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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

VITA DE' SOMMI PONTEFICI S. ANACLETO S. EVARISTO S. ALESSANDRO I.

 

per cura del Sac. BOSCO GIOVANNI

 

D

 

TORINO

TIP. DI G. B. PARAVIA E COMP

1857. {1 [445]} {2 [446]}

 

 

 

 

INDEX

Capo I. Sant'Anacleto. Quinto papa, anno di C. 103. - Sua elezione. - Sue fatiche in compagnia di S. Pietro, - Suo zelo pel Vangelo. 2

Capo II. Martirio di S. Simeone. Traiano interroga e condanna a morte S. Ignazio. 2

Capo III. Lettera di S. Ignazio alla chiesa Romana. 4

Capo IV. S. Ignazio giunge a Roma - Suo martirio - Invocazione de' Santi - Anno di C. 107. 5

Capo V. Zelo di Anacleto - Frequente comunione - Consacrazione de' Vescovi e dei preti - Memoria di s. Pietro - Sepolcro de' Pontefici - Cimitero dei Martiri - Martirio di questo Pontefice. 6

Capo VI. S Evaristo sesto Papa - Sua patria, educazione. - È annoverato nel clero romano, sua elezione - Sua sollecitudine contro gli Eretici. 8

Capo VII. Titoli, benedizione delle chiese. - Diaconi assistenti dei vescovi. - Benedizione nuziale. - Scritti di S. Evaristo. - Suo martirio. 9

Capo VIII. S. Alessandro I. - Succede a S. Evaristo. - Sue belle qualità. - Uso del pane azimo. - Mescolanza dell'acqua col vino nella santa messa. - Acqua benedetta e sua efficacia. 10

Capo IX. S Alessandro ordina sacri ministri. - - Guadagna molti alla fede - È posto in prigione col prefetto di Roma. - Colloquio di questo prefetto con Quirino. 12

Capo X. Preghiera di s. Alessandro - Un angelo il conduce alia casa di Quirino - Ermete racconta la storia della sua conversione. 14

Capo XI. S. Alessandro dall' angelo ricondotto in prigione - Guarisce la figlia di Quirino - Predica ai prigionieri - Converte molti alla fede. 15

Capo XII. Martirio di s. Quirino - di Ermete - di Balbina e di molti altri - S. Alessandro alla presenza di Aureliano - Vien posto sull'eculeo. 17

Capo XIII. Interrogatorio e flagellazione di S. Evenzio e Teodolo - Sono gettati con S. Alessandro in una fornace ardente. - Loro martirio. 19

Capo XIV. Sepoltura di S. Alessandro. - Terribile morte di Aureliano. - Culto verso le reliquie di S. Alessandro. 20

Capo XV. Un riflesso importante. 21

 


Capo I. Sant'Anacleto[1]. Quinto papa, anno di C. 103. - Sua elezione. - Sue fatiche in compagnia di S. Pietro, - Suo zelo pel Vangelo.

 

            Dopo la morte di S. Clemente, la santa Sede fu vacante quasi cinque mesi. La persecuzione non aveva permesso al clero di Roma di radunarsi più presto per eleggergli un successore. Finalmente il giorno tre di aprile dell'anno 103, dopo molte preghiere, fu eletto sant'Anacleto per supremo Pastore del gregge di G. C, e così furono appagati i voti di tutti i fedeli.

            Anacleto era nato in Atene, illustre città della Grecia, dove S. Paolo aveva predicato. Suo padre nominavasi Antioco. La parola Anacleto, o come dicono altri, Anencleto, significa pieno di grazia, quasi che Iddio volesse indicare col medesimo {3 [447]} nome gli esempi di santità che il suo servo avrebbe fatto risplendere nel corso di sua vita. Suo padre ebbe molta cura di lui, e si adoperò colla massima sollecitudine per dargli una buona educazione. Le cure del padre, congiunte ad un'indole buona, fecero che Anacleto venisse presto riconosciuto come un giovane dei più virtuosi e de' più dotti di tutta la Grecia. San Pietro s'incontrò con lui in Atene, e al primo parlargli riconobbe che Iddio voleva fare di quel giovane un vaso di elezione. Cominciò pertanto a parlargli dell'immensa felicita che Dio tiene preparata in cielo a' suoi servi fedeli, e della grande ventura di coloro che si danno a servirlo per tempo. Anacleto mosso da tali verità, illuminato dalla divina grazia, abbracciò la religione cristiana, e si diede con tutto ardore a praticarne i precetti. S. Pietro mosso dalla pietà, dall'integrità de' costumi e dal raro ingegnò di cui il Signore aveva dotato il suo discepolo, lo ammise fra il clero di Roma, e lo ordinò diacono. Egli serviva il santo Apostolo nelle sacre funzioni, e soleva anche accompagnarlo ogniqualvolta si allontanava da Roma pel bene della religione. S. Pietro vedendo {4 [448]} il grande aiuto che gli porgeva Anacleto, prese ancora maggior cura di lui, e in breve lo vide adorno di tutte le virtù necessarie per formare un buon sacerdote, e lo consacrò prete. Questa novella dignità non servì che a renderlo più santo e più utile alla Chiesa. Egli era un angelo di costumi, e perciò divenne in breve tempo un santo ministro di G. C.

            Il principe degli Apostoli avendo coronato il suo apostolato con un glorioso martirio, sant'Anacleto lavorò col medesimo zelo e col medesimo frutto sotto il pontificato di S. Lino, di S. Cleto e di S. Clemente. Si può dire che i progressi fatti dal Vangelo durante il governo di questi sommi pontefici, in gran parte sono dovuti alle fatiche apostoliche del nostro santo. Cosi non si durò pena a trovare in lui un degno successore a S. Clemente. S. Anacleto fu dunque scelto con vivi applausi, e alla notizia della sua esaltazione al Pontificato, la gioia fu universale presso a tutti. Durante il pontificato di sant'Anacleto continuò ad infierire la persecuzione contro ai cristiani, e fra i martiri che in essa diedero il loro sangue per la fede, sono specialmente illustri S. Simeone e S. Ignazio. {5 [449]}

 

 

Capo II. Martirio di S. Simeone. Traiano interroga e condanna a morte S. Ignazio.

 

            La seconda persecuzione, che cominciò sotto al regno di Domiziano nel 95, parve quasi interamente cessata alla morte di questo imperatore avvenuta nel 96. Ma verso l'anno 106, sotto il regno di Traiano, furono rinnovati i sanguinosi editti contro ai cristiani, e questa si conta per la terza persecuzione.

            Uno dei primi a soffrire il martirio fu S. Simeone, prossimo parente del Salvatore e successore di S. Giacomo nel vescovado di Gerusalemme. Egli era in eta di cento ventanni quando fu denunziato e come cristiano e come discendente dalla stirpe di Davidde, che si voleva affatto distruggere. Per questo doppio titolo gli furono fatti patire diverbi tormenti, e finalmente fu condannato ad essere crocifisso. Così l'ultimo testimonio di vista del Salvatore ebbe la gloria di morire del medesimo di lui supplicio.

            Traiano non solo comandava ai magistrati {6 [450]} di perseguitare i Cristiani, ma esercitò egli stesso la persecuzione. Passando in Antiochia si fece condurre innanzi il vescovo di nome Ignazio, soprannominato Teoforo, che vuol dire porta Dio.

            Egli era stato discepolo di S. Giovanni l'Evangelista, e da parecchi anni governava con zelo veramente apostolico quella diocesi.

            L'imperatore rivolgendogli la parola; sei tu, gli disse, che a guisa di demonio hai l'ardire di violare gli ordini miei, e dai ad altri de' consigli che cagionano la loro perdita?

            Ignazio rispose: niuno prima di te, o principe, chiamò Teoforo un demonio, piuttosto devi sapere che i servi del vero Dio son tutt'altra cosa che genii cattivi, anzi i demonii tremano alla loro presenza e fuggono alla loro voce.

Traiano. E chi è questo Teoforo?

Ign. Teoforo sono io. Chiunque porta Gesù nel suo cuore, egli è Teoforo, cioè porta Dio con sè.

Trai. Forse tu credi che noi pure non abbiamo nel cuore quegli dei che combattono per noi?

Ign Che dei! tu sei in errore, o principe, {7 [451]} questi dei sono demonii. Non avvi che un solo Creatore del cielo e della terra, non vi è che un solo Gesù Cristo figlio unico di quel Dio stesso al cui regno io aspiro.

            Trai. Parli forse di quel Gesù che Pilato fè' crocifiggere?

            Ign. Di' piuttosto che è quel Gesù il quale fu confitto in croce dai peccati degli uomini, e che fin da quel momento ha concesso a chi lo porta nel cuore il potere di abbattere tutte le potenze infernali.

            Trai. Tu porti adunque il Cristo con te?

            Ign. Lo porto certamente, perchè sta scritto: io abiterò in essi e accompagnerò tutti i loro passi.

            Traiano allora si accorse che la sua disputa non faceva altro che far conoscere la vanità degli dei e la santità della fede cristiana. Perciò troncando ogni questione proferì contro a S. Ignazio questa sentenza: Ordiniamo che Ignazio, il quale si gloria di portare con sè il crocifisso, sia messo in ferri, condotto a Roma per essere esposto alle fiere, e servire di spettacolo al popolo.

            Il Santo, udito questo decreto, con trasporto di gioia esclamò: vi ringrazio, o {8 [452]} Signore, di avermi concesso un amore perfetto per voi e di avermi fatto degno delle stesse catene che già donaste al grande apostolo Paolo. Ciò detto, egli stesso porse le mani alle catene, pregò per la Chiesa e la raccomandò' a Dio. Quindi fu lasciato in balia di uno stuolo di crudele soldatesca incaricata di condurlo a Roma. Dopo lunga e pericolosa navigazione, Ignazio giunse a Smirne, che è una città dell'Asia Minore, posta sulle sponde dell'Arcipelago. Colà fu visitato da un suo amico di nome Policarpo, vescovo di quella città, e che insieme con lui era stato discepolo di S. Giovanni evangelista. Nel tempo che si fermò a Smirne fu anche visitato dai deputati di tutte le chiese vicine che venivano a salutarlo, e che ardentemente desideravano di partecipare a quella grazia e a quel fervore di cui era ripieno. Il santo vescovo supplicò tutti, e specialmente san Policarpo di unire le loro preghiere alle sue per ottenergli da Dio la grazia di morire per la fede.

            Scrisse pure di là parecchie lettere a diverse chiese dell'Asia. Ma la lettera che dimostra il suo tenero e vivo desiderio {9 [453]} di morire per Gesù Cristo, è quella scritta alla chiesa di Roma.

 

 

Capo III. Lettera di S. Ignazio alla chiesa Romana.

 

            S. Ignazio desiderava ardentemente di morire per amor di Dio. Ma temeva molto che i fedeli di Roma o colle loro preghiere o con qualche altro mezzo entassero di liberarlo dai supplizii, e così egli perdesse la gloria del martirio. A tal fine scrisse una lettera degna dell'ammirazione di tutti i buoni, e la mandò per mano di alcuni cristiani che dovevano giungere prima di lui a Roma. Egli comincia cosi: «Ignazio chiamato eziandio Teoforo, ossia portatore della misericordia divina, che egli ha conseguito dalla munificenza dell'altissimo Padre Iddio e di G. C. suo figliuolo unigenito, alla Chiesa Romana che per divina volontà opera quanto si appartiene alla fede ed alla carità di G. C. e nostro Salvatore, la quale ha la sua presidenza in Roma. Chiesa degna e degnissima di Dio, degna di essere lodata e glorificata, degna di governare; Chiesa {10 [454]} purissima che dall'esimia carità di G. C. e dal nome del Padre s'intitola piena del divino Spirito. Questa Chiesa saluto anch'io nel nome di Dio Padre onnipotente. O fratelli, io temo la vostra carità, e non vorrei che aveste per me troppa compassione; forse potrebbe riuscirvi d'impedire la, mia morte, ma, opponendovi a questa, vi opporreste alla mia felicità. Se avete per me carità sincera, lasciatemi andare a goder il mio Dio. Non mi si offrirà mai più un momento cotanto favorevole di riunirmi a lui, nè voi stessi potreste cogliere miglior occasione per esercitare un'opera pia. Per fare quest'opera bisogna solo che ve ne stiate tranquilli. Se voi non mi togliete dalle mani del carnefice, io andrò a raggiungere il mio Dio. Ma se mossi da funesta compassione mi liberate, voi mi rimandate alle fatiche, e mi fate rientrare nella carriera dei sospiri. Vi prego adunque di soffrire che io sia sacrificato. Ottenetemi piuttosto il coraggio necessario per vincere le tentazioni, gli assalti, i tormenti. È poca cosa aver l'apparenza di Cristiani se non sismo tali in effetto. Non sono le belle parole, nè le speciose apparenze {11 [455]} che formano i cristiani, sibbene la grandezza dell'animo e la sodezza delle virtù. Scrivo alle Chiese ch'io vado a morire con gioia, purchè voi non vi opponiate.

            Vi scongiuro adunque di nuovo a non aver troppa affezione per me che mi sarebbe cosa dannosa. Lasciate che io sia esposto ai leoni, agli orsi: è questa una via breve per giungere al cielo. Io sono frumento di Dio, bisogna che io sia macinato per divenir pane degno di essere offerto a Gesù Cristo. Giugnendo a Roma spero che troverò le bestie pronte per divorarmi. E voglia il Signore che non mi facciano languire. Dapprima userò le carezze perchè mi facciano a brani, e se ciò non basta le irriterò perchè mi tolgano di vita. Perdonatemi questi sentimenti; so quello che mi è vantaggioso, e comincio ad essere un vero discepolo di G. Cristo. Non avvi cosa che mi lusinghi in questo mondo: tutto mi è indifferente fuorchè la speranza di possedere presto il mio Dio. Che un fuoco m' incenerisca, ehe una croce prolunghi il morir mio, che si aizzino contro di me tigri furiose, o leoni affamati; che si spezzino le mie ossa, si lacerino le mie membra, {12 [456]} sia arso il mio corpo; tutti i demoni scatenino tutta la loro rabbia contro di me, tutto soffrirò con gioia, purchè io possa andar presto a godere G. Cristo. Tuttti i regni, tutti i beni della terra non varrebbero a rendermi felice. Ma una gloria infinitamente maggiore per me si è il morire per G. C. e non già regnare su tutta la terra. Il mio cuore sospira per Colui che è morto per me, che è risuscitato per me. Ecco ciò che spero di ricevere in cambio della mia vita. Lasciatemi imitare i patimenti del mio Dio, non vogliate impedirmi di vivere coll'impedirmi di morire.

            Se qualcuno di voi porta Dio nel suo cuore saprà comprendere ciò che dico; se egli arde dello stesso fuoco che mi consuma, sentirà pure la mia pena. Il motivo che mi eccita a scrivervi è il desiderio ardente di morire, perchè l'unico oggetto dell'amor mio è il crocifisso, e questo amore fa che io sia pure crocifisso con lui. Il fuoco che mi anima e mi stimola non può soffrir altro fuoco; colui che vive e che parla in me, mi dice continuamente nel fondo del cuore: affrettati di venir dà mio padre. Non ho più gusto {13 [457]} per le cose che gli nomini ricercano; il pane che bramo è la carne adorabile di Gesù Cristo; il vino che desidero è il sangue suo prezioso. Vino celeste che nel cuore accende il fuoco vivo ed immortale di una carità incorruttibile. Io non appartengo più alla terra, e non mi riguardo più come vivo fra gli uomini. Sovvengavi nelle vostre preghiere della chiesa di Antiochia, la quale sprovveduta di Pastore volge le sue speranze in colui che è il Pastore supremo di tutte le chiese. Il nostro Signor G. C. si degni di prenderne cura durante la mia assenza, io l'affido alla sua provvidenza ed alla vostra carità.» Fin qui s. Ignazio.

            Ognuno può facilmente comprendere che in questa lettera non si scorge più il linguaggio di un uomo, ma il medesimo Spirito Santo che parla. Quanto sarebbe a desiderarsi, che questa fortezza cristiana, questa brama di morire per unirsi al Salvatore, regnassero ancora fra i cristiani d'oggidì e che le medesime formole di carità e di amor di Dio fossero tuttora usate dai fedeli nello scrivere e nel comunicare i proprii sentimenti agli amici. {14 [458]}

 

 

Capo IV. S. Ignazio giunge a Roma - Suo martirio - Invocazione de' Santi - Anno di C. 107.

 

            Dopo aver passato qualche giorno a Smirne s. Ignazio parti per Roma. Quelli che lo accompagnavano erano impazienti di giunger presto, perchè si avvicinava il tempo degli spettacoli. Grande pure era la brama del Santo, perchè egli riguardava quella città come il luogo del suo trionfo e del suo martirio. Alla notizia del suo arrivo gli corsero incontro tutti i fedeli e si sentivano tutti pieni di gioia al vederlo e trattenersi con lui; ma provavano la più amara tristezza al pensiero che era venuto a Roma per morire. Alcuni proposero di guadagnare il popolo, come altre volle era accaduto, per conservare la vita a quel vecchio venerando. Ma Iddio rivelò il progetto di quegli affezionati fratelli al santo vescovo, il quale parlò loro con tanta efficacia, che in fine si arresero alle sue preghiere. La commozione era universale. I fedeli non trovarono più conforto se non coll'inginocchiarsi {15 [459]} e pregare Iddio che aiutasse il suo servo e desse pace alla Chiesa. Allora il santo alzando la voce in mezzo di loro, dimandò a Gesù Cristo di porre un termine alla persecuzione, e di serbare nel cuore dei fedeli viva fede ed infiammata carità.

            Finita la preghiera i soldati lo condussero all'anfiteatro, per essere ivi gettato alle bestie feroci e servire di spettacolo agli idolatri che in numero straordinario eransi colà radunati. Appena lanciato in mezzo alle fiere fu in pochi momenti divorato dai loro denti voraci; nè altro rimase del suo corpo che le ossa più dure, che vennero divotamente raccolte dai fedeli e portate ad Antiochia come tesoro d'inestimabile valore. Così fin da quei tempi erano venerate nella Chiesa cattolica le sante reliquie di quegli eroi gloriosi che spargevano il sangue per la fede.

            Coloro che scrissero la storia del martirio di s. Ignazio terminano cosi: Fummo noi stessi testimonii di questa morte gloriosa che ci fece spargere un torrente di lagrime, e passammo tutta la notte seguente vegliando in orazione e pregando {16 [460]} in ginocchio il Signore di sostenere la nostra debolezza. Eravamo tuttora intenti alla preghiere quando il santo martire ci apparve come un atleta che torna da un glorioso combattimento. Stavasene in piè dinanzi al Signore circondato da una gloria ineffabile. Ricolmi di gioia da questa visione rendemmo grazie all'Autore d' ogni bene e lo benedicemmo per la gloria che aveva accordata al suo servo. Noi vi segniamo il giorno di sua morte acciocchè ogni anno possiamo tutti radunarci per onorare il suo martirio nel tempo in cui lo ha sostenuto, nella speranza di partecipare un giorno della vittoria di questo generoso campione di G. C. il quale ha calpestato il demonio col soccorso di Lui, pel quale e col quale sia gloria e potenza al Padre ed allo Spirito Santo in tutti i secoli dei secoli. Così sia. In una lettera scritta ai fedeli di Smirne s. Ignazio insegna che la Chiesa di G. C. deve essere in ogni tempo visibile. «Gesù Cristo, dice, con la sua risurrezione alzò il suo stendardo per tutti i secoli a fine di raccogliere in tutti i tempi i suoi eletti siano Ebrei o Gentili, e tutti riceverti nel corpo mistico della sua {17 [461]} chiesa.» Per dare poi ai fedeli una norma certa per conoscere quale sia la vera Chiesa, dice: dove è la Chiesa Cattolica, là vi è la Chiesa di Gesù Cristo. V. Boll. die 1 feb. Cotel. patres apostolici.

            In tutta l'antichità v'ebbe sempre grande venerazione per questo santo; e si fa menzione di lui ogni giorno quando si celebra la santa messa.

            S. Ignazio era persuaso che i santi, quando sono in cielo, non dimenticano d'invocare le divine benedizioni a favore di quelli che vivono sopra la terra. Onde scrivendo ai fedeli di Trallìa, che è una città dell'Asia Minore, pieno d'affetto loro diceva: «possa il mio spirito santificarvi, non solo di presente, ma anche quando possederò Iddio nella patria dei Beati.» Nella medesima lettera egli parla del Pontefice S. Anacleto colle seguenti parole: «Come s. Stefano faceva il sant' ufficio di Diacono a s. Giacomo; s. Lino e s. Timoteo a s. Paolo; così s. Clemente ed Anacleto facevano pure da Diaconi a s. Pietro.» V. Ep. ad Trall. apud Cotel.

            Pare che questo Santo abbia scritto direttamente contro agli eretici d'oggidì. Fra le altre cose parlando della verginità {18 [462]} di Maria egli si esprime così: «Tre cose furono occulte al principio di questo secolo: la verginità di Maria, il suo parto e la morte del Signore, tre misteri strepitosi, ma operati nel silenzio di Dio.» Lett. agli Efesini.

 

 

Capo V. Zelo di Anacleto - Frequente comunione - Consacrazione de' Vescovi e dei preti - Memoria di s. Pietro - Sepolcro de' Pontefici - Cimitero dei Martiri - Martirio di questo Pontefice.

 

            La persecuzione di Traiano era egualmente terribile e sanguinosa in tutte le parti del Romano impero; perciò potrà ognuno facilmente comprendere quante fatiche s Anacleto abbia dovuto sostenere per governare la Chiesa di G. C. Il santo Pontefice trovò tempo e mezzo per provvedere a tutto. Mentre si adoperava per guadagnare nuovi fedeli a G. C. egli confutava gli eretici, incoraggiava i deboli ora cogli scritti, ora colle parole; animandoli tutti a confessare G. C. in mezzo a qualsiasi genere di supplizi. Così egli {19 [463]} conservava il deposito della fede, mentre lavorava con successo a regolare la disciplina della chiesa.

            Abbiamo di lui molte belle istituzioni che servono a mantenere il fervore tra cristiani. Persuaso che tutti i fedeli hanno bisogno di cibarsi sovente del sacro corpo di G. Cristo per conservarsi nello stato di grazia, ordinò che tutti quelli che andavano ad ascoltare la santa messa dovessero trovarsi in tale stato da poter fare là santa comunione ogni volta che assistevano a questo diviri sacrifizio. Coloro poi che avessero trascurato di mettersi in tale stato, fossero riguardati come cristiani per metà, cioè gente già vinta per metà dalle tentazioni, ed allontanarsi dalla chiesa. Egli ordinò ancora che nella consacrazione dei vescovi fossero presenti tre altri vescovi per compiere la sacra cerimonia. Perchè, egli diceva, s. Giacomo minore, vescovo di Gerusalemme, fu consacrato da s. Pietro, s. Giacomo Maggiore, e s. Giovanni. V. Burins. in Anacl. Stabilì parimenti che le ordinazioni dei preti fossero fatte in pubblico, affinchè fossero da tutti conosciuti quelli che erano elevati alla sublime dignità del sacerdozio. {20 [464]} Le quali usanze sono ancora oggidì praticate dalla Chiesa cattolica. Egli proibì ai sacerdoti ed ai semplici cherici di coltivare i capelli seguitando le mode troppo notevoli nella gente del secolo. Egli voleva che i ministri dell'altare si distinguessero per la loro edificante modestia, per la loro innocenza e per la loro probità.

            La sollecitudine pastorale di questo santo Pontefice per tutta la Chiesa non lo impedì di scendere ai più minuti provvedimenti, secondo i vari bisogni de' fedeli. Si crede comunemente che per dare alla posterità un segno non dubbio della sua divozione verso al suo maestro s. Pietro, cui doveva la sua conversione, fabbricasse un tempietto ovvero una specie di oratorio sopra la tomba del Principe degli apostoli. S. Anacleto cominciò questo edifizio quando non era che semplice sacerdote, e si suole chiamare Memoria di s. Pietro, o trionfo degli apostoli, che in progresso di tempo divenne il maraviglioso tempio di s. Pietro in Vaticano, che si conta per una delle prime maraviglie del mondo.

            Alcuni eretici e in generale tutti i protestanti {21 [465]} accusano i cattolici d'invocare i santi ed innalzare ad essi templi ed altari.

            Noi li preghiamo di leggere attentamente la Bibbia e tanto nell' antico quanto nel nuovo testamento leggeranno che si parla di tempio, di altari, di turiboli, di incensi, di vasi di acqua lustrale, di candelieri, di lumi, di lampade, cose tutte che esistono presso ai cattolici, e di cui più non trovasi traccia presso ai protestanti. Noi leggiamo pure che molti uomini pii invocarono l'aiuto di Dio per mezzo de' suoi santi. O Signore, diceva Ezechiele, non allontanate da noi le vostre misericordie; noi vi dimandiamo ciò pei meriti de' vostri servi Abramo, Isacco, e Giacobbe. Ne auferas misericordias tuas propter Abraham servum tuum, propter Isaac et Israel. Ezech. 3.

            Cessino pertanto i protestanti dal ripetere simile calunnia contro i cattolici, come se essi adorassero i santi quasi fossero Dei. Il più semplice di tutti i cattolici, e gli stessi ragazzi sanno che noi non adoriamo i santi, ma li veneriamo come benefattori dell' umanità, che colle loro opere e coi loro esempi ci insegnarono la via del cielo; li veneriamo {22 [466]} come amici di Dio, e partecipi della gloria incomprensibile dei beati.

            Onde il culto che loro prestiamo nelle nostre chiese e sopra i nostri altari, non finisce nei santi, ma è diretto ad onorare Iddio ne' suoi santi. Mi sia mostrato, dice s. Agostino, mi sia mostrato in Roma in onore di Romolo un tempio tenuto in tanto onore quale si è la Memoria di s. Pietro! Ma non pensatevi che coi nostri templi e coi nostri altari noi dìventiarno idolatri. Noi innalziamo templi ai nostri martiri non come fanno i pagani alle loro stupide divinità, ma noi innalziamo memorie, titoli, templi ad uomini morti, le cui anime vivono presso Dio. Lib. 22 de Civ. Dei et in psal. 44.

            Si assicura che il medesimo s. Anacleto destinò e benedisse un luogo particolare sul monte Vaticano per dar sepoltura ai sommi Pontefici. Ordinò che nel cimitero de' cristiani vi fosse un luogo separato per seppellire i martiri. Da ciò si vede quale venerazione siasi in ogni tempo avuta verso i martiri; e quali sollecitudini abbia sempre usate la Chiesa per conservare le loro reliquie, affinchè con sicurezza venissero rispettosamente esposte alla venerazione dei fedeli. {23 [467]}

            Durante il suo pontificato S. Anacleto ordinò 3 diaconi, 5 preti e 6 vescovi. Nè erano questi i soli preti e vescovi consacrati a questi tempi, perciocchè anche negli altri paesi della cristianità i vescovi tenevano più volte all'anno la sacra ordinazione.

            Tra i sacerdoti ordinati da questo pontefice merita di essere nominato s. Cloro, uomo eruditissimo della città di Roma. Anacleto lo consacrò vescovo, di poi lo mandò nella Gallia a predicare il vangelo, e la sua predicazione fu specialmente diretta alla conversione degli Agrippinesi ed altri popoli vicini, abitanti in un paese che allora chiamavasi colonia di Agrippini, ed oggidì Cologna città dell'Alemagna verso la Francia. V. Ciacomio ed Aldoino in Anacl.

            A questo medesimo Pontefice è pure attribuita l'edificazione della Basilica Ara coeli, che egli dedicò alla Madre di Dio. Rincresce che varii scritti e. varie memorie riguardanti alle azioni di questo grande pontefice siano andate smarrite. Quello che si sa di certo si è che dopo molti patimenti e molte fatiche, dopo aver governata la Chiesa nove anni, tre mesi, dieci giorni egli coronò il suo pontificato {24 [468]} con un glorioso martirio. Gli fu troncata la testa l'anno di G. C. 112 nel 13 di luglio. V. Boll. jul. 13.

            Io vorrei, o cristiano lettore che noi prendessimo una lezione da questo sommo pontefice intorno alla frequenza della santa comunione. Egli voleva che tutti quelli che assistevano al sacrifizio della messa partecipassero alla mensa eucaristica, non credendo possibile che si possa portare vittoria in tempo di persecuzione senza nutrirsi sovente di questo cibo dei forti, e giudicava come vinti per metà e indegni di trovarsi nell' adunanza dei fedeli coloro, che raramente ricevono la santa Eucaristia.

            Che cosa avrebbe detto questo discepolo degli apostoli se avesse veduto quello che noi vediamo ai nostri tempi: cioè certi cristiani comunicarsi appena una volta all'anno. Questo pane disceso dal cielo ha egli minor virtù oggidì di quello che aveva allora? Oppure siamo noi più forti di quelli? È vero che le persecuzioni dei pagani hanno cessato, ma le passioni non hanno preso il posto dei tiranni? La scostumatezza che trionfa oggidì fa ella forse meno apostati agli {25 [469]} occhi di Dio di quello che faceva il timor de' tormenti agli occhi degli uomini? Animiamoci adunque e siamo solleciti di comunicarci bene e comunicarci sovente. Venite a me, ci dice il Signore, voi tutti che siete stanchi ed oppressi dalle fatiche, ed io, vi solleverò. I cristiani della chiesa primitiva erano perseveranti nell'ascoltare la parola di Dio, e nel partecipare alla santa comunione. S. Agostino dice che a' suoi tempi i fedeli fervorosi solevano accostarsi ogni giorno alla mensa eucaristica. Ora sebbene il fervore siasi da qualche tempo molto raffreddato, tuttavia lo spirito della Chiesa di G. C. fu sempre lo stesso. Ed i padri del concilio Tridentino colle più animate espressioni raccomandano ai fedeli cristiani di mantenersi in tale stato di coscienza da poter partecipare alla santa Eucaristia tutte le volte che vanno ad ascoltare la s. messa Ecco le parole del testo. Il sacrosanto concilio desidera grandemente, che tutti i fedeli che vanno ad ascoltare la santa messa facciano la santa comunione non solo spiritualmente ma sacramentalmente affinchè sia più copioso il frutto che essi possono ricavare da questo SS. sacrifizio. Sess. 22, cap. 6. {26 [470]}

 

 

Capo VI. S Evaristo sesto Papa - Sua patria, educazione. - È annoverato nel clero romano, sua elezione - Sua sollecitudine contro gli Eretici.

 

            S. Evaristo può certamente gloriarsi di sua patria, giacchè essa fu la città di Betlemme dove nacque il divin Salvatore. La sua nascita avvenne l'anno 60 di G. C. Suo padre era Giudeo e chiamavasi Giuda. Venuto esso a stabilirsi in Atene pose la massima sollecitudine per istruire ed educare suo figliuolo nella religione Giudaica. E poichè Evaristo aveva belle disposizioni per le scienze e per la virtù, cosi suo padre gli procurò buoni maestri con tutti i mezzi che possono contribuire al progresso dello studio.

            Dall' essere venuto a stabilirsi in Atene in età molto giovanile s. Evaristo nella storia viene chiamato ora Greco, ora Ateniese. Non è ben noto il tempo di sua conversione alla fede; si sa solamente che in tutta la sua giovinezza egli manifestò sempre costumi specchiatissimi. Ricevuto appena il battesimo divenne il {27 [471]} modello dei cristiani di Roma. Consacrato prete fu annoverato fra il clero Romano, e si sa che quando s. Ignazio fu condotto a Roma, la santità, lo zelo di Evaristo era universalmente ammirato. Sebbene non fosse che semplice prete, egli nutriva la pietà di tutti i fedeli colle sue prediche e colla sua carità, a segno che infiammava tutti i cuori di fervore e di divozione.

            Avendo s. Anacleto riportato la corona del martirio la santa Sede rimase vacante soltanto tredici giorni, tempo indispensabile all' elezione di un Pontefice. E senza esitare un momento con voti unanimi elessero s. Evaristo per sovrano Pontefice e Capo della cristianità. La sua consacrazione avvenne il 27 luglio l'anno di Cristo 112 mentre governava ancora il romano impero Traiano. Bar. ad an. 112. Appena fu innalzato alla santa Sede egli indirizzò tutte le sue sollecitudini a provvedere ai bisogni della Chiesa. Ella era in quel tempo da tutte parti perseguitata dai pagani e straziata dagli Eretici. I seguaci di Simon Mago, i discepoli di Monandro, di Saturnino, di Basilide e di altri eretici, animati da odio contro al {28 [472]} vangelo, facevano tutti i loro sforzi ed impiegavano tutti i loro artifizi per ispargere ovunque il veleno dell' empietà, e singolarmente a Roma. Erano essi persuasi, che se fossero riusciti ad insinuare l'errore nel Capo della cristianità, sarebbe stata cosa assai facile il diffonderlo nei membri sparsi nelle varie parti del mondo. Ma G. C. aveva assicurato che in ogni tempo avrebbe assistito la sua Chiesa, e che le potenze dell'inferno non avrebbero mai potuto vincerla; perciò provvide a questa inondazione d'iniquità, a questa moltiplicità di nemici per mezzo del suo vicario, cui aveva affidato il governo della Chiesa. Difatti s. Evaristo si pose a vegliare con tale sollecitudine alla custodia del suo gregge che, sebbene la più parte degli eretici venisse a Roma per fare degli apostati, tuttavia per, lo zelo del santo Pontefice il veleno dell'eresia non potè mai farsi strada a guadagnare il cuore di un solo fedele. {29 [473]}

 

 

Capo VII. Titoli, benedizione delle chiese. - Diaconi assistenti dei vescovi. - Benedizione nuziale. - Scritti di S. Evaristo. - Suo martirio.

 

            La sollecitudine pastorale di questo santo Pontefice non si restrinse a preservare i fedeli dagli errori, ma si applicò a perfezionare la disciplina ecclesiastica con molti utili regolamenti. Egli distribuì i titoli di Roma ad alcuni sacerdoti particolari perchè ne avessero la cura. Quei titoli non erano allora chiese pubbliche, ma solo oratorii rinchiusi nelle case dei privati, in cui i cristiani si radunavano per udire la parola di Dio, e partecipare ai divini misteri, cioè assistere al sacrifizio della santa messa e ricevere la santa comunione. Quelle chiese antiche denomi-navansi titoli, perchè vi si mettevano delle croci dette titoli sopra l'uscio per distinguerle dai luoghi profani, e far vedere, che erano luoghi consacrati al vero Dio. I pagani mettevano delle statue degli imperatori, che si denominavano titoli, sopra {30 [474]} i luoghi destinati alle pubbliche adunanze; i cristiani controssegnavano colla croce i luoghi destinati al culto divino. I sacerdoti incaricati di governare quegli oratorii erano detti curati, perchè dovevano aver cura delle anime: alcuni di essi erano fissi e dicevansi cardinati, donde venne poi il nome di cardinali. Altri erano movibili a disposizione del Papa, e dicevansi incardinati. È bene però di notare che sotto il nome di titoli per lo più intendevansi solamente le chiese più insigni, che più tardi furono dette basiliche. Vedi Bar. in Mart. Rom.

            Questo santo papa ordinò eziandio che quando un vescovo predica fosse assistito da sette diaconi, sia per onorare la parola di Dio e la dignità vescovile nel primo ministro d'una diocesi, sia perchè fossero testimonii delle cose predicate, nè dagli eretici si potessero imputare cose che egli non avesse pronunziato, ed anche per fare imparare ai diaconi il vero modo di predicare. V. Ciacomio in S. Ev.

            Egli stabilì pure per tradizione apostolica molte cerimonie che si usano nella benedizione e consacrazione delle chiese.

            Il rito di benedire e di consacrare le {31 [475]} chiese era già praticato, nella legge antica, come leggiamo essersi fatto nella dedicazione del tempio di Salomone. Gli Apostoli trasportarono tale rito nella Chiesa di Gesù Cristo, e ne stabilirono le regole da seguirsi. S. Evaristo pose in iscritto quanto gli Apostoli avevano predicato, ed aggiunse alcune cerimonie pel decoro di quella sacra funzione. Ordinò similmente che, secondo la tradizione apostolica, i matrimonii fossero celebrati in pubblico, e gli sposi dovessero ricevere la benedizione del sacerdote. È bene però che ci ricordiamo che il sacramento del matrimonio non fu istituito da questo santo Pontefice. Esso fu instituito, come lo sono tutti gli altri, dal nostro Signor Gesù Cristo, siccome crede e professa la Chiesa, Cattolica.

            Sono pure a questo Pontefice attribuite due lettere, una scritta ai vescovi dell'Africa, l'altra ai fedeli d'Egitto. La prima disapprova il cambiamento di un vescovado per interesse, dichiara che un vescovo non deve passare da una Chiesa ad un'altra, senza evidente necessità, e senza una canonica traslazione, cioè l'autorizzazione del sommo Pontefice. La seconda {32 [476]} lettera riguarda la riforma dei costumi.

            S. Evaristo unicamente occupato a soddisfare a tutti i doveri di un buon pastore, non si riposava quasi mai nè giorno nè notte; predicava la parola di Dio ai sacerdoti ed ai semplici fedeli, visitava gli ammalati, distribuiva egli stesso più volte al giorno la santa Eucaristia. Il suo zelo infaticabile diffondevasi perfino ai fanciulli, i quali con amorevolezza accoglieva e incoraggiava alla virtù. Con questa carita universale conservò nella purità della fede tutto il suo gregge.

            Benchè l'imperatore Traiano sia stato uno dei migliori principi del Paganesimo, tuttavia non conoscendo i cristiani se non per via dei ritratti orrendi che gliene facevano i pagani e i sacerdoti degl' idoli, egli nutriva verso di quelli un odio implacabile. Si diceva che i Cristiani erano altrettanti maghi e stregoni, che le loro adunanze erano luoghi infami dove si ordivano le rivoluzioni; sotto a queste false prevenzioni ognuno poteva insultare i cristiani, anzi tutti giudicavano di fare opera buona nel perseguitarli e sterminarli. E questo era proprio il tempo predetto {33 [477]} dal nostro divin Redentore, quando disse che i persecutori avrebbero reputato di dar gloria a Dio perseguitando i suoi seguaci.

            I pagani accortisi che il numero dei cristiani andava ogni giorno crescendo per lo zelo di S. Evaristo, risolsero di farlo morire, persuasi che perduto il pastore, avrebbero più facilmente disperso il gregge. Il santo pontefice era troppo famoso in tutta la Chièsa, per poter rimanere nascosto ai persecutori. Fu pertanto preso e posto in prigione. L'allegrezza che egli provò nell'essere giudicato degno di spargere il sangue per la religione di Gesù Cristo, recò stupore ai magistrati. Essi non potevano comprendere come un uomo di età cotanto avanzata potesse avere ancora tanta costanza e coraggio. Fu dunque condannato a morte come Capo dei cristiani, e così meritò la corona del martirio, ed ebbe tronca la testa il di 26 di ottobre, l'anno del Signore 121. Egli in parecchie ordinazioni creò sei vescovi, 17 sacerdoti, due diaconi, e governò la Chiesa per nove anni e tre mesi.

            Appena S. Evaristo ebbe terminata la vita fra i tormenti, i fedeli presero il {34 [478]} corpo di lui, e lo portarono a seppellire nel Vaticano presso al corpo di S. Pietro. Dopo la morte di Evaristo, la santa Sede fu vacante diciotto giorni.

            L'anno secondo del pontificato di S. Evaristo e notevole per essere stato colpito dal fulmine il Panteon, famoso tempio di Roma, dedicato a tutti gli dei, e posto sotto la protezione di Giove, che i gentili nella loro ignoranza reputavano padre di tutti gli dei.

 

 

Capo VIII. S. Alessandro I. - Succede a S. Evaristo. - Sue belle qualità. - Uso del pane azimo. - Mescolanza dell'acqua col vino nella santa messa. - Acqua benedetta e sua efficacia.

 

            I tempi continuavano ad essere burrascosi pei cristiani. A Traiano era succeduto un altro imperatore di nome Adriano; il quale sebbene non abbia decretato alcuna persecuzione, tuttavia essendo pazzamente innamorato degli dei, voleva che fossero adorati da tutti i suoi sudditi. Perciò talvolta comandava che fossero maltrattati ed anche condannati a morte coloro che si fossero rifiutati di piegare il ginocchio {35 [479]} dinanzi alle folli sue divinità. Quindi ognuno può facilmente immaginarsi qual pontefice fosse necessario per governare la Chiesa in tempi cotanto calamitosi. Portato il corpo di S. Evaristo ad essere sepolto nel Vaticano vicino alla tomba di S. Pietro, la santa Sede fu vacante soli diciotto giorni che è quasi il tempo indispensabile per eleggere un papa. Questa elezione cadde sopra un giovinetto di nome Alessandro, figlio di un cittadino romano chiamato egualmente Alessandro: sua madre appellavasi Vittoria. Egli non pensavasi certamente che il clero romano portasse il pensiero sopra di lui per innalzarlo alla sede pontificia, perciocchè egli aveva l'età di soli venti anni circa. In quei tempi la Chiesa non aveva ancora fissato l'età per la sacra ordinazione; più tardi, siccome vedremo, fu stabilita l'età di 24 anni per essere ordinato sacerdote, trenta per essere consacrato vescovo. Ma la grande virtù d'Alessandro, lo zelo per la fede, la fervorosa carità, il coraggio nell'affrontare ogni pericolo, la sua prudenza nel maneggiare affari di grave importanza, la scienza sacra e profana che possedeva in grado eminente, tutte queste {36 [480]} rare qualità fecero conoscere che nella sua giovanile età eravi maturità di senno, di scienza e di virtù. Egli fu eletto il 13 di novembre l'anno 121.

            Appena fatto papa egli dimentico affatto se medesimo, e qual buon pastore, che tutto si dà alla cura delle sue pecorelle, si pose indefessamente a lavorare pel bene della Chiesa universale. Erano più cose che si praticavano nella Chiesa fin dai tempi degli apostoli, le quali cose si tramandavano da uno all'altro, che perciò si chiamavano di tradizione, ovvero d'istituzione degli apostoli. Ma non essendo ancora state scritte, avveniva che in certi paesi fossero variate. Per conservare l'unità della fede e l' uniformità di tali istituzioni apostoliche, S. Alessandro I ordinò più cose che riguardavano al sacrificio della santa messa. Decretò adunque che niun sacerdote potesse celebrare più d'una messa al giorno, la qual cosa vuol dire che niun sacerdote può celebrare più di una messa al giorno, ad eccezione che la santa Sede conceda di poterne celebrare di più, come in più casi è già avvenuto per alcuni gravi motivi.

            Stabilì pure che nel sacrificio le ostie {37 [481]} fossero di pane azimo, cioè senza lievito, perchè più puro e più atto a significare la sublimita del mistero e la purezza del cuore che deve avere colui che si accosta a questa mensa degli Angeli. Inoltre il pane azimo è anche più conforme all'istituzione di G. C. il quale avendo celebrata la sacra cena co' suoi discepoli ne' giorni che gli Ebrei cibavansi solamente di azimi, egli certamente si conformò a questa legge, e istituì la santa eucaristia in pane azimo. Ordinò pure che al canone della messa si aggiungessero alcune parole che cominciano: Qui pridie quam pateretur; colle quali parole chiaramente si esprime che il sacrifizio della messa non era altro che la rinnovazione del sacrifizio fatto da G. C. sul monte Calvario.

            Decretò eziandio che nel sacrifizio della santa messa tutti i sacerdoti fossero obbligati di mischiare alcune gocce di acqua col vino; dicendo che l'acqua si mischia col vino in memoria dell'acqua e del sangue che usci dal costato del Salvatore, ed anche per significare 1' unione della Chiesa con Gesù Cristo medesimo.

            La lettura del Vangelo, dell'epistola, {38 [482]} dei quattro passio che si cantano nella settimana santa sono tutte cose ordinate da S. Alessandro. A lui è pure, attribuito un decreto intorno all'acqua santa, ovvero benedetta. Egli ordinò che tale acqua fosse continuamente conservata nell'entrata delle chiese, e nelle case dei privati come mezzo potente a cacciare gli spiriti maligni, ad invocare la benedizione del cielo sopra i nostri lavori, sopra le nostre campagne e sopra le nostre famiglie, e a liberarci da molti mali spirituali e temporali. Il pontefice nel suo decreto si esprime così. Noi benediciamo l'acqua mista con sale ad uso del popolo, affinchè tutti quelli che ne sono aspersi ne siano santificati. Imperciocchè se la cenere di un vitello spruzzato di sangue santificava il popolo nella legge antica, molto più l'acqua che usiamo noi, la quale è aspersa di sale e consacrata con preghiere divine. Se il profeta Eliseo collo spargimento di un po' di sale risanò l'acqua e da amara che era la raddolcì, con quanto più di ragione non potremo dire che l'acqua consacrata dalle parole divine sia più efficace a togliere il guasto delle cose umane, allontanare le insidie degli spiriti maligni? {39 [483]}

            L'acqua benedetta fu in ogni tempo e in tutti i luoghi in uso nella Chiesa. Questa pratica è specialmente basata sopra le parole di S. Paolo, scritte a S. Timoteo (Tim. I, c. 4), quando dice che ogni creatura si santifica colla parola di Dio e coll'orazione. Perciò non solamente l'acqua, ma eziandio l'olio, il pane, e le altre cose destinate ad uso degli uomini soglionsi dalla Chiesa benedire ad esempio di G. C, il quale prima di dare il pane alle turbe lo benedisse. lo spezzò, di poi lo diede a' suoi apostoli che ne facessero la distribuzione. (Luc. c. 9.) Iddio poi dimostrò il suo gradimento per l'uso dell' acqua benedetta con sensibli miracoli. Ai tempi di Costantino il grande un certo Conte Giuseppe usò l'acqua benedetta per vincere le insidie del demonio, e l'effetto ne fu favorevolissimo. V. S. Epifanio Eres. 30.

            S. Ilarione usava l'acqua benedetta per dissipare certi incantesimi e certi fantasmi coi quali i maghi gentili cercavano d'ingannarlo. V. S. Ger. in vita S. Ilar.

            S. Marcello, vescovo dì Apamea, voleva mandare in fiamme un tempio degl' idoli, e il demonio ne spegneva l'incendio. Il {40 [484]} santo vescovo prese dell'acqua benedetta e con essa fece il segno della santa croce sopra quel fuoco, che non potè più essere spento, e così il tempio degl' idoli fu in breve ridotto in fiamme. V. Teodoreto lib. 5, c. 21.

            Che se l'acqua benedetta ha tanta virtù di superare ogni forza degli spiriti maligni, chi potrà mai dubitare che tale pratica non sia molto efficace per invocare la potenza di Dio? V. Bar. ad an. 132.

            Chi poi volesse leggere molti fatti che dimostrano l'intervento della potenza divina nell'uso dell'acqua benedetta, potrebbe leggere S. Basilio (de Spiritu Sancto, c. 27); S. Cirillo (cat. 3); S. Ambrogio (De Sacramentis lib.2); S. Agostino (in Jul. lib.6.)

            Pertanto noi cattolici appoggiati sopra questa pratica che rimonta fino al tempo degli apostoli; appoggiati sopra l'autorità dei santi padri, dei concilii e sopra una moltitudine immensa di favori ottenuti coll'uso dell'acqua santa, siamo solleciti a farne uso nei varii bisogni della vita. Non entriamo mai in chiesa senza fare con essa il segno della santa croce. Non vi sia una casa fra i cristiani ove non se ne faccia, uso. {41 [485]}

 

 

Capo IX. S Alessandro ordina sacri ministri. - - Guadagna molti alla fede - È posto in prigione col prefetto di Roma. - Colloquio di questo prefetto con Quirino.

 

            S. Alessandro governava da dieci anni la Chiesa di Gesù Cristo con una sollecitudine veramente degna del Capo della Chiesa. Mentre lavorava per consolidare con decreti la dottrina insegnata dagli apostoli e fino al suo tempo praticata, si adoperava eziandio ad ordinare degni ecclesiastici da spedirsi a portare la luce del Vangelo nei varii paesi. Si sa dalla storia che egli tenne tre ordinazioni nel mese di dicembre, in cui ordinò cinque vescovi, cinque preti e due diaconi. V. Pont. Gelasii.

            Egli era infaticabile in ogni parte del sacro ministero. Dove non poteva andare in persona, mandava scritti, o inviava sacri ministri. Egli poi in Roma faceva sentire la sua voce in tutti i lati e appresso ogni condizione di persone. Abbiamo detto che mentre S. Alessandro sedeva sulla sede pontificia, governava il romano impero Adriano, di cui si loda {42 [486]} molto la giustizia e la bontà; ma la volontà dell'uomo torna inutile nella pratica della virtù, ove non intervenga l'aiuto della santa cristiana religione. Adriano pensò di far cosa grata agli dei comandando che tutti i suoi sudditi dovessero adorarti. Alla qual cosa rifiutandosi i cristiani, l'imperatore richiamò in vigore gli editti di persecuzione de' suoi antecessori.

            Egli fu allora che S. Alessandro raddoppiò zelo e coraggio. La sua sollecitudine confortata dalla grazia gli avevano fatto guadagnare l'affetto di tutto il popolo. La sua predicazione fu cosi fruttuosa, che. giunse a guadagnare alla fede la massima parte dei senatori. Lo stesso prefetto di Roma, di nome Ermete, mosso dai miracoli e dalle verità che S; Alessandro praticava, si convertì egli co' suoi figli, e con 1250 servi, e tutti ricevettero il battesimo.

            L'imperatore in quel tempo era assente, e come giunsero a notizia di lui i progressi che faceva la cristiana religione fra i suoi sudditi, egli dalla città di Seleucia mandò a Roma il conte Aureliano, che mettesse a morte quanti cristiani gli fosse dato di scoprire. {43 [487]}

            Appena entrato in Roma vennero a lui i sacerdoti degl' idoli, e interpretando sinistramente tutte le cose che riguardavano i Cristiani, eccitarono Aureliano a far mettere in prigione Ermete e il papa Alessandro. In quello stesso momento fu fatto un grave tumulto tra il popolo. Alcuni andavano gridando: Alessandro sia bruciato vivo. Altri dicevano: sia pure arso Ermete, che allontanò tante migliaia d'uomini dal culto de' nostri dei, e li fece abbandonare i loro templi e spezzare le loro statue. Aureliano pertanto affine di far cessare il Pontefice di predicare e provare di far prevaricare Ermete, li fece mettere ambidue in prigione. Il pontefice fu messo in una prigione pubblica insieme con una turba di malfattori; Ermete poi, in riguardo delle cariche da lui tenute, venne condotto nella casa di un tribuno di nome Quirino[2].

            Quirino preso da compassione pel suo amico Ermete, adoperò tutti i mezzi per {44 [488]} farlo prevaricare. Vedi, gli diceva, quanti mali caddero sopra di te dacchè ti sei fatto cristiano! Pure se tu vorrai persistere in tal proposito, ti aspettano assai maggiori travagli. Vedi a che stato sei ridotto; tu prefetto di Roma, tu ricco, ora privato di ogni cosa, e quale schiavo chiuso in prigione.

            Ermete rispose: a me non è stata tolta la prefettura, ma ho solamente cambiato quella della terra con quella del cielo. Imperciocchè le dignità terrene possono essere tolte dagli uomini, ma niun mortale può togliere le dignità del cielo.

            Quirino replicò: io mi maraviglio, che tu uomo dotto e prudente creda esservi un' altra vita dopo la presente, mentre dopo la morte fino le ossa scompariscono, e sono ridotte al nulla.

            Ermete. Pochi anni sono io era del medesimo tuo parere, ma adesso sono di sentimento ben diverso.

            Quirino. Se è vero quanto mi dici fammelo conoscere, affinchè ci creda anch'io e nello stesso tempo io sappia che tu hai operato con prudenza.

            Ermete. S. Alessandro è colui che mi cavò dall'errore e da tale cecità. {45 [489]}

            Quirino. Parli tu forse di quell'Alessandro che io tengo chiuso nella pubblica prigione.

            Ermete. Appunto Alessandro vescovo, che è tenuto tra le catene, mi ha insegnato queste cose.

            Quirino. Ora ti giudico più colpevole di prima, perchè tu presti fede ad un uomo che per le sue malvagità sarà in breve condannato alle fiamme. Ascoltami, o Ermete, uomo illustre, savio, prudente, ritorna ai buoni sentimenti, adora quegli Dei che i tuoi maggiori e tu stesso avete adorato. Ciò ti tornerà di grande vantaggio. Aureliano stesso mi ha incaricato di dirti che facendo questo, ti renderà le tue sostanze, la tua prefettura, le lue ricchezze, ti innalzerà a grandi onori ed avrai la sua amicizia.

            Ermete. Tu non mi hai permesso di dirti quelle cose che mi hai dimandato.

            Quirino. Io ti aveva dimandato di espormi le ragioni che ti avevano indotto a farti cristiano. Ma tu hai chiamato uomo santo colui che io tengo chiuso tra le catene in prigione. Perciò appena mi hai nominato quello scellerato da cui tu sei stato ingannato, non mi fu più possibile {46 [490]} lasciarti parlare. Ora in te io non ravviso altro che un uomo ingannato da un menzognero, che in pena de' suoi delitti giace in profonda ed oscura prigione, e che in breve sarà certamente mandato alle fiamme. Che se mai egli valesse a qualche cosa liberi sè e te di prigione.

            Ermete. Ascolta, o Quirino. Quando il mio Signore G. C era in croce, i giudei lo insultavano dicendo: se può, discenda egli dalla croce e noi crederemo in lui. Ma egli leggeva la perfidia nel loro cuore, e sapeva che non avrebbero creduto qualunque cosa avesse fatto; perciò non volle compiacerli.

            Quirino. Se è vero quanto mi dici, io andrò da Alessandro e gli dirò: se vuoi che io creda che tu sei il predicatore del vero Dio, e che il vero Dio è quello che tu adori, fa che io trovi Ermele con te, o te con Ermete nella stessa prigione, e allora crederò a quanto mi dici.

            Ermete. Tutto quello che mi hai detto io lo credo tutto possibile al nostro Dio

            Quirino. Or bene: io andrò tosto da Alessandro, e sopra di lui triplicherò le catene e le guardie; e dirò che egli venga a te all'ora di cena; e se tal cosa potrà {47 [491]} avverarsi nel corso di questa notte, io crederò a quanto egli dice.

            Ognuno può facilmente comprendere come la grazia del Signore comincia a farsi strada nel cuore di Quirino. Di mano in mano che egli udiva parlare della cristiana religione sentiva nascersi nel cuore vivo desidero di istruirsi di più; deponeva l'odio contro ai cristiani, e sentivasi a crescere il desiderio di conoscere le maraviglie di cui gli si parlava. Ma Dio vuole che andiamo ad ascoltare questa divina parola da' suoi ministri e specialmente come ce la propone il vicario di Gesù Cristo.

            È bene qui di notare come fosse opinione sparsa presso i Gentili e presso gli stessi Ebrei che i cristiani fossero grandi operatori di miracoli, a segno che tal volta giugnevano a chiamarli maghi. La qual cosa produceva ne' Gentili un vivo desiderio di trattare coi cristiani.

            Così aveva fatto Pilato ed Erode. Essi desideravano di vedere G. C. per essere testimoni di qualche miracolo, e così pure gli imperatori. I giudici e i governatori delle città talvolta si trattenevano a lungo coi confessori della fede, e mitigavano anche il loro furore nel desiderio di vedere qualcheduno {48 [492]} di quei tanti miracoli che loro si diceva operarsi dai cristiani.

 

 

Capo X. Preghiera di s. Alessandro - Un angelo il conduce alia casa di Quirino - Ermete racconta la storia della sua conversione.

 

            Quirino per assicurarsi che non gli facessero travedere le cose andò a riferire ad Alessandro la sfida fatta ad Ermete, di poi fece mettere un numero di guardie tre volte maggiore dell'ordinario, tanto intorno alla camera ove era Ermete, quanto intorno alla prigione dove era Alessandro. Così aveva anche fatto Erode, allorchè fece chiudere in prigione s. Pietro.

            Il Pontefice intesa tal cosa si mise tosto a pregare Iddio onde volesse manifestare la sua gloria, e illuminare quel tribuno con un miracolo. Egli pregava cosi: Signor mio G. C., che mi hai chiamato a sedere sopra la cattedra di s. Pietro tuo apostolo, concedimi, non già che io sia libero dal martirio, ma che venga il tuo angelo, e di questa sera mi conduca al tuo servo Ermete, e dimani mattina mi riconduca qua senza che alcuno se ne {49 [493]} accorga finchè io sia ritornato. Pregava ancora, quando uno splendore illumina tutta la prigione, mentre un giovinetto con un lume in mano gli si presenta e dice: Alessandro, seguimi.

            Il Pontefice temendo che fosse un' illusione o frode diabolica, si volse al giovinetto e disse: io non andrò teco se tu non farai prima qui orazione. Il fanciullo, che alla vista sembrava aver l'età di cinque anni, s'inginocchiò, e stette mezz' ora in orazione; di poi si levò e recitò ad alla voce il Pater noster. Prese poscia per mano Alessandro, il quale dal modo di pregare si accertò essere questo un angelo mandato da Dio, siccome aveva fatto a s. Pietro in Gerusalemme, e cominciò a seguirlo. Passò le porte, e le guardie, senza che alcuno cercasse di fermarlo, e andato coll'angelo alla casa di Quirino, entrò nella stanza dove era Ermete. Appena i due santi si videro insieme si abbracciarono piangendo di allegrezza e confortandosi l'un altro a patire qualsiasi male per amore di G. G. A fine poi di ringraziarlo dei favori ricevuti si posero a pregare.

            Mentre si trattenevano io orazione, giunse {50 [494]} Quirino, il quale al vedere i due confessori della fede inginocchiati e fare insieme orazione, circondati da raggianti splendori rimase come incantato. Vedendolo così fuori di sè gli dissero: Ciò che dimandasti, ora l' hai ottenuto; eccoci ambidue insieme di corpo siccome lo eravamo già prima di spirito. Ora credi. Ma per non lasciare in te ombra di dubbio, domani ci troverai al nostro luogo di prima non sciolti come ci vedi adesso, ma legati, con quelle stesse catene con cui ci hai fatto legare. Quirino rispose: Quanto voi avete fatto può essere avvenuto per arte magica.

            Non dir così, ripigliò Ermete perciocchè tu hai dimandato questa prova; hai triplicato le guardie tanto alla mia camera, quanto alla pubblica prigione; nondimeno ci vedi qui insieme; e sta sicuro che ciò non può avvenire se non per volere di Dio, alla cui potenza ogni cosa è possibile. Egli stesso, quando era nel mondo e conversava cogli uomini, operò simili maraviglie dando la vista ai ciechi, l'udito ai sordi, la loquela ai muti, e perfino la vita ai morti. Egli stesso assicurò che i suoi seguaci avrebbero operato miracoli maggiori di quelli {51 [495]} operati da lui. I suoi servi operano al presente le stesse maraviglie non in virtù di loro, ma in virtù del suo Santo Nome. Quando mai tu vedesti risuscitare un morto per arte magica? Ora piacciati di ascoltarmi, io ti racconterò quanto mi occorse con Alessandro, e cosi cesserai d'incolparmi quasichè io sia stato troppo facile ad abbandonare gli dei, che adorarono i miei antenati per adorare G. C. morto in croce.

            Io ho un figliuolo, come sai, il quale poco tempo fa cadde ammalato. Io lo portai al tempio dì Giove, feci sacrificio, invocai tutti i nostri Dei, ma tutto invano, poco dopo egli morì. Teneva allora in casa una serva, che aveva allevato quel mio figliuolo, la quale di poi era divenuta cieca. Vedendomi tutto addolorato, costei mi disse: se tu invece di portare tuo figlio a Giove in Campidoglio l' avessi portato alla tomba di s. Pietro (ad limina, Petri) e avessi creduto in G. C, tuo figliuolo vivrebbe ancora sano e salvo. Io la ripresi dicendole: se non può guarire te che sei cieca, avrebbe potuto guarire mio figlio che è morto? La serva non rispose, ma subito si {52 [496]} parti. Tre ore dopo ritornò co' suoi occhi belli, chiari e perfettamente guariti, siccome erano prima della sua cecità. Senza profferire parola alcuna, ella prese il corpo di mio figliuolo che non aveva ancora sepolto e lo portò via correndo. Io e molti servi l'abbiamo seguita per vedere che cosa fosse per fare. Giunta dove era Alessandro ella gettossegli ai piedi e disse: Signore, fa che io ritorni cieca, e che questo figliuolo ritorni vivo. Alessandro rispose: Dio non toglie le grazie fatte; egli è infinitamente misericordioso; il giovine risusciterà e tu rimarrai colla vista. Detto questo il venerando Pontefice si pose in orazione, e prima che la finisse vidi mio figliuolo alzarsi in piedi, vivo, sano, senza alcun segno di essere stato ammalato. Avendo veduto tal miracolo me gli gettai a' piedi e lo pregai di farmi cristiano. Egli mi instrui qualche tempo, di poi fui battezzato.

            Fatto questo consegnai le mie sostanze a mio figliuolo, cui diedi G. C. medesimo per tutore. Posi in libertà i miei schiavi, donai qualche cosa a tutti, dispensai parecchie altre cose ai poveri, ed al presente non temo che i miei beni siano {53 [497]} confiscati, neppure temo di perdere la vita, anzi riputerò grazia particolare se avrò la bella sorte di essere annoverato fra' martiri di G. Cristo.

 

 

Capo XI. S. Alessandro dall' angelo ricondotto in prigione - Guarisce la figlia di Quirino - Predica ai prigionieri - Converte molti alla fede.

 

            Quirino aveva udito ogni cosa con somma attenzione e tutto commosso in cuor suo esclamò: si degni Iddio di guadagnar l'anima mia per mezzo di voi in questo modo: Io ho una figliuola inferma di male incurabile nella gola; fatemela guarire ed io vi darò tutte le mie sostanze, rimarrò qui con voi in prigione, e se occorrerà, son pronto a morire per confessare la fede di Gesù Cristo.

            Alessandro rispose: fa delle tue ricchezze quell'uso che meglio ti aggrada, in quanto poi a tua figlia menala qui, e se tu hai fede in Dio, ella guarirà.

            Quirino soggiunse: vuoi che io la conduca qui ove tu sei, oppure alla prigione dove eri prima? Alessandro disse: menala pure nella pubblica prigione, e mi troverai {54 [498]} colà. Quirino voleva lasciare quella stanza aperta, ma Alessandro ed Ermete gli dissero che la chiudesse pure secondo il solito.

            Appena partito Quirino, apparve di nuovo l'angelo in forma di giovinetto, ricondusse Alessandro nella prigione donde l'aveva tolto e poscia disparve.

            Niuno farà le maraviglie sulla possibilità di questo fatto; perciocchè oltre di essere facilissimo a Dio l'operarlo, abbiamo fatti più strepitosi, e a questo somigliantissimi registrati nella sacra scrittura. Daniele era stato chiuso nella fossa dei leoni in Babilonia, e Iddio mandò un angelo al profeta Abacuc nella Palestina, e mentre esso portava gli alimenti ai mietitori de' suoi campi, l'angelo il prende pei capelli e in un istante lo porta in Babilonia. Dopo di aver dato cibo a Daniele l'angelo stesso lo ripone al luogo dove l'avea preso. L'apostolo s. Pietro viene egli pure chiuso in prigione, e custodito con gran numero di guardie. Iddio manda un angelo, fa risvegliare s. Pietro, gli comanda di vestirsi e di seguirlo. Le porte si aprono, passano in mezzo alle guardie che non proferiscono parola; e {55 [499]} Pietro sano e salvo è condotto alla casa di Marco. Questi e moltissimi altri fatti sono registrati nella Bibbia e nella storia ecclesiastica affinchè cessi il nostro stupore se li vediamo rinnovati nelle vite de' santi. Piuttosto dobbiamo ammirare la cura amorosa che prende Iddio de' suoi servi fedeli quando trattasi di confortarli nei pericoli, promuovere la sua gloria, e salvare le anime riscattate col sangue prezioso di Gesù Cristo.

            Appena Quirino lasciò Alessandro, corse a casa, prese la figliuola e con essa andò alla prigione ove era Alessandro. Le porte erano chiuse e perfino sigillate, e le guardie erano al loro posto vigilanti e facevano sentinella. Intanto apre il carcere, e trova Alessandro nell' atteggiamento stesso che lo aveva veduto nella camera di Ermete. Egli rimase come fuori di sè per lo stupore, e gettatoglisi ai piedi disse: io ti domando per grazia, o Alessandro, che preghi per me, affinchè non venga sopra di me lo sdegno di quel Dio, di cui tu sei Vescovo, e non sia così punito per la mia ostinazione e per gli altri miei peccati. Il nostro Dio, rispose Alessandro, non vuole che alcuno perisca, {56 [500]} anzi vuole che ognuno si salvi, offre a tutti un generoso perdono, e per dare un pegno della sua misericordia infinita, mori in croce pregando per coloro medesimi che lo avevano crocifisso.

            Quirino prostrandosi di nuovo soggiunse: questa è la mia figlia inferma, abbi pietà di lei, e prega Iddio che la guarisca da questa lunga e dolorosa infermità.

            Aless. Quanti trovansi chiusi in questa medesima carcere?

            Quir. Circa venti.

            Aless. Guarda se ce ne sono che trovinsi qui prigionieri pel nome di G. Cristo

            Quirino andò, e dopo di aver fatte accurate indagini ritornò dicendo: Avvi qui un sacerdote vecchio di nome Evenzio, ed un altro di nome Teodolo che mi dicono essere venuto dall' oriente.

            Aless. Va presto, o Quirino, e con quel maggior onore e rispetto che puoi conducili qui. Ma prima prendi questa catena che ho al collo e mettila alla tua figliuola.

            Quirino tolse dal pontefice ogni catena, di poi si prostrò nuovamente dinanzi al santo pontefice e baciandogli riverentemente {57 [501]} i piedi dice vagli: metti tu questa catena a mia figlia. Alessandro accondiscese, e Quirino tosto andò a prendere i due sacerdoti Evenzio e Teodolo. In quel momento apparve di nuovo l'angelo portando, come prima, una fiaccola ardente. E rivoltandosi alla fanciulla disse: sii tu guarita, e conservati nello stato di verginità, ed io ti farò vedere il celeste sposo che pel tuo amore sparse il suo sangue. Ciò detto l'angelo disparve. Intanto giunse Quirino coi due sacerdoti, e vedendo sua figlia perfettamente guarita non sapendo come esprimere altrimenti la sua maraviglia disse ad Alessandro: esci di qua, acciocchè Dio non mandi il fuoco dal cielo per abbruciarmi, e così punirmi per averti tenuto in questa prigione.

            Alessandro gli disse che rimanesse tranquillo, di poi aggiunse: se vuoi farmi cosa grata, va e persuadi tutti quelli che sono in questa prigione che ricevano il Battesimo e si facciano cristiani. Quirino soggiunse: caro Padre, vorrei ben poterti compiacere, ma voi cristiani siete santi, e costoro sono ladri, adulteri, omicidi. Alessandro replicò: Cristo scese dal Cielo in {58 [502]} terra, è nato da una vergine, chiamò tutti i peccatori a penitenza; perciò non tardare di condurmeli qui tutti. Allora Quirino esclamò a chiara ed alta voce: chiunque veglia farsi cristiano si faccia pure, e chiunque riceverà il Battesimo egli è padrone di andare ove vuole.

            Venuti alla presenza di Alessandro, esso inspirato da Dio cominciò a parlare cosi: miei figliuoli, ascoltate e credete. Quel Signore Iddio che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi, quel Dio che scuote i fulmini e manda i tuoni, che dà la vita e la morte, quel Dio cui servono il sole, la luna, le stelle, la serenità, le nuvole e la pioggia; questo Dio dal regno de' cieli mandò in terra suo figliuolo unico perchè si facesse uomo e cosi cominciasse a nascere colui che non ebbe alcun principio; cioè Dio eterno si facesse uomo e come tale nascesse da una vèrgine.

            Egli cominciò ad invitare tutti gli uomini a credere in lui. Ma i Giudei essendo duri di cuore e non volendo credere fece in loro presenza questo miracolo. Pranzando con loro, e mancando vino ai convitati egli cangiò l'acqua in {59 [503]} vino. Parimente prese a manifestare i segreti pensieri degli uomini. Diede la vista ai ciechi, l'udito ai sordi, la loquela ai muti, raddrizzò gli storpi, cacciò i demoni, guarì ogni genere d'infermita, e die la vita ai morti. Egli comandò ai venti, calmò le tempeste, camminò sopra le onde come si cammina sulla terra. Alla vista di tali maraviglie un' immensa moltitudine credette a lui. Ma i Farisei e molti Giudei si ostinarono nella loro malizia e giunsero a farlo morire in croce. Egli morì volontariamente, perchè essendo egli padrone della vita, poteva certamente liberarsi dalla morte. Ma egli ha voluto morire per farci vedere come egli era potente da vincere l'autore della morte. Perciò il terzo giorno risuscitò da morte e alla presenza di molti salì al cielo, dando a' suoi discepoli la potestà di operare le stesse maraviglie. Questi, che noi chiamiamo G. C., ritornerà alla fine del mondo per giudicare i buoni ed i cattivi di tutto il bene e di tutto il male che ciascuno avrà fatto. Questi è colui cui voi dovete credere per diventar cristiani. Le parole di Alessandro innamorarono tutti quei prigionieri delle verità del vangelo, {60 [504]} e tutti ad una voce chiesero di essere fatti cristiani. Il pontefice comandò ai due ministri Evenzio e Teodolo che continuassero a instruirli nella fede. In breve Quirino, la sua figliuola, che chiamavasi Balbina, con tutti gli altri prigionieri ricevettero il Battesimo. Così quella prigione ove poco prima non risuonavano che bestemmie e maledizioni, divenne una specie di chiesa dove si cantavano con fervore lodi al Signore.

 

 

Capo XII. Martirio di s. Quirino - di Ermete - di Balbina e di molti altri - S. Alessandro alla presenza di Aureliano - Vien posto sull'eculeo.

 

La notizia che Quirino, la sua figliuola, e i prigionieri eransi fatti cristiani, non tardò molto a pervenire alle orecchie di Aureliano, che ne fu grandemente sdegnato. Fatto venire Quirino alla sua presenza prese a parlargli così: che cosa mai io sento di te, o Quirino. Io ti amava come figliuolo, e tu mi hai trattato da nemico? Dimmi, ti sei anche lasciato ingannare da Alessandro? Quirino rispose: non occorre che io lo neghi, io sono cristiano. {61 [505]} Tu puoi farmi tutti i mali che vuoi, e darmi anche la morte, ma non perciò io mi arresterò di confessare che G. C. è vero Dio. Ti avviso ancora che tutti quelli che erano in prigione si sono fatti cristiani, io diedi loro licenza di andarsene liberi, e il medesimo feci con Alessandro ed Ermete, ma non vollero farlo dicendo: se dobbiamo essere pronti a morire pei nostri delitti, qualora avessimo la disgrazia di commetterne, quanto più dobbiamo essere preparati a morire pel nome di Gesù Cristo? Io ho aperto loro le carceri e dissi che se ne andassero, ma niuno volle uscire, e stanno là tutti apparecchiati al martirio col medesimo desiderio con che un affamato andrebbe ad un lauto pranzo.

            Grande fu lo sdegno di Aureliano a tali parole e nel suo furore comandò che sull' istante fosse tagliata la lingua a Quirino dicendo: questo sia il principio del tuo castigo, acciocchè tu perda il membro con cui ti gloriasti di avermi offeso, e non hai avuto riguardo di confermare il tuo delitto in mia presenza. Di poi lo fece tormentare in molte maniere, e dopo di avergli fatto tagliare le mani e i piedi {62 [506]} ordinò che gli venisse troncata la testa e il suo corpo gettato ai cani. Ma i fedeli ebbero cura di raccoglierne gli avanzi e dargli onorevole sepoltura. Santa Balbina, di lui figliuola, serbava tanta gratitudine verso s. Alessandro che non cessava mai di baciare quella catena con cui era stata guarita. Per la qual cosa il Pontefice le disse: cessa di baciare questa catena, va piuttosto (ad limina Petri) a baciare le catene di s. Pietro.

            Nel suo furore Aureliano non trovava più soddisfazione se non nel sacrificare vittime cristiane. Fece tagliare la testa ad Ermete, di poi diede ordine che Balbina e tutti coloro i quali erano stati battezzati in prigione fossero condotti sulla riva del mare e gettati dentro con grandi pesi al collo. Tutti questi diedero la loro vita per amore di G. Cristo.

            Cosi Iddio moltiplicava la sua misericordia sopra quelli che appaiono i più dispregevoli, e colla sua grazia infondeva ne' suoi martiri quel coraggio che chiamasi eroismo cristiano; in simile guisa togliendoli dalle carceri del mondo li sollevava a quella gloria celeste che non ha paragone con quello che ci tocca patire sopra la terra. {63 [507]}

            Dopo di aver mandato a morte tanti cristiani Aureliano parve alquanto calmato. Perciò mandò a chiamare Alessandro con Teodolo ed Evenzio; quindi con pacifiche parole, cominciò a parlare così: Io vorrei che tu, o Alessandro, mi facessi conoscere tutti i misteri della tua religione, e sapere qual cosa vi prometta questo vostro Gesù Cristo, che io non conosco, e per cui vi lasciate con tanta indifferenza ammazzare.

            Alessandro si accorse che il governatore desiderava di sapere i misteri della religione cristiana non per istruirsi, ma per metterli in dispregio, perciò si fece a rispondere così: quello che tu dimandi è cosa santa, ma il nostro Signor G. C. ci proibisce di gettare le cose sante dinanzi ai cani; cioè ci proibisce di palesare le sublimi verità di fede a quelli che non desiderano di saperle per crederle, ma per metterle in derisione. Non è espediente, diceva il Salvatore, dare le cose sante ai cani e gettare le pietre preziose davanti ai porci.

            Dunque io sono un cane? rispose Aureliano, montando in collera. Alessandro replicò: la tua sorte, Aureliano, è molto {64 [508]} inferiore a quella del cane, perchè egli è irragionevole, e non venera le verità della fede solo perchè non le conosce; che se egli commette qualche errore, lo paga colla vita. Ma l'uomo che è fatto ad immagine di Dio, e che essendo ragionevole conosce le verità della fede e le disprezza, se egli commette grave offesa al suo creatore, la paga non solo colle pene della vita presente, ma ancora colle fiamme eterne dell'inferno.

            Dimmi quello che ti ho chiesto, riprese Aureliano, altrimenti comincio a farti tormentare.

            Aless. Chì vuole essere instrutto nella religione di G. C. bisogna che il faccia coll'umiltà e non colle minaccie.

            Aur. Dimmi quel che ti domando, e pensa che sei davanti ad un giudice, la cui potenza è temuta da tutto il mondo.

            Aless. Bada bene, o Aureliano, che colui il quale si vanta della sua potenza, egli è vicino a perderla.

            Aur. Infelice che sei, le tue parole e la tua audacia saranno punite coi più atroci tormenti.

            Aless. Non sei per fare alcuna novità, facendomi cosi tormentare. Perciocchè {65 [509]} qual uomo innocente potè fuggire dalle tue mani? Presso di te vivono solamente tranquilli coloro che rinnegarono il nostro Signor G. C. lo poi coll'aiuto divino sono certo di non negare il mio Signore; è cosa indispensabile che io sia da te tormentato ed ucciso, come lo fu il glorioso Ermete, l'intrepido Quirino, e come lo furono tutti quelli che, illuminati da Dio, passarono coraggiosi in mezzo ai tormenti e giunsero alla vita eterna.

            Aur. Questo è appunto quello che cerco da te. Qual è la cagione di tanta stranezza da lasciarvi piuttosto uccidere che cedere a' miei comandi?

            Aless. Te l'ho già detto, e te lo ripeto, che non è permesso di dare ai cani le cose sante.

            Aur. Sono io forse un cane? Cessino le parole, veniamo tosto ai flagelli.

            Aless. Io non temo que' flagelli che passano in un momento, ma temo quei flagelli che tu non temi, voglio dire i tormenti dell'inferno che non finiranno mai più.

            Si accorse allora Aureliano che parlava inutilmente, perciò abbandonandosi all'impeto del suo sdegno, ordinò ai satelliti {66 [510]} di spogliare S. Alessandro e di poi stenderlo sopra l’eculeo ossia cavalletto, che era una tortura delle più dolorose. Consisteva l'eculeo in due travi sostenute in alto. Alla estremità di ciascuna di queste travi eravi una girella, ovvero tagliuola, intorno a cui facevano scorrere funi a bello studio congegnate. Quando condannavano un cristiano all'eculeo, il prendevano, lo collocavano sopra quelle travi, di poi lo legavano pei piedi e pelle mani. Facendo quindi scorrere le corde per le girelle, tendevano il corpo del martire in guisa che talvolta le vene si rompevano e le giunture si staccavano. Quando poi il corpo era così straziato da quell'orribile tensione, si rallentavano in un tratto le funi, e allargandosi le due travicelle, il martire rimaneva sospeso pei piedi e per le mani. Mentre era in simile atteggiamento, per lo più il paziente era sottoposto alla flagellazione, agli uncini di ferro, o ad altri tormenti di simil genere.

            Quando S. Alessandro fu così disteso sopra l'eculeo, Aureliano comandò che fosse battuto con verghe e lacerato con uncini di ferro; sicchè la sua carne era {67 [511]} strappata a brani, e il suo sangue scorreva sino a terra. Di poi ordinò che si accendessero fiaccole, e così ardenti fosssero poste sotto alle sue piaghe. Ma quei tormenti acuti e prolungati ben lungi dallo abbat'ere l'animo del santo pontefice, pareva che lo rendessero più ansioso di patire per la fede, perciocchè il suo cuore era cosi infiammato d'amor di Dio, che pareva insensibile ai più spietati tormenti; egli non faceva un lamento, non proferiva un sospiro.

            Vie più attonito Aureliano disse: perchè non ti lamenti? Qual è la causa del tuo silenzio?

            Alessandro rispose: Quando il cristiano fa orazione, egli parla con Dio, e quando pensa a lui, egli dimentica quanto soffre quaggiù.

            Aur. Rispondi a tutte le cose che ti dico, e ti farò sospendere i tormenti.

            Aless. Stolto che sei, fa quel che vuoi, io non temo la tua crudeltà.

            Aur. Abbi almeno riguardo alla tua età; non tocchi ancora i trent'anni, e vuoi già così privarti di vita?

            Aless. Tu abbi piuttosto pietà dell'anima tua; perciocchè se io perdo il mio corpo, io salvo l'anima mia; ma se tu {68 [512]} perdi l'anima, per te tutto è perduto in eterno.

            Mentre queste cose avvenivano ed Alessandro era tuttora sospeso sull'eculeo, la moglie di Aureliano, che chiamavasi Severina, siccome aveva fatto la moglie di Pilato quando era per condannare il Salvatore, mandò a dire queste parole al marito: libera te stesso da una grave sciagura, lascia in libertà codesto Alessandro. Perchè anche tu sei per essere colpito da mala morte, e lascierai me vedova sventurata. Che cosa è questa mai, gridò Aureliano infuriato? Forse anche mia moglie è d'accordo con questo ingannatore? Tuttavia mosso da tali parole fece levare dai tormenti Alessandro dicendo: ne vedremo altra volta il fine.

 

 

Capo XIII. Interrogatorio e flagellazione di S. Evenzio e Teodolo - Sono gettati con S. Alessandro in una fornace ardente. - Loro martirio.

 

            Aureliano adunque atterrito dai mali che gli prenunziava la sua stessa moglie, che si crede fosse già cristiana, fece togliere s. Alessandro dai tormenti, ed {69 [513]} in sua vece ordinò che si collocassero i Ss. Evenzio e Teodolo sopra l'eculeo. Voltosi di poi ad Alessandro disse: dimmi, o Alessandro, chi sono costoro? Alessandro rispose: sono due cristiani ambidue sacerdoti. Rivoltandosi di poi ad Evenzio disse: come ti chiami?

            Ev. In quanto al corpo mi chiamo Evenzio, in quanto all'anima sono cristiano.

            Aur. Quanto tempo è che sei cristiano?

            Ev. Sono settant'anni, perchè di undici anni fui battezzato, di venti sono stato ordinato sacerdote; ora ne ho ottant'uno, e ne ho già passato uno in prigione molto allegro e contento.

            Aur. Piglia il mio consiglio, o buon vecchio, abbi riguardo alla tua età, nega che Cristo sia Dio, e sarai mio amico, vivrai tranquillo nelle ricchezze, e non sarai condannato a finire la tua vita nei tormenti.

            Ev. Il tuo consiglio non fa per un cristiano. Meglio sarebbe che tu prendessi il consiglio che io sono per darti, e che ti facessi cristiano, e cosi eviteresti un supplicio eterno che nell'altra vita è preparato a te e a tutti quelli che muoiono nella cecità in cui ti trovi. {70 [514]}

            Aureliano non diede ascolto al santo martire: anzi volle provare di far prevaricare Teodolo dicendogli: sei tu quel Teodolo che reputa per nulla i miei comandi?

            Teod. Io reputo per nulla i tuoi comandi e te stesso ancora, perchè con tanti atroci supplizi laceri i servi di Dio. Che cosa ha fatto Alessandro che tu hai oppresso con tanti tormenti?

            Aur. Credi tu forse di andarne esente?

            Teod. Spero nella misericordia del mio Dio, che non sarò separato dalla società de' suoi martiri.

            Aureliano vedendo inutile ogni prova, ordinò che si accendesse una gran fornace, e facendo legare insieme Alessandro con Evenzio, ve li fece gittar dentro al punto che le fiamme erano avvampanti. Acciocchè Teodolo fosse atterrito dalla vista di quel supplizio e si risolvesse a sacrificare agli dei, volle che egli stesso fosse presente e vedesse i suoi compagni a consumare la vita fra le fiamme. Ma la cosa riuscì ben altrimenti. Perciocchè vedendolo mesto, S Alessandro gridò a gran voce dicendo: o fratello Teodolo, vieni qua anche tu, perciocchè quel quarto compagno, cioè quell'angelo che apparve {71 [515]} tra i fanciulli ebrei quando trovavano nella fornace di Babilonia, apparve anche qui ed è con noi. Allora Teodolo si lasciò cadere nella fornace. Iddio rinnovò verso quei tre confessori il miracolo stesso, che aveva operato verso i tre giovanetti che Nabucodonosor avea fatto gettare nella fornace di Babilonia. Il fuoco perdette la sua forza e non fece più male ad alcuno. Vedendosi in maniera cotanto prodigiosa difesi dalle fiamme, si posero a cantare come facevano i tre giovanetti di Babilonia, dicendo: O Signore, tu ci hai provati col fuoco, e colla tua misericordia avendoci purgati dai nostri peccati, più non hai trovato in noi alcune iniquità. La qual cosa essendo stata annunziata ad Aureliano, ne fremette di sdegno, e nel suo furore diede ordine che fossero tutti e tre cavati dalla fornace, facendo sull'istante tagliare la testa ad Evenzio e Teodolo; ad Alessandro poi fece cacciar tante punte di ferro per la vita, che in breve egli spirò fra i tormenti. Egli riportava la corona del martirio il tre di maggio l'anno 132, nella via Numentana, sette miglia lungi da Roma, dopo aver governata la santa Sede anni dieci, mesi cinque, giorni venti. V. Baronio all'anno 132. {72 [516]}

 

 

Capo XIV. Sepoltura di S. Alessandro. - Terribile morte di Aureliano. - Culto verso le reliquie di S. Alessandro.

 

            Le memorie che riferiscono il martirio di questi gloriosi confessori della fede, dopo di averne esposto i patimenti, le risposte, i miracoli e la morte gloriosa, finiscono così: dopochè i tre martiri furono morti, Aureliano, come per insultarli, faceva gran festa, quasi avesse riportata una grande vittoria. Ma guai a chi si rallegra del male operato. Mentre stavasi in questo giubilo ode una voce che dice: Aureliano, tu ti burli di costoro, ma sappi che loro sono state aperte le porte del cielo, a te quelle dell'inferno. A quelle parole Aureliano parve colpito da un fulmine: un terrore invase tutta la sua persona, quindi cominciò a dire a Severina sua moglie: Venne a me un giovinetto con una verga di ferro infuocata, e gettandola davanti a' miei piedi disse: ricevi il premio che ti sei meritato. Da quell'istante fui assalito da un fremito e da uno spavento, ed agitato da una violenta febbre, non so più quello che mi faccia. Prega il tuo Dio {73 [517]} per me, o Severina, affinchè mi perdoni. Severina gli rispose: io andrò e da me sola seppellirò i corpi di quei tre che hai fatto morire, affinchè non accada anche a me simile sventura. Ella pertanto andò e a sette miglia lungi da Roma, in un suo podere sulla via Numentana, seppellì Alessandro, Evenzio in un medesimo monumento, e seppellì Teodolo solo in un luogo separato. Allora si radunarono tutti i sacerdoti del clero romano, e venuti al luogo dove i corpi de' santi martiri erano stati sepolti, loro fecero onorevoli esequie. Severina poi ritornò in fretta a casa e trovò Aureliano fuor di senno e travagliato da una febbre che lo bruciava vivo. Cui Severina indirizzò queste parole: Non hai voluto ascoltare le mie parole, ed ecco di mala morte morrai e mi lascerai vedova abbandonata.

            In quell'istante Aureliano mordendosi e masticandosi la lingua, morì arrabbiato, dando così un terribile esempio de' mali preparati a quelli che perseguitano la santa cristiana religione.

            Allora Severina si vestì di cilici, cioè prese un abito che indicava come ella aveva deliberato di passare tutta la sua {74 [518]} vita nella pietà e nella penitenza. Di poi andò a dimorare in quel luogo medesimo dove erano stati sepolti i nostri santi: martiri; nè più di là si allontanò, finchè venne dall'Oriente un vescovo, di nome Sisto, il quale a preghiera di Severina ordinò un sacerdote deputandolo a celebrare ogni giorno il santo sacrificio della messa sulla tomba dei santi martiri. Da questo fatto si vede quanto sia antico l'uso di celebrare i divini misteri sopra le reliquie dei santi. Questa pratica è tuttora in vigore nella Chiesa cattolica, giacchè nelle pietre sacre dei nostri altari si mette sempre la reliquia di qualche santo.

            In tutti i tempi si ebbe grande venerazione per questo sommo pontefice; e tutti i giorni si fa commemorazione di lui nella santa Messa e si invoca ad esserci protettore presso Dio.

            Più tardi il corpo di S. Alessandro fu trasportato in Roma nella chiesa di santa Sabina. L'anno 1061, un altrò sommo pontefice, anche chiamato Alessandro, e secondo di questo nome, concedette ai fedeli di Lucca, che è una città della Toscana, una reliquia insigne di S. Alessandro primo, insieme colle catene da {75 [519]} cui era stato legato. Il contatto di queste catene operò molti prodigi, dando la sanità ad un gran numero d'infermi che avevano perduta ogni speranza di guarigione. Fra le altre maraviglie si racconta quanto segue: Un ladro andò in una chiesa per rubare quello che di più prezioso sarebbegli venuto alle mani. Esso penetrò nel luogo ove solevansi tenere le reliquie e le altre cose più venerande, e non trovando cose di valore, come egli si pensava, rubò le catene di S. Alessandro, che vendette per quattro soldi ad un fabbro ferraio. Esso provò col martello e col fuoco di ridurle in pezzi, ma non gli riuscì mai di romperle. A tale miracolo spaventato il ladro palesò il suo delitto al fabbro, che le portò nuovamente alla chiesa di prima, dove si conservarono sino a' nostri giorni. V. Boll. tom. I, maii, pag. 270-4.

 

 

Capo XV. Un riflesso importante.

 

            La morte del conte Aureliano, che fu cotanto crudele contro s. Alessandro, e contro altri cristiani, vorrei  che fosse per {76 [520]} noi una salutare lezione, che ci ammaestrasse come il disprezzo delle cose sante, e dei sacri ministri suole essere da Dio punito con pene temporali anche nella vita presente. La storia sacra ed ecclesiastica sono ripiene di terribili esempi. Due giovani di nome Nadab ed Abiu si fanno capi squadra; prendono un turibolo e in faccia del popolo Ebreo mormorando contro ai ministri di Dio vogliono compiere una cerimonia che ai soli sacerdoti era permessa. Ma Iddio fa spalancare la terra sotto ai loro piedi, e uscendo fuori una fiamma avvampante, li circonda sì che sono tutti inceneriti, e ingoiati dagli abissi. Levit. 10. - Num. 26 v. 61.

            Il re Saulle volle anch' esso mischiarsi a maneggiar cose sacre. Ma Iddio reputa un sacrilegio quel sacrifizio e l'infelice Saulle viene assalito da uno spirito maligno che lo segue e lo tormenta in tutti i luoghi, in tutti i giorni e finisce col darsi volontariamente la morte. 1. Reg.13.

            Un generale stende la mano per minacciare un profeta del Signore, e quella mano diviene arida ed immobile sull' istante. 3. Reg. 43.

            Alcuni giovanetti insolentiscono contro {77 [521]} al profeta Eliseo, e lo insultano con soprannomi, ed ecco due orsi escono da una vicina foresta e ne sbranano quaranta potendo appena gli altri salvarsi con  precipitosa fuga. Reg. 2. v. 23.

            Il re Baldassarre in un convito co' suoi amici comanda che siano portati a mensa i vasi sacri rubati nel tempio di Gerusalemme ed invita i commensali a servirsi di quelli per bere; ma improvvisamente vede comparire una mano che a neri caratteri scrive sopra il muro la sentenza di morie e di riprovazione. Cose tutte che poche ore dopo hanno il loro effetto. Daniel. 5.

            Il re Antioco fa saccheggiare il tempio di Gerusalemme e mette sossopra le cose destinate al divin culto, e fra i più spietati tormenti fa morire quelli che trova più fermi nella fede. Ma nel colmo del suo furore la mano di Dio lo percuote e l'infelice Antioco fra dolori i più atroci termina la sua vita. Macab. 1. C. 6.

            Erode il grande condanna a barbara morte una moltitudine d'innocenti bambini, e poco dopo egli viene assalito da doglie spasimanti e finisce coll'essere roso dai vermi. V. Joseph. Ant, Iud. {78 [522]}

            Quale trista fine non fece quell' Erode Antipa che diè ordine di tagliare la testa a s. Giovanni Battista? Quell' Anna, quel Pilato, quel Caifas ed altri che condannarono a morie il Divin Salvatore, tutti costoro, ci assicura la storia, finirono i loro giorni in un modo da far palesi i segni della divina vendetta.

            Anche il re Agrippa figliuolo di Erode il grande perseguito i cristiani, fece tagliare la testa a s. Giacomo, e mettere in prigione s. Pietro; ma un angelo del Signore pubblicamente lo percuote, e il misero re muore fra le più acute doglie, che a guisa di fuoco gli abbruciano le viscere. Che cosa si potrebbe dire di Nerone e di altri persecutori de' cristiani o dei profanatori delle cose sante? Non è quindi a maravigliarsi se Iddio abbia punito di morte funesta il conte Aureliano che fu tanto crudele verso i cristiani e specialmente verso il vicario di G. Cristo. Affinchè da noi non fosse mai dimenticato il debito rispetto alle cose sacre ed ai suoi ministri, Dio ha voluto che fosse registrato ne' santi libri questo grave precetto: guardatevi bene di porre le mani addosso a' miei ministri, o dire contro di essi parole di sdegno. Nolite tangere Christos {79 [523]} meos, neque in prophetis meis malignari. Psal. 104. e Paral. 1. C. 16. Il quale precetto è segnato da una lungi, e terrìbile serie di avvenimenti che ci fanno toccare con mano che le minaccie di Dio non sono senza effetto.

            Cristiano lettore, guardiamoci bene che simili castighi e simili minaccie non siano per verificarsi sopra di noi. Amiamo questa nostra santa religione; rispettiamo il suo Capo che è il Sommo pontefice, veneriamo i suoi ministri, pratichiamo e veneriamo quelle cose che la santa Madre Chiesa ci comanda; perchè quel Signore G. C. che ha detto nel Vangelo: chi ascolta voi (i suoi ministri) ascolta me; disse altresì: qui vos spernit me spernit, chi disprezza voi, disprezza me. Luc. 10. v. 16.

            Che se talvolta Iddio nella sua grande misericordia differisce i suoi castighi, tremiamo per le sciagure assai più grandi che sovrastano ai colpevoli; perchè più Dio aspetta, più terribili sono i castighi, che se non si compiono nella vita presente si compieranno in modo assai più terribile nell'altra. Quos diutius expectat, durius damnat. S. Greg. M.

 

 

Con approvazione della Revisione Ecclesiastica. {80 [524]}



[1] Molti accreditati scrittori, per lo più tratti dall'analogia dei nomi, hanno fatto un solo pontefice di S. Cleto e di S. Anacleto. Io rispetto la scienza di costoro in altre cose, ma in ciò mi sono da loro allontanato e mi sono tenuto ad una lunghissima serie di dotti e pii scrittori i quali seguono il sentimento della Chiesa Cattolica, e distinguono questi due Papi: essi sono diversi nel nome, diversa è la loro patria, diverse le cose operate, diverso il tempo del loro regno, diverso è il giorno dell'anno in cui il loro martirio è solennizzato nella Chiesa.

[2] Tutti i fatti che ivi scrivo intorno alla vita di S. Alessandro sono letteralmente ricavati dai Bollandisti, dal Surio, i quali ricavarono gli atti del martirio di questo santo da antichi manoscritti, che si attribuiscono ai notai contemporanei a questo sommo Pontefice V. Surio T. 3. Id. Bolland. die 3 maii.




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