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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

BIOGRAFIE DEI SALESIANI DEFUNTI NEL 1882

{1 [115]}

 

 

[è premesso agli scritti attribuiti o attribuibili a Don Bosco]

 

 

 

 

 

INDEX

[Prefazione] 2

Il conte d. Carlo Cays di Giletta  2

1. 2

II. 5

III. 9

IV. 10

V. Malattia e Morte. 13

Il sac. Gio. Battista Caraglio  18

Il sac. Amerio Secondo  20

Il coadiutore Falco Luigi 23

 


 [Prefazione]

 

            L’annuo rendiconto necrologico è un titolo che non manca mai d’argomento, ed in ogni anno vi sono nuove mancanze a segnalare. Nell’anno 1882, il Signore ha voluto chiamare a sè alcuni dei nostri confratelli; ed io ho da comunicarvi brevi cenni biografici, affinchè vi servano come di stimolo ad imitarli, e d’eccitamento a seguirne le orme perchè ne abbiate incoraggiamento ad affrontare con gaudio nel Signore l’arrivo della morte, quando piaccia a Dio di chiamare anche noi, forse più presto ancora di quanto possiamo aspettarlo.

            S. Gregorio ci ha dato avviso che per avere la grazia di non paventare l’arrivo del Giudice Supremo dobbiamo premunirci di un buon corredo di opere buone che fiammeggino ed avvampino come lucerne ardenti, nelle mani di coloro che aspettando il loro Signore quando sia per ritornare dalle nozze, saranno trovati pronti e vigilanti a riceverlo. Chi è pronto lo riceverà con amore e confidenza, e tosto gli aprirà. Chi non è pronto ha pur troppo ragione di paventarne l’arrivo. I pochi cenni biografici che io vi trasmetto riguardo a questi confratelli, che già chiamati dal Signore vi hanno preceduti al suo Giudicio, vi rappresentano quelle lucerne ardenti di buone opere {3 [117]} che loro hanno resa preziosa e tranquilla la morte. Volete godere anche voi di così bella sorte? Procurate d’armarvi delle medesime lucerne ardenti a rischiararvi la strada in quell’ultimo passo.

            Ecco il motivo di questi annuali resoconti necrologici che ci servono a tenerci preparati a rispondere al Padrone quando sia per venire a bussare anche alle nostre porte..... Il ricordo della morte di quei cari confratelli che già ci hanno prevenuti, ed il racconto di quelle buone opere che loro hanno reso dolci gli ultimi momenti, è un pensiero salutare e santo; utile per essi, perchè ricordandoci noi di loro, non tralascieremo di raccomandarli al Signore qualora avessero ancor bisogno delle nostre preghiere, ed acquisteremo nuovi protettori in Cielo; utile più specialmente a noi, che ci potremo sentire eccitati ad imitarne gli esempi che ci hanno lasciato ed a seguirne le norme.

            Questo desiderio d’imitarli nei mezzi di cui si sono serviti deve esservi tanto più famigliare, in quanto che questi mezzi sono stati praticati da confratelli che, come voi, correvano nella stessa carriera; quindi dovete esser facilmente persuasi che ciò che fu facile ad essi non deve riuscire tanto difficile per voi.

            Vogliate adunque ricevere questi cenni, quale ricordo di questi vostri confratelli, quale eccitamento a seguirli nelle buone opere da essi esercitate in vita, affinchè ricopiate nella vostra condotta, possiate avere una fonte di tranquillità nell’appressarvi al momento della morte, ed un presagio non dubbio di un premio eterno da quel Signore, che verrà ad incontrarci, non come Giudice severo, ma come tenero riconoscente amico, per quel poco di bene che gli potremo offerire al suo arrivo.

In G. C. vostro aff.mo

Sac. GIOVANNI BOSCO. {4 [118]}

 

 

Il conte d. Carlo Cays di Giletta

 

1.

 

            Nacque D. Carlo Alberto Cays in Torino, il 21 di novembre dell’anno 1813, dal Conte Luigi Francesco e da Vittoria Brizio della Veglia, ambidue per sangue e per virtù illustri. La nobile sua famiglia, originaria di Nizza Marittima, presso cui un dì possedeva molti feudi, tra cui quel di Giletta, era già rinomata e fiorente sin dall’anno 1066. Nel corso di oltre a sette secoli, parecchi de’suoi maggiori si resero celeberrimi in pace e in guerra. Circa il 1300, un membro cadetto di questa famiglia diede origine ad un altro ramo dei Cays, stabilitosi nella città di Arles in Francia, ed estintosi verso la metà di questo secolo.

            Il Conte Luigi Francesco, padre del nostro Don Carlo, in qualità di Capitano del reggimento di Nizza, negli anni 1794-95-96, segnalossi nella guerra del Piemonte contro i Francesi. Invaso il Piemonte, il Conte Luigi continuò il suo servizio sotto i Tedeschi a pro del suo legittimo Sovrano Amedeo III, e di Carlo Emanuele IV, figlio di lui. {5 [119]}

            Costretto il re con tutta la reale famiglia ad abbandonare i suoi Stati di terra ferma, e a ritirarsi in Sardegna, il nobile Conte gli serbò la giurata fede, e piuttosto di passare sotto le bandiere Francesi depose la spada e si ritirò. In conseguenza di questo coraggioso rifiuto e della inconcussa fedeltà sua al Sovrano spodestato, il Governo Francese gli confiscò tutti i suoi beni di Nizza, che costituivano un patrimonio di oltre un milione di franchi, e glieli pose in vendita. A questa si aggiunse un’altra sciagura. Nella ristorazione del Governo Piemontese nel 1814, tutte le vendite dei beni degli emigrati, fatte sotto il dominio di Francia, vennero dichiarate valide; quindi la Casa Cays trovossi spogliata delle sue sostanze di Nizza; dovette per sempre abbandonare la città degli avi suoi, e venirsi a stabilire in Torino. Sebbene Vittorio Emanuele I e Carlo Felice gli dessero una indennità e le più onorevoli cariche alla Corte, tuttavia la condizione del nobile e fedelissimo Conte non avrebbe raggiunta più mai l’antica floridezza, se il Signore non lo avesse rimeritato con un tratto dell’ammirabile sua Provvidenza, come diremo più sotto.

            Intanto il nostro Contino applicatosi agli studii e dedicatosi alla giurisprudenza fece mirabili progressi, ed ottenne nella medesima la laurea dottorale nel 1836. Nel Collegio-Convitto del Carmine in Torino, sotto la saggia direzione dei Padri Gesuiti, il nobile giovanetto per ingegno, studio e pietà segnalossi tra i primi, e l’unico suo competitore era il Conte Gloria, col quale disputava ora il primo, ora il secondo posto nella scuola. Spirava poi da tutto il suo contegno un’aria così soave ed angelica, che tutti lo stimavano ed amavano grandemente. {6 [120]}

            In questo frattempo un amico di famiglia fece conoscere al Conte Francesco come egli aveva diritto al feudo di Casellette, al quale il Cays non pensava nemmeno. Maravigliato di tale notizia, il Conte fece tosto notare che per far valere i proprii diritti ed entrarne in possesso sarebbero occorse gravissime spese, a cui egli non poteva sobbarcarsi. Ciò udito, l’amico promise di soccorrerlo senza alcun rimborso se avesse perduto, e l’aiutò così generosamente che riuscì appieno nell’intento. Poco dopo l’amico medesimo, viaggiando per la Francia e trovandosi ad Arles, si stupì di vedere fra le altre iscrizioni ancora questa: Piazza Cays. Interrogato chi di ragione, venne a conoscere che eravi già in quella città una Casa di Cays discendente da quella di Nizza, ma che stava per ispegnersi nell’ultimo suo membro, celibe e senza eredi, per nome Giacomo Enrico. Da secoli i Cays di Nizza e di Arles non si conoscevano più. Quell’amico fedele si presentò al Cays di Arles, e lo mise in relazione con quei di Torino. Poco dopo quegli moriva, e lasciava erede universale di tutti i suoi beni, consistenti in più di mille giornate di terreno, Luigi Francesco, Conte di Giletta e di Casellette. In siffatto modo Iddio rimunerava la fedeltà del padre e la pietà del figlio.

            Compiuto felicemente il corso de’suoi studii, ricca la mente di utili cognizioni e formato il cuore a soda virtù, il Conte Carlo addì 24 maggio del 1837 sposava la nobile Erminia Agnese Provana del Sabbione, donna di preclarissime doti, ben capace di felicitare sì nobile famiglia. Essa lo rese padre di un figlio e di una figlia. La figliuola, chiamata Vittoria, gli moriva nell’infanzia; e il figliuolo Luigi Casimiro gli sopravvive, erede dei {7 [121]} suoi titoli; e, come fondatamente speriamo, anche delle sue virtù.

            Ma Iddio aveva decretato che il Conte Carlo passasse per tutti gli stati della vita umana, affinchè lasciasse in ognuno esempi luminosi da imitare. Nei suoi imperscrutabili disegni l’anno 1845 il Signore gli toglieva la degnissima consorte nella immatura età di 24 anni. Per questa dolorosa ed irreparabile perdita il nobile uomo, rimasto vedovo a 32 anni, volse tutte le sue cure alla educazione del figlio, all’assistenza dei poveri, alla difesa della Religione. Membro e poi Presidente della Società di S. Vincenzo de’Paoli egli spiegò un ardore singolare, un amor di padre in pro delle famiglie povere, e sopratutto a vantaggio della tenera loro figliuolanza. Nelle visite che ei faceva nei miseri e spesso luridi loro tugurii egli con soccorsi materiali, con avvisi, conforti ed ammonizioni era sempre quale un angelo di salute e di pace. I giovanetti dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, di S. Luigi Gonzaga e dell’Angelo Custode lo ebbero spesso a catechista, a priore, a benefattore generoso.

            In occasione del terribile disastro dello scoppio della polveriera, il 26 Aprile del 1852, il Conte Cays diede prova di una carità e di un coraggio superiore ad ogni encomio. Nelle ore del maggior pericolo, quando il quartiere di Borgo Dora, anzi l’intiera Torino stava come nelle angoscio dell’agonia, aspettando forse l’ultima sua rovina, il Conte lungi dal fuggire volle recarsi in sul luogo, e là in mezzo allo scompiglio ed al terrore consigliava, aiutava, trasportava feriti, dimostrandosi così, per amor del suo Dio, ben degno nipote di quei tanti suoi Maggiori, che da prodi avevano esposta sui {8 [122]} campi di battaglia la propria vita a difesa della Patria e della Religione.

            Non meno che l’illustre suo genitore, il nostro Conte fu sempre carissimo al suo Sovrano e alla reale famiglia. L’anno 1854, nell’occasione che il colêra-morbus infieriva in Torino, tutta la real Corte andò ad abitare nel suo castello di Casellette, situato in luogo saluberrimo a piè delle Alpi, e colà vi rimase al sicuro per ben tre mesi.

            Nè dobbiamo passare sotto silenzio che il Conte Carlo, nella VI Legislatura, dal 1857 al 1860 fu Deputato del Collegio di Condove al Parlamento Subalpino, e non venne meno giammai alla fiducia de’suoi elettori. Nell’aula parlamentare egli insieme coi Conti Solaro della Margherita, di Camburzano, Costa della Torre, Crotti di Costigliole ed altri intrepidi Deputati cattolici fece più volte udire la nobile sua parola a difesa dei principii di sana politica e dei diritti della Chiesa. Nella celebre tornata del 1° Giugno 1858 egli tenne alla Camera un lungo e bellissimo discorso, nel quale con irrefragabili prove difese la contestata validità della elezione del Collegio di Oristano, fatta nella persona del dotto e valoroso scrittore del giornale L’Armonia, oggidì Direttore dell’Unità Cattolica, il teol. D. Giacomo Margotti.

            L’anno 1860, prendendo la politica una piega troppo contraria alle aspirazioni ed ai sentimenti di un buon Cattolico, il Conte Cays si ritirò a vita privata, e ridiede tutti i suoi pensieri ed affetti alle opere di carità e di religione. Visitare gli infermi nelle case e negli ospedali, soccorrere i poveri più derelitti, catechizzare i fanciulli, impiantare e presiedere Conferenze di S. Vincenzo de’Paoli in città e fuori, indirizzarne i membri all’adempimento {9 [123]} degli assunti impegni, promuovere la buona stampa, essere sempre tra i primi ogni qual volta trattavasi di compiere un bene od impedire un male, ecco la vita operosissima del Conte Cays, finchè rimase nel secolo e in seno alla famiglia.

            I suoi sentimenti religiosi e la sua devozione al Re e alla Casa di Savoia non gli furono perdonati dai rivoluzionarii di quel tempo. Egli come tantissimi altri insigni personaggi del clero e del laicato ebbe a sostenere una minuta perquisizione, fattagli dagli Agenti del Governo, sotto il pretesto di trovare in lui un cospiratore, siccome Presidente del Consiglio Superiore della Società di San Vincenzo de’Paoli in Torino. La perquisizione venne eseguita il 9 di febbraio del 1862; fu sequestrato tutto il suo carteggio, ed esaminato minutamente linea per linea; ma con quell’atto anticostituzionale il Governo lungi dal trovare cosa, che potesse interessare le sue viste e porgere il menomo sospetto di cospirazione contro l’attuale ordine di cose, fece per l’opposto splendidamente constare che il sant’uomo nelle opere sue non era uscito mai dal campo della carità per entrare in quello della politica, e pose fuori d’ogni dubbio che si può essere fervoroso Cattolico senza cessare di essere savio e prudente cittadino. Di questa perquisizione abbiamo una Memoria scritta dal Conte medesimo, la quale vuol essere consultata da chiunque desideri di farsi un’idea esatta del suo carattere nobile e schietto[1].

            Dopo qualche tempo Iddio ricompensò il fedele suo servo di quanto faceva e soffriva per Lui. L’anno 1877 egli sentissi farsi vivissimo in cuore {10 [124]} un antico desiderio, il desiderio cioè di appartarsi affatto dal mondo, ed abbracciare la vita religiosa nell’Istituto dei Salesiani. Un giorno pertanto venuto all’Oratorio di S. Francesco di Sales, ei si aperse intieramente con D. Bosco, nel quale ebbe sempre una confidenza illimitata. Don Bosco lo ascoltò e poi gli disse: - Va tutto bene, signor Conte; ma ha Ella pensato che cosa voglia dire farsi religioso? Ha Ella pensato che ciò esige abbandonare ricchezze, onori, piaceri ed ogni cosa del mondo? - E da molto tempo che vi penso, rispose il Conte, e so tutto quello che importa questo passo; ma so anche per propria esperienza che le ricchezze, gli onori, i piaceri di questa terra non contentano il mio cuore, e che a nulla mi serviranno nell’ora della morte. Che aiuto infatti, che conforto potranno dare all’anima mia in quegli estremi momenti le sale dorate, i ricchi tappeti, le squisite pietanze, i vini prelibati, i domestici in livrea pronti al mio servizio? - Ma la S. V. è assuefatta, riprese D. Bosco, ad avere in casa sua molte comodità della vita; al contrario in un Istituto religioso, quantunque non le si lasci mancare nulla del necessario, tuttavia le dico schietto che le mancheranno tantissime di quelle cose, di cui oggi abbonda e pel vitto, e pel vestito, e pel letto e via dicendo. - Il so, rispose il nobile uomo, ma so pure che molti vissero e vivono senza tanti agi e delicatezze, e spero che coll’aiuto di Dio potrò vivere ancor io. - Ma in casa sua, soggiunse D. Bosco, Lei comanda ora da padrone, ed invece in una Comunità religiosa le toccherà di obbedire da umile servo; vi ha Lei badato? - Sì, vi ho pur badato, e mi sono altresì convinto che al punto di morte mi sarà più consolante l’aver obbedito che l’aver comandato. {11 [125]} - Mi perdoni, sig. Conte, se le aggiungo un’osservazione: Lei ha già un’età un po’avanzata, e non saprei se le permetterebbe di osservare le regole dell’Istituto. - Questo ultimo riflesso di D. Bosco fece un gran colpo sull’animo del Conte, il quale si fermò un istante, e poi con accento commosso rispose: - E vero che non sono più giovane, ed è questo che mi cagiona un grande rammarico, il dover dare cioè a Dio gli ultimi avanzi della mia vita. Tuttavia mi conforta il pensiero che non sono ancora vecchio decrepito, e malgrado de’miei 64 anni godo ancora sì buona salute, che mi lascia fondata speranza di potermi adattare alla vita comune. Per lo meno non mi pare imprudenza il tentare la prova.

            Vedendolo così risoluto e conoscendolo per uomo di grande virtù, D. Bosco avrebbe potuto fin da quel momento confermarlo nel suo proposito e dargli promessa di accettarlo tra i suoi; ma volendo provarlo ancor d’avvantaggio gli suggerì che passasse alcuni giorni nel ritiro e nella preghiera, e poscia venisse a dirgli le ultime risoluzioni. Si era nel mese di Maggio e stava per incominciare la novena di Maria Ausiliatrice.

 

II.

 

            Guidato dalla più viva fede il nostro compianto D. Carlo Cays, nell’abbracciare l’Istituto dei Salesiani, non intendeva tanto di fare un regalo di se stesso al Signore, quanto di ricevere da Lui una grazia, della quale nella sua umiltà reputavasi indegno. Perciò, colto il consiglio di D. Bosco, egli si diede a pregare il Signore, che ove nella {12 [126]} sua bontà volesse accettarlo al suo servizio si degnasse di farglielo conoscere, confermarlo nel suo divisamente, e porgergli il modo di mandarlo ad effetto. A questo fine egli intraprese la novena di Maria Ausiliatrice, con un grande fervore di spirito, facendo privatamente come una muta di spirituali esercizi. Ogni mattina udiva la Messa, si accostava alla santa Comunione, e attendeva a pie letture e a meditazioni. Alla sera faceva inoltre la visita al SS. Sacramento, e si portava al discorso e alla Benedizione, che avevano luogo nel Santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco.

            Con questo esemplare e divoto tenore di vita egli giungeva al 23 di maggio, vigilia della festa di Maria Auxilium Christianorum, che al domani nel detto suo Santuario in Torino dovevasi celebrare con solennissima pompa. Molte pie persone fin da quel mattino già si portavano alla Chiesa, quali per ringraziare la Vergine pietosissima dei favori ricevuti, e quali per implorarne dalla sua inesauribile bontà. Anche l’anticamera di D. Bosco era piena di gente. Alcuni desiderando la benedizione di Maria Ausiliatrice aspettavano di riceverla l’uno dopo l’altro per mano di lui; altri poi attendevano per parlargli, riferirgli grazie ottenute, chiedergli consigli e simili. Tra i molti che facevano anticamera trovavasi eziandio l’illustre conte Cays. Egli veniva per dire a D. Bosco che aveva praticato il suo suggerimento; che il desiderio di abbandonare il mondo gli durava tuttora, ma che nel tempo stesso signoreggiavalo un dubbio, un certo qual timore, che non poteva bandire dall’animo; veniva in una parola a prendere una finale risoluzione sotto la guida di lui.

            Era già da un buon pezzo che con altri egli attendeva {13 [127]} il suo torno per essere ricevuto da Don Bosco, quando entra nella camera d’aspetto una signora di Torino, la quale, anzi che menare, parte strascinava e parte portava una sua figliuoletta di circa 10 anni, per nome Giuseppina Longhi. Da qualche tempo soggetta a terribili convulsioni la povera fanciulla era rimasta paralitica; non poteva più reggersi in piedi, aveva perduto il moto della mano destra, e da circa un mese anche la parola. Desolati i parenti erano ricorsi a medici, a medicine, e ad ogni rimedio dell’arte, ma senza alcun giovamento, onde non solamente andavano deperendo di giorno in giorno le forze fisiche, ma ancora le facoltà mentali. Riusciti inutili i mezzi terreni, i genitori si appigliarono allora ai mezzi celesti. Pertanto la madre avendo udito a raccontare le grazie straordinarie, che Maria Santissima otteneva in favore di quelli, i quali la invocavano sotto al titolo di Aiuto dei Cristiani, fece ancor essa appello alla Vergine Ausiliatrice. Animata dalla più viva fiducia ella condusse in quel mattino stesso la figlia al Santuario in Valdocco, la raccomandò alla celeste Regina, indi la portò a D. Bosco, perchè le desse la benedizione di Maria Ausiliatrice.

            La buona ed afflitta signora entrata che fu nell’anticamera pose a sedere la sua piccola malata, la quale mosse a compassione tutti gli astanti. Ella soffriva immensamente, e sebbene la madre le usasse tutte le possibili attenzioni, tuttavia lasciavasi cadere or di qua or di là; in piedi non poteva stare, seduta neppure. Dopo alcuni minuti - è impossibile, disse la madre, è impossibile aspettare di più; questa povera figlia non resiste; bisogna ritornare a casa; - e desolata già si disponeva {14 [128]} ad uscirne. Tutti n’erano commossi profondamente. Allora il Conte Cays, più che ogni altro intenerito, prese la parola è le disse: - Io credo di essere fedele interprete di questi signori, e a nome loro la prego a fermarsi; noi tutti le cediamo il posto e lei potrà passare innanzi colla sua malata. - Tutti gli astanti aderirono di buon grado, ed appena uscito chi parlava in quel momento con D. Bosco, la signora si presentò colla figliuola, che come cascante era sostenuta di tutta forza. Entrata che fu, il Conte Cays disse tra sè e sè: - Se questa fanciulla uscirà guarita da questa camera io avrò questo fatto come una prova che la Madonna mi vuole Salesiano, e bandirò da me ogni dubbio ed ogni timore; - e intanto con tutti gli altri stava aspettando l’esito. Ed ecco che cosa ne segui.

            La desolata madre venuta dinanzi a D. Bosco e seduta sopra un sofà la figliuoletta, gli raccontò il caso doloroso, e disse che non le rimaneva più alcuna speranza, fuorchè nella misericordia di Dio e nella potente intercessione della Beata Vergine, implorando ad un tempo la sua benedizione. Don Bosco la esortò ad avere fiducia nella pietà di Maria, indi fatta inginocchiare la madre impartì alla piccola malata la benedizione di Maria Ausiliatrice. Ciò fatto, invitò la fanciulla a fare il segno della santa croce, ed essa si dispose a farlo ma colla mano sinistra. - Non colla sinistra, ma colla destra, disse D. Bosco. - Non può colla destra, rispose la madre. - Lasci, lasci che provi, e ripetè alla figlia l’invito. Costei obbediente alza il braccio paralitico e la mano attratta, se la mette alla fronte, indi al petto, alla spalla sinistra ed alla destra, come se non avesse avuto alcun male. {15 [129]} - Brava, disse D. Bosco, l’hai fatto bene il segno di croce; ma non hai dette le parole: ora ripetilo ed accompagnalo colle parole come fo io: Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, così sia. - La fanciulla muta da circa un mese scioglie allora la lingua, rifà l’augusto segno e lo accompagna colle parole, e fuori di sè si mette a gridare: O mamma, la Madonna mi ha guarita. - All’udire la figlia a parlare così, la madre alzò un grido, e poscia si pose a piangere di gioia. - Ora che la Madonna ti ha ridonata la parola, continuò D. Bosco, ringraziala tosto e recita di cuore l’Ave Maria; - e la figliuoletta la recitò con tutta chiarezza e divozione.

            Ma questo non era il tutto: rimaneva ancora a provare se potesse stare in piedi e camminare senza sostegno. Invitata a passeggiare per la camera ella lo fa più volte con passo libero e franco. Insomma la guarigione era ottenuta perfettamente, e in modo prodigioso. A questo punto la fortunata fanciulla non potendo più contenere i sentimenti di gratitudine, che le riempivano il cuore, apre la porta dell’anticamera, si presenta agli astanti, che pochi minuti innanzi l’avevano veduta attratta, zoppa e muta, e con disinvoltura superiore all’età sua, e con una parola che pareva inspirata, - Signori, disse, ringraziate con me la SS. Vergine; Essa con un atto grande della sua misericordia mi ha guarita. Vedete: io muovo la mano, cammino e parlo: io non ho più alcun male. - Quella vista e queste parole produssero una commozione indescrivibile: tutti attorniarono la fanciulla, e chi piangeva, chi pregava, chi esclamava: Oh gran Dio! Oh Maria! Oh che miracolo! Oh! fortunata figliuola! Lo stesso D. Bosco {16 [130]} era così impressionato, che ne tremava da capo a piedi. Dopo essere stata per alcuni minuti oggetto di maraviglia e di gioia a tutta quella gente, figliuola colla madre scese dalla camera di Don Bosco, ed ambedue si portarono nuovamente dinanzi all’altare di Maria Ausiliatrice, e più colle lagrime che colla parola la ringraziarono dell’ottenuto favore[2].

            E il Conte Cays? Il Conte Cays, testimonio oculare di un tal fatto, non ebbe più bisogno d’altro per assicurare la sua vocazione. - La Madonna ha parlato, disse; questo mi basta; io sono Salesiano. - Entrato poco dopo nella camera di Don Bosco, se la sbrigò in poche parole: - Era venuto per conchiudere con lei, disse, e prendere una definitiva risoluzione; aveva ancora qualche dubbio; ma la Madonna me ne liberò affatto; - e, raccontatagli la condizione apposta ed avveratasi, soggiunse: - Se D. Bosco mi accetta, io sono Salesiano. - Venga pure tra noi, rispose D. Bosco, e sarà formalmente accettato. - Quando potrei venire? - Quandochessia. - Verrei fin di domani, festa di Maria Ausiliatrice e 40° anniversario del mio matrimonio; ma siccome avrei ancora qualche affare da sistemare, così se nulla osta verrò il giorno 26. - Va benissimo, conchiuse D. Bosco; il 26 è festa di s. Filippo Neri; e questo santo così divoto della Madonna io spero che le otterrà la perseverarza sino alla fine. - E il giorno assegnato il conte Cays si trovava a suo posto.

            Entrato nell’Oratorio di S. Francesco di Sales {17 [131]} il nobile signore diede tosto saggio di sua specchiata virtù. Solito a casa sua a riposare sino ad ora comoda, egli ruppe l’antica abitudine e si adattò all’orario comune: quindi al suono della campana alzavasi di letto come tutti gli altri, e portavasi alle preghiere e alla meditazione; e ciò non solo nella bella stagione, ma nel cuore dell’inverno. Era poi una edificazione il vederlo alla tavola comune. Uso nel secolo ad essere servito a mensa di molte pietanze, confezionate con tutte le ricercatezze dell’arte, egli dimenticò tutto: quindi contentavasi di quella data porzione, che venivagli presentata dalla Comunità, e superando se stesso se ne cibava, come se ogni cosa fosse di suo gusto. Talora i Superiori scorgendo lo sforzo, che far doveva in sul principio per adattarsi alla mensa comune, ed avendo riguardo alla condizione ed età sua, cercavano di farlo servire a parte; ma il virtuoso Conte nol permetteva dicendo: - Non voglio eccezioni; debbo acconciarmi alla regola; bisogna che io faccia prova di me stesso. E poi questo pane è stupendo; e di simile minestra, pietanza e vino non ne hanno certamente tutti gli uomini del mondo. - Egli fece di più. Siccome i giovani, che facevano prova per essere definitivamente ascritti alla pia Società Salesiana, mangiavano in un refettorio a parte, così il nostro conte dopo alcuni giorni abbandonò la compagnia di D, Bosco, che gli era carissima, e andò ad unirsi con essi per tutto il tempo richiesto, dando così un grande esempio di mortificazione, di umiltà e di perfetta osservanza. Quando in Torino si conobbe che il nobile patrizio erasi ritirato presso i Salesiani e vi tirava innanzi, successe in tutti un vero stupore, e poscia una grande {18 [132]} edificazione. Chi lo aveva praticato da vicino, e sapeva che per la sua non troppo buona salute egli abbisognava di molti riguardi sopratutto nel cibo, non poteva darsi ragione come il Conte si acconciasse e resistesse alla nuova vita. Tra gli altri il barone Carlo Bianco di Barbania andava dicendo: - Io reputo questo fatto come un miracolo.

            Il Signore Iddio gradì altamente lo spirito di mortificazione del suo servo, e non tardò di dargliene un premio inaspettato. Nel secolo soffriva egli di forte emicrania, la quale di tratto in tratto gli faceva passare dei giorni assai dolorosi. Oltre a ciò aveva per lo più una grande inappetenza e difficilmente trovava cibo o che gli aggradisse appieno, o che non gli desse qualche fastidio. Or bene, dopo alcune settimane che era in Comunità la emicrania gli scomparve affatto, e alla noia del cibo successe un appetito singolare, onde soleva dire: A casa non avrei mai voluto scendere a tavola; e qui mi tarda sempre l’ora del pranzo e della cena.

            Ad onor del vero dobbiamo tuttavia notare che nei primi giorni il conte Cays fu assalito da una grave tentazione contro il suo proposito. Il mutamento di vita gli parve così gravoso ed arduo, che egli prese a temere di non poterla durare a lungo; quindi cominciò a pensare se non fosse meglio fare una ritirata onorevole sul principio, piuttosto che essere costretto a farla più tardi con ammirazione del pubblico, e dopo aver cagionato disturbi all’Istituto. Nelle prime 24 ore, e sopra tutto nella notte egli ebbe una lotta spaventosa. Siccome il nobile uomo non teneva segreti col suo Superiore, così ripieno il capo di inopportuni pensieri si presentò a D. Bosco e gli aperse intieramente {19 [133]}  l’animo suo. D. Bosco udito i suoi dubbii, timori e pene, si accorse tosto che il Conte trovavasi alle prese colla natura ricalcitrante e col demonio seduttore. Per la qual cosa quanto più erasi mostrato restìo ad incoraggiarlo allo stato religioso avanti che egli vi si risolvesse, altrettanto più s’industriò ad animarlo dopo che vi si era deciso: prima così voleva la prudenza; dopo così esigeva la carità. Gli disse pertanto: - Convengo appieno che V. S. provi delle difficoltà nella nuova vita intrapresa: chi più chi meno ne provano tutti ed i giovani stessi: tanto più ne deve provare Lei a questa sua età, e assuefatta finora ad un tenore di vita comodo ed agiato. Ma le difficoltà, che si provano in una nuova carriera, non sono un buon argomento che Iddio non vi ci voglia; anzi generalmente il Signore manda o permette di queste ed altre consimili difficoltà, per darci occasioni a far prova di nostra volontà e a meritare da Lui grazie più segnalate. Le osservo poi che tutti i principii sono penosi; che molte volte il demonio movendo la fantasia c’ingrandisce le difficoltà, per atterrirci e farci retrocedere dalla via del bene; e che se Dio l’ha chiamata, come io credo, a questo stato, saprà darle gli aiuti che saranno necessarii. - Ma qui sta appunto il mio timore, rispose il Conte; temo cioè che Iddio non mi abbia chiamato. - Mi scusi, sig. Conte, ma Lei ha detto e ripetuto più volte che da molto tempo sentivasi mosso ad abbandonare il mondo; per meglio conoscere la volontà di Dio ha pregato, ha fatto pregare, ha domandato consiglio a parecchie persone, che la esortarono a tirare innanzi; finalmente per cacciare via ogni dubbio ha posto per condizione ed ottenne di vedere una guarigione, {20 [134]} che Lei stessa giudicò miracolosa. Ma che cosa vuole di più? Vuole forse che venga un angelo ad accertarla? Non dobbiamo pretendere questo; e poi venisse anche un angelo ci resterebbe ancora il dubbio, se sia un angelo buono o un angelo cattivo travestito di luce. - Ha ragione, rispose il Conte tutto rasserenato; io non faceva queste riflessioni, e perciò mi sono lasciato turbare senza motivo. - Facciamo dunque così, conchiuse Don Bosco; Lei non badi tanto alle difficoltà quanto agli aiuti di Dio, che non le lascierà mancare; provi almeno qualche settimana la nuova vita, che intende di abbracciare; e intanto preghiamo ambidue. Se il Signore non vuole che Lei prosegua in questo stato, io spero che ce lo farà in qualche modo conoscere.

            Le parole di D. Bosco ed i consigli e gli incoraggiamenti del prof. D. Celestino Durando, col quale aprivasi pure con molta confidenza, riuscirono al Conte di un grande conforto; ma un altro gliene mandava poco dopo il Signore, che finì per farlo appieno vincitore. Nelle sue angustie e perplessità soleva egli animarsi, pensando soprattutto alla guarigione della Giuseppina Longhi; ma dopo alcun tempo la sua mente venne sorpresa da un dubbio, che molto lo affliggeva. - Chi sa, andava dicendo seco stesso, chi sa se quella guarigione avrà continuato? - Chi sa se non sia stata una cosa solo momentanea? Chi sa qui, chi sa là. - Or bene, una mattina nel recarsi in Chiesa il sig. Conte, passando nella sacrestia, vede quella fortunata giovanetta, che accompagnata da’suoi genitori era venuta a portare una offerta ad onore della celeste sua Benefattrice. La fanciulla riconosciutolo gli si fa innanzi, lo riverisce per la {21 [135]} prima e - Non mi conosce? gli domanda. - Oh! sei la Giuseppina Longhi? rispose il pio gentiluomo tutto giulivo. - Per lo appunto. - E come stai? - Benissimo: parlo, cammino, scrivo e studio come se non avessi mai avuto alcun male. - Veda, aggiunse pure la madre, che bel colore ha già messo, mangia con un appetito che non mai l’eguale. I nostri vicini convengono tutti con noi che questa guarigione è un vero miracolo.

            Non si potrebbe dire a mezzo la consolazione che ne provò il signor Conte, il quale riferendo poscia la cosa ebbe a dire: - Questo incontro fu per me veramente provvidenziale: la Madonna ha veduto il mio dubbio su quella guarigione e me ne volle liberare affatto. Ora sono convinto che Ella fece quella grazia sul serio; dunque ragion vuole che faccia la cosa sul serio ancor io. - Da quel giorno la sua risoluzione di essere Salesiano fu inalterabile.

            A suo tempo e con ammirabile fervore di spirito egli emetteva poscia i sacri voti di povertà, di castità ed obbedienza, legandosi all’amore e al servizio di Dio con nodo indissolubile.

 

III.

 

            Mentre era ancora nel secolo, ed allora specialmente quando fungeva l’uffizio di membro e poi di Presidente della Società di San Vincenzo de’Paoli, il nobile uomo si adoperava con tanto zelo a vantaggio corporale e spirituale del prossimo, che pareva già un apostolo. Più volte persone autorevoli ebbero a dire: - Il Conte Cays lavora tanto e parla sì bene, che meglio non potrebbe {22 [136]} fare un Sacerdote. - Infatti, di un esemplare ecclesiastico il nobile Conte aveva tutte le virtù e l’attitudine. Ora, avendo in oltre per sì lungo tempo sopportato l’onere, il peso del Sacerdozio, con una vita di tanta carità ed abnegazione, non è a stupire che Iddio nella sovrana sua bontà volesse infine premiarlo, col dargliene anche l’onore e la gloria.

            Il desiderio di abbracciare lo stato Sacerdotale egli lo ebbe fin dai primi anni di sua vedovanza; ed è per questo che si mostrò sempre restio a contrarre nuove nozze, a cui lo sollecitavano e parenti ed amici. A questo riguardo soleva raccontare che, stando un giorno per deliberare se dovesse acconsentire alla proposta di un nuovo matrimonio molto conveniente, egli si portò al Santuario della Consolata in Torino, e tra le altre cose disse alla SS. Vergine: - Se non entra nelle viste di Dio che io contragga nuovi legami col mondo, fate, o Maria, che si rompano le trattative di questo matrimonio, e che la fidanzata trovi un altro partito. - In quel giorno stesso la nobile signora venne richiesta da altri, e il Conte Cays si conservò nella sua vedovanza e non pensò più mai ad abbandonarla.

            Fin d’allora egli sarebbesi posto nella via ecclesiastica; ma ve lo trattenne e la tenera età del figlio e soprattutto l’umiltà sua, per cui riputavasi indegno di uno stato così alto e glorioso. Iddio disponeva così per la sua maggior gloria; imperocchè il bene che fece il Conte Cays nello stato di laico fu tale, che in quei tempi difficilmente avrebbelo potuto operare come uomo di Chiesa. Comunque fosse, accettato definitivamente tra i Salesiani, lontano da ogni impaccio del mondo, {23 [137]} e guidato dalla voce dell’ubbidienza, egli rivolse i suoi pensieri ed affetti alla nobile meta. Pertanto, per le mani di D. Bosco e ai piedi dell’altare di Maria Ausiliatrice, il 17 di settembre dell’anno medesimo 1877, egli vestiva l’abito da Chierico, e tosto intraprendeva lo studio della Sacra Teologia. La memoria non servivagli più, come egli diceva, in quel grado che nella giovanile età; tuttavia l’ingegno perspicace, gli studii già fatti, la vasta erudizione acquistata, il vivo desiderio d’imparare e di approfondire le questioni, e soprattutto una volontà ferma e tenace nel superare le difficoltà, gli giovarono siffattamente, che in breve tempo egli potè compire l’intiero corso della Teologia dommatica e morale, riportando nei singoli esami suffragio favorevolissimo e la ben meritata lode.

            L’egregio giornale L’Unità Cattolica, il giorno 26 di ottobre del 1877, pubblicava un bell’articolo intitolato: Un deputato Chierico Salesiano. Tra le altre ivi si leggevano queste parole: « A maggior gloria di Dio e ad edificazione dei Cattolici, ci sembra giunto il momento opportuno di annunziare un prezioso acquisto, che ha fatto il nostro clero nella persona del Conte Carlo Cays di Giletta e di Casellette. Il quale ha rinunziato al mondo e, ceduto il suo patrimonio al proprio figlio, entrò nella Congregazione dei Salesiani di D. Bosco, e vestì, non è molto, l’abito da Chierico. Ora sta compiendo i suoi studii teologici; e siccome era già uomo di vasta scienza e di perspicace ingegno, così fa progressi maravigliosi, e non andrà molto che sarà ammesso agli Ordini Sacri. » E così era di fatto.

            Non essendo nostro cômpito di porgere qui una {24 [138]} compiuta biografia, noteremo solo la data degli Ordini ricevuti da questo nostro compianto Confratello. Il giorno 22 di dicembre del 1877 ricevette la tonsura ed i 4 minori da Mons. Lorenzo Gastaldi Arcivescovo di Torino; il giorno 20 di aprile del 1878, il suddiaconato da Mons. Giocondo Salvai Vescovo di Alessandria; il 15 giugno dello stesso anno, il diaconato dall’Arcivescovo di Torino e dal medesimo riceveva pure il presbiterato il 20 di settembre nella Chiesa cattedrale, alla presenza di un gran concorso di popolo e di nobili signori e signore, parenti, conoscenti ed amici. Per amore di brevità tacciamo parimenti il divoto preparamento, che egli premetteva ad ognuna di queste sacre Ordinazioni: diciamo solo che gli ordinandi andavano lieti di avernelo a compagno, perchè la sua preghiera, la sua conversazione, il suo raccoglimento, la sua divozione era quella di un santo, e comunicava loro un grande fervore.

            Essendo stato insignito dell’ordine Sacerdotale in Torino, egli avrebbe potuto fermarvisi per celebrare solennemente la sua prima Messa colle maggiori feste possibili, come generalmente si usa; ma la esimia sua pietà, coll’assenso de’suoi Superiori, gli fece prendere un’altra risoluzione. Pertanto temendo di venire distratto anche per poco dal concorso delle molte persone, che sarebbero venute a congratularsi con lui in quel giorno, egli rinunziò ad ogni festa, si allontanò dalla città, e portatosi col figlio nella nostra Casa di S. Pier d’Arena celebrò colà la sua prima Messa, assaporando appieno nella quiete dello spirito quella sovrumana dolcezza, di cui il Signore gli inondava deliziosamente il cuore.

            Cinto il capo della Sacerdotale corona, il nostro {25 [139]} D. Carlo gustava ogni mattina all’altare un saggio di Paradiso, anticipato. Quantunque fosse sempre lieto di recarsi a celebrare la Messa, dove i Superiori lo inviassero a comodità dei fedeli, tuttavia prediligeva di celebrarla nel Santuario di Maria Ausiliatrice, e a quell’ora in cui potesse meglio raccogliersi e soddisfare la sua pietà. In questa sacrosanta azione egli abborriva la fretta. Dopo la Consacrazione e nel momento della Comunione spirava poi da tutto il suo contegno tale un’aria di divozione, di fede e di amore, che inteneriva il vederlo e l’udirlo. Vi fu chi predicando ai Sacerdoti non dubitò di loro proporre ad esempio la pietà del nobile Conte. Egli non tralasciò mai di celebrare fuorchè in caso di malattia, che lo costringesse a letto. - Giacchè non posso far nulla di buono a pro della Chiesa e delle anime, andava dicendo con grande umiltà, bisogna almeno che io celebri la santa Messa per dare la dovuta gloria a Dio, ed implorare le sue misericordie sopra di me e sopra dei giusti e dei peccatori.

            Tra le persone, che all’altare egli non dimenticava mai di raccomandar al Signore oltre i parenti, erano i nostri Missionarii dell’America, dei quali ammirava ed invidiava lo zelo. Sapendo il molto lavoro che avevano in quei paesi, e quanto si affaticassero per guadagnare anime a Dio, egli fu udito a dire più volte: - Se avessi 20 anni di meno volerei di buon grado ancor io in loro soccorso; ma a 66 anni è giuocoforza che mi contenti di essere Missionario col desiderio. - Ogni volta poi che un drappello di giovani Missionarii prendeva le mosse per l’America, il Conte li salutava ad uno ad uno, e raccomandandosi alle loro preghiere {26 [140]} soleva dire: - Almeno essi fanno qualche cosa pel Signore; io invece non sono abile a niente; - e in così dicendo il sant’uomo talora piangeva. Non potendo accompagnarli col corpo, egli li accompagnava colla mente e col cuore, pregando ogni giorno il Signore che loro fosse propizio, e coll’abbondanza delle sue grazie rendesse ubertoso il sacro loro Apostolato.

            Ma se il nostro D. Carlo non potè essere Missionario in America, esercitò per altro molto fruttuosamente il sacro suo Ministero in Italia ed in Francia.

 

IV.

 

            L’anno 1879 il signor Commendatore Giovanni Battista Dupraz, che ad una fede sinceramente cattolica congiungeva una carità ed uno zelo ammirabile pel bene della gioventù, allestì una casa in Challonges, suo paese natio della Savoja, nella diocesi di Annecy, e pregò D. Bosco che volesse mandarvi un Sacerdote con alcuni maestri ed assistenti per aprirvi scuole elementari ed Oratorio festivo. D. Bosco soddisfece alle domande del pio signore, designando a Direttore di quell’Istituto il Conte D. Carlo Cays. Il nobile uomo, sebbene amasse meglio di fermarsi a Torino, tuttavia si arrese al desiderio del Superiore con una docilità edificante. Per sincera umiltà e per indole inclinato a temere sempre di se stesso, egli si limitò ad esporre la supposta sua insufficienza ed inettitudine all’uffizio che gli si voleva affidare; ma pienamente si tranquillò quando D. Bosco gli rispose: - In quanto alla incapacità, Lei non si {27 [141]} affanni: quello, che le manca, Iddio glielo aggiunge. Del resto si ricordi sempre delle parole di San Paolo: Omnia possum in eo, qui me confortat. - Celebrata la festa di S. Carlo, il 4 di novembre, e dato l’addio a’suoi cari, egli partiva da Torino, e si dirigeva a Challonges, accompagnatovi dal Prof. D. Celestino Durando.

            Da lettere scritte a D. Bosco veniamo a conoscere il buon avviamento, che prese tosto il nuovo Istituto, e i sentimenti di profonda umiltà del suo Direttore. - « Pare che il Signore voglia benedire questa nuova colonia Salesiana, scriveva egli poche settimane dopo il suo arrivo, e fin da questi primordii si possono trarre ottimi augurii. I giovani che si sono fatti inscrivere ascendono già a circa 80. È consolante il vedere come questi buoni giovanetti stanno raccolti e divoti in Chiesa. Fino ad ora non la frequentavano, fuorchè nei giorni festivi per udirvi la santa Messa, e adesso v’intervengono in buon numero ogni mattino, e vi stanno con grande raccoglimento. La casa è magnifica e le scuole sono delle più belle e comode che si possano desiderare. Bisogna dire che l’ottimo e zelantissimo Commendatore Dupraz ha fatte le cose con una splendida magnificenza. Egli ci tratta con indicibile bontà e squisita gentilezza, occupandosi fin dei più minuti particolari per l’utile della istituzione, ed anche per le nostre comodità. Che il Signore lo benedica insieme colla degnissima sua consorte. - Tutto va bene, continuava il nobile non meno che umile Conte, tutto va bene, ad eccezione del povero Direttore, il quale si sente assai lontano dal possedere le doti necessarie per corrispondere all’importanza della sua posizione. È vero che vo ripensando ben sovente {28 [142]} a quello, che Ella mi disse tante volte che Omnia possum in eo, qui me confortat; con tatto ciò avrei bisogno che la debolezza della mia confidenza non fosse pari alla mia incapacità. Le scrivo sinceramente questa mia ansietà, non già perchè io voglia rifiutarmi a fare il mio possibile, ma per ottenere da Lei che preghi assai il Signore per me. Oh! se sapesse quanto ne abbisogno. Mi raccomando adunque alle sue preghiere, e voglio sperare che Ella mi otterrà dal Signore quanto mi manca, cioè ogni cosa.»

            Nell’ufficio di Direttore, il Sac. D. Carlo Cays diede viemmeglio a divedere che lo accendeva un ardente zelo per la salute delle anime, e che se l’età aveva potuto scemargli le forze del corpo non aveagli punto diminuita la energia della volontà. Appena le scuole e l’Oratorio di Challonges furono regolarmente aperti, presero tosto a frequentarli in gran numero non solo i fanciulli del paese, ma quelli ancora di tre altri Comuni, distanti un’ora e mezzo di cammino. Avendo solamente due compagni, il Direttore doveva spesso, come si dice, cantare e portar la croce. Laonde, secondo il regolamento, tutti i giorni, prima della scuola del mattino, egli faceva un’ora di Catechismo ai ragazzi; oltre ciò, siccomo i giovanetti dei paesi lontani venivano all’Oratorio nel mattino e non ne ripartivano che nella sera, così ei passava più ore di ricreazione con essi per assisterli e sorvegliarli. I due Confratelli suoi compagni cercavano bensì di surrogarlo ed alleggerirgli la fatica; ma egli qual tenero padre, amava meglio alleggerirla a loro, mettendo in pratica il detto del divin Maestro: « Chi tra voi è il più grande, sia come il più piccolo: e colui che precede {29 [143]} sia come uno che serve: Qui major est in vobis, fiat sicut minor: et qui praecessor est, sicut ministrator. » Quindi era bello il vedere quell’amabile vegliardo trastullarsi, discorrere, faceziare coi fanciulli, raccontare esempi edificanti, e così instillare nei loro teneri cuori amore alla virtù ed abborrimento al vizio. Ogni mattino poi, anzi tutte le ore del giorno egli mostravasi pronto ad udirli in confessione, e questo esercizio del sacro ministero stavagli a cuore più che ogni altro. Alla festa teneva un acconcio sermoncino, ed ogni occasione egli coglieva di buon grado per indirizzare loro parole d’incoraggiamento ora in pubblico, ed ora in privato, instruendoli non solo, ma educandoli alle virtù religiose, morali, e civili.

            Nè solo nella Casa occupavasi egli da buon Sacerdote, ma estendeva il suo zelo ai fedeli ancora della Parrocchia. Di ciò lasciavagli una bella testimonianza il prelodato Comm. Dupraz, il quale lodandosi del nobile Conte scriveva: - « Il Conte Cays, venerando Sacerdote, nel suo breve soggiorno a Challonges, molto contribui al bene delle anime. Al tribunale della penitenza da lui occupato accorrevano uomini e donne, giovani e vecchi, e ne uscivano manifestando somma contentezza. » - Trovandosi il Parroco da molto tempo infermo di paralisia, il nostro D. Carlo fu in vero per quella popolazione una provvidenza del Cielo.

            Ma raro è il caso che il demonio non tenti di porre ostacolo alle opere di Dio, e che o poco o molto egli non riesca nell’intento suo per la malizia di certi uomini, che si fanno suoi satelliti. Era già da qualche tempo che il nostro Confratello esercitava l’ufficio di Direttore nella Casa di Challonges, quando con grande suo rammarico si {30 [144]} vide come soldato posto fuori del campo di battaglia. Alcuni malevoli del paese, mal tollerando che le scuole libere dell’Oratorio avessero quasi disertate quelle del municipio, presero ad osteggiarle con grande accanimento. La questione fu portata dinanzi all’autorità civile; e siccome il Conte Cays non godeva ancora il diritto di nazionalità francese, così gli avversarii tanto dissero e tanto brigarono, che gli fecero inibire di più ingerirsi nelle scuole medesime. Al nobile uomo rincrebbe assai questa proibizione, e secondo l’intento de’suoi avversarii avrebbe dovuto chiudere l’Istituto; ma egli, pratico già delle cose del mondo, non si diede per vinto nè si perdette d’animo. D’accordo col suo Superiore, e coll’appoggio del Commendatore Dupraz, chiamò alla reggenza delle scuole un maestro francese legalmente autorizzato, e col mezzo suo le tenne aperte sino alla fine dell’anno con molto profitto scientifico, religioso e morale dei fanciulli, e con grande consolazione delle loro famiglie. Ma le fatiche del sacro ministero e le noie tollerate a motivo della prefata questione abbatterono il fisico dello zelante Direttore, e sconcertarono non poco la sua mal ferma salute. Per la qual cosa, ed in vista eziandio della critica posizione, cagionata dall’applicazione dei famosi decreti contro le Congregazioni religiose in Francia, terminato l’anno scolastico nell’agosto del 1880, D. Bosco lo richiamò presso di sè a Torino. Qui egli continuò per oltre due anni a mostrarsi modello di osservanza religiosa, e a lavorare con molto vantaggio delle anime, e con alta edificazione de’suoi Confratelli. Al vedere il gentiluomo, presso che settuagenario, non ritirarsi mai dal lavoro, quando trattavasi della gloria di Dio, oppure di fare l’obbedienza, {31 [145]} era impossibile che i più giovani non si sentissero fortemente animati a sacrificare, ad esempio suo, piaceri, comodità e vita. Ogni mattino e nello stesso cuore dell’inverno, suonata l’Ave Maria, tu vedevi il degno Sacerdote con un lumicino in mano, scendere nella Chiesa di Maria Ausiliatrice, portarsi presso al confessionale assegnatogli, e colà inginocchiato attendere i penitenti. Quella vista faceva correre alla mente il buon Pastore Gesù al pozzo di Sichem, che aspettava la Samaritana e gli abitanti della città. Nei giorni di festa egli stava nel tribunale di penitenza talvolta tre ed anche quattro ore di seguito, non uscendone che per recarsi all’altare a celebrare la santa Messa, colla quale coronava le sante sue occupazioni del mattino. Nei giorni feriali poi, non essendovi sì grande concorso di fedeli, egli confessava come alla spicciolata e a più riprese; ma finito che aveva di udire questo e quell’altro, egli non si partiva tosto di là, ma ripostosi ginocchioni, se era tuttavia oscuro, riaccendeva il suo cerino e recitava il Breviario, o faceva la meditazione, o s’intreteneva in pie letture, finchè altri si appressasse al confessionale. Le persone, le quali entravano in Chiesa, vedendolo in quel luogo, capivano tosto che egli attendeva dei penitenti, e, stante la comodità che loro porgevasi, accadde sovente che si accostassero alla confessione taluni, che non ne avevano da prima alcuna intenzione. Fra gli altri vi fu un negoziante, il quale assicurò di se stesso, che un mattino d’inverno del 1882, entrato nella Chiesa di Maria Ausiliatrice, e veduto quel Prete al freddo, che aspettava gente a confessarsi, ne provò da principio un senso di ammirazione; indi riflettendo sopra se stesso, ed accortosi che {32 [146]} non era troppo bene con Dio, si accostò al confessionale, ed aggiustò le partite dell’anima, con grande soddisfazione del suo cuore. Chi sa quanti altri avranno fatto altrettanto, non conosciuti che da Dio solo! Era per altro cosa singolare! Il nostro D. Carlo e per lo studio fatto, e per la conoscenza del cuore umano riusciva un eccellente maestro di spirito; e malgrado di ciò, la sua umiltà lo teneva ognora in angustia pel timore di non far bene. Lo zelo della salute delle anime lo spingeva da una parte, e la tema di errare lo tratteneva dall’altra; ma la Dio mercè vinceva il primo, coadiuvato e confortato dalla voce dell’obbedienza.

            Oltre l’occuparsi nell’udire assiduamente le confessioni, il buon Conte attendeva eziandio a raccogliere notizie e a tessere le biografie degli ultimi Salesiani defunti. Questa occupazione eccitavalo potentemente alla pratica delle più belle virtù, e servivagli nel tempo stesso a prepararsi viemmeglio alla morte, che si accorgeva non essergli lontana. Infatti la sua vita preziosa volgeva rapidamente al tramonto.

 

 

V. Malattia e Morte.

 

            Da circa un anno il nostro D. Carlo Cays era travagliato da inappetenza, e talvolta pure da insonnia per buona parte della notte, indizio che il suo corpo si andava indebolendo e come disfacendosi, per lasciare libera di volare a Dio la bell’anima, che quale prigioniera lo abitava. {33 [147]}

            Per consiglio dei medici passò qualche mese dell’inverno e della primavera dell’anno 1882 in seno alla famiglia nel castello di Casellette, dove speravasi che l’aria salubre e la libertà dalle occupazioni dovessero giovare alla debole sua salute; ma dopo qualche settimana, temendo che una più lunga dimora nella propria casa non fosse conforme al suo stato di Religioso, egli già pensava di fare ritorno all’Oratorio. Fu necessario che chi faceva le veci di D. Bosco, allora assente, lo andasse a trovare per tranquillarlo e persuaderlo che quel soggiorno in famiglia non era punto contrario alla professione religiosa, intervenendovi il pieno consenso anzi il consiglio dei Superiori. E merita pure menzione il suo amore al lavoro e lo zelo pel bene delle anime, giacchè malgrado la sanità cagionevole, egli continuava ad occuparsi in qualche opera, che gli era stata commessa mentre trovavasi ancora in prospera salute; ed inoltre molto di buon grado prestavasi nel ministero delle confessioni in aiuto del Parroco del paese.

            Nel mese di Maggio, appena seppe dell’arrivo di D. Bosco in Torino il nostro D. Carlo ritornò all’Oratorio, riprese le consuete occupazioni, quantunque poco vantaggio avesse ottenuto nella sua permanenza in famiglia. - Per suggerimento dei medici dovette ancora una volta assentarsene a fine di recarsi a San Didier presso Aosta per respirarvi le arie balsamiche e bervi quelle acque, che sono riputate cotanto salutari. - Egli però era impaziente di ritornare all’Oratorio, e parevagli ogni giorno mille, pel che anticipando la sua partenza ritornò tra noi ancor prima del breve tempo prefissosi.

            La sua salute anzichè avvantaggiarsi andava {34 [148]} insensibilmente diminuendo; la vista più poco gli serviva, le gambe non lo reggevano che a stento, e sovratutto l’inappetenza gli andava ognora crescendo. - Di tali incomodi egli non si doleva punto; solo mostrava rincrescimento che la debolezza della vista lo esponesse al pericolo di sbagliare nella celebrazione della S. Messa, in cui soleva impiegare tutta l’attenzione ed il fervore possibile. Addoloravasi parimenti che per lo stesso difetto della vista non poteva guari occuparsi a leggere, allorchè presso al suo confessionale, come dicemmo, attendeva i penitenti.

            Sul principio di Settembre egli fece con molto impegno i suoi esercizi spirituali nel Collegio di S. Benigno, dopo i quali, non ostante i suoi crescenti incomodi, continuò ad attendere al confessionale e al tavolino in tutto il tempo che rimanevagli disponibile. Avrebbe pur voluto mettersi con tutta esattezza all’osservanza delle regole e dell’orario della Casa, e fu necessario che l’autorità dei Superiori gli imponesse di usarsi i necessarii riguardi sia nel riposo sia nel lavoro.

            Il 28 di Settembre sentivasi più sollevato che nei giorni addietro. Nel mattino aveva ancora passato alcun tempo ad udire le confessioni, e in quella sera cenò con miglior gusto ed appetito. Tutto pareva far presagire un buon avviamento nel suo stato sanitario. All’opposto, nella notte stessa venne preso da una specie di rantolo, che alquanto gli disturbò il riposo. Sebbene l’incomodo non presentasse sintomi inquietanti e sul far del giorno fosse svanito, egli tuttavia lo tenne come avviso di ben prossima partenza da questo mondo.

            Con tale idea non pensò più che a prepararsi al grande passaggio. Anzichè temere la morte, {35 [149]} egli la sospirava come mezzo di presto unirsi a Gesù. - Più non voleva pensare ad altro che al Signore e all’anima. Fattosi pertanto attaccare al braccio destro un borsellino, dentro cui trovavasi una reliquia del S. Legno, tratto tratto la baciava e supplicava il Signore a dargli la pazienza e rassegnazione necessarie, per sopportare con frutto la sua infermità, mentre considerando i dolori da Gesù sopportavi su quel duro legno si animava a soffrire per amore di Lui. - Era questa la santa reliquia che tonevasi pure indosso, quando Deputato si trovava al Parlamento, perchè soleva dire che in quell’aula si aveva appunto da fare colle partes adversae, che si devono mettere in fuga col segno della Croce, secondo quelle parole della sacra Liturgia: Ecce Crucem Domini, fugite partes adversae.

            Il giorno 29 sebbene si sentisse abbastanza bene, tuttavia chiese i santi Sacramenti; ma non essendo a casa D. Bosco nè D. Rua si adattò ad aspettare il loro arrivo, che doveva essere di quella sera stessa. Sul far della notte fu riassalito e con maggiore violenza dal rantolo della notte precedente, il quale non servi che a renderlo più ansioso di essere confortato da Gesù in Sacramento. Arrivato D. Bosco, a notte avanzata, il Sac. Bonetti, che lo assisteva, ne diede all’infermo la notizia ed ei si rallegrò grandemente. Recatosi D. Bosco a visitarlo verso le 11 1/2, tosto l’infermo lo pregò di voler ascoltare la sua confessione, che fece coi sentimenti della più commovente pietà. In appresso per le sue calde istanze, poco dopo la mezzanotte, gli fu amministrato il SS. Viatico. Stando per ricevere il suo Sacramentato Signore, chiese perdono di ogni dispiacere o scandalo, che avesse {36 [150]} potuto cagionare ai confratelli, come pure di tutti gli incomodi che avesse dato a qualsiasi di essi, parlando in guisa da muovere le lagrime agli astanti. Poscia con trasporto di amore ricevette il suo dolcissimo Gesù, trattenendosi buona pezza con Lui in affetti della più viva riconoscenza, per tanti benefizi concessigli nel corso di sua vita, specialmente per essersi degnato di chiamarlo ed aggregarlo alla pia Società di S. Francesco di Sales, e di averlo innalzato alla sublime dignità di suo Ministro. Esprimeva in pari tempo il vivo desiderio che internamente lo cuoceva di unirsi a Lui in guisa da non esserne mai più separato. Erano le prime ore del 30 Settembre, festa del massimo Dottore S. Gerolamo, e nella cameretta del nostro Conte parve rinnovarsi il dolce spettacolo della Comunione di quel gran Santo.

            Sebbene il male nel giorno si mitigasse alquanto, tuttavia notavasi nell’illustre infermo un sensibile deperimento di forze, onde si cominciò a temere fortemente sulla preziosa sua vita. Anche il medico dell’Istituto chiamato fin dal principio della malattia conobbe la gravità del caso; ma incoraggiandolo gli andava prodigando le più sollecite cure e prescrivendo quanto l’arte gli suggeriva.

            Il malore facendo rapidi progressi, l’infermo mostrò desiderio di vedere il figlio, per lasciargli i suoi ultimi ricordi. Si telegrafò pertanto al Conte Luigi, che dello stesso giorno fu al letto del genitore, cui da quel momento più non abbandonò, assistendolo e servendolo colla più tenera sollecitudine. Quanto sia stato commovente il primo abbraccio del padre col figlio torna più facile l’immaginarlo che il descriverlo. Il D. Carlo nel timore di non aver più tempo, se avesse aspettato {37 [151]} più tardi, approfittò di quelle prime ore per dare al figlio gli avvisi, che l’amore paterno gli suggeriva pel buon governo di se stesso e della famiglia. Fra le altre cose gli raccomandò caldamente la fedeltà nell’osservare la nostra Santa Religione, la diligenza nell’istruire in essa la sua famiglia, e la carità verso i poveri considerandoli come suoi fratelli in Gesù Cristo. Pareva di udire il santo Tobia a dare i suoi celebri consigli al diletto suo figlio. - Egli coronò le sue amorevoli raccomandazioni, coll’impartire con tutta l’effusione del cuore la paterna e sacerdotale benedizione sopra di lui, sulla sua consorte e su tutta la sua famiglia.

            Frattanto sebbene non apparisse indizio di morte prossima, l’infermo chiese che gli si fosse amministrata l’Estrema Unzione. - Desidero, diceva a chi gli suggeriva che si poteva ancora differire non essendovi grave pericolo, desidero riceverla mentre mi trovo in pieno possesso delle mie facoltà, e non troppo aggravato, affinchè possa in me operare con maggior efficacia. - Gli venne dunque amministrato l’Olio Santo da D. Rua, ed egli accompagnò tutte le preghiere del Sacerdote colla più grande pietà, rispondendo egli stesso alle varie orazioni. Contento poscia e riconoscente di questa nuova grazia che il Signore gli fece, egli ne lo ringraziò coi più caldi affetti.

            Intanto il figlio era andato in cerca del celebre Dott. Bruno, e con esso ritornò alla sera presso al letto del caro genitore. Il medico esaminò brevemente l’infermo, e, senza nulla prescrivere di particolare, lasciò detto che l’arte non vi aveva più nulla a fare. Partito il Dottore, venne impartita al malato la Benedizione papale, di cui aveva mostrato {38 [152]} desiderio, ed egli accompagnò le preghiere colla più edificante divozione. Questo avveniva al Sabato, giorno in particolar modo dedicato alla Vergine SS., di cui il nostro D. Carlo era divotissimo.

            Alla Domenica, 1° Ottobre, festa del SS. Rosario egli pregava istantemente la sua Madre dolcissima che il volesse prendere con sè in quel giorno medesimo. D. Bosco, non ostante il bisogno di recarsi all’ultima muta de’spirituali esercizi in S. Benigno, aveva differito la sua partenza per assisterlo negli estremi momenti, qualora in quel giorno il Signore l’avesse chiamato a sè. - Veduto poi come egli fortunatamente avesse preso un lieve miglioramento, sul pomeriggio si avviò a quella volta. Egli passò prima a prendere congedo dall’infermo, e a confortarlo con parole improntate del più caldo affetto e della più ferma speranza di rivedersi o in questa vita ancora, o in seno a Dio nell’altra. Per quanto fosse grande il desiderio di essere assistito da Don Bosco in punto di morte, il virtuoso Conte fece di buon grado anche questo sacrifizio, rassegnandosi pienamente ai divini voleri.

            Dopo la partenza di Don Bosco, di quando in quando l’infermo mandava a chiamare Don Rua che ne faceva le veci; ed ora esponevagli qualche pena, che inquietava la delicatissima sua coscienza; ora si raccomandava che pregasse e facesse pregare per lui; ora esponeva qualche dubbio sul suo modo di comportarsi nella malattia. Chiese per esempio se non fosse male il domandare al Signore che presto lo prendesse con sè. Inteso che anzi era ben fatto, se tale dimanda partiva dal desiderio di unirsi con Dio senza pericolo di più non perderlo, e che S. Paolo stesso diceva: Cupio dissolvi et esse cum Christo, egli si tranquillò, e prese {39 [153]} a sfogare la sua ansia di presto morire. Interrogato se mai soffrisse dolori, che gli facessero desiderare di esserne presto liberato colla morte, egli rispose: - Debbo proprio ringraziare il Signore che volle adattarsi alla mia debolezza. Io temeva d’avere a soffrire pene e dolori in fin di vita, dubitando che la mia fragilità mi avrebbe fatto perdere la pazienza; ed ora invece non provo il più piccolo dolore nè alla testa, nè allo stomaco nè in qualsiasi parte del corpo; l’unico mio male è una grande stanchezza e prostrazione di forze. Penso che sia una grazia che mi ottenne la mia cara madre Maria. -

            Altra volta esortato a mettersi con piena rassegnazione nelle mani di Dio accettando volentieri la guarigione, se a Lui fosse piaciuto di concedergliela, e a far sacrifizio di sua vita, se meglio fosse stato per l’anima sua, l’infermo rispose: - Vale ben poco questa mia vita (che la darei per pochi centesimi), ma per quel poco che possa valere ne fo di buon grado sacrifizio al Signore, accettando volontieri quanto a Sua Divina Maestà piacerà disporre di me. -

            Anche in quegli estremi della sua vita voleva essere regolato dall’obbedienza. Quando si trattava di approfittare di ciò, che suo figlio gli provvedeva, chiedevane precedentemente il permesso al Superiore. Al lunedi sera, 2 Ottobre, fu fatto consulto tra il medico dell’Oratorio Dott. Albertotti, ed il medico di famiglia, Dott. Peyretti. Avendo questi, per secondare il desiderio della pia contessa Antonia, sua nuora, proposto che stesse ancor ella ad assisterlo, D. Cays si mostrò conturbato; e dicendogli il Dottore che l’infermo deve stare alla ubbidienza del medico, egli riprese: {40 [154]} - Ne convengo, quando si tratta di rimedii; ma qui si tratta invece delle regole e consuetudini della Congregazione Salesiana, e io non posso e non voglio fare eccezione alcuna, senza ordine dei miei Superiori. Per grazia di Dio mi son fatto Salesiano e intendo morire da Salesiano. - Quando poi intese da D. Rua che, non essendo l’Oratorio un convento, ma un Ospizio, dove già altre volte madri e sorelle avevano assistiti allievi e persone malate, e ciò si permetteva anche per lui, l’illustre infermo si acquietò, contento di non allontanarsi neppure allora dall’obbedienza, che tanto stavagli a cuore.

            Nei colloqui che aveva con D. Rua talvolta si doleva e mostrava timore, perchè negli ultimi mesi non aveva sempre osservate le regole, per esempio nel levarsi al mattino cogli altri. Per tranquillarlo era necessario richiamargli alla memoria come stante la sua avanzata età tale riguardo eragli stato imposto dall’ubbidienza, e perciò non aveva motivo di rammaricarsi. Egli infatti varie volte aveva provato ad adattarsi alla regola, ma soffrendone la sua salute, i Superiori glielo avevano proibito.

            Al martedì mattino, 3 Ottobre, per assecondare il suo vivo desiderio, gli venne di nuovo portata la SS. Eucaristia. Don Rua era passato a trovarlo alle 5 ½ per riconciliarlo in preparazione alla S. Comunione, che doveva essergli amministrata alle 7. Poco prima di quell’ora si portò presso di lui, per aiutarlo a prepararsi, il Sac. Lazzero, il quale ebbe poscia a riferire che sì caldi furono i suoi affetti di preparazione e di ringraziamento, che la sua poteva veramente dirsi la Comunione di un santo. Oltre quanto l’amante suo cuore gli {41 [155]} suggeriva, desiderava che gli astanti lo soccorressero a cercare affetti e sentimenti per pregare e ringraziare condegnamente il Signore, nè si stancava di udirsi a dettare giaculatorie e preghiere anche dai Sacerdoti novelli e di gran lunga a lui inferiori.

            Tutto il giorno fu trascorso come in prossima preparazione al viaggio dell’eternità. Il Crocinsso, che da due giorni teneva sul letto, era sovente da lui rimirato con alta compiacenza, e fra le piaghe di quello e la reliquia del santo Legno andava egli alternando teneri baci, mentre le sue labbra frequentemente pure si schiudevano ad invocare ora Gesù, ora la sua dolce Mamma Maria ed i santi suoi protettori. Più volte durante quel giorno si fece leggere le preghiere della buona morte, quali si trovano nel Giovane Provveduto, ed egli prestandovi la più divota attenzione andava ripetendo con tenero affetto l’invocazione: Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me.

            Discorrendo in quel giorno medesimo con Don Rua sulle cose, che gli avevano fatto più salutare impressione, disse che molto lo aveva incoraggiato ad abbandonare il mondo la vita, che aveva letto del servo di Dio Schouwaloff, il quale in questi ultimi tempi avendo rinunziato alla sua carica di generale nell’esercito Russo, erasi ritirato a menar vita povera, oscura e penitente tra i Barnabiti; e che anche in quegli estremi momenti lo confortava la memoria dell’ultima malattia e della morte avventurata di lui.

            Si avvicinava intanto la solennità del grande Patriarca della povertà, S. Franc. D’Assisi, e qualcuno gli suggerì che facesse a lui ricorso, affinchè si degnasse pagargli la festa nella dimane, in cui si {42 [156]} celebrava il VII Centenario della sua nascita. Gli si fece osservare che i Salesiani ed i loro Cooperatori erano stati arrichiti delle indulgenze dei Terziarii Francescani, e che perciò devono anch’essi confidare nella sua protezione; che poi vi poteva confidare egli sopra tutto, perchè ad imitazione di lui aveva abbandonate le mondane ricchezze, ed abbracciato la povertà religiosa per amore di Gesù Cristo. Da tali considerazioni animato si raccomandò di cuore al gran Santo, affinchè gli ottenesse di essere presto partecipe della sua gloria. E pare veramente che il glorioso Patriarca lo abbia esaudito.

            La sera di quel giorno qualcuno discorrendo con lui gli manifestò la speranza che il Signore lo avesse ancora a conservar per qualche tempo in vita; ma egli con tutta franchezza e serenità disse: - Stassera non morrò, ma domani non vi sarò più. -

            Vedendo che andava declinando, D. Rua lo volle assistere egli stesso per tutta la notte. Stette pure a fargli compagnia il Barone Alberto Della Torre nipote dell’illustre infermo, a cui era carissimo, non solo pei vincoli di sangue, ma per lunga ed intima comunanza di affetti, sentimenti di religiosa pietà, e premurosa carità verso il prossimo; il quale dal momento che aveva avuto sentore della sua malattia più non aveva abbandonato, se non per brevi intervalli, l’affezionatissimo zio.

            Verso le 10 ½ chiese ancora una volta che gli si leggessero le preghiere della buona morte, cui accompagnò nuovamente colla più fervida divozione. In seguito D. Rua lo esortò a raccomandare nelle mani del Signore il suo spirito con quelle parole: In manus tuas, Domine, commendo spiritum {43 [157]} meum; e poi a mettersi a riposare dicendo ancora al Signore: In pace in idipsum dormiam et requiescam. Egli obbedì con tutta semplicità, mostrando però desiderio di ricevere ancora una volta l’Assoluzione sacramentale, che gli venne impartita.

            Intanto aggiustato un paralume sulla candela, affinchè i raggi non gl’impedissero il sonno, e in guisa da rendere oscura la camera, concentrando tutta la luce sul tavolo, egli si addormentò placidamente, non disturbato neppur dalla difficoltà del respiro, che quel giorno ebbe sempre assai libero. Riposando egli tranquillamente, D. Rua uscì dalla’camera di lui per andarsi a prendere un po’di lavoro pel rimanente della notte. L’infermo svegliatosi in quel breve intervallo, con aria allegra domandò al Barone Della Torre, che stava presso al suo origliere: - Che ora è? - Mezzanotte, rispose questi. - Mai più, riprese l’infermo, non vedi come è chiara la camera? - Eppure la mezzanotte è suonata appunto adesso. - Non pare possibile, replicò l’infermo, essendo la camera così illuminata. - Dopo di che si tacque quasi beandosi in vista di qualche cosa, che molto lo rallegrava. Sarà stato un lampo di quella luce in cui doveva fra breve immergersi, come si spera? Nol sappiamo, ma ben si può dire con tutta verità che quella luce lo riempì di una gioia indicibile. Esortato a riposare, di bel nuovo si addormentò con una serenità indescrivibile. Poco dopo si ridestò, e prese a ripetere fervorose giaculatorie. Verso ad un’ora e mezzo dopo la mezzanotte fu osservato a fare il segno della S. Croce parecchie volte; ma gli ultimi segni più non li compieva interamente: la destra non poteva più giungere fino alla fronte. {44 [158]} Suggeritegli alcune giaculatorie, le ripetè con fervore, ma con debole voce e con istento. Si conobbe allora versare in prossimo pericolo di morte. Si chiamarono il figlio, la nuora e il di lei fratello Barone Garofoli, che pure erasi fermato nell’Oratorio. L’infermo conservava piena cognizione, dava segni di conoscere le persone che gli parlavano, ma egli più non riusciva a far udire la sua voce. Tuttavia ogni volta che lo si chiamava per dire qualche giaculatoria, sempre dimostrava col capo o cogli occhi il suo gradimento e volontà di ripeterla. Specialmente poi diede segno di pronto e cordiale consenso allorchè D. Rua, mostrandogli il figlio e la nuora, lo pregò di volerli ancora una volta benedire colla loro famiglia. Fu quello un momento straziante per quei nobili cuori.

            Intanto si cominciarono le preghiere degli agonizzanti, a cui il moribondo mostrò di tener dietro finchè gli fu possibile. Ma l’ora della sua dipartita era suonata, ed egli tenendo colla mano destra il Crocifisso sul cuore rese la sua bell’anima a Dio. Erano le 3,20 antimeridiane del 4 Ottobre, giorno consecrato al solenne Centenario di S. Francesco d’Assisi, avverandosi così la sua predizione del dì precedente, che nel giorno dopo egli non vi sarebbe più.

            Nella morte del nostro D. Carlo Cays si videro pienamente avverate le parole della S. Scrittura intorno alla morte dei giusti: Iustorum animae in manu Dei sunt et non tanget illos tormentum mortis; giacchè egli morì senza spasimi, senza dolore, anzi in faccia alla morte egli non solo non ne provò spavento, ma ne gustò dolce contentezza, riguardandola come mezzo per unirsi inseparabilmente a Gesù Cristo e alla carissima sua Mamma {45 [159]} Maria, com’egli con infantile tenerezza soleva chiamare la Regina del Cielo.

            Tre cose tenevano da qualche anno alquanto angustiato l’animo suo: il timore di non aver suo figlio presso di sè nell’ultima malattia, se fosse morto nelle case della Congregazione; per altra parte anche più gli faceva pena il pensare di morire nel suo Castello, perchè temeva di non poter avere l’assistenza de’suoi Superiori e confratelli; e finalmente lo angustiava pur qualche volta la paura di perdere le facoltà mentali. Ma il Signore nella sua bontà lo consolò pienamente; imperocchè ei potè morire tra i suoi confratelli e coll’assistenza dei suoi Superiori; ebbe al letto di morte ad assisterlo il suo caro figlio; ed una piena intelligenza lo accompagnò fino all’estremo momento.

            Oh! faccia il Signore che il nostro ultimo giorno ed il nostro passaggio all’altra vita si assomigli a quello del nostro diletto Don Carlo Cays. Ma per ottenere da Dio un tanto favore, imitiamolo in vita nostra nelle sue virtù. Imitiamolo nel distacco dalle ricchezze, dagli agi, dagli onori di questo mondo; imitiamolo nella carità verso il prossimo, specialmente verso i giovanetti più bisognosi di morale e religiosa istruzione; imitiamolo nell’occupare saggiamente il tempo adempiendo con puntualità quegli uffizi, che Iddio ci affida per mezzo dei nostri Superiori, ed in fine abbiamo pure ognor presente questa importantissima massima: - Il piacere di morire senza pena vale la pena di vivere senza piacere. - Se la nostra vita sarà seminata di spine, e noi ne avremo sofferto con coraggio le punture per amor di Gesù Cristo, il letto della nostra morte sarà coperto più o meno di rose, e fin da quegli estremi momenti Iddio ci farà come {46 [160]} respirare un’anticipata fragranza del Paradiso. - Non avrei mai creduto, diceva il Padre Suarez prima di spirare, che fosse così dolce il morire. - La stessa cosa hanno provato tanti altri buoni e fervorosi cristiani. Questa è appunto la morte preziosa, di cui parla lo Spirito Santo: Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius. Deh! tale sia la morte di tutti i Salesiani e dei loro Cooperatori e Cooperatrici.

 

 

Il sac. Gio. Battista Caraglio

 

            Egli nacque in Roccavione presso Cuneo addì 10 Ottobre 1854 da onestissimi genitori che si presero ogni cura per educarlo cristianamente, ed instillargli in cuore il santo timor di Dio, di cui diede belli esempi presso di noi.

            Percorse il Ginnasio in Cuneo sotto la direzione dei PP. Gesuiti; e non è a dire quanto egli approfittasse sotto la disciplina di sì esimii educatori della gioventù. Ma non potè regolarmente terminare il Corso di Studii Ginnasiali, per un malore sopraggiuntogli e che, sebbene lentamente, pure lo condusse fino a morte.

            Sentendosi da Dio chiamato al suo servizio, dietro mature riflessioni entrò nel Seminario e vestì le divise Clericali. Ma il Signore ne’suoi imperscrutabili decreti dispose che per un intreccio di avvenimenti egli dovesse abbandonare quel luogo santo.

            Si fu allora che l’ottimo D. Gio. B. Caraglio suo zio e priore di Roccasparvera, si rivolse a Don {47 [161]} Bosco pregandolo a voler ricevere il nipote nel novero de’suoi figli.

            Accettato, si recò nel nostro Liceo di Alassio. Fedele alla Divina Vocazione, sospirava il momento in cui gli sarebbe stato dato di rivestire le sacre divise; e quando giunse quel giorno e potè dar il nome alla Congregazione Salesiana, fu per lui uno de’più bei giorni della vita.

            Accettato nella Congregazione, gli fu affidato l’insegnamento e l’assistenza ne’vari Collegi in cui dimorò. Superiori ed allievi non aveano che a lodarsi di lui; ma la sua salute sempre debole e cagionevole lo costrinse a mutar più volte casa; motivo per cui da Alassio andò a Val-Salice, indi a Nizza Marittima e poco dopo a Bordighera, ove rimase sino alle vacanze del 1878. L’anno scolastico 1878-79 lo passò all’Oratorio.

            Il Signore a viemmeglio purificare la sua bell’anima dispose che ai patimenti corporali si unissero pene interiori ed incertezze intorno alla sua vocazione, sicchè egli non sapeva indursi ad emettere i Voti Religiosi, benchè questo fosse il più ardente de’suoi desideri. Egli raddoppiava allora di fervore nelle sue preghiere e ricorreva a’Superiori, verso i quali nutriva grande fiducia.

            Tali pene interiori contribuirono assai a peggiorare ognor più la sua malferma salute. Nel 1879 trovandosi all’Oratorio, cadde gravemente ammalato, ed il male fece si rapidi progressi da ridurlo in fin di vita. Ricevette col più grande fervore e pienamente conscio di sè, gli ultimi conforti della S. Religione, ed in tutto uniformato a’divini voleri, attendeva a prepararsi al grande passaggio. Senonchè non era peranco giunta l’ora della sua chiamata all’eternità. Contro ogni umana aspettazione {48 [162]} egli risanò; e fu allora che i superiori lo destinarono per il collegio di Lanzo.

            Addetto all’insegnamento si fece tutto a tutti, non perdonandola a fatica di sorta, pur di poter giovare ai giovanetti affidati alle sue cure dalla divina Provvidenza. Di carattere pronto, sapeva però porsi in calma prontamente.

            Ogni sabato ed alla vigilia delle solennità non mancava mai di parlare a’suoi allievi esortandoli ad accostarsi a’santi Sacramenti; e le sue parole erano sempre opportune ed efficaci.

            Frequentava egli regolarmente i SS. Sacramenti della Confessione e della Comunione apparecchiandovisi con grande impegno. Non intralasciava mai la Meditazione e la recita del santo Rosario; e fatto sacerdote, lorchè le sue occupazioni non gli permettevano di prendervi parte in comune non mancava mai di supplirvi privatamente prima di andare a riposo. Era solito dire che la Meditazione ed il S. Rosario sono pratiche indispensabili al Religioso ed al Sacerdote, e che difficilmente chi non vi è fedele può perseverare nella sua vocazione. Nè mai tralasciava la visita al SS. Sacramento; ed era bello vederlo bene spesso attorniato da una corona di giovani che egli conduceva con sè ai piedi di Gesù in Sacramento, avvalorando così coll’esempio le sue esortazioni.

            La sua malferma salute gli somministrava continue opportunità di esercitar la pazienza, ed accettava con lieto animo queste pene per amore di quel Gesù che tanto volle patire per nostro amore.

            Tuttavia dopo il primo anno della sua dimora in Lanzo, parve essersi alquanto rinforzato; ed allora i superiori giudicarono dover annuire ai suoi desideri ammettendolo alla professione religiosa. {49 [163]} Per un istante rinacquero le antiche perplessità; ma vinse l’ubbidienza, ed egli durante gli esercizii spirituali del 1880 emetteva i voti religiosi nella cappella di Lanzo. Al 17 Maggio 1881 riceveva la tonsura ed i quattro ordini minori, il domani il Suddiaconato; ai 24 Settembre veniva promosso al Diaconato, ed infine ai 17 Dicembre era assunto al Sacerdozio. Come egli vi si preparasse non occorre dire: ben sapendo richiedersi nel sacerdozio pietà e scienza, attese col massimo impegno ad acquistare sì l’una che l’altra. Malgrado la poca salute, malgrado la scuola regolare cui non cessò di attendere e le altre occupazioni impostagli dall’ubbidienza, ei trovò tempo a darsi in modo tale allo studio della Teologia da riportar in ogni esame, nonchè i migliori voti, ma lode ancora di diligentissimo.

            Ma il Signore avea stabilito di chiamarlo a sè. Cedendo alle più vive istanze fattegli dal già mentovato suo zio D. Gio. B. Caraglio, priore di Roccasparvera, si era recato in patria dopo ben cinque mesi a celebrar la sua Messa nuova.

            Egli ritornava dopo alcuni giorni in Lanzo, appunto quando stavano per incominciare gli esercizii spirituali per i giovanetti. Riguardò questa circostanza come un segnalato favore che Dio gli voleva concedere, e vi prese parte col massimo fervore, quasi presago del poco tempo che ancor gli rimaneva a passare quaggiù. La sua salute per altro non pareva alterata, e nulla faceva presentire sì prossima la sua dipartita. Pochi giorni dopo il Signore visitava quel collegio col chiamare a sè repentinamente un giovanetto di angelici costumi... D. Garaglio riconobbe in questo un nuovo avviso del cielo, e sempre più si andò eccitando a tenersi preparato. {50 [164]}

            Era il mattino del 17 Maggio 1882, tornato a casa dopo aver celebrata la S. Messa in una cappella poco distante dal collegio, D. Caraglio si sentì alquanto indisposto. Fin da quel mattino non potè più far la scuola regolare; il dopo pranzo dovette porsi a letto. Il suo stato intanto andava peggiorando ed il medico fin dalla prima visita manifestò non leggeri timori. A’ Confratelli che lo visitavano raccomandava che pregassero per lui. Se il Signore voleva ancor conservarlo in vita, egli era contento per poter fare ancora un po’ di bene; ma se Egli aveva stabilito altrimenti, si rassegnassero ai divini voleri e pregassero per lui affinchè potesse disporsi al grande passaggio.

            La notte del 22 fu molto dolorosa pel povero D. Caraglio; e fuvvi un momento in cui fece temere non poco della sua vita. Sul far del giorno vaneggiava; e quando venne il medico lo trovò aggravato a morte. Però quando il direttore andò per confessarlo, D. Caraglio si riebbe alquanto e si trovò in pienissima cognizione. Confessato, dimandò di ricevere il S. Viatico. Si preparò tanto bene che, quando nella camera vide il nostro Sacramentato Gesù, raccogliendo le poche forze che gli rimanevano, avrebbe voluto sedersi almeno sul letto. Gli si disse di starsene tranquillo, ed egli ubbidì. Siccome intanto il male andava facendo rapidi progressi, si mandò subito per il Vicario, il quale accorse all’istante ad amministrargli l’estrema Unzione. Ricevette questo Sacramento con piena cognizione e con grande consolazione del suo cuore, e così pure la benedizione papale in articulo mortis. Verso le undici di notte, il caro nostro D. Caraglio, accortosi che la morte stava omai per separare l’anima sua dal corpo, potè chiamare i confratelli {51 [165]} che stavano dappresso al suo letto, e loro stringendo la mano diceva: Ci rivedremo in Paradiso.... Alle 11 e 50 spirava, dicendo: Dio.... Anima....

            Per tal modo partivasi da questa valle di lagrime il carissimo nostro confratello, D. Caraglio, colla tranquillità e colla calma di chi nulla avendo più a fare in terra, s’incammina al Cielo. Lui felice che, vinte le perplessità ed i vani timori, seppe a tempo ascoltare la voce del Signore che chiamavalo a sè nella cara Congregazione nostra, la quale dopo di esserci madre amorosa in vita, ci introduce come per mano al gaudio eterno del Paradiso.

 

Il sac. Amerio Secondo

 

            La vita del Sacerdote Amerio Secondo fu un continuo esempio di umiltà e di rassegnazione perfetta alla volontà del Signore; imperciocchè tra le dolorose malattie che per 10 anni lo tormentarono e così giovane ce lo tolsero, egli seppe portare allegramente la sua croce, benedicendo Iddio che volesse costringerlo, come diceva, a guadagnarsi il Paradiso.

            Nacque in Asti il 23 Febraio 1856 di famiglia virtuosa ed onorata. La prima educazione ebbe in patria, colla guida e l’esempio della madre Efisia Ronchetti, che lo informò per tempo alla pietà ed alla religione, e lo rese degno di essere ammesso alla SS. Comunione, quando appena compiva nove anni. La consolazione che provò allora il nostro D. Amerio fu il principio di quelle pure gioie celesti, {52 [166]} onde trasse poi sempre conforto il suo cuore, che così poche consolazioni doveva trovare dalla terra. La pietà così ben nutrita nell’anima, l’ingegno pronto e vivace e il desiderio di consolare la sua vedova madre lo invogliarono fin d’allora a darsi agli studii classici; e con tale intenzione il 10 Novembre del 1868 entrava la prima volta nell’Oratorio Salesiano. Quivi non ismentì i suoi buoni propositi di regolarsi in modo da consolare la madre ed i suoi superiori. Il suo amore alla pietà ed allo studio gli fecero tosto amare l’Oratorio, dove insieme colla facilità di istruirsi, trovava più vivo eccitamento al bene nell’esempio di tanti compagni. Di questi osservò alcuni che dai superiori erano indicati come più esemplari, e se li fece suoi amici con cui giocare e ripetere le cose di scuola, e fare ogni sera una visita a Gesù Sacramentato ed a Maria SS. che li benedicessero nei loro studii. Uno di questi amici fu il compianto D. Luigi Gamarra, al quale D. Amerio fu sempre affezionatissimo, perchè diceva di aver imparato da lui quella divozione a Maria, e che al consiglio ed esempio di lui doveva pure la grazia di aver preso parte, sin da quei primi mesi, alle pie società di S. Luigi e del SS. Sacramento. A queste pie pratiche ne univa altre speciali in certe solennità, e più volte fu visto stare a lungo in chiesa, solo, davanti all’immagine della Madonna a sfogare con lei il suo amore di figlio. Poi al ricorrere delle sue feste raddoppiava il fervore accostandosi ai SS. Sacramenti, e colle parole e coll’esempio invitando gli altri a pregarla ed onorarla. La divozione a Maria Vergine porta con sè molte altre virtù, specialmente nei giovani. E così fece in D. Amerio; il quale sebbene d’indole vivace e giovane d’età, nei 4 anni di ginnasio {53 [167]} meritò sempre di essere proposto a modello di giovane ubbidiente e studioso. Nella scuola ebbe quasi sempre i primi posti per profitto negli studi; ma lontano dall’inorgoglirsi ne dava tutto il merito a Maria, e benchè bramosissimo di imparare, tuttavia non si arrese mai a leggere nessun libro di nessun autore, che potesse anche sol leggermente offendere la pietà e i buoni costumi. Imperocchè conosceva che non si può piacere a Maria senza la purità del cuore, e gelosamente vegliava a custodire nel suo cuore questa virtù. In casa, al passeggio, dovunque e con qualunque persona si trovasse pigliò quell’abito di modestia e riserbatezza nel parlare e nel trattare che mantenne poi sempre quando fu Chierico e Sacerdote.

            Parrebbe che questo modo austero e quasi rigido di trattare cogli amici, senza abbassarsi a famigliarità con alcuno, dovesse allontanargli l’animo dei compagni. Ma invece si deve dire che Amerio fu sempre il più caro tra gli amici, e desideratissima la sua compagnia, per quell’ingenuità che traspariva nel suo fare, e più ancora per la carità affettuosa che usava con tutti, nel sopportarne i difetti che non poteva correggere, e nell’aiutarli amorevolmente, come si fa con un fratello. I suoi condiscepoli della quinta Ginnasiale ricordano ancora con commozione un fatto, del quale furono testemoni quell’anno, e che resterà bella prova del buon cuore di questo nostro compianto confratello ed amico. Era il giorno di Maria Ausiliatrice dell’anno 1872; nell’Oratorio tutto era festa splendida ed allegria; e suoni e canti crescevano la gioia di quel giorno, in cui i giovani dell’Oratorio sogliono spendere in trastulli ed in libri i pochi denari meritatisi colla buona condotta. {54 [168]} Tutti i giovani, anche i più poveri, avevano il loro piccolo peculio da godere, perchè alcuni di quelli che n’erano più ben forniti, ciascuno con piccole offerte, avevano pensato a provvedere di danari chi non poteva averne altrimenti. Eravi tra quei giovani caritatevoli il nostro D. Amerio, il quale, dopo fatta la sua offerta, si incamminava più contento a spendere forse in qualche ricordo per la mamma quel denaro che gli restava. Ed accostandosi ad un banchetto di libri, vide là come nascosto per vergogna un suo compagno di scuola, tutto melanconico, che pareva volesse piangere. Che cosa hai così tristo, caro Domenico? gli disse D. Amerio. Non ho nemmeno un soldo da godere cogli amici: mia madre è povera; il padre è morto; come posso star allegro? A queste parole D. Amerio dimenticò il dono ed i libri che voleva comprare; tirò fuori le 6 lire che si trovava d’avere ancora, e mettendone 3 in mano al povero Domenico gli disse: Tieni, queste 3 manderai alla tua madre; il resto godremo insieme noi due. E per tutto quel giorno i due amici non si separarono più. Tale era Don Amerio all’età di 16 anni. A renderlo così buono di cuore e di tostami eragli giovata l’applicazione assidua e paziente con cui aveva sempre coltivato gli studi, e cercato di arrichirsi di quelle cognizioni che vedeva necessarie a chi vuole consecrarsi a Dio col Sacerdozio. E già egli aveva rinunziato al mondo, e scelto di servire a Dio nella Congregazione Salesiana, cui si era inscritto dall’anno 1871. Ancora un mese, poi finiva con onore il suo corso ginnasiale, coronava le fatiche di tanti anni, e si apriva un vasto campo alla sua operosità e carità in mezzo ai figli di D. Bosco. Ma appunto allora che così belle speranze sue e della madre {55 [169]} cominciavano a compiersi, sui primi di Giugno dell’anno 1872, una fiera malattia di petto lo assalì e fece giacere a letto per più di 2 mesi. Si riebbe un poco; parenti ed amici ripresero fiducia che si potesse ristorare in salute. Ma erano vane speranze; imperciocchè passato poco tempo ricadde in più grave stato, nè si alzò da letto che per trascinare a stento e con dolore, per 10 anni continui, quel suo corpo infermo e già mezzo morto, come diceva egli, capace a null’altro che soffrire e far soffrire. Povero D. Amerio!

            Come l’alba d’un bel giorno furono i suoi primi anni. Ma quell’alba passò veloce, e le speranze d’un così bel giorno svanirono. Già fin dal principio del 1873 la sua malattia fu dichiarata incurabile; ogni mese, quasi ogni giorno poteva aspettarsi d’essere chiamato dal Signore. Eppure con questo pensiero continuo, tra’dolori di un’anima ardente ed operosa che vede logorarsi invano i suoi giorni, doveva ancor soffrire per 10 anni, senza che nè assistenza di madre, nè cure di superiori e di amici potessero ravvivargli le forze ed il corpo. Ma se era infermo il corpo, quanto all’anima fu piuttosto degno d’invidia e di ammirazione. Tranquillo e rassegnato in ogni tempo, pure ringraziava continuamente Iddio e la Madonna di averlo chiamato nella nostra Congregazione; e non potendo occuparsi, come era suo volere, al bene delle anime, offriva i suoi patimenti e le sue preghiere al Signore per ottenerne la benedizione sulle fatiche dei Superiori e dei confratelli Salesiani. Quando più belle gli sorridevano ancora le speranze, fin d’allora aveva dato il suo nome alla Congregazione di s. Francesco di Sales. Poi l’anno appresso, il di 20 settembre 1872, quando appena s’era riavuto dalla malattia e sperava di {56 [170]} ristabilirsi bene in salute, fece la sua prima professione religiosa coi voti triennali; un mese dopo vestiva l’abito clericale. Quali pensieri e disposizioni avesse D. Amerio nell’abbracciare la vita ecclesiastica e religiosa, appare da queste parole che egli scriveva allora ad un amico, annunziandogli la sua vestizione: Il Signore mi ha scelto tra’suoi ministri; ha scelto me indegno a preferenza di tanti altri migliori di me, perchè vedeva che io nel mondo non potrei salvarmi. Per la salute dell’anima son disposto a sopportare ogni incommodo, ogni angustia. Voglio soffrire qualunque cosa prima che mancare a’miei voti; essi devono portarmi in Paradiso. Prega per me, che possa corrispondere alla vocazione e farmi buon Salesiano.

            Tali propositi, che uditi spesso a ripetere sembrano facili e comuni, ma non sempre pratichiamo, furono invece osservati scrupolosamente in ogni tempo del nostro D. Amerio. Voleva essere buon Salesiano, cioè santificare sè stesso e gli altri con la piena osservanza de’suoi voti; e vi riuscì. Che se in lui non possiamo lodare le opere faticose e difficili con cui servono e guadagnano anime a Dio gli altri Salesiani, vi troviamo però l’esercizio continuo di quelle umili virtù che santificano coll’esempio, e paion facili a chi non le pratica, mentre, invece non sono che il frutto di una pietà soda e profondamente radicata nel cuore. Essendosi proposto di aver sempre innanzi l’osservanza delle regole, era assiduo alla s. meditazione ed alla visita al SS. Sacramento. Tutte le settimane si confessava, e si comunicava quasi ogni giorno; tutti i mesi faceva con molto raccoglimento l’esercizio di preparazione alla morte. Fino agli ultimi due anni osservò le regole del digiunare al venerdì e dell’alzarsi {57 [171]} all’ora della comunità; e sempre fu d’esempio a tutti nella pratica esatta di ogni dovere. Un giorno un confratello sacerdote lo esortò ad usarsi più riguardi per la sua inferma salute, dicendogli che per questa non era obbligato a tutte le regole. Appunto per questa mia infermità, rispose, io mi credo più obbligato degli altri. Gli altri lavorano, ed io non fo niente di bene; almeno devo non dare scandalo, trasgredendo le regole che posso osservare.

            Ma la sua pietà appariva specialmente nel raccoglimento con cui faceva ogni anno i Santi Esercizi Spirituali. In quell’occasione egli soleva esaminar rigorosamente tutta la sua vita e notare in un libretto alcuni proponimenti che gli parevano più utili. Fra questi se ne trova uno che merita di esser ricordato. Fu scritto nell’anno 1876 quando fece la professione dei voti perpetui, e dice così: Ti sei legato per sempre a Dio; ma finchè vivi così superbo, così desideroso della stima degli uomini, così attaccato alle comodità del mondo, tu non sei di Dio ma del mondo. Devi emendarti.

            È segno di umiltà il giudicare se stesso superbo; e benchè D. Amerio nella sua umiltà si credesse indietro nella via del bene, i Superiori ne ammiravano la virtù e la pazienza, e lo giudicavano degno di essere promosso agli ordini sacri, quando appena l’età lo permise. Nel 1877 gli fu conferita la tonsura e gli ordini minori; nel 1878 il Suddiaconato e il Diaconato. Finalmente la mattina del dì 23 ottobre dello stesso anno venne ordinato sacerdote. Non si può dire quanta pietà, quanto ardore in lui accendesse la sublime dignità del sacerdozio. Raccolto nella sua cella in pie meditazioni e sfogando il suo amore a Gesù passò quel giorno, aspettando {58 [172]} con trepidazione il momento di offrire la prima volta il S. Sacrifizio. Quel momento venne e destò nell’animo di lui le contentezze del paradiso. In quel giorno fu pago e contento il suo cuore. Su un foglio del Breviario scrisse: Fecit mihi magna qui potens est; Gesù è disceso sull’altare, s’è incarnato tra le mie mani s’è posato nel mio cuore per farlo suo. Sarò io così ingrato da non amar Gesù? Parve che il Signore gli avesse voluto concedere questa consolazione, quasi per dargli forza nei patimenti che lo attendevano e disporlo così giovane al sacrifizio della vita. Un’anima che pareva fatta per conversare con Dio nella santa Messa, non doveva uscire da questa vita senza il conforto di averla celebrata. Ora quell’anima è unita con Gesù; in Lui ha trovato il suo conforto; e serena e tranquilla vedrà consumare la sua vita mortale, l’infermo suo corpo sfasciarsi ed accostarsi il giorno che deve congiungerla eternamente al suo amato Gesù. Quasi sospeso tra la vita e la morte, col pensiero che ogni giorno, ogni momento uno sbocco di sangue poteva travolgerlo repentinamente nella tomba, il caro D. Amerio passò ancora quattro anni, colle celesti consolazioni dell’anima alleviando i dolori e le infermità del corpo. Faceva meraviglia il vederlo sempre così tranquillo ed allegro, e non si poteva credere che dovesse soffrire tanti acerbi dolori egli che si mostrava sempre ilare e gioviale con tutti. Ma chi gli era compagno nell’ufficio di prefetto attesta, che specialmente nei tre ultimi anni di vita la pazienza di D. Amerio fu proprio ammirabile; che egli soffriva spasimi acerbissimi di petto, e che non di meno non fu mai visto turbarsi nè lamentarsi per dolore che sentisse; solo a volte si udiva esclamare: O Vergine santa, aiutatemi; e rispondeva {59 [173]} a chi voleva incoraggiarlo: Ma che vuoi che faccia io? Il Signore mi manda questo male: il padrone è Lui; sia fatta la volontà sua. Tanta virtù era frutto del suo amore a Gesù ed alla Madonna; tanta rassegnazione e pazienza erano il premio della divozione singolare con cui diceva ogni dì la santa Messa. Vi premetteva sempre una lunga preparazione, con iscrupolo ne osservava le cerimonie, di cui era studiosissimo; e dopo offerto il S. Sacrifizio non si allontanava mai dalla chiesa prima di essersi intrattenuto una mezz’ora. Gesù e Maria erano il suo conforto in vita; Gesù e Maria furono la sua consolazione al letto di morte. All’entrare dell’anno 1882 la sua salute aveva cominciato a decadere e peggiorare rapidamente; ond’egli, veduta vicina e certa l’ultima ora, vi si preparò in modo esemplare. Alla fine di aprile dovè mettersi in letto; e nonchè impaurirlo, il pensiero della morte lo faceva sorridere, come chi era certo delle promesse di Dio, e della protezione di Maria Ausiliatrice, nel cui mese doveva morire. Si faceva chiamare al letto gli amici, li ringraziava dei benefici e delle cure affettuose che gli avevano usato; chiamava perdono a tutti dei disgusti e degli incomodi dati, e li pregava che chiedessero perdono per lui a tutti i superiori, specialmente a D. Bosco, che essendo lontano da Torino, non potè vedere in quegli ultimi giorni. Poi quasi per congedarsi da questa terra, fissando l’occhio sereno e sorridente sugli amici che lo circondavano, ripeteva: Io me ne vado; vado a festeggiar Maria in cielo; vi aspetto. Ricevette per Viatico il suo Gesù, suo conforto in vita ed in morte, e chiamò egli stesso che gli si amministrasse l’Estrema Unzione, che ricevè con divozione ammirabile. Presente a sè stesso fino {60 [174]} agli ultimi momenti ripeteva i nomi di Gesù e di Maria: recitò col sacerdote le preghiere dei moribondi, e poco dopo, con gli occhi sul Crocifisso, che amorosamente baciava, con la tranquillità di chi ha ubbidito ed amato Gesù, partiva da questa terra il 10 Maggio dell’anno 1882.

            La sua morte, benchè preveduta e temuta da molto tempo, fu dolorosissima a quanti l’avevano conosciuto. Si era perduto un sacerdote esemplare, un amico affettuoso, un superiore amorevole e pieno di carità verso tutti. Ma quando in pubblico si annunziò la sventura onde era stato colpito l’Oratorio in quel giorno, fu mirabile l’accordo con cui tutti esclamarono: Felice D. Amerio! così umile, così paziente, quanto ha sofferto! Ma le spine e le angustie del mondo gli circondano ora il capo di gloria in cielo.

 

Il coadiutore Falco Luigi

 

            Nacque egli in Pocapaglia nell’anno 1848. - Al primo entrare nella nostra Casa di Torino nel 1867, trovando che lo spirito delle regole appieno concordava colle aspirazioni della sua bell’anima, decise di volervisi fermare per sempre.

            Il superiore conosciutane presto assai l’indole buona ed allegra e il grande desiderio di appartenere alla Congregazione nostra carissima, dopo la prova consueta, lo ammise primieramente ai voti triennali, che ripetè ancora, e poscia nei santi esercizi spirituali del 1876, il 27 Settembre nella {61 [175]} Cappella del collegio di Lanzo con sommo gaudio dell’anima sua, si consacrò tutto al Signore, professando i voti perpetui.

            Compendiando le tantissime cose che con grande edificazione, di lui si potrebbero narrare, diremo che il Confratello Falco Luigi fu un religioso esemplare, il quale nell’esatta osservanza de’suoi doveri, trovò quella santa e continua allegria che è il frutto della vera pace nel cuore.

            Modello di ubbidienza, in essa si esercitò costantemente per tutta la vita. Non mai fu visto od udito pronunziar lamento o mostrar ripugnanza a compiere qualsiasi comando, ad applicarsi a qualunque uffizio assegnatogli. Sempre ilare invece e contento sempre, serviva al Signore nella persona de’Superiori, e servivalo allegramente.

            Nè lo si udì mai lagnarsi ed infastidirsi delle privazioni e di quei disagi, compagni indivisibili ed altrettanto necessarii della povertà.

            Abborriva invece da tutto che in qualunque modo potesse alla delicatissima sua coscienza parer superfluo, e non del tutto necessario vuoi nel vitto, vuoi nel vestito od altro.

            Considerava giustamente come mancanza contro la religiosa povertà, ogni qualunque perdita di tempo: epperò di questo preziosissimo tesoro cercò di approfittare ogni giorno, ogni ora, e fu osservato già prossimo alla fine della sua mortale carriera quaggiù, quando a stento reggevasi in piedi, occuparsi tuttavia in alcun piccolo lavoruccio, or sotto uno, or sotto altro ingegnoso pretesto, lasciando però trasparire la grande sua voglia di usufruire del tempo ad arricchir l’anima sua di sempre nuovi tesori di meriti.

            Convinto che l’angelica virtù della castità è il {62 [176]} fondamento, la base sopra cui deve innalzarsi l’edifizio della perfezione cristiana, fu sempre mai attento e vigilantissimo sopra se stesso, a mortificare i sensi, a fortificare l’anima colla preghiera, colla meditazione e colla frequenza dei SS. Sacramenti. Nè di ciò contento ancora, frequenti pure erano le sue visite a Gesù ed a Maria Santissima, lungo il giorno; frequenti ed accese di santo ardore le giaculatorie con cui ad ogni istante ricorreva ad implorar aiuto dal Signore, da Maria e dai Santi suoi particolari protettori.

            Della celeste Madre nostra, Maria Santissima, egli era devoto oltre modo. Trovandosi nella casa di Albano Laziale presso Roma, scriveva di là ad un suo confratello ed intimo amico dell’Oratorio di Torino: « Ho visto in Roma molte belle e care cose; ho visitato molte belle chiese, ma, che vuoi? nessuna più m’inspira divozione, nessuna mi piace più della cara nostra chiesa di Maria Ausiliatrice. Te fortunato! che puoi a tuo bell’agio pregar la nostra buona Madre Maria, nel suo tempio, ai piedi del suo altare! Oh! come ti invidio! »

            Da molti anni, nel periodo più bello della sua vita, aveva poco a poco perduto l’udito, ed un lento ed ostinato malore da più che dieci anni andava indebolendo e consumando ogni giorno la non troppo forte sua costituzione. Travagliato da lento malore al petto con infinite noie e dolori, pure fu sempre di un carattere gioviale, sempre contento, sicchè per le piacevoli facezie, le arguzie festose e l’amena sua conversazione, la compagnia del nostro Luigi era per tutti gratissima, da tutti ricercata.

            Negl’ultimi suoi giorni, nelle ultime ore della vita, scherzava cogli amici, sopra la morte prossima, svelando per tal modo senza volerlo la calma {63 [177]} dell’anima sua giusta, in faccia al Tribunale del Signore.

            Essendo stati i giorni suoi, giorni pieni d’opere buone, la morte ne fu preziosa, quale appunto è nel cospetto del Signore, la morte dei giusti.

            Spirava Luigi Falco l’anima fortunata il 21 Ottobre 1883; lasciando a noi l’esempio del vero Salesiano, fedele nell’esercizio delle virtù, ubbidiente in tutto a’Superiori, povero di effetti, come di affetti terreni, ma ricco de’ beni celesti; l’e-semplare insomma di un perfetto Coadiutore, che ha per sua divisa, per suo stendardo il detto del Reale Salmista: Servite Domino in laetitia.

 

 

                        Si approva per la stampa.

                                    NICOLÒ M. SUSINI S. I. Rev. Arc.

 

                        Visto. Se ne permette la stampa.

            Genova, Curia Arciv., 28 Giugno 1883.

                                                LUIGI ROSSI Vic. Gen. {64 [178]}

 

 



[1] Vedi: Una perquisizione, ossia le Franchigie costituzionali sotto al Ministero Ricasoli; Memoria del Conte Carlo Cays di Giletta e di Casellette. - Torino, Tipografia Giulio Speirani e Figli, 1862.

[2] Questa guarigione fa già pubblicata nel fascicole delle Letture Cattoliche dell'anno 1880 a pag. 117 e seguenti.




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