelle loro case perchè li liberasse dal morbo sterminatore.

            Allora s. Gregorio, per dare a Gesù Cristo l'onore a lui dovuto, continuò ad instruire quei gentili nella fede, facendo osservare che i loro peccati erano cagiono di quelle sciagure; che eglino dovevano abbandonare il culto del demonio; adorare il solo vero Dio e riconoscere il suo Divin figliuolo, Signor nostro Gesù Cristo, nel cui nome egli guarivali dal morbo fatale. Allora fu veduto uno spettacolo che dimostra come Iddio sappia ricavare bene {29 [175]} dal male. I Gentili cominciarono ad andare in folla a farsi instruire nella fede. Chi per assicurarsi di essere liberato dal morbo, chi perchè era convinto della santità della religione cristiana; fatto sta che si può dire i Gentili di quella vasta provincia essere quasi tutti venuti alla fede.» (V. Greg. Niss. in Greg. T.)

            Ma al flagello della peste in molti paesi del Romano impero si aggiunse quello della fame e della guerra; così coloro i quali erano stati risparmiati dal morbo morivano di fame o finivano la vita in mezzo ai disastri della guerra.

            Questi fatti dimostrano che i peccati sono la cagiona, per cui Dio suole mandare i flagelli agli uomini; e che l'unico mezzo per allontanare tali malori è l'abbandono del peccato e l'osservanza della santa legge di Dio. Ma per assicurarci di questa legge di Dio non dobbiamo invocar il demonio con nuovi peccati, nemmeno correre dietro agli spettri ed ai fantasmi, seguendo le massime del mondo, ma ricorrere ai sacri ministri, e specialmente ai vescovi, che sono posti dallo Spirito Santo per assistere e governare la Chiesa di Dio: Quos Spiritus Sanctus posuit episcopos regere Ecclesiam Dei. (Att. ap. c. 20, 28). {30 [176]}

 

 

Capo IV. La Dalmatica. L'assistenza al vescovo nel predicare ed altre istituzioni di S. Lucio.

 

            Mentre Dio vendicava il disprezzo della sua legge co' flagelli della peste, della fame e della guerra, s. Lucio si occupava con zelo apostolico pel maggior decoro della disciplina della Chiesa tuttora agitata dalle persecuzioni. Fra le altre cose il santo pontefice introdusse ne' divini uffizi quell'abito ecclesiastico detto Dalmatica ed anche tunicella, che usano i Diaconi quando assistono il Sacerdote celebrante solennemente. Questo abito è detto Dalmatica, perchè la forma di esso era già in uso nella Dalmazia. Esso La le maniche larghe e non legate per dinotare che i sacri ministri devono sempre avere le mani aperte per soccorrere i bisognosi, consolare gli afflitti, ed essere sempre pronti a predicare la parola di Dio e difendere la fede in mezzo a qualsiasi pericolo a costo anche della vita.

            S. Lucio cominciò permettere ai diaconi di portare la Dalmatica nelle sacre funzioni; {31 [177]} s. Silvestro poi comandò che fosse usata dal clero di Roma; e più tardi venne introdotta ed è tuttora in uso presso a tutti i paesi della cristianità. (Sand. in s. Luc).

            Il medesimo s. Lucio decretò che ovunque un vescovo predicasse fosse assistito da due sacerdoti e tre diaconi, affinchè fossero testimonii delle verità predicate, ed i nemici della fede non le interpretassero malamente. Questo decreto era specialmente diretto contro ai Novaziani, i quali avevano inventate varie menzogne, ed asserivano che quelle erano state predicate da s. Cornelio. Il mondo maligno cercava già di sorprendere il divin Salvatore ed ora fa lo stesso co' suoi servi. Cerca di sorprenderli ed interpretare i loro detti in modo che favoriscano le massime mondane, quindi averli dalla parte sua; oppure calunniarli in altre maniere e porli in discredito presso i fedeli cristiani (V. lib. pont.).

            S. Lucio tenne due volte la sacra ordinazione nel mese di dicembre siccome praticavano i suoi antecessori. Poichè sebbene fosse già introdotto l'uso di tenere la sacra ordinazione in varii tempi dell'anno, tuttavia per via ordinaria questi {32 [178]} ordini sacri solevansi conferire nei primi giorni dell'avvento. Sceglievasi questo tempo affinchè i novelli sacerdoti fossero come altrettanti messaggeri ai fedeli cristiani per prepararli a celebrare santamente la nascita di nostro Signor Gesù Cristo che è il sacerdote eterno secondo l'ordine di Melchisedecco. Egli ordinò quattro preti, quattro diaconi e sette vescovi che mandò in varii luoghi, dove scorgeva più grave il bisogno delle chiese (V. libri Pont.).

            È pure attribuito a s. Lucio un decreto col quale ordina, che que' giovani i quali desiderano di abbracciare lo stato ecclesiastico siano continenti: cioè siano sicuri di conservare l'angelica virtù della purità nella carriera ecclesiastica ove ogni parola, ogni atto deve spirare santità, castità e modestia.

            Altro decreto del medesimo pontefice stabilisce che coloro i quali rubano, vendono, s'impossessano o dissipano in qualsiasi maniera i beni della Chiesa, debbano incorrere la scomunica, e come scomunicati e sacrileghi allontanarsi dalla Chiesa e separarsi dagli altri fedeli (V. Graz, qui abstulit).

            Questo decreto di s. Lucio fu confermato {33 [179]} da altri sommi pontefici e da varii concili, e finalmente dal concilio Tridentino (Sess. 22. c. 11.).

 

 

Capo V. Si rinnova la persecuzione, patimenti e martirio di s. Lucio.

 

            Mentre il santo pontefice impiegava tutte le sue sollecitudini pel bene della Chiesa, i sacerdoti degli idoli si recarono prima in Senato, di poi dallo stesso Imperatore a fine di persuaderlo che i cristiani erano la cagione dei mali che desolavano il Romano impero. «Il nostro gran Giove, dicevano, ha dato il sommo Pontificato ai nostri Re, ai nostri Imperatori, a voi e non ai cristiani. Ora lo splendore di questa suprema autorità è trasferito ai cristiani. Essi, comandando di adorare un Dio solo, mettono in dispregio i nostri Dei. A noi sembra pertanto che il capo dei cristiani sia la principale cagione dello sdegno de' nostri Dei, perciò egli pel primo meriti di essere severamente punito.» (Gauferio, cap. 3.).

            Fu fatto cercare s. Lucio, condotto dall'imperatore e interrogato in mille guise. {34 [180]} Da prima fu lusingato con parole piacevoli, di poi con promesse di onori e di grandezze. Cui sempre rispose s. Lucio protestando che egli aveva ricevuto promessa da Gesù Cristo di un premio eterno, che superava ogni piacere, ogni onore, ogni grandezza terrena, e che non mai avrebbe lasciato di predicare il vero Dio, per adorare le insensate divinità che sono impotenti e fatte dalle mani degli uomini.

            Allora i giudici destinati a trattar questa causa ricorsero alle minaccie, di poi cacciarono s. Lucio in prigione, lo assoggettarono a molti tormenti, che il forte pontefice sopportò con gioia. Egli aveva imparato dal divin maestro che quanto sono grandi i patimenti della vita presente, altrettanto, anzi mille volte più grande è il premio che Dio dà in compenso nell'altra vita. Vedendo che rimaneva fermo nel suo proposito, e che la sua fermezza era eccitamento a molti gentili di venire alla fede, fu proferita contro di lui la sentenza di morte. Mentre era condotto al supplizio incontrò un suo arcidiacono di nome Stefano. Egli lo chiamò a sè, lo incaricò di governare la Chiesa in sua vece fino alla elezione del suo sucessore. {35 [181]} Gli affidò pure quei pochi danari che teneva in serbo per distribuire alle vedove, agli orfani, agli ammalati, ai poveri ed a quelli che pativano nelle carceri o in esilio per la fede. Questo Stefano è quel medesimo, cui s. Cornelio aveva già consegnata ogni sua sostanza quando era condotto al martirio. La qual cosa dimostra che era persona di gran credito presso ai fedeli, e presso ai medesimi Sommi Pontefici.

            Disposte così le cose temporali della Chiesa, Lucio nulla più desiderava se non coronare la sua vita colla gloria del martirio, e così col proprio sangue sigillare le verità che aveva costantemente predicato. Cervicibus tandem abscissis praeclarissimum nomen martyris adeptus est. Vale a dire giunto al luogo del supplizio secondo la sentenza emanata contro di lui, gli fu troncata la testa. Così cessando di patire sopra la terra andò a ricevere il guiderdone de' martiri con Gesù Cristo in cielo (V. Ciaconio in s. Lucio).

            Il suo glorioso martirio avveniva il giorno quarto di marzo l'anno 257, dopo aver governata la Chiesa due anni ed alcuni mesi. (V. Bar. an. 257). {36 [182]}

 

 

Capo VI. Culto verso le reliquie di s. Lucio - Parole di s. Cipriano - Morte di Gallo e Volusiano.

 

            Ucciso il santo Pontefice, i suoi carnefici se ne andarono pei fatti loro, e la turba di gente, che era accorsa, si sciolse. Ha alcuni fedeli si radunarono intorno al cadavere di lui, e colla massima venerazione lo raccolsero e lo portarono ad essere seppellito nel cimitero di s. Callisto lungo la via Appia,

            Più tardi il corpo di s. Lucio fu dal Sommo Pontefice s. Pasquale trasportato nella Chiesa di s. Cecilia, entro le mura di Roma. Molte parti però di quelle reliquie furono trasportate in diversi paesi della cristianità, ove sono tenute in grande venerazione.

            S. Cipriano in una lettera scritta a santo Stefano, successore di s. Lucio, fa un bell'encomio di s. Lucio e di s. Cornelio. Noi, dice questo santo Padre, dobbiamo serbar viva la memoria dei santi martiri Cornelio e Lucio nostri antecessori; che se noi dobbiamo conservarne grata ricordanza, molto più tu, o fratello carissimo, devi tenerli {37 [183]} in onore e venerazione col tuo contegno e colla tua autorità: perciocchè tu fosti fatto Vicario di Gesù Cristo e successore di quelli nel governo della Chiesa. Quei prodi che erano pieni dello spirito del Signore, e che sostennero per la fede un glorioso martirio, giudicarono doversi dare la pace a coloro che erano caduti nell'idolatria. Queglino coi loro scritti confermarono che, fatta prima la debita penitenza, non si dovesse negare a costoro il frutto della comunione e della pace. La quale dottrina noi tutti abbiamo accolta senza riserva; giacchè noi non potevamo professare altra opinione, mentre abbiamo lo stesso spirito. (S. Cip, Ep. 67).

            Le quali parole dimostrano come nei tempi antichi della Chiesa da tutte parli si ricorreva alla Chiesa di Roma come al centro dell'unità e della verità, il Romano Pontefice fu sempre il vero giudice delle questioni riguardanti al bene spirituale delle anime.

            Intanto Gallo e Volusiano, autori della persecuzione contro ai cristiani, e della morte del Pontefice s. Lucio, non tardarono a provare gli effetti dell'ira divina, che sovente anche nella vita presente vendica {38 [184]} gli oltraggi fatti a' suoi sacri ministri. Perchè, come dice s. Cipriano, chi non vuol credere ai sacerdoti di Gesù Cristo, sarà poi costretto di credere a Dio che fa vendetta del suo ministro: «Qui Christo non credit sacerdotem furienti, postea credere incipit sacerdotem vindicanti.» (S. Cip. ep. 69).

            Gallo, come si è detto, sul principio del suo regno aveva associato all'impero Volusiano suo figlio, per assicurarsi che, morto lui, la sua stirpe avesse a continuare sul trono. Ma Dio giusto e potente suscitò loro un rivale di nome Emiliano. Costui era nato nella Mauritania da oscurissima famiglia. Ma intrapresa da giovane la carriera delle armi, col suo coraggio e col suo valore, giunse in breve a conseguire i primi gradi della milizia. Egli era governatore della Misia, quando fu proclamato imperatore in luogo di Gallo e Volusiano, che passavano il loro tempo nel lusso e nella crudeltà. Emiliano marciò tosto alla volta di Roma per combattere i due imperatori, che furono dai loro proprii soldati trucidati nell' atto appunto che si apparecchiavano ad una decisiva battaglia contro ai ribelli. Questo fatto compievasi {39 [185]} vicino alla città di Interamna, oggidì detta Terni, negli Stati Pontificii. È vero che Emiliano regnò solo quattro mesi: ma occupato delle cose di governo non ebbe tempo di pensare ai cristiani, i quali poterono radunarsi ed eleggere un novello Pontefice.

 

 

Capo VII. S. Stefano e sue prime azioni nel Pontificato.

 

            S. Stefano, primo di questo nome, è il 24° dei Pontefici che hanno governato la Chiesa dopo l' Ascensione di Gesù Cristo. Noi abbiamo già parlato di questo santo nella vita di s. Cornelio e poco fa in quella di s. Lucio; qui daremo soltanto un breve cenno delle azioni che precedettero la sua elevazione al pontificato.

            Egli era nato in Roma sul finire del secondo secolo. Suo padre appellavasi Giulio, che si crede con fondamento tosse cristiano, e che abbia allevato suo figliuolo secondo i principii di nostra santa religione. Aveva un cuore naturalmente buono, ed un ingegno assai perspicace, le quali cose contribuirono a farlo progredire nelle scienze divine ed umane, singolarmente nella scienza {40 [186]} dei santi. Per le sue luminose virtù fu annoverato nel clero sebbene ancora in età assai giovanile. Il candore dei costumi, lo zelo pel bene delle anime, la sua dottrina lo resero oggetto di ammirazione e degno delle prime cariche nella Chiesa. Durante i calamitosi tempi, in cui s. Cornelio e s. Lucio governarono la Chiesa, egli faticò molto per la fede, nè esitò di accompagnare questi due Pontefici in esilio, dividendo seco loro i patimenti che l'oppressione contro alla Chiesa faceva patire. Fu arcidiacono di questi due Pontefici; la qual dignità gli dava la custodia del danaro ecclesiastico raccolto colle elemosine, ciò che dimostra la stima grande che facevano della sua specchiata virtù. Quando s. Lucio era condotto al martirio, affidò il governo della Chiesa al suo arcidiacono Stefano, e già durante la prigionia di questo Pontefice egli la fece da Vicario Pontificio nell'amministrazione universale della Chiesa. Per questo motivo, appena coronato s. Lucio del martirio, il nostro santo nel mese di maggio del 257 con unanimi suffragi fu sollevato alla Sede Pontificia. Le prime sollecitudini del novello Pontefice dovettero rivolgersi contro Novaziano e Novato. {41 [187]} Questi due perturbatori vivevano ancora, amendne scismatici ed eretici avevano trovalo seguaci in quasi tutte le parti della cristianità. Invano s. Cipriano di Cartagine e s. Dionigi di Alessandria, si erano coraggiosamente opposti alle loro empietà, e le avevano condannate e fatte condannare in più concili. Il veleno non lasciava di contaminare molte persone anche elevate alle prime dignità della Chiesa.

            In circostanze così gravi il virtuoso Pontefice si mostrò, come era infatti, il flagello dell'eresia, il difensore dei sacri canoni, l'oracolo di tutta la cristianità.

 

 

Capo VIII. Santo Stefano condanna Marciano di Arles; e Basilio e Marziale vescovi di Spagna.

 

            Prima di esporre alcuni fatti della vita di s. Stefano, è bene che noi richiamiamo alla memoria le parole del divin Salvatore, con cui stabili s. Pietro, e nella persona di s. Pietro stabilì supremi pastori della Chiesa tutti i Sommi Pontefici di lui successori. Le parole sono queste: Pasce agnos meos, pasce oves meas (Io. 21, 16); pascola le mie pecorelle, pascola i miei {42 [188]} agnelli. Con queste parole Gesù Cristo stabilì il sommo Pontefice pastore supremo, suo vicario, capo e guida di tutti i cristiani figurati negli agnelli, e dei medesimi vescovi figurati nelle pecore. Onde il Papa nelle cose di religione è giudice supremo non solo di tutti i fedeli, ma dei medesimi Vescovi. Perciò nei tempi andati alcuni vescovi essendo sgraziatamente caduti in errore, il Papa fu colui che li avvisò, li minacciò e talvolta giunse a separarli dalla Chiesa. Questa suprema e indipendente autorità esercitò s. Stefano verso alcuni vescovi della Francia e della Spagna, che sostenevano alcuni errori di Novato e di Novaziano.

            Fra i loro errori questi due eretici asserivano, che non si dovevano assolvere coloro che erano caduti nel peccato della idolatria, benchè si ravvedessero e ne facessero asprissima penitenza. Con questi principii i loro seguaci stendevano il rigore, contro a chiunque fosse caduto in peccato ricusando di dar loro l'assoluzione anche in punto di morte, e per conseguenza affermavano che si danno peccati irremissibili, il che è contrario alla dottrina della Chiesa. Questa dottrina gettava molti penitenti {43 [189]} in una orrìbile disperazione. Marciano vescovo di Arles aveva abbracciato sgraziatamente questi errori, e li predicava con ostinazione. S. Faustino vescovo di Lione ed altri vescovi delle Gallie chiesero su tale materia il parere di s. Cipriano. Questo santo esaminò la questione sotto a due aspetti; uno religioso, che riguardava la dottrina della Chiesa, l'altro personale di un vescovo che doveva essere giudicato da un'autorità competente, cioè dal sommo Pontefice. Quindi scrisse ai vescovi delle Gallie, suggerendo loro le norme da tenersi in cose di tanta importanza, e li persuase ad unirsi a lui per rimettere ogni cosa al giudizio di s. Stefano, che solo avea piena giurisdizione sopra la Chiesa universale. D'accordo pertanto pregarono s. Stefano di impiegare la sua autorità e non soffrire più a lungo che Marciano turbasse la pace della Chiesa colla perdita di tante anime. S. Cipriano poi scrisse una lettera particolare al papa, in cui fra le altre cose dice: «è necessario che tu scriva ai nostri confratelli delle Gallie acciocchè Marciano non continui ad insultare il nostro collegio. Scrivi alla provincia ed al popolo di Arles, dicendo {44 [190]} che Marciano, essendo stato scomunicato, cessa di essere il loro vescovo. Fa loro conoscere chi sia il vescovo di Arles invece di lui. Cosi noi sapremo a chi mandare le nostre lettere di comunione, a chi indirizzare i nostri fratelli.»

            Il santo Pontefice prese la cosa in seria considerazione; ponderò lo stato delle cose; di poi, secondo le istruzioni avute da s. Cipriano, da s. Faustino e dagli altri prelati, condannò Marciano. Dopo tale sentenza esso non fu più tenuto per vescovo della Diocesi di Arles.

            Acquetate le cose delle Gallie, il santo Pontefice dovette rivolgere le sue sollecitudini a due prelati della Spagna, uno detto Basilide, l'altro Marziale. Essi erano stati ambidue convinti di essere, stati nel numero dei libellatici, cioè di quei cristiani che con danari facevansi inscrivere in un catalogo, o comperavano un libretto o certificato, che indicava di avere sacrificato agli idoli, benchè non lo avessero fatto. Con questa finzione salvavano la vita e le sostanze. (S. Cip. de lapsis).

            Per questi ed altri motivi Basilide e Marziale furono giudicati indegni del vescovado e deposti dalla loro dignità, e in {45 [191]} loro vece forano consacrati vescovi due sacerdoti per virtù e scienza veramente degni di tale carica. Questa risoluzione dei vescovi di Spagna fu mandata a s. Stefano che trovando ogni cosa conforme ai sacri canoni confermò la loro sentenza, ed approvò quanto avevano quei vescovi operato.

 

 

Capo IX. Questione dei ribattezzanti - Dottrina cattolica sull'amministrazione del battesimo.

 

            Un'altra questione, che esercitò non poco lo zelo del Pontefice, fu la disputa che nacque intorno al battesimo amministrato dagli eretici. Era dottrina costante della Chiesa Cattolica, che gli eretici battezzassero validamente, purchè conferissero questo sacramento colla materia e colle parole del Vangelo, siccome comandò Gesù Cristo, vale a dire: Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Gli Africani fino alla fine del secondo secolo pensarono su questo punto come il rimanente dei cattolici; ma Agrippino vescovo di Cartagine, antecessore di s. Cipriano, Tertulliano, e infine lo stesso san {46 [192]} Cipriano furono di parere che il battesimo dato da un eretico fosse nullo ed invalido. Credevano essi che non si potesse ricevere la grazia dello Spirito Santo dalle mani di colui che nol possedeva nell'anima sua. Questi dottrina è fondata sull'errore, perchè la grazia che noi riceviamo nei sacramenti non è comunicata all'anima da colui che li amministra visibilmente, ma da Gesù Cristo, ministro invisibile. Nella maniera che un mendicante può portare e distribuire ad altri il tesoro di un re, cosi il ministro di Dio comunque peccatore, ed anche eretico ed apostata, può amministrare validamente il sacramento del battesimo, purchè osservi quanto è stato prescritto da Gesù Cristo. È vero che tali ministri commettono un sacrilegio, e l'amministrazione è illecita, ma il sacramento è valido.

            Ai vescovi dell'Africa unironsi molti vescovi dell'Asia, i quali pensavano che tale questione fosse di semplice disciplina e da potersi tollerare dalla Chiesa. La cosa però non era così, e tale dottrina toccando la validità dei sacramenti diventava un punto di fede. Egli fu allora che si vide il Romano Pontefice essere in maniera particolare assistilo da Dio, siccome leggiamo nel {47 [193]} Santo Vangelo: Rogavi pro te, Petre, ut numquam deficiat fides tua, et tu... confirma fratres tuos. (Luc. 22, 32). Ho pregato per te, o Pietro, affinchè la tua fede non venga meno; e tu conferma nella fede i tuoi fratelli. Il santo Pontefice vedendo i pericoli minacciati alla Chiesa da coloro stessi che ne erano costituiti difensori, e che mostravano una grande avversione alla eresia, assistito da quei soccorsi soprannaturali che Dio ha promesso, usando il potere datogli dal medesimo Gesù Cristo di sciogliere e di legare, cioè concedere o proibire quello che giudica bene per la salute delle anime, si oppose come baluardo alla custodia della casa di Dio. Scrisse a s. Cipriano ed ai vescovi che si erano uniti a lui; ripetè loro che ogni innovazione era illecita, e che dovevasi seguire quanto erasi costantemente fatto nella Chiesa ed attenersi inviolabilmente alla tradizione che veniva dagli Apostoli. Per impedire poi che il male divenisse più grave, minacciò di levare dal corpo dei fedeli i seguaci della novità. Così la sua fermezza conservò il deposito della sana dottrina, mentre la sua dolcezza e la sua pazienza guadagnò molti alla fede, ed impedì parecchi {48 [194]} altri che non cadessero nell'abisso dell'eresia.

            Nella lettera che a tal proposito scrisse alla Chiesa di Africa, disse queste memorabili parole: nihil innovetur nisi quod traditum est; nulla si rinnovi se non quello che è secondo la tradizione; cioè si ritenga quello che fu usato dai primi tempi della Chiesa, praticato dagli Apostoli e tramandato dall'uno all'altro fino ai nostri giorni; quello che è contrario a questa tradizione è una novità da fuggirsi. La carità e la pazienza di santo Stefano riportarono compiuta vittoria. Poco per volta tutti i vescovi della cristianità riconobbero la voce di Gesù Cristo in quella del suo Vicario, e con pieno trionfo della Chiesa cattolica formarono un vincolo solo di fede che la Chiesa ha sempre professato e professa ancora oggidì. È vero che ai nostri giorni la Chiesa cattolica suole ribattezzare sotto condizione quelli che dal protestantismo o da altra setta vengono ai cattolicismo; ma ciò si fa non per timore che gli eretici non possano amministrare validamente questo sacramento, ma pel timore che non ne abbiano usato la materia e la forma prescritta. Per esempio in alcuni luoghi non {49 [195]} si nominano tutte tre le persone della SS. Trinità; altrove si usa acqua artefatta, e non naturale, ed in alcuni luoghi avvi una persona che versa l'acqua, mentre un'altra stando sopra una cattedra dice le parole. Tali usanze sono contrarie a quanto Gesù Cristo stabilì nel Vangelo. Per impedire la nullità di questo sacramento, senza cui niuno può salvarsi, la Chiesa cattolica volendosene assicurare, suol farlo ripetere sotto condizione.

 

 

Capo X. Benedizione degli abiti sacri e uso de' medesimi in chiesa - Valeriano e Gallieno imperatori.

 

            Lo zelo di s. Stefano si esercitò anche a confermare e stabilire le cose necessarie pel decoro della Chiesa.

            Decretò che i sacri arredi fossero benedetti prima di essere usati dai ministri, e che i sacerdoti ed i diaconi non si servissero di quelli se non nelle chiese o per compiere altrove qualche sacra funzione.

Affinchè poi ognuno conservasse il debito rispetto verso alle cose sacre, proibì ai laici di vestire abiti destinati ad uso di {50 [196]} chiesa. Egli minacciò le pene di Baldassarre a coloro che si fossero serviti di abiti sacri ad uso profano. Quel Re in un pranzo comandò che fossero portati a mensa i vasi, che suo padre aveva derubato nel tempio di Gerusalemme, e in quelli si diede a bere egli ed i suoi commensali. Mentre bevevano apparve una mano che scrisse la sentenza di morte contro al Re, e nella seguente notte ebbero compimento le divine minacce.

            Il non destinare abiti sacri ad uso profano è ancora praticato oggidì, e perciò quando gli arredi di chiesa sono logori e non possono più usarsi nelle sacre funzioni, si abbruciano o si consumano altrimenti (V. Burio in s. Stef.).

            Ma le sollecitudini del pontefice dovettero cessare dalle cose di disciplina per rivolgersi contro al torrente della persecuzione. Il regno di Emiliano fu di soli quattro mesi, dopo cui egli fu ucciso da quei medesimi soldati che lo avevano elevato al trono. Allora Valeriano, che da due anni era stato proclamato imperatore da un esercito stanziato vicino alle Alpi, fu riconosciuto legittimo imperatore, e recandosi a Roma potè salire sul trono. Per {51 [197]} avere un sicuro aiuto nell'amministrazione dei grandi e molti affari, associò all'impero suo figliuolo di nome Gallieno.

            Da prima Valeriano favorì i cristiani: lasciò che professassero tranquillamente la loro religione; anzi li ammetteva ai pubblici impieghi, li accoglieva in sua casa; molti di sua famiglia erano cristiani. Di modo che, come scrive s. Dionigi, il palazzo imperiale, pieno di uomini pii e cristiani, sembrava una chiesa dedicata al culto del vero Dio (V. Eus. lib. 7 c. 9).

            Ma questi buoni principii di Valeriano, furono guastati da un cattivo consigliere. Costui era un mago, anzi capo dei maghi d'Egitto. La nostra santa religione detesta la magia, ovvero l'invocazione degli spiriti infernali, perciò quel mago a fine di potersi insinuare nel cuore dell'Imperatore cominciò a porre in discredito prima i cristiani, di poi la loro religione. Valeriano accecato dagli incantesimi di quell'impostore cominciò a mirare con indifferenza il cristianesimo, allontanare da sè i fervorosi cristiani che disapprovavano la magia, ed infine giunse ad abborrire il Vangelo. Le cose andarono tanto oltre, che per secondare le nefandità della magià {52 [198]} egli sacrificava vittime umane e strappava fanciulli dalle braccia delle loro madri per iscannarli e osservare se veramente scopriva gli effetti promessi dal mago nelle viscere fumanti de' palpitanti bambini (Eus. luogo citato).

            A ciò si aggiunse il parere de' sacerdoti idolatri, i quali dissero all' Imperatore che egli non avrebbe vinto in una guerra contro ai Persiani, se prima non distruggeva il cristianesimo. Di qui cominciò l'ottava persecuzione, che durò furiosa circa quattro anni.

            S. Stefano dopo aver lavorato molto per la fede coronò il suo pontificato con un martirio accompagnato da fatti e circostanze veramente degne di essere minutamente esposte[2].

            Da questi atti noi abbiamo fedelmente ricavato quanto andremo esponendo intorno alle maraviglie da questi gloriosi martiri operate. {53 [199]}

 

 

Capo XI. S. Ippolito conduce molti Gentili a s. Stefano, da cui sono battezzati - Messa celebrata nelle cripte.

 

            La persecuzione di Valeriano contro ai cristiani da prima era alquanto mite, nè vi era alcun ordine di perseguitarli. Soltanto i giudici potevano ad arbitrio condannarli od assolverli. Lo spargimento di sangue cominciò in Roma, di poi continuò in tutte le parti del romano impero. Prima vittima della persecuzione fu s. Ippolito co' suoi compagni. S. Ippolito era fervoroso discepolo di s. Stefano, e istruito da tale maestro aveva acquistato profonda cognizione delle verità del Vangelo, ed era specialmente erudito nelle cose che si trasmettono per tradizione apostolica. Egli temeva i pericoli del mondo, e nel desiderio di vivere una vita lontana dai tumulti ed evitare le ricerche dei persecutori, passava i suoi giorni nella solitudine delle catacombe. Di là usciva di quando in quando, ma per recarsi dal Pontefice e consultarlo nelle cose di maggior importanza. Siccome era da tutti conosciuto per uomo di grande {54 [200]} istruzione, così i cristiani ed i medesimi gentili venivano a lui per interrogarlo e istruirsi nella religione. Quando poi vedeva taluno istruito nella fede conducevalo a santo Stefano perchè lo battezzasse. Questa frequente relazione giunse a notizia del prefetto di Roma, che la deferì allo stesso imperatore.

            Ippolito conobbe allora che sarebbe andato soggetto a gravi ricerche, perciò con altri cristiani andò segretamente da s. Stefano onde avere norme da seguirsi in quei tempi calamitosi. S. Stefano radunò pure altri fedeli, quindi e con avvisi e con istruzioni ricavate dalla sacra scrittura gl'incoraggiava a perseverare costanti nella fede. Fra le altre cose diceva: figliuoli miei, ascoltate le mie parole, sebbene io sia un povero peccatore; operiamo il bene mentre abbiamo tempo; prima di tutto vi debbo avvertire che siamo giunti al momento di mettere in pratica ciò che disse il divin Salvatore, cioè di portare la croce. Ciascheduno adunque tolga la sua croce e segua nostro Signor Gesù Cristo che ci disse: colui che ama l'anima sua sacrifichi la vita presente per amor mio, e così guadagnerà la vita eterna. Io pure vi prego {55 [201]} tutti, o figliuoli miei, ad essere solleciti non solo verso di voi, ma ancora verso ai vostri parenti, amici o conoscenti. Pertanto se alcuno di voi ha un amico o un parente che sia ancora gentile e che desideri venire alla fede, non differisca di condurlo a me affinchè sia prima istruito, di poi battezzato.

            Con queste parole il Pontefice voleva dire che se nelle case loro avessero qualcheduno che desiderasse di farsi cristiano, glielo conducessero presto perchè non fossero scoperti dai persecutori prima di ricevere il battesimo.

Ippolito in quel punto prese la parola e parlò così: Padre santo, io ho un nipote di 10 anni ed una sorella di lui di 13, ambidue gentili; sano io che gli ho finora educati e nutriti. La loro madre, di nome Paolina, è mia sorella ed è ancora gentile come lo è pure il padre, chiamato Adria. Questo buon genitore condusse già qualche volta da me la sua famiglia.

            Santo Stefano gli disse che trattenesse presso di se que' giovanetti per vie più instruirli, mentre i parenti andandoli a cercare, fossero in certa maniera obbligati ad udire a parlare della cristiana religione. {56 [202]} Due giorni dopo i nominati fanciulli vennero da s. Ippolito portandogli alcuni alimenti. Egli li ritenne presso di sè. Mentre si tratteneva seco loro in pii ragionamenti, sopraggiunse pure il santo Pontefice, il quale vedendo que' fanciulli teneramente li abbracciò, e ad esempio del Salvatore li benedisse, e con parole piene di carità li animò a rimanere fermi nel proposito di abbracciare la fede.

            I parenti solleciti pei loro figliuoli li andavano cercando, e giunsero in quel momento che il nostro Santo li instruiva intorno al tremendo giudizio che Dio sarà per faro di noi in fine della vita. Accennava la gloria preparata ai buoni in cielo, e li esortava con molti argomenti a voler abbandonare gli idoli. Dopo le parole del Pontefice san Ippolito andava ripetendo e spiegando le medesime verità che avevano già udito.

            Paolina, che aveva in orrore la religione cristiana, rispose al Pontefice e a s. Ippolito dicendo: si fa presto a dire di abbracciare la fede, ma bisogna riflettere che farsi cristiani è lo stesso che spogliarsi dei proprii beni ed esporsi da un momento all'altro a morir di spada. Indi Paolina ed Adria, ambidue meditando fra sè le verità {57 [203]} perfettamente beato chi ne va al possesso. Nonostante queste chiare ragioni Paolina differì la decisiva risposta fino al giorno seguente. Ma la divina misericordia voleva guadagnare quelle anime al Cielo; e non bastando le ragioni volle Iddio operare un miracolo che doveva essere causa della conversione di molti altri gentili. Il miracolo fu questo.

            In quella medesima notte due genitori cristiani portarono ad Eusebio un loro figliuolo paralitico perchè fosse battezzato. S. Ippolito invitò tutti gli astanti a pregare, ed egli stesso si prostrò a fare fervorosa orazione; di poi amministrò al fanciulle il sacramento del Battesimo: ma mentre la grazia di Dio guariva le piaghe dell'anima, l'acqua maravigliosa toccando il corpo del fanciullo gli restituì la più florida sanità. Guarito dalla sua paralisia riacquistò la loquela, e sciogliendo la lingua si pose a lodare il Signore. Per ringraziare Iddio della misericordia loro usata, Eusebio celebrò la santa Messa; gli altri fedeli l'assistettero, e in fine della medesima parteciparono tutti del Corpo e del Sangue di G. C. Santo Stefano avendo udito tali cose si portò anch'egli in quella radunanza di fedeli, e {58 [204]} udite, si ritirarono senza però dare consentimento o rifiuto di farsi cristiani.

            Santo Stefano provò grande rincrescimento perchè vide allontanarsi da sè quelle anime, che egli credevasi di poter guadagnare a Gesù Cristo. Per fare novella prova chiamò a sè un dotto sacerdote, di nome Eusebio, e un diacono di nome Marcello. Li mandò ambidue ad Adria e Paolina, affinchè continuassero l'opera incominciata. Partirono i due ministri del Signore e andarono in una parte delle catacombe dove erano Adria e Paolina, e con parole piene di carità e di amor di Dio li invitarono a fermarsi alcuni istanti, quindi cominciarono a parlare così: Ascoltate le nostre parole, esse sono portate a voi in nome del Signore. Gesù Cristo vi invita e vi aspetta con lui nel regno de' Cieli.

            Paolina si oppose tosto dicendo essere meglio godere la gloria del mondo, che a' suoi occhi sembrava più grande della gloria celeste, che non si può conseguire se non con tanti pericoli della vita presente.

            Eusebio le fece tosto osservare che la gloria del mondo è fugace, dura poco e inganna chi la cerca; al contrario la gloria del regno de' cieli dura in eterno e rende {59 [205]} tutti pieni di santa allegrezza rendettero grazie al Signore.

 

 

Capo XII. Adria e Paolina abbracciano la fede - Scaltrezza di Massimo carceriere.

 

            Fattosi giorno Adria e Paolina ritornarono nel medesimo luogo, ove trovarono quella pia radunanza in atto di separarsi ed andarsene ciascuno alla propria casa. Quei fedeli raccontarono con gioia il prodìgio da Dio operato nel restituire la sanità al fanciullo. A quel racconto Adria e Paolina sentironsi commossi ed eccitati dalla luce della verità, che loro illuminava la mente, e dalla grazia di Dio che loro moveva il cuore, si posero ginocchioni e chiesero il battesimo. S. Ippolito si volse a s. Stefano e disse: Padre santo, l'opera di Dio è cominciata, deh! non tardate a compierla amministrando a costoro il santo battesimo.

            Il Pontefice, volendo vie meglio assicurarsi delle disposizioni dei novelli convertiti, disse: si compiano le solite formalità; siano interrogati intorno alle verità della fede, e si faccia loro notare a quali pericoli {60 [206]} espongano le loro sostanze e la loro vita abbracciando la religione cristiana.

            Furono pertanto instruiti nei misteri della fede, facendo loro specialmente osservare quanto fosse grande la dignità del cristiano dinanzi a Dio, ma a quanti pericoli li esponesse dinanzi agli uomini: come un cristiano doveva essere disposto a perdere tutto, ed andare incontro alla morte stessa piuttosto di fare e dire cosa contraria alla fede ricevuta.

            Tali parole invece di intimidire Adria e Paolina non facevano che accrescere nel loro cuore il desiderio di farsi cristiani. Laonde dopo essersi preparati colla preghiera e col digiuno fu loro amministrato il santo battesimo. Il fanciullo prese il nome di Neone, e la fanciulla in onore della gran madre di Dio fu detta Maria. Fatte queste cose, il santo Pontefice per ringraziare Iddio e per compiere la sacra funzione coll' atto più solenne dì nostra religione, celebrò per loro il santo sacrificio della Messa, in fine della quale parteciparono tuttti del corpo e del sangue di nostro Signore Gesù Cristo. Poscia santo Stefano partì, e quelli, che avevano poco prima ricevuto il battesimo, rimasero in {61 [207]} quelle catacombe con Ippolito per confermarsi vie più nella fede e vivete lontani dai pericoli, che in ogni tempo, ma specialmente allora s'incontravano nel mondo. Per dare poi un segno che col battesimo avevano ricevuto la carità di Gesù Cristo, e rinunciato al mondo mandarono a distribuire ai poveri le sostanze che possedevano in città.

            Sebbene quelle cose si facessero in segreto, tuttavia la notizia che Adria, la sua famiglia e molti altri avevano ricevuto il battesimo, si divulgò e giunse fino all'orecchio dell' imperatore Valeriano. Indispettito egli tosto ordinò che fossero con sollecitudine ricercati, e perchè le spie si dessero maggior impegno per iscoprirli, promise che la metà dei beni d'ogni cristiano trovato fosse data allo scopritore.

            Un segretario delle carceri di nome Massimo, agognando onori e ricchezze, studiò un' arte fino allora non usata per trovar cristiani. Si finse cristiano, e vestito da povero mendicante cominciò a chiedere limosina. Si portò su quella parte del monte Celio, che appellasi Aia Carbonaria, ove si fermò dimandando carità.

            Di lì a poco passò colà Adria co' suoi {62 [208]} compagni e nel suo passaggio dava limosina a tutti i poveri cui passava vicino. Massimo volendo far prova se egli fosse colui che cercava, gli disse: per amore di Gesù Cristo, in cui io credo, vi prego di aver compassione della mia miseria e farmi qualche limosina. Adria commosso gli disse di seguirlo fino a casa sua. Massimo voleva servirsi della carità con fine perverso, e conoscere ove abitassero i cristiani, e consegnarli di poi in mano ai persecutori. Ma Iddio che è padrone del cuore degli uomini sa cangiare i lupi rapaci in mansueti agnelli.

 

 

Capo XIII. Massimo, assalito da uno spirito maligno, si pente, chiede il battesimo e muore martire.

 

            Mentre Massimo voleva entrare nella casa di Adria fu sorpreso da uno spirito maligno che gli cagionava violente contorsioni, e facevalo dare in grida spaventose. Voi, andava dicendo, voi siete uomini del Signore, io sono un vostro delatore. Voleva ingannar voi e la mano del vostro Dio si aggravò sopra di me. Ohimè! Io sento un densissimo fuoco ardere sopra di me. Per {63 [209]} pietà pregate per me, io sono orribilmente tormentato da questo fuoco. Quei fedeli, anch' essi spaventati dallo stato di quell'infelice, si posero a pregare. Dio ascoltò quelle fervorose preghiere, e Massimo rimase guarito sull'istante.

            Tosto lo presero e lo alzarono da terra, ed egli vie più confortato dalla grazia del Signore cominciò a gridare: periscano gli Dei e quelli che li adorano, io non riconosco più altri che il vero Dio Creatore di tutte le cose, nè altro più io domando se non di essere battezzato. Il fatto era grave, e per agire con prudenza condussero Massimo da santo Stefano. Il Pontefice ringraziò Iddio che avesse condotto a lui un persecutore per farlo cristiano, volle egli medesimo instruirlo nella fede, e finalmente gli amministrò il sacramento del Battesimo. Massimo così rigenerato nella grazia del Signore non sapeva più staccarsi da santo Stefano; e per istruirsi vie più nella fede dimorò più giorni col medesimo sommo Pontefice.

            Qualche tempo dopo l'imperatore venne a sapere che Massimo erasi fatto cristiano. Tale notizia lo riempì di dispetto, e tosto mandò altri satelliti a cercarlo affinchè lo {64 [210]} menassero a lui. Quegli emissarii trovarono Massimo in sua casa ginocchioni che pregava. Lieti di quella scoperta il presero tosto, lo legarono e lo condussero a Valeriano. Come, gli disse l'Imperatore, ti sei anche tu lasciato acciecare dal danaro a segno di mentire le promesse che mi hai fatte?

            Massimo senza alcun rispetto umano rispose: nissun danaro mi ha acciecato; anzi finora sono io stesso vissuto nella cecità e nelle tenebre dell'errore. Ora la luce della verità risplendette agli occhi miei e mi illuminò.

            Valeriano. Da qual luce furono gli occhi tuoi illuminati?

            Massimo. Io sono stato illuminato dalla luce della fede nel Signor nostro Gesù Cristo.

            Valeriano all'udire che il suo medesimo custode delle carceri professavasi cristiano alla sua presenza, non potè contenere lo sdegno, e die ordine sull'istante che egli fosse messo a morte coll'essere precipitato giù in un fiume. Eusebio, quel sacerdote che era stato testimonio della conversione di Massimo, nol perdette di vista in mezzo ai pericoli, notò il luogo dove era stato {65 [211]} gettato; andò in cerca del suo corpo, ed avendolo trovato, lo portò a seppellire nel cimitero di s. Callisto.

            Questo fatto compievasi ai 20 di gennaio dell'anno 259.

 

 

Capo XIV. Interrogatorio e ricerca de' cristiani. Martirio di s. Ippolito e de' suoi compagni.

 

            Il martirio di s. Massimo non fu che il principio dello spargimento del sangue cristiano. L'imperatore, ben lungi dal calmare la sua collera, ne fu vie peggio irritato, e die' ordine a settanta de' suoi più abili satelliti di cercare cristiani da tutte parti. Costoro giunsero presto a scoprire Eusebio, Adria, Ippolito, Paolina co' loro due figliuoli ed un diacono di nome Marcello. Que' manigoldi, contenti come se avessero scoperto il più gran tesoro del mondo, li condussero tutti nel Foro Traiano, che è una vasta piazza nel centro di Roma.

            Un giudice di nome Secondiano si volse ad Adria, e gli disse:

            Qual è il tuo nome?

            Adria: Io mi chiamo Adria.

            Giudice: Da chi hai avuto le ricchezze {66 [212]} che tu vai spendendo per sedurre il popolo?

            Adria: Le ho avute dalla bontà del Signor mio Gesù Cristo e dalle fatiche dei miei parenti.

            Giudice: Dunque se i tuoi parenti lasciaronti le loro ricchezze, impiegale pel tuo bene e non a danno altrui.

            Adria: Io non uso le mie ricchezze a danno di alcuno; spendo ogni mio avere pe' miei bisogni e per quelli de' miei figliuoli e di tutta la mia famiglia.

            Giudice: Hai figliuoli e moglie? Dove sono?

            Adria: Sì: ho moglie e figliuoli, e sono costoro medesimi che vedi qui vicino a me stretti fra le catene.

            Dopo tale interrogatorio furono tutti condotti nella carcere Mamertina, che è un luogo de' più tetri ai pie del Campidoglio, dove rimasero rinchiusi quasi un anno gli apostoli s. Pietro e s. Paolo.

            Tre giorni dopo furono condotti di nuovo avanti al giudice, che, nulla curandosi di religione, voleva sapere dove fossero le ricchezze di Adria. Egli le aveva già fatto cercare in varii luoghi, e nulla aveva potuto trovare. Fatto preparare ogni genere di {67 [213]} tormenti, usò tutte le arti per indurli a fare con turibolo e incenso onore agli Dei. Ma eglino li sprezzavano sputando contro di quelli: e burlandosi dei medesimo giudice.

            Allora egli li sottopose a molti e prolungati tormenti, nei quali Paolina, Marcello ed Eusebio lasciarono la vita.

            Dopo tali cose, Secondiano fece condurre a sua casa Ippolito ed Adria co' suoi figliuoli, sempre nella speranza di venire in cognizione ove fossero le ricchezze di Adria. Ma i santi martiri gli tolsero ogni speranza, dicendo: Noi abbiamo già dato ogni nostra sostanza a' poveri; l'unico tesoro, che ancora ci rimanga, sono le nostre anime, e queste non daremo mai per qualsiasi cosa del mondo. Lascia perciò a parte ogni lusinga per sedurci; metti in esecuzione gli ordini ricevuti.

            Allora Secondiano fece mettere alla tortura Neone e Maria. Il padre faceva loro coraggio, dicendo ad alta voce: Animo, figliuoli miei, breve è quello che dovete patire: ma eterna è la ricompensa che Dio sarà per darvi in futuro; animo... Mentre erano così tormentati, que' prodi giovanetti non dicevano altro che: Gesù, Signor nostro, aiutateci! {68 [214]}

            Il giudice, vedendo che non otteneva alcuna cosa tormentando i figliuoli in faccia al padre, pensò di tormentare Adria ed Ippolito in presenza de' medesimi figliuoli. E affinchè i dolori fossero più sensibili, ordinò che si accendessero fiaccole, e con queste si abbruciassero i fianchi ad Adria e ad Ippolito.

            Ippolito faceva coraggio a tutti, e diceva al tiranno medesimo:

            Fa pure quanto ti è comandato.

            Secondiano con finta compassione diceva: Fate senno, badate a salvare voi stessi; dite solo: ti ubbidiremo, e sarete salvi.

            Ippolito rispose: Tu ci proponi sacrifizi e cibi corruttibili di questo mondo; ma a noi è già preparato un cibo immortale che non si corromperà mai più.

            Secondiano, prendendo un aspetto feroce, diede ordine che Neone e Maria fossero condotti fuori di Roma ad un luogo detto Pietra scellerata, e colà sotto gli occhi del padre venisse loro tagliata la testa. La quale sentenza fu sull'istante eseguita.

            Otto giorni dopo, Secondiano fece per l'ultima volta comparire Adria ed Ippolito alla sua presenza, e mise tosto in campo la solita questione del danaro, dicendo: {69 [215]} Datemi i denari di cui malamente vi servite per trarre il popolo in errore ed alla morte.

            Adria rispose: Non è così; noi predichiamo unicamente Gesù Gristo, che si degnò di liberarci dall'errore, nè conduciamo alcuno alla morte, ma facciamo quanto possiamo per dare a tutti la vita. Senza badare più oltre alla risposta, il giudice comandò che fossero battuti nelle mascelle colle sferzate, intanto che un satellite ripeteva loro sotto voce: Sacrificate agli Dei, offerite loro incenso.

            Ippolito tutto grondante di sangue non cessava di gridare: Fa pure quello che vuoi, o miserabile, noi non eseguiremo giammai i tuoi perversi comandi.

            Secondiano allora comandò che fossero condotti ad un luogo detto Ponte Antonino. Colà giunti, furono sottoposti ad una crudelissima e lunghissima flagellazione, durante la quale resero le loro anime al Signore. Il martirio di questi fervorosi e coraggiosi discepoli di santo Stefano compievasi il giorno terzo dicembre l' anno 259, sette mesi prima del martirio dei loro Maestro. {70 [216]}

 

 

Capo XV. S. Stefano esorta il suo clero alla fermezza nella fede. - Conferisce gli ordini sacri; a molti altri amministra il Battesimo.

 

            Dopo il martirio di s. Ippolito e de' suoi compagni, la persecuzione contro ai cristiani diventò più feroce. Molti per fuggire la barbarie dei tiranni, si erano nascosti, o fuggivano in paesi stranieri per vivere sconosciuti; altri poi affrontavano i pericoli e riportavano la gloriosa corona del martirio. L'imperatore aveva già promulgato una legge con cui dava la metà delle ricchezze di ciascun cristiano a chi lo avesse denunziato. Ora ne promulgò un'altra che non solo la metà, ma ne dava tutte le sostanze; di più dava facoltà allo scopritore di chiedere qualsiasi grado militare che gli fosse stato di gradimento.

            Santo Stefano conobbe tosto i gran pericoli, cui sarebbero esposti i cristiani per queste leggi, onde radunati i suoi preti, prese a parlare così: Miei fratelli e compagni, avete udito le diaboliche leggi pubblicate contro di noi. Ogni cristiano, scoperto come tale, è spogliato di sue ricchezze, che tutte sono {71 [217]} date al delatore. Voi pertanto, o fratelli, rigettate con orrore le sostanze terrene a fine di assicurarvi il regno celeste. Non vogliate temere i principi del secolo; temete unicamente il Signore Iddio del cielo e Gesù Cristo suo figliuolo. Preghiamolo, egli solo può liberarci dalle mani dei nemici e dalla perfidia del demonio, e tenerci a lui uniti colla sua santa grazia. Un sacerdote di nome Bono sì alzò dal mezzo dell'adunanza e a nome di tutti parlò cosi: Noi seguiremo il vostro consiglio, o beatissimo Padre, e desideriamo di abbandonare ogni terrena facoltà, e dare il sangue e la vita per glorificare il nome del Signor nostro Gesù Cristo. Questo desideriamo, purchè egli ci trovi degni di così grande favore.

            Dette tali cose, tutti quei sacerdoti si prostrarono a terra dicendo: Padre santo, noi siamo pronti ad ubbidirti in ogni cosa; e tutti preparati a vivere e morire con te.

            Di poi dissero: Se taluno di noi ha nella sua casa fanciulli gentili, oppure qualche parente o vicino non battezzato, conduciamoli tutti ai piè del santo Padre, affinchè siano da lui battezzati.

            Santo Stefano comandò che nel dì seguente {72 [218]} i fedeli si radunassero nella cripta detta Nepoziana, che trovasi entro la città di Roma ai piedi del colle Viminale, nel viottolo detto anche oggidì Patrizio[3]. Si adunarono in numero di cento otto tutti guidati da vivo desiderio del Battesimo. Santo Stefano li appagò tutti, amministrando loro questo Sacramento; di poi in quel medesimo sotterraneo offerì il santo sacrificio della Messa per invocare la benedizione del Signore sopra que' novelli {73 [219]} battezzati. Essi assistettero con fervore e con gioia alla santa Messa, e infine si cibarono tutti del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Il giorno dopo, il Pontefice tenne in quello stesso luogo la sacra ordinazione, e consacrò tre sacerdoti, tre diaconi e sedici chierici degli ordini minori. Di poi si pose ad ammaestrare tutta quella santa adunanza intorno alle cose della vita eterna, facendo specialmente notare il premio grande che il Signore tiene in cielo preparato a chi persevera nel suo servizio fino alla morte.

            Saputosi il luogo ove santo Stefano soleva spiegare le verità della fede, molti gentili ricorrevano a lui per ascoltarlo ed essere da lui medesimo battezzati.

 

 

Capo XVI. Santo Stefano battezza il tribuno Nemesio, e con un miracolo guarisce la figlia di lui dalla cecità.

 

Tra coloro che ricorrevano a santo Stefano fu un tribuno dei soldati di nome Nemesio. Aveva questi una figliuola unica che fin dalla fanciullezza teneva gli occhi aperti senza però poter vedere cosa alcuna. Egli {74 [220]} aveva già udito raccontare cose maravigliose intorno alle bellezze della cristiani religione, e intorno ai miracoli che s. Stefano andava ogni giorno operando. Pieno pertanto di fiducia nel santo Pontefice, si recò da lui dicendo: Ti prego, o uomo di Dio, di dare il Battesimo a me ed alla mia figlia, affinchè quella acquisti la luce degli occhi, o nel tempo stesso possiamo ambidue liberare le anime nostre dall'eterna perdizione. Io ti assicuro. o venerando Padre, che finora vissi sempre nelle pene e nell'afflizione a motivo della cecità di questa mia figlia.

            S. Stefano disse: Se avete fede e credete con tutto il vostro cuore, tutte le cose vi saranno concesse.

            Nemesio disse: Io credo di tutto cuore, e credo che lo stesso Signor Gesù Cristo è Dio. Credo che egli apri gli occhi di un cieco nato; ed ora sono venuto a' tuoi piedi non consigliato dagli uomini, ma inspirato e chiamato dal medesimo Gesù Cristo.

            Santo Stefano, contento delle buone disposizioni di Nemesio e di Lucilla, sua figliuola, li mandò a poca distanza alla chiesa detta del Pastore, ove li instrui egli medesimo nelle verità della fede. In fine per {75 [221]} vie meglio disporli a ricevere la grazia del Signore, comandò un giorno di digiuno. Alla sera di quel giorno il santo Pontefice benedisse dell' acqua, come noi facciamo al fonte battesimale, di poi battezzò Nemesio, dicendo: Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.

            Fatte queste cose, il Pontefice si Tolse alla figliuola di Nemesio e disse: Lucilla, credi tu in Dio padre onnipotente?

            Lucilla rispose: Credo.

            Pontefice: Credi in Gesù Cristo Signor nostro?

            Lucilla: Io credo.

            Pontefice: Credi la remissione de' peccati?

            Lucilla: Credo.

            Pontefice: Credi la risurrezione della carne?

            Lucilla: Si, o Signore, io credo.

            Compiute tali cerimonie, il Pontefice amministrò a Lucilla il sacramento del Battesimo. Mentre però la grazia del Signore lavava le macchie dell'anima di Lucilla e le illuminava la mente, Dio con un miracolo guarì la cecità degli occhi di lei. Perciocchè nell'atto che era tratta dal fonte battesimale si mise gridare ad alta voce: {76 [222]} Ecco che io vedo un uomo, il quale mi toccò gli occhi, ed una gran luce era attorno a lui. Sparsasi la voce che erasi operato un miracolo a favore di Lucilla, e che suo padre aveva anch'egli ricevuto il Battesimo, molti altri di ogni età e condizione correvano a santo Stefano per farsi instruire nella fede. S. Stefano li accoglieva tutti con bontà, e secondando il loro desiderio, li battezzava. In quel tempo non potendosi più fare altrove le sacre funzioni, il Papa radunava i fedeli nelle grotte per instruirli ne' loro doveri, celebrando or qua or là il sacrificio della santa Messa.

            Nemesio poi divenne un fervoroso cristiano; santo Stefano, vedendolo fermo nella pietà, lo ammaestrò ancora qualche tempo nelle scienze ecclesiastiche, ed infine lo ordinò diacono.

 

 

Capo XVII. Massimo è punito mentre fa sacrifizio al demonio. - Nemesio è fatto prigioniero.

 

La guarigione miracolosa della figliuola di Nemesio, e la conversione di ambidue al cristianesimo eccitò a sdegno l'imperatore; onde risolse di prendere energiche {77 [223]} misure contro ai progressi della fede, e chiamò a consiglio i consoli Gabrione e Massimo. Di comune accordo decretarono di cercare Nemesio ove fosse, e punirlo senza ascoltare alcuna difesa.

            Benchè Nemesio sapesse che si andava in cerca di lui, tuttavia, risoluto di affrontare ogni pericolo e di dare anche la vita per la fede, girava per quelle vaste catacombe e per la città, affine di portare soccorso a que' cristiani che avesse trovato in bisogno. Una sera nell'oscurità della notte, mentre camminava lungo la via Appia, a mezzogiorno di Roma, giunse presso ad un tempio di Marte, in cui erano un certo Valerio ed il console Massimo, che, secondo il rito de' gentili, facevano sacrifizio ai demonii.

            Nemesio, vedendo creature ragionevoli dimenticar il loro Creatore per sacrificare ai demonii, ne fu profondamente addolorato. E per avere qualche conforto nel suo cuore, pregò il Signore Iddio, dicendo: Dio grande, creatore del cielo e della terra, disperdi i consigli diabolici, e in nome di Gesù Cristo Signor nostro, schiaccia Satana, affinchè questi infelici possano svincolarsi da' lacci di lui, ed abbandonando {78 [224]} gli idoli, conoscano te, Creatore, Padre onnipotente, e Gesù Cristo tuo figliuolo.

            Dio ascoltò le preghiere del suo servo, dimostrando la sua potenza con un fatto terribile. Mentre Massimo era tuttora prostrato dinanzi al dio Marte a dæmonio arripitur, il demonio, ossia uno spirito maligno, lo assale, lo agita, lo tormenta e lo mette come in una specie di furore. Egli si alza spaventato, corre qua e là gridando: Me infelice: Nemesio mi ha precipitato in un orribile incendio; le sue preghiere mi cagionano terribili dolori.

            Atterriti i compagni, escono dal tempio, osservano ove sia Nemesio, e vistolo appena, gli si avventano, lo incatenano e lo coprono di battiture e di maledizioni. Ma mentre sfogano così la loro rabbia contro di Nemesio, Massimo, mandando urla strazianti, viene strozzato dal demonio, e muore disperato.

            I compagni di Massimo invece di aprire gli occhi alla verità, che Dio voleva far loro risplendere, divennero più ostinati, e volendo in qualche maniera vendicarsi conducono Nemesio da Valeriano perchè sia da lui medesimo giudicalo. L'imperatore a {79 [225]} quello strano racconto della morte di Massimo fu anch'egli sorpreso da, timore. Paventando forse qualche sinistro accidente per lui, reputò cosa migliore parlare alle buone. Disse pertanto a Nemesio: Io sono maravigliato a quanto mi raccontano di te. Dove andò quella tua sagacità e prudenza tanto da me conosciuta nel dar consiglio e nel maneggio degli affari più gravi? Forse noi non sappiamo che cosa sia bene, che cosa sia male? Ascoltaci, o Nemesio, appigliati al mio consiglio, io dirò quello che è più utile a te; e a te farai cosa utile se, conosciuta la verità, continuerai a venerare quegli Dei, che fin dalla tua infanzia hai onorati.

            Nemesio fu commosso al sentirsi ricordare i falli della sua vita passata nell'errore onde colle lacrime agli occhi rispose: Pur troppo, o Valeriano, in passato ho avuto la disgrazia di sprezzare la verità e fare spargere il sangue degli innocenti cristiani. Ora, sebbene carico di peccati, ho trovato misericordia agli occhi di Dio. È vero che assai tardi è stato il mio pentimento, ciò non ostante Dio mi accolse, e col suo aiuto conobbi il vero Dio, Creatore del cielo e della terra ed il suo figliuolo {80 [226]} Gesù Cristo Signor nostro; il quale mi riscattò col battesimo. Esso è quel Gesù Cristo che aprì gli occhi alla mia figliuola, la qual cosa niun medico finora potè ottenere. Quel medesimo Gesù Cristo illuminò le tenebre della nostra mente e la cecità del nostro cuore, e coll'aiuto della sua santa grazia abbiamo rigettato la superstizione della cieca idolatria, ci siamo convertiti al vero Dio. Questo Dio è quello che io temo e adoro; ad esso offro gli omaggi della mia servitù; io vado sempre in cerca di lui e del suo aiuto. Per la qual cosa io rigetto con orrore gli idoli vani che sono opera delle mani degli uomini. Io ho conosciuto che gli idoli sono demonii i quali cercano di condurci seco loro all'eterna perdizione.

            Valeriano frenò ancora il suo sdegno e con voce calma ripigliò: Io so quali sono le opere tue, e so pure che colle tue magiche parole (voleva dire colle tue preghiere) hai tolto di vita il console Massimo; e so pure, soggiunse in tuono minaccioso, che sotto al pretesto di promuovere la religione cristiana fai ogni sforzo per recar danno a noi e mettere sossopra la nostra repubblica. Dette tali parole, senza {81 [227]} nulla attendere diè ordine che Nemesio fosse condotto in prigione.

 

 

Capo XVIII. Valeriano fa mettere in prigione Lucilla e Sinfronio economo di Nemesio. - Facendo quegli una preghiera distrugge un idolo.

 

            Chiuso Nemesio in prigione, l'imperatore die ordine di ricercare Sinfronio creditario, cioè economo ed amministratore delie sostanze di Nemesio. Valeriano pensava poter iscoprire per mezzo di lui dove fossero i tesori tanto desiderati. A questa aggiunse un'azione la più malvagia: comandò che Lucilla fosse messa in carcere e affidata a perfide compagne affinchè la pervertissero. Perciocchè i nemici dell'anima, se riescono a farci cadere ne' vizi, con facilità ci fanno prevaricare nella religione. Intanto Sinfronio fu menato all'esame davanti Olimpio tribuno, che cominciò ad interrogarlo così: Ascoltami, o Sinfronio, e fa quanto ti comandano i nostri principi; imperciocchè se non li ascolti chi sa a quante sciagure andrai soggetto, e forse la morte ne sarà la fine. Portaci qua tutte le sostanze di Nemesio, fa un sacrifizio ai nostri Dei. {82 [228]}

            Sinfronio rispose: se tu cerchi le sostanze di Nemesio mio padrone, è inutile ogni fatica; perciocchè egli nella persona dei poveri le ha già date tutte a Gesù Cristo che ne è il vero padrone. Se poi desideri che io faccia un sacrifizio lo fo volentieri, ma il mio sacrifizio è di lode e di confessione sincera a Gesù Cristo mio Signore.

            La santa risposta di Sinfronio dispiacque ad Olimpio, che senza dir altro ordinò che egli fosse tormentato in molte guise, di poi così grondante di sangue venisse a viva forza condotto o portato dinanzi ad un simulacro di bronzo che rappresentava Marte.

            Sinfronio giudicando follia intollerabile il credere a quella stupida divinità, fece a Dio questa preghiera: Il Signor nostro Gesù Cristo figlio di Dio vivo ti spezzi e ti disperda. Sull'istante quel simulacro divenne molle come fango e rovinò interamente.

            A tal vista maravigliato Olimpio comandò che Sinfronio fosse condotto in sua casa per farlo tormentare e costringerlo come diceva, a svelare le sostanze di suo padrone. A tal fine lo diede a custodire ad un suo agente di nome Tertullino. {83 [229]}

            Sulla sera giunse a casa la moglie di Olimpio, che chiamavasi Esuperia, cui egli con premura raccontò quanto era succeduto nella guarigione della figlia di Nemesio e nel simulacro di Marte; e come tutto fosse avvenuto alla semplice invocazione del nome di Gesù Cristo. Quella donna assennata, mossa certamente dalla grazia di Dio, stette qualche momento pensierosa, di poi disse al marito: Se la potenza di Cristo è cosi grande come tu mi dici, reputo per noi cosa migliore abbandonare quegli Dei che non possono recare alcun soccorso nè a sè, nè a noi. Cerchiamo quel Dio che illuminò la figlia del tribuno Nemesio e che disperse il simulacro di Marte, egli certamente ci proteggerà.

            Olimpio ascoltò ogni cosa e senza rispondere disse a Terlullino: io ti raccomando di trattare col debito riguardo quest'uomo, imperciocchè io ho bisogno di sapere da lui dove siano i tesori di suo padrone. {84 [230]}

 

 

Capo XIX. Olimpio, sua moglie ed i figli si convertono alla fede e sono da s. Stefano battezzati.

 

            Olimpio andava in cerca di tesori temporali, ma Iddio voleva fargli palese un tesoro celeste, la via della salute. Nel corso di quella notte quel tribuno, sua moglie e suo figliuolo, di nome Teodolo, non potendo prendere sonno, ad ogni momento andavansi a vicenda raccontando il miracolo della guarigione di Lucilla e della rovina del simulacro di Marte. In fine illuminati da Dio si recarono da Sinfronio e gli dissero: noi abbiamo ora conosciuto che Gesù Cristo è Dio vero, figlio di Dio, il quale aprì gli occhi della figlia di Nemesio. Ti preghiamo pertanto a volerci dare il battesimo e purificare le anime nostre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo che tu predichi.

            Sinfronio rimase maravigliato a si inaspettata conversione, e non seppe altrimenti esprimere la sua gioia se non ringraziando Iddio. Di poi li confortò dicendo: Se voi siete pentiti del sangue fatto spargere a' cristiani, e se credete con tutto il vostro cuore, ogni cosa vi sarà concessa. {85 [231]}

            Olimpio rispose con franchezza che credeva in Gesù Cristo, e per dartene prova, disse, ti fo padrone di queste statue d'oro, d'argento, di pietra e di legno' , che rappresentano varie divinità. Questi idoli sono in tuo potere, fanne pure quello che vuoi. Sinfronio gli rispose: questi idoli sono tuoi, e bisogna che tu stesso colla propria tua mano li rompa, e vendendone i pezzi ne impieghi il prodotto a sollievo dei poveri. Se tu farai questo, mi darai prova che credi di tutto cuore in Gesù Cristo.

            Olimpio senza dir parola corse a prendere il martello e si pose a spezzare egli medesimo quegli idoli, e riservando i pezzi d'oro e d'argento a favore de' poveri consegnò alle fiamme quelli che erano di legno; le sculture e le figure di pietra o di marmo furono ridotte in polvere e gettate nell'acqua. Mentre tali cose facevansi, fu udita in quella casa Dna voce che diceva: riposerà sopra di te il mio spirito. Olimpio udendo una voce, senza sapere onde venisse, ne fu spaventato, ma sentissi tosto accrescere la fede in cuore a segno che egli con la sua famiglia nulla più desiderava se non di ricevere il battesimo. {86 [232]}

            Sinfronio fece sapere ogni minima cosa a santo Stefano, che sebbene di notte, partì sull'istante e venne alla casa di Olimpio.

            Colà giunto il pontefice, Sinfronio gli espose il vivo desiderio che Olimpio, sua moglie, suo figlio avevano di ricevere il sacramento dei battesimo. In conferma di quanto diceva gli mostrò i frammenti degli idoli preziosi stati dalla mano stessa di Olimpio spezzati. A tal segno di evidente rinunzia all'idolatria il Pontefice restò commosso e alzando gli occhi al cielo, vi ringrazio, disse, o mio Dio, dì aver tratte queste vostre creature dai lacci del demonio per farle vostri figliuoli ed eredi del paradiso. Come il frumento si vaglia, e rigettata la loppa, il vero e buon frumento si porta nel granaio; così voi a preferenza di tanti gentili vi siete degnato di chiamare costoro alla conoscenza della verità.

            Assicurato adunque delie buone loro disposizioni, il santo Pontefice li instrui nella fede e specialmente in traditione ecclesiastica cioè intorno a quelle verità che non erano registrate nei libri santi, ma da Gesù Cristo affidate alla sua Chiesa, che secondo {87 [233]} il bisogno le insegna e le spiega ai cristiani. Dopo la necessaria istruzione amministrò il sacramento del battesimo ad Olimpio, a sua moglie, a suo figliuolo ed a molti altri di quella famiglia.

            S. Stefano volendo ringraziare Iddio nel modo più solenne celebrò il santo sacrificio della messa a cui assistettero tutti que' novelli cristiani con altri fedeli che colà si erano radunati.

 

 

Capo XX. Martirio di Nemesio e di Lucilla, di Sinfronio, d'Olimpio con sua moglie e suo figlio - Carità di s. Stefano.

 

            Quando Valeriano e Gallieno ebbero notizia del gran numero dei gentili che ogni giorno venivano alla fede, e che i medesimi custodi delle carceri e i tribuni, mandati in cerca di cristiani, eransi fatti cristiani eglino stessi, arsero di sdegno e dissero: la superstizione dei cristiani minaccia distruggere il culto dei nostri Dei, a noi tocca di porvi rimedio. E perchè fosse più efficace, stabilirono che alla morte si unissero tutte quelle più barbare atrocità, che secondo le circostanze inventare {88 [234]} si potessero. Epperò non si contentarono di ordinare che Lucilla senza previo interrogatorio fosse decapitata, ma vollero che il padre fosse presente al martirio della figlia. Ma il forte genitore, pensando che i tormenti di sua figlia erano un mezzo per renderla in eterno beata, ne rese umili grazie al Signore. Nemesio, dopo aver con maravigliosa fortezza assistito al martirio della figlia, fu condotto fuori di Roma tra la via Appia e la via Latina, dove gli venne troncata la testa il giorno 24 luglio l'anno 259.

            Santo Stefano avuta la notìzia della morte di Lucilla e di suo padre andò egli stesso, e prese i loro cadaveri e li portò a seppellire presso alla via Latina così detta, perchè conduce ad un paese dei Romani anticamente detto Lazio o Latino. Il giorno seguente al martirio di Lucilla e di Nemesio, Valeriano mandò a prendere Sinfronio per tenere con lui pubblica udienza. Stretto adunque tra le catene egli viene strascinato da una moltitudine di soldati, quasi nudo e con un laccio al collo. Anche Olimpio è condotto colla moglie e col figlio Teodolo alla presenza dell'Imperatore.

            Valeriano con finta compassione cominciò {89 [235]} a tener loro questo discorso: Perchè non badate a salvarvi adorando quegli Dei che noi sappiamo essere i governatori del nostro impero e la salvezza del medesimo?

            Sinfronio rispose: Non gli Dei ci governano, ma Gesù Cristo ci ha finora governati, e conservati. Egli è che nella sua grande bontà, si degnò di condurci alla gloriosa dignità di cristiani.

            Gallieno, che pure era presente, prese egli la -parola e disse: Olimpio, bada bene a quello che fai ed a quello che dici. Io differisco ancora qualche momento ad eseguire le pene stabilite contro di te. Perciocchè io dubito che tu creda tali cose, anzi non giudico che tu sii così pazzo da abbandonare quegli Dei che tu stesso sempre adorasti, e che costringesti gli altri ad adorare. Ti ricordi certamente che tu stesso hai fatto spargere tante volle il sangue cristiano pel solo motivo che non volevano adorare i nostri Dei.

            Olimpio rispose: Le cose che tu dici mi coprono di confusione. Io le feci, è vero, ma non come Olimpio, ma come uomo empio e crudele. Di questi mali, che ho commesso, mi pento di cuore e li piango amaramente alla presenza di Colui che io {90 [236]} credo Dio vivo e vero, Padre, e Figliuolo e Spirito Santo. Io spero che egli sarà per rimettermi le iniquità che ho commesso facendo spargere il sangue dei cristiani.

            Gallieno vedendo che nulla poteva ottenere, pieno di sdegno disse: Se questa gente non sarà distrutta, la città di Roma diverrà tutto seguace dei cristiani.

            Valeriano e per appagare il suo collega, e per secondare l'odio che egli pure nutriva contro ai cristiani comandò che tutti coloro che erano presenti fossero condannati alle fiamme. Furono pertanto condotti vicino all'anfiteatro dinanzi ad una statua dedicata al sole. Fatta colà una catasta di materie combustibili, legarono sopra a quella i santi confessori, e vi appiccarono il fuoco. Quando videro che le fiamme cominciavano a circondarli alzarono unanimi le loro voci al cielo, dicendo: Sia gloria a te, Signor nostro Gesù Cristo, che ti sei degnato di annoverarci coi martiri tuoi seni. Poterono appena proferire tali parole che la gagliardia dell' incendio soffocò loro il respiro. Compievano il loro martirio dinanzi al simulacro del sole temporale, mentre le loro anime volarono a godere la gloria de' beati specchiandosi in {91 [237]} eterno nel sole di giustizia, che risplende in tatto il Paradiso per tutti i secoli dei secoli.

            Tale notizia fu subito portata a santo Stefano, il quale di notte venne con parecchi suoi preti e cherici a raccogliere i gloriosi avanzi del corpo di que' martiri e cantando inni a Dio e gloria ai suoi Santi, li portarono a seppellire nella via Latina un miglio lungi dalla città. Questo fatto compienti il giorno 25 d'agosto, l'anno medesimo.

 

 

Capo XXI. Martirio di dodici sacerdoti di s. Stefano - Conversione di Tertullino e suo martirio.

 

            Gli affari politici tennero qualche tempo i due principi Gallieno e Valeriano occupati in altre cose, ma pochi mesi dopo i fatti che abbiamo narrato cioè sul principio dell'anno 260 tornò loro in animo di volere a qualunque costo distruggere il cristianesimo. Per riuscire nella folle loro impresa deliberarono di imprigionare il capo dei cristiani per metterlo quindi a morte. Per dare a tal fatto maggiore pubblicità, ordinarono che l' editto fosse {92 [238]} affisso in tutti i luoghi più frequentati di Roma.

            Intanto un banditore con gran voce andava gridando per le vie e per le piazze: chiunque sappia dove sia nascosto Stefano e i suoi preti lo venga a dire, e gli saranno sull'istante date le sostanze di lui, e sarà nella milizia elevato a quel grado che più gli piacerà.

            Le indagini furono rigorose e in breve furono scoperti dodici sacerdoti che assistevano il santo Pontefice e lo aiutavano nei varii uffizi, come appunto fanno presentemente i cardinali. Appena scoperti, vennero legati, posti in prigione; di poi senza alcun processo condotti a morte. Fu loro troncata la testa nella via Latina vicino ad un luogo che più tardi fu detto cimitero di s. Tertullino.

            Tertullino sebbene fosse ancora gentile procurò di dare onorevole sepoltura a quei dodici martiri di Gesù Cristo. Quando santo Stefano ebbe notizia della bell'opera di carità che Tertullino aveva fatto, lo mandò a chiamare. Perciocchè egli pensava che un cuore, in cui regnava tanta bontà e coraggio, doveva già essere confortato dalla grazia del Signore. Tertullino andò prontamente, e {93 [239]} appena si trovò col Pontefice, dimostrò vivo desiderio di essere instruito nel Vangelo. Il qual desiderio fu pienamente appagato da santo Stefano, che io instruì e

Lo battezzò. Anzi vedendo in lui un'indole buona e propensa alla pietà, e già assai instruito, lo ammaestrò ancora intorno alle scienze ecclesiastiche, e infine lo ordinò sacerdote in quella medesima cripta. Il s. Pontefice diede al novello sacerdote molti avvisi necessari in quei tempi di persecuzione, fra gli altri dicevagli: Fratello, abbi cura di raccogliere i corpi dei martiri e di dar loro onorevole sepoltura.

            Tertullino però potè poco tempo eserci-tare il suo ministero, perciocchè due giorni dopo la sua ordinazione fu scoperto dal prefetto della città e condotto a Valeriano.

            L'imperatore gli fece questa dimanda: dimmi sull'istante dove sono le sostanze di Olimpio tuo padrone.

            Tertuilino rispose: Se ricerchi le sostanze del mio padrone, non potrai più averle, perciocchè egli morendo per Gesù Cristo se le portò con lui al cielo nella vita eterna.

            Valeriano disse: Dunque le sostanze del tuo padrone danno la vita eterna? {94 [240]}

            Tertullino rispose: Sì, le ricchezze della vita presente sono date da Dio, il quale è assoluto padrone delle sostanze e della vita degli uomini; e chi impiega per suo amore!e sostanze date da lui si guadagna la vita eterna ed un regno che non ha più fine.

            Valeriano simile a quei mondani, che non capiscono le cose del Signore, disse: Sembrami che costui sia divenuto pazzo: perciò sia preso e severamente battuto con verghe.

            Mentre era sottoposto a crudele flagellazione, Tertullino sollevando i suoi affetti a Dio diceva ad alta voce: Ti ringrazio, Signor mio Gesù Cristo, che non mi hai separato da Olimpio mio padrone, il quale mi ha preceduto nel martirio.

            Per accrescergli i tormenti fu immerso in una specie di fornace di fuoco fino ai fianchi. Mentre egli pativa quegli atroci tormenti alcuni empi dicevano: sacrilego, che sei, mostraci le sostanze di Olimpio tuo padrone.

            Egli però soffriva tutto con volto allegro e diceva: Fate pure, o miserabili, fate quello che volete fare, fatelo presto, porche con questo incendio temporale voi mi {95 [241]} liberate dal fuoco eterno dell'inferno e mi aiutate a compiere il sacrifizio che io desidero di fare a Gesù Cristo, e cosi giungere più presto alla vita eterna.

            Valeriano stanco di interrogare e di tormentare, affidò Tertullino al suo prefetto dicendogli: Vedi se puoi scoprire da lui ore siano le sostanze di Olimpio, e procura di risolverlo a fare un sacrificio agli Dei. Che se egli continuerà nel rifiuto, lo farai morire fra i tormenti.

            Come l'ebbe in suo potere, il Prefetto gli disse: rifletti bene, o Tertullino, a quello che dico, segui i miei consigli, fa un sacrifizio agli Dei, e rendimi le sostanze di Olimpio; altrimenti la pagherai colla testa.

            Tertullino sempre con calma rispose: Se tu sapessi il pregio della vita eterna, non ti daresti tanta cura della vita presente, che passata nel culto dei demonii, terminerà conducendo al fuoco eterno tutti gli adoratori dei medesimi.

            Tale discorso sembrò al Prefetto una bestemmia, perciò diede ordine che gli fosse pestata la faccia con una pietra: tale era la pena stabilita contro ai bestemmiatori.

            Tertullino ringraziò Iddio che lo rendeva {96 [242]} degno di patire pel suo santo nome, di poi disse al Prefetto: tu mi hai fatto pestare la faccia, ma il mio Signor Gesù Cristo, in cui io credo e che confesso, egli pesterà te e il demonio che fu l'inventore dell'idolatria.

            Il prefetto divenuto ancor più furioso: a che tante ciancie, disse, o manifestarmi le ricchezze del tuo padrone e sacrificare agli Dei, o ti fo sull'istante tagliare la testa.

            Tertullino rispose: il mio aiuto è tutto riposto in Gesù Cristo. Non altro più io desidero che morire per lui: sì per lui dare la vita presente per guadagnarmi la eterna felicità che non ha più fine.

            Allora il Prefetto comandò che Tertullino fosse posto sopra l'eculeo e battuto lungamente con nervi. Tertullino pativa ogni cosa con gioia, nè altro diceva, se non queste parole: Signor mio Gesù Cristo, deh non abbandona questo tuo servo, che confessa il tuo santo nome; donami forza dì perseverare nel tuo servizio per salvare quest'anima, che tu hai riscattato dalla schiavitù del demonio, e così io la possa rendere a te pura siccome lo era allorchè l'hai mondata nel santo Battesimo.

            Dopo molti altri tormenti, dimostrando ognora gran coraggio e fermezza, fu condotto {97 [243]} nella via Latina, due miglia lungi dalla città, dove gli fu troncata la testa. Santo Stefano, quando seppe che il suo caro discepolo era stato coronato del martirio, venne in quel luogo co' suoi sacerdoti e con altri fedeli. Cantando inni a Dio, eglino raccolsero il corpo di Tertullino, e lo seppellirono in quel medesimo luogo, in cui Tertullino aveva dato sepoltura ai corpi de' dodici sacerdoti di santo Stefano. Così Iddio dispose che la misericordia, che Terttillino aveva usata ai defunti, venisse da altri usata ad esso medesimo.

 

 

Capo XXII. Santo Stefano alla presenza di Valeriano. - Condotto ad un simulacro di Marte, fa una preghiera, e quello cade rovinato.

 

            Valeriano aveva già fatto mettere a morte molti cristiani, ma non aveva ancora potuto scoprire santo Stefano, oggetto principale delle sue ricerchi. Per riuscire in questo suo intento, mandò una moltitudine di soldati, che a forza d'indagini, il trovarono mentre egli trattenevasi in pii colloquii co' suoi preti e diaconi.

            Quei birri, lieti di sì preziosa scoperta, {98 [244]} si avventarono contro a quegli inermi e pacifici cristiani, e strettili con catene, li condussero tutti alla presenza di Valeriano. Mentre il Vicario di Gesù Cristo era condotto tra le catene, molti fedeli cristiani lo seguivano piangendo i mali a cui era esposto il padre delle anime loro.

            Valeriano, pensandosi d'incutere timore al Pontefice, volle allontanare tutti gli altri e farlo comparire solo avanti al suo tribunale intornialo da guardie, da assessori e da carnefici. L'imperatore lo adocchiò ben bene in tutta la persona, di poi cominciò ad interrogarlo così: Tu adunque sei quello Stefano che lavori a tutt'uomo per mettere sossopra i nostri stati, e con fallaci insinuazioni cerchi di allontanare il popolo dal culto degli Dei?

            Santo Stefano, senza punto sgomentarsi, con aria grave, rispose: Io non mi ricordo di aver fatto cosa alcuna per mettere sossopra la repubblica; avviso soltanto il popolo che veglia una volta abbandonare gli Dei ovvero i demonii, e conosca il Dio vivo e vero creatore del cielo e della terra; che conosca il suo figliuolo Signor nostro Gesù Cristo, il quale col Padre e collo Spirito S. esiste da tutta l'eternità. Questo io insegno, {99 [245]} affinchè i tuoi sudditi siano felici, e non vadano col demonio all'eterna perdizione.

            Valeriano con beffardo sorriso disse: Tu vuoi impedire che gli altri non vadano alla perdizione, ed io manderò alla perdizione te stesso, affinchè gli altri spaventati temano ugual sorte, e così vivano in pace.

            Quindi comandò che santo Stefano fosse condotto fuori della porta Appia ad un tempio dedicato a Marte con ordine che gli fòsse troncata la testa, qualora rifiutasse di adorare la statua di quella folle divinità.

            Giunto in quel luogo, il santo Pontefice, alzò gli occhi, e rimirò con dolore quel luogo di abominazione, ed alla presenza di molti gentili ed anche di parecchi cristiani che erano colà accorsi, fece questa preghiera: Signore Iddio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che colla confusione distruggesti la torre di Babele, deh! dimostra la tua potenza, e distruggi questo luogo dove intervengono tanti uomini ad adorare i demonii con loro eterna perdizione. Parlava ancora santo Stefano, allorchè un grande rumore a guisa di un tuono mischiato a lampi e fulmini si fa sentire, e va a percuotere quel tempio, che nella massima parte cadde rovinato. {100 [246]} A tal vista atterriti i soldati prendono la fuga, e lasciano solo il santo Pontefice in mezzo ad una folla di cristiani corsi per vedere che ne fosse per essere di lui.

 

 

Capo XXIII. S. Stefano, accompagnato da cristiani, va al cimitero di s. Lucina, dove, celebrato il sacrifizio della s. Messa, compie il suo martirio.

 

            Rimasto libero santo Stefano, si unì ai cristiani che lo circondavano, e andò con loro al cimitero di santa Lucina, che è distante due miglia da Roma lungo la medesima via Appia. Durante il cammino egli procurava di confortare que' fedeli, avvertendoli di non lasciarsi spaventare dalle pene, a cui erano sottoposti i cristiani. Guardatevi, loro diceva, di non lasciarvi ingannare dalle promesse dei tiranni, che colla speranza di cose fallaci vorrebbero farvi perdere la gloriosa corona del martirio. Ricordiamoci, o fratelli, di quanto disse il Salvatore. Non voler temere, Egli diceva, coloro che possono uccidere il corpo, ma che non possono uccidere l'anima; temete piuttosto colui (Iddio), il quale ha la potestà di mettere corpo ed anima nel fuoco eterno. {101 [247]}

            Giunto al luogo stabilito, qual buon pastore continuò ad instruire colle parole di vita eterna coloro che lo avevano accompagnato. Quindi, per ringraziare Iddio dei favori ricevuti, e per invocare l'aiuto del cielo a dar forza e coraggio a lui ed al suo popolo, offrì a Dio onnipotente il sacrifizio della santa Messa, che que' fedeli divotamente ascoltarono. Fu quella l'ultima Messa celebrata dal nostro santo, e per lui fu un vero Viatico che doveva accompagnarlo per l'eternità.

            Valeriano quando venne informato del tempio andato in rovina e della moltitudine de' cristiani corsi a s. Stefano, mandò un maggior numero di soldati con ordine di mettere a morte il Pontefice ovunque lo raggiungessero. Costoro giunsero colà nel momento che il nostro santo celebrava la santa Messa. Senza spaventarsi, continuò il suo sacrifizio, e coll'Ostia santa offrì se medesimo a Dio Padre onnipotente. Indi si pose a sedere sopra la sua sedia, abbandonandosi cosi nelle mani de' suoi carnefici. In quel momento una turba di soldati gli si avventarono e gli tagliarono la testa in quel luogo medesimo. Questo fatto compievasi il 2 agosto, l'anno 260, dopo {102 [248]} aver governata la Chiesa dì Gesù Cristo tre anni, tre mesi e ventidue giorni. - Baronio, an. 260.

 

 

Capo XXIV. Sepoltura di s. Stefano. - Martirio di s. Tarsiccio.- S. Melano, primo vescovo di Rouen.

 

            Gli atti che riferiscono quanto abbiamo dotto intorno al martirio di s. Stefano e de' suoi compagni continuano così. Appena videro estinto il santo Pontefice, un gran numero di fedeli corse piangendo intorno al suo corpo; ma quel pianto era misto con gioia, perchè il loro pastore colla gloria del martirio era volato al regno celeste. Raccolsero quindi il suo corpo e lo seppellirono nella medesima cripta. Nello stesso sepolcro gli misero accanto la sedia sopra cui sedeva quando gli fu dato il colpo di morte, la quale sedia rimase tutta intrisa di sangue. Il luogo di sua sepoltura formò più tardi una diramazione del cimitero di s. Callisto.

            Il dì seguente que' medesimi soldati incontrarono un accolito di nome Tarsiccio, che portava alcune particole consacrate. Imperciocchè in que' terribili tempi di persecuzione si permetteva ai semplici cherici e {103 [249]} talvolta ai medesimi laici di portare la santa Eucaristia agli infermi e a quelli che erano chiusi in carcere. Quei soldati tennero Tarsiccio, e volevano a qualunque costo vedere che cosa seco egli avesse. Tarsiccio nel timore che quelle sante Ostie fossero profanate, per nissun conto le voleva mostrare. Allora que' scellerati lo gettarono a terra e lo uccisero a colpi di bastone.

            Presero quindi il suo corpo, lo alzarono per vedere che cosa tenesse fra le mani, ma nulla poterono vedere. Spaventati allora, lasciarono là quel cadavere e se ne fuggirono. Alcuni cristiani, informati del martirio di Tarsiccio, andarono a prendere il corpo di lui e lo portarono a seppellire nel cimitero di s. Callisto, a poca distanza dal luogo ove era stato sepolto s. Stefano. - Santo Stefano tenne due volte la sacra ordinazione nel mese di dicembre in cui consacrò sei sacerdoti, cinque diaconi e tre vescovi. Tra essi è spacialmente celebre s. Melano o Melone. Egli era nato in Inghilterra da nobile e doviziosa famiglia. Andato a Roma, contrasse relazione con s. Stefano, di cui divenne fervoroso e dotto discepolo. Il santo Pontefice, vedendolo fornito della scienza e delle virtù necessarie {104 [250]} per fare un buon ecclesiastico, lo ordinò prete, di poi vescovo, e lo mandò a predicare il vangelo in una città di Francia detta allora Rotomago, ed oggidì Rouer. Egli è considerato come l'apostolo e primo vescovo di quella diocesi. Gli autori di sua vita ci assicurano che egli lavorò molto per la fede, operò una moltitudine di luminosi miracoli, e finì le sue fatiche apostoliche con un glorioso martirio.

            Questo fatto conferma quanto abbiamo già detto altrove, che tutte le Chiese hanno sempre avuta dipendenza da quella di Roma, come madre di tutte le altre, e che i fondatori delle varie chiese o diocesi della cristianità furono predicatori evangelici mandati o almeno andati col consenso del vescovo di Roma, in ogni tempo venerato per successore di s. Pietro e vicario di Gesù Cristo sopra la terra. (V. TILLERMONT, v. 4, p. 485).

 

 

Capo XXV. Santa Seconda e s. Rufina sorelle vergini e martiri.

 

Poco prima della morte di santo Stefano furono coronate del martirio due sorelle, una di nome Seconda, l'altra Rufina. Appartenevano {105 [251]} esse ad una delle più nobili e ricche famiglie senatorie di Roma. I genitori essendo cristiani, si diedero grande sollecitudine onde insinuare per tempo lo spirito del vangelo nel cuore delle loro fi-gliuole, che crescevano nell'età e nel santo timor di Dio. Esse poi gareggiavano nella virtù; ed era loro delizia il praticare la pietà e consolare i loro genitori con una esatta e pronta ubbidienza.

            I genitori le avevano promesse in matrimonio a due illustri cittadini, uno chiamato Armentario, l'altro Verino. Ma costoro nel furor della persecuzione di Valeriano si lasciarono atterrire dai tormenti e sgraziatamente rinnegarono la fede. Per questo motivo le duo giovani si rifiutarono d'averli per isposi, persuase che sarebbe stata per esse una trista compagnia il vivere con chi aveva tradita la propria religione. Per sottrarsi alle molestie dei loro fidanzati, montarono in una vettura chiusa, volendo fuggire nascostamente nella Toscana. Gli sposi raccomandaronsi ad un certo Archisalao, uomo dato ad ogni delitto, affinchè impedisse la fuga di quelle. Costui co' suoi soldati non esitò un momento di correre a briglia sciolta dietro alle pie zitelle che raggiunse a dodici miglia dalla città. Condottele {106 [252]} a viva forza dinanzi al Prefetto di Roma, gli disse: Ti conduco qua codeste giovani che sono due sacrileghe; esse violano le nostre leggi, negano gli Dei, abbandonano i templi, ed operano contro al benessere de' nostri principi. Esse volevano fuggire; ma io ho saputo compiere il mio dovere, arrestandole e conducendole a te.

            Il Prefetto guardò le due giovanette con occhio di sdegno, e pensando che il trovarsi sole potesse loro tornare di spavento, comandò che fossero condotte in prigione l'una separata dall'altra. Tre giorni dopo fece venire Rufina alla sua presenza, e fìngendo compassione per lei, prese a parlare così: Che cosa mai io sento dire di te, o Rufina! È forse vero che ti sii lasciata avvilire a segno da vivere piuttosto da schiava, che vivere in pace col tuo sposo?

            Rufina rispose: La schiavitù di cui parli è una schiavitù temporale che mi libererà dalla schiavitù eterna del demonio; e le catene che ora mi stringono mi libereranno dalle catene con cui sono in eterno legati i reprobi nell'altra vita.

            Il prefetto ripigliò: Lascia queste vane ciancio e queste antiche favole, e sacrifica agli Dei immortali affinchè tu possa vivere in pace col tuo marito. {107 [253]}

            Rufina soggiunse tosto: tu vorresti persuadermi di due cose imitili e contradditorie, perciocchè consigliandomi a sacrificare agli idoli io perirei in eterno. Di poi mi consigli a prendere marito affinchè io viva con lui in pace. Mi prometti però una cosa dubbiosa dicendo che io posso passare una vita felice col mio sposo, poichè nè io, nè tu sappiamo se domani saremo ancora in vita. Il prefetto trovandosi imbarazzato a rispondere disse indispettito: O cessa di parlare, o ti farò battere colle verghe. Ti do ancora un consiglio, ed è quello di abbandonare codeste vanità e non più perdere inutilmente il tempo che ti resta. Rufina rispose: Questo tuo parlare è migliore del primo, perchè dicendo restarmi ancora qualche tempo, dimostri di credere essere incerta la vita dell'uomo; io pertanto abbraccio quella vita che deve durare in eterno e non lascia alcuna incertezza in chi se ne renderà degno. Questa è quella vita eterna che insegnò il nostro Maestro Gesù Cristo. Perciò ti dico francamente che nè le tue minacce, nè altra cosa del mondo mi potrà allontanare dalla palma della verginità, nemmeno dalla carita di Gesù Cristo. {108 [254]}

            Il Prefetto, scorgendo inutile ogni disputa, fece condurre colà Seconda sua sorella affinchè quella fosse flagellata in presenza di costei. Il Prefetto sperava che Seconda atterrita avrebbe rinnegata la fede.

            Ma Seconda avendo veduta la sorella esposta a crudele flagellazione, si pose a gridare contro il giudice, dicendo: Che fai, o scelleratissimo? Perchè onori mia sorella coi tormenti, e lasci a parte me stessa?

            Il Prefetto disse a Seconda: Tu sei più pazza di tua sorella. Seconda rispose: Non è così; nò io, nè mia sorella siamo pazze, ma siamo ambedue cristiane. Ed è cosa giusta che siamo ambedue flagellate, perchè ambedue insieme confessiamo Gesù Cristo. Il Giudice ancor più sdegnato comandò che fossero chiuse in una oscura e puzzolente prigione, e per rendere più penosa quella dimora fece fare un fumo pestilenziale. Ma quel fumo si cangiò in una fragranza la più odorosa. Sicchè non già la puzza, ma respiravasi un odoro piacevolissimo. Di più scomparsa l'oscurità, ogni angolo del carcere apparve luminoso come fosse di mezzogiorno.

            Il Giudice, per fare un'altra prova, comandò che fossero gettate ambedue in uno {109 [255]} grande caldaia di olio bollente. Le fece restar colà due ore, di poi ordinò di aprire la caldaia per estrarre i loro corpi, ma con sua sorpresa trovò il vaso freddo, l'olio svaporato e le due sante Vergini sane e salve.

            Tal fatto non acquetò il Prefetto, anzi ordinò che loro fosse legato al collo un pesante sasso e venissero precipitate in mezzo alle acque del Tevere. Stettero circa mezz'ora sommerse nelle acque, di poi apparvero sul fiume camminando sulle onde, come aveva fatto s. Pietro, e si avanzarono verso la riva cogli abiti asciutti predicando così la potenza del Signore e la gloria di Gesù Cristo. Il prefetto non sapendo più che fare disse al conte Archisilao: Tu mi hai condotto qua due donne, le quali o sono due grandi streghe, o due grandi sante, giacchè la loro potenza è superiore alla nostra. Io ne ho abbastanza, le rimetto di nuovo a te, con facoltà di lasciarle vivere o farle morire come più ti aggrada.

            Archisilao le condusse lungo la via Cornelia lungi dieci miglia da Roma in un luogo detto Busso. Quel scellerato ordinò che ad una fosse tagliata la testa, e l'altra fece battere con flagelli in modo così cru-dele che spirò sotto que' colpi. {110 [256]}

            I loro corpi furono lasciati insepolti, ma Iddio permise che le loro anime risplendenti di gloria comparissero ad una matrona romana di nome Plautina cui dissero: Plautilla, cessa di adorare gli idoli infami e credi in G. C: va nel tuo podere e troverai i nostri corpi. Dove li troverai, colà stesso ne darai sepoltura.

            Plautilla maravigliata di quella comparsa partì sull'istante e andò al luogo indicato e trovò i corpi di quelle sante vergini che mandavano fragrantissimo odore. Furono onorevolmente seppelliti e sulla loro tomba fu edificata una specie di chiesetta dove cominciarono a venire i fedeli ad invocare la protezione di coloro che avevano data la vita per Gesù Cristo in terra, e che allora erano già e lo saranno in eterno sue dilette spose in cielo.

            Il martirio di queste due sorelle vergini e martiri avvenne il giorno 10 di luglio l'anno 260, ventitrè giorni prima del martirio di s. Stefano. (V. Surio e Boll. 10 luglio).

 

 

Capo XXVI. Culto e miracoli operati ad intercessione di s. Stefano Papa e martire.

 

            Le ossa del Pontefice s. Stefano riposarono per lo spazio di cinquecent'anni nel {111 [257]} cimitero di s. Callisto ove erano state sepólte. La prima traslazione di esse fa fatta dal Pontefice s. Paolo I nell'anno 761. Questo Pontefice nutriva grande divozione verso il nostro santo ed aveva da lui ottenuto molti favori. Volendo dare un segno particolare di divozione verso al medesimo, ordinò una magnifica processione e portò le venerande ceneri entro alla città di Roma in una chiesa detta s. Silvestro de capite[4].

            Più tardi una parte di quelle reliquie fu donata a varie chiese di Roma, ed altre mandate in diversi paesi d'Italia, di Francia. Germania ed altrove, ne' quali luoghi sono venerate con grandi vantaggi spirituali e temporali de' popoli cristiani.

            Per eccitare la nostra fede in Dio e la confidenza nella protezione di questo martire e Pontefice, noi esporremo alcuni miracoli operati da Dio ad intercessione del suo servo. Una insigne reliquia di esse fu {112 [258]} da Roma portata nella città di Trani nel regno di Napoli. Dio dimostrò di gradire il culto prestato al suo servo fedele concedendo molti favori a quelli che lo andavano ad invocare in quel luogo. Fra gli altri avvi quello che segue: Un uomo invaso dallo spirito maligno fu condotto presso quella reliquia per ottenere la liberazione dalle violenze con cui erane continuamente agitato ed oppresso. In quel momento il demonio diedesi a tormentarlo e l'infelice comincia a gridare, fremere, spumare e schiamazzare orribilmente. Fra le altre cose andava dicendo: Perchè mi tormenti, o Stefano? Perchè mi tronchi la testa e mi tagli ad una ad una le membra? Perchè avendo tu riportato il martirio coll'aver tronca la testa, ora mi fai provare nella testa cotanto acuti dolori? Il tuo Signore mi spezzò il capo in croce, ed ora pel tagliamento del tuo capo mi sento spezzare il mio. Queste e molte altre cose andava dicendo il demonio per bocca di quell'infelice, e questo diceva in presenza del vescovo e delle autorità della città e di una moltitudine di popolo. Intanto quell'uomo cessando di parlare, cadde a terra come morto, ma sollevato fu trovato pienamente {113 [259]} guarito. Cosi pure avvenne agli indemoniati guariti dal Salvatore siccome leggiamo nel santo Vangelo.

            La relazione autentica che espone questo fatto contiene anche la maravigliosa guarigione di un uomo travagliato dalla febbre. Quando egli fece ricorso al Santo fu presa dell'acqua, che aveva toccato quella reliquia. Datala a bere al febbricitante, rimase sull'istante guarito. Di qui avvenne che tutti quelli che in qualche maniera erano travagliati dalla febbre, ricorrevano al Santo ed erano guariti. Queste guarigioni straordinarie non ci devono recar maraviglia mentre ci consta dalla Bibbia che s. Pietro, primo Pontefice dopo Gesù Cristo, eziandio nella sua vita mortale col semplice contatto dell'ombra sua guariva tutti quelli che non potevano avvicinarsi alla sua persona.

            Con molte altre maraviglie Dio compiacquesi di glorificare il nostro Santo, tra esse avvi una prodigiosa comparsa di gigli. Quando le mentovate reliquie erano portate a Trani vennero depositate in un luogo vicino alla riva del mare. Nel sito dove erano state deposte operavasi ogni anno una delle più grandi maraviglie. Il 1 agosto, {114 [260]} che è la vigilia della festa del Santo, spuntano in poche ore molti gigli odoriferi, crescono nell'arena, nel terreno secco e ghiaioso, mettono fuori i fiori più deliziosi. Quello strato di gigli estendevasi ad un tratto di terreno di trenta passi intorno al luogo ove erano state depositate le reliquie di s. Stefano.

            Molti ecclesiastici e secolari, mossi da pia curiosità, recaronsi sul luogo per confermare co' loro sguardi quanto avevano da altri udito a narrare; e tutti asseriscono di aver veduto e toccato cespugli di gigli cresciuti nella sabbia asciutta che si può chiamare un ammasso di ghiaia. Questi fatti sensibili, pubblici e ripetuti ogni anno servirono efficacemente ad accrescere la divozione de' fedeli verso il Santo martire con grande vantaggio spirituale e temporale di quelli che facevano a lui ricorso. (V. Boll. 2 ag.).

            Poniamo termine a queste maraviglie aggiugnendo il racconto di due favori ottenuti invocando il nome di s. Stefano Papa e martire. Il primo fu ottenuto da un vetturino del regno di Napoli di nome Radda Domenico. Costui guidava una vettura venendo da Capitanata provincia di quel {115 [261]} regno. Nel cammino volle accelerare il corso a fine di passare avanti ad un'altra vettura. Ma urtando una vettura coll'altra, Radda balzò giù dal sedile, e cadendo a terra, ambedue le ruote gli passarono sopra lo spigolo delle gambe. Quelli che erano presenti, in mezzo allo strepito, non avevano udito altro se non queste parole proferite dal Radda mentre cadeva: S. Stefano, aiutatemi. Ognuno pensavasi di trovarlo morto, o almeno con ambe le gambe rotte e peste. Ma con grande stupore lo vedono alzarsi, come se quasi nulla gli fosse accaduto, e continua il suo cammino a piedi. Rimasero però alcune lividure per assicurare che le ruote erangli realmente passate sopra le gambe, e che per protezione speciale del cielo non cagionarongli grave danno.

            L'altro fatto è succeduto nella persona di un certo Giovanni Pischero trombettiere del re di Napoli. Ritornando egli a Trani, il cavallo su cui sedeva cominciò ad agitarsi per modo che non potendolo più domare, fu strascinato fuori della via. Il furioso giumento correndo sbrigliato nulla più badando al freno del morso si precipitò in una profonda voragine. Quelli che videro il tristo spettacolo invocando la protezione {116 [262]} di s. Stefano, corsero sul luogo dell'infortunio pensando di trovar morto il cavallo, e il cavaliere sfracellato. Ma con loro stupore videro il trombettiere sull'orlo del precipizio sano e salvo! Di più il medesimo cavallo, che era sgraziatamente caduto dentro, fu tratto fuori senza aver sofferto alcuna rottura o lesione.

            Allora tutti gli astanti ringraziano di cuore Iddio, il quale mentre rende gloriosi i suoi santi nella immensa felicità del cielo, concede segnalati favori a chi invoca il loro patrocinio nelle varie necessità della vita.

Che se i santi ci ottengono da Dio favori temporali, con quanta maggior fiducia potremo noi ricorrere a fine di ottenere aiuto nelle cose dell'anima? Ricorriamo a s. Stefano, raccomandiamo a lui il bisogno particolare di noi e delle nostre famiglie, preghiamo che interceda per noi presso Dio, affinchè nella sua grande misericordia si degni di allontanare i flagelli che opprimono i nostri paesi; ridoni la sospirata pace tra i principi cristiani; conservi e protegga il capo della Chiesa, il successore di s. Pietro il regnante Pio IX.

 

Con approvazione della Retinone Ecclesiastica. {117 [263]}

 

 

Indice

 

Breve di S. S. il Regnante Pio IX.

Pag. III

Capo I. Elezione di S. Lucio- Suo esilio. Suo ritorno a Roma.

 17

Capo II. A Lucio Papa Romano tornato dall'esilio Cipriano coi colleghi manda salute

 21

Capo III. Pestilenza nel Romano impero - S. Gregorio Taumaturgo guarisce prodigiosamente gli appestati. - Conversione di Gentili

 25

Capo IV. La Dalmatica - L'assistenza al vescovo nel predicare, ed altre istituzioni di S Lucio

 31

Capo V. Si rinnova la persecuzione, patimenti e martirio di S. Lucio.

 34

Capo VI. Culto verso le reliquie di S. Lucio - Parole di S. Cipriano - Morte di Gallo e Volusiano

 37

Capo VII. S. Stefano e sue prime azioni nel Pontificato

 40

Capo VIII. S. Stefano condanna Marciano di Arles; e Basilio e Marziale Vescovi di Spagna

 42

Capo IX. Questione dei ribattezzanti -Dottrina cattolica sull'Ammistrazione del Battesimo

 46 {118 [264]}

Capo X. Benedizione degli abiti sacri e uso dei medesimi in Chiesa - Valeriano e Gallieno imperatori

Pag. 50

Capo XI. S. Ippolito conduce molti Gentili a S. Stefano, da cui sono battezzati - Messa celebrata nelle cripte 54

 

Capo XII. Adria e Paolina abbracciano la fede - Scaltrezza di Massimo carceriere

 60

Capo XIII. Massimo, assalito da uno spirito maligno, si pente; chiede il Battesimo e muore martire

 63

Capo XIV. Interrogatorio e ricerca dei cristiani - Martirio di S. Ippolito e dei suoi compagni

 66

Capo XV. S. Stefano esorta il suo clero alla fermezza nella fede - Conferisce gli ordini sacri; a molti altri amministra il Battesimo

 71

Capo XVI. S. Stefano battezza il tribuno Nemesio, e con un miracolo guarisce la figlia di lui dalla cecità 74

 

Capo XVII. Massimo è punito mentre fasacrifizio al demonio - Nemesio è fatto prigioniero

 77

Capo XVIII. Valeriano fa mettere in prigione Lucilla e Sinfronio, economo di Nemesio - Facendo quegli una preghiera distrugge un idolo

 82

Capo XIX. Olimpio, sua moglie ed i figli si convertono alla fede e sono da S. Stefano battezzati

 85

Capo XX. Martirio di Nemesio e di Lucilla, di Sinfronio, d'Olimpio con sua moglie e suo figlio - Carità di S.Stefano

 88 {119 [265]}

Capo XXI. Martirio di dodici sacerdoti d S. Stefano - Conversione di Tertullino e suo martirio

Pag. 92

Capo XXII. S. Stefano alla presenza di Valeriano - Condotto ad un simulacro di Marte, fa una preghiera e quello cade rovinato

 98

Capo XXIII. S. Stefano, accompagnato da cristiani, va al cimitero di S. Lucina, dove, celebrato il sacrifizio della santa Messa, compie il suo martirio

 101

Capo XXIV. Sepoltura di S. Stefano. - Martirio di S. Tarsiccio - S. Melano, primo vescovo di Rouen

 103

Capo XXV. S. Seconda e S. Rufina sorelle vergini e martiri

 105

Capo XXVI. Culto e miracoli operati ad intercessione di S. Stefano Papa e martire

 111 {120 [266]}

{121 [267]}

{122 [268]}

 



[1] V. Gauferio, vita di s. Lucio. Benedetto Gauferio, celebre scrittore di Salerno, visse nel secolo XI, ed è autore di molte opere di erudizione ecclesiastica. Fra le altre scrisse la vita di s. Lucio papa e martire: una parte però di questo scritto andò perduta.

[2] Gli atti di s. Ippolito e de' suoi compagni dal Baronio sono detti legittimi; quelli di s. Cornelio li dice degnissimi di fede, e li rapporta intieri come preziosi monumenti ecclesiastici all'anno 259-260. (Veggasi pure Surio, Boll. 2 agosto).

[3] Il monte Viminale è uno dei sette colli di Roma, che dal monte Esquilino prolungasi a mezzodì a foggia di lingua. È detto Viminale dai vimini o vinchi da cui era coperto prima che fosse abitato dai Romani (Varrone l. 4).

Fra l'Esquilino ed il Viminale dilungasi una valle da mezzodì a settentrione. La strada tracciata in fondo a questa valle ha i nomi di via urbana da Papa Urbano VIII che la aderizzò; di via di S. Pudenziana perchè conduce a quella chiesa. Questa chiesa fu da s. Pio I dedicata al culto del vero Dio in un luogo detto terme di Novato nel vico Patrizio. Questo vico venne cosi denominato perchè Servio Tullio, uno de' primi Re di Roma, che abitava sul monte Esquilino, obbligò tutti i patrizi ad abitare in questo luogo affinchè non potessero fare novità, e per comprimerli ogni volta avessero tentato di fare qualche movimento (Nibi Roma ant).

[4] Questa chiesa è antichissima, e tanto la chiesa quanto il monastero annesso credonsi edificati da Papa s. Dionigi circa l'anno 263. Fu detta San Silvestro perchè in questa chiesa con quelle di s. Stefano riposarono le ceneri di s. Silvestro. È detta de capite perchè vi si conserva il capo di s Gioanni Battista ed un'antichissima immagine del volto del Salvatore (V. Ugonio, Storia delle stazioni).




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