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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

SOCIETÀ DI S FRANCESCO DI SALES. ANNO 1880

 

{ [391]} { [392]}

 

CONFRATELLI CHIAMATI DA DIO ALLA VITA ETERNA NELL’ANNO 1879

 

 

[è premesso alle opere ristampate solo parzialmente; è premesso agli scritti attribuiti o attribuibili a Don Bosco]

 

 

 

 

INDEX

Tonelli Carlo. 2

Chierico Scappisi Pietro. 4

Il chierico Luigi Bianchi. 6

Il chierico Benna Clemente. 9

Il chierico Trivero Carlo. 10

Il chierico Giacomo Delmastro. 13

 


Tonelli Carlo.

 

            Questo nostro caro confratello, vero tipo e modello dell’operaio cristiano, ebbe i suoi natali in Milano il 16 dicembre dell’anno 1842 da famiglia agiata. Suo padre fu Giuseppe Tonelli, che poco pratico nel maneggio degli affari, diede fondo allo proprie sostanze ed alla stessa dote della moglie, consistente in parecchie migliaia di franchi. La madre, caduta dapprima nella più squallida miseria, poscia per giunta di sventura rimasta vedova nel fiore de' suoi anni, ogni sua sollecitudine rivolse a dare una cristiana educazione al suo Carlino. Quantunque un po' vispo, tuttavia, perchè di cuore ben fatto, egli portava alla madre una grande affezione; e quindi l’affetto vincendo sul naturale, le si rese così docile ed ubbidiente, { [393]} che ogni dì parea crescesse alla virtù. Non è a dire quanto cuore e conforto ne pigliasse la buona donna.

            Ma era scritto in cielo che ella non dovesse lunga pezza sopravvivere al suo marito, e di lì a poco lo seguì nella tomba, lasciando il povero orfanello doppiamente infelice. Povero giovane! Senza guida e senza esperienza, privo di risorse, incapace per la tenera età a guadagnarsi il vitto ed il vestito, come farà a campare onestamente la vita? Chi si prenderà cura di lui?

            La Provvidenza è grande! essa non abbandona nessuno che in lei confidi, e pietosa segnatamente veglia sui poveri orfani di padre e di madre.

            Una sua zia, commossa dal lagrimevole stato, a cui vedeva ridotto lo sventurato suo nipote, caritatevolmente se lo tolse in casa propria, e, quasi fosse suo figliuolo, prese a prodigargli le più amorevoli cure. Fatto un po' più grandicello, volendogli assicurare una posizione stabile, ella pensò di avviarlo come apprendista in una tipografia di Milano. Il nostro Carlino vi rimase alcuni anni, attendendo ai suoi lavori e frequentando i doveri di pietà e di religione. Ma non andò molto che trascinato dalla forza dell’esempio dei tristi, che nei pubblici laboratorii del mondo pur troppo non mancano mai, cominciò a darsi al bel tempo, e quindi poco per volta ad intiepidirsi, poi a raffreddarsi affatto nel servizio di Dio.

            Allora privo del balsamo soavissimo che la religione cattolica sparge a larghe mani e rende leggiere anche le più malagevoli cose, sentì troppo pesante il giogo della ubbidienza e cercò di scuoterselo di dosso, allontanandosi dalla zia. Col poco che potè {42 [394]} raggranellare riuscì ad aprire un negozietto da minutiere (chincagliere), ma i suoi affari commerciali camminando di male in peggio, ben presto egli si trovò quasi ridotto sul lastrico. Tentò di rifarsi col cercar altrove miglior fortuna; intraprese lunghi viaggi; penetrò persino nell’Inghilterra, ed in Londra fermossi qualche mese, ma del trovare la sognata felicità non ne fu nulla. Il perchè, poco fondato quale era nei sentimenti di fortezza e di rassegnazione cristiana, che soglionsi attingere alla fonte dei SS. Sacramenti, egli fu ad un pelo d’abbandonarsi alla disperazione. Un buon sacerdote, antico conoscente di famiglia, n’ebbe compassione e, voglioso di sollevarlo dalla sventura che avevalo sì crudamente colpito, gli suggerì di raccomandarsi a Don Bosco con preghiera di volerlo accogliere nel suo Oratorio di Torino. Chiesta ed ottenuta la grazia, il 2 luglio 1874, contando 32 anni d’età, si dirigeva alla volta di Torino.

            Quivi sulle prime egli provò difficoltà nell’adattarsi alle regole, a quella soprattutto che proibisce di uscire per la città, e a queir altra che vieta di ritenere danaro presso di sè.

            Ma coll’aiuto della grazia di Dio e mediante la carità dei suoi superiori e il buon esempio dei compagni egli non tardò a mutar costume. Erano trascorsi solo pochi mesi dacchè trovavasi nell’Oratorio, ed egli già cominciava a prender gusto agli esercizi di cristiana pietà e in ragione diretta del suo infervorarsi nella divozione, cresceva pure di zelo nel disimpegno delle sue attribuzioni, da diventare un buono e virtuoso artigiano.

            Dopo qualche tempo di ottima condotta, la voce di Dio, che fin dai più teneri anni lo chiamava a sè, {43 [395]} gli si fece sentire più potentemente che mai per lo addietro, ed egli assecondandola domandò di entrare nella Congregazione Salesiana. Di buon grado vi fu ricevuto il 15 settembre 1875. Quel giorno segnò in lui una vita ognor più buona ed esemplare. “San Francesco di Sales (diceva egli), patrono principale della Congregazione, alla quale ho l’onore ed il vantaggio di appartenere, era pur di spiriti vivaci ed ardenti più che io non sia, ma con volontà ferma e costante, appoggiato alla grazia di Dio, senza la quale l’uomo non può far nulla di bene, riuscì a vincere se stesso. Ebbene, ad imitazione di lui, voglio anch’io combattere me stesso, e se non mi vien meno la sua intercessione, che umilmente invoco, spero di riuscirvi.” Disse e fece; e riportò compiuta vittoria del suo naturale da parere che non fosse più desso, ma sì bene Iddio che operasse in lui secondo il detto dell’apostolo san Paolo: Vivo ego, jam non ego; vivit vero in me Christus. Profondamente radicatosi nella umiltà divenne mansueto, docile e pacifico con tutti, e visse nel resto dei suoi giorni una vita veramente da religioso, degna cioè di colui che, avendo rinunziato al mondo od alle sue massime, s’è eletto il Signore per sua porzione ed eredità per sempre.

            Intanto nello scorcio del 1876, volendosi impiantare una tipografìa nell’Ospizio di S. Vincenzo de' Paoli in S. Pier d’Arena, era colà reclamato un bravo compositore, il quale fosse capace eziandio di dirigere i giovani artigiani nell’arte del comporre. I superiori conoscendo a fondo le doti del caro Tonelli ed anche nella speranza che l’aria ligure lo avrebbe vantaggiato nella salute, che cominciava ad affievolirsi, pensarono a lui; ed egli il 30 dicembre del {44 [396]} medesimo anno partiva alla volta di S. Pier d’Arena. Colà egli attirossi presto gli sguardi di tutti per la puntualità ed esattezza con cui adempiva ogni suo dovere. Come Samuele alla voce di Dio, così egli a quella del superiore ed al suono della campana era prontissimo. La sua assiduità al lavoro, l’accurata vigilanza dei giovani, e specie la pazienza nel sopportarne i difetti erano cose proprio degne di ammirazione; ma più degno di ammirazione egli mostravasi per la sua profonda umiltà, per cui di buon grado e con riconoscenza riceveva avvisi e correzioni da chi che sia e facilmente sottometteva il suo all’altrui parere. Aveva poi un cuore eccellente: si prestava a tutti i servigi e trattava bene con tutti. Non si è mai udito a disapprovare quanto i superiori avessero disposto, oppure a mormorare dei compagni. Seguace di s. Francesco di Sales nulla desiderava e nulla rifiutava. Contento del poco soffriva in pace e silenzio ogni privazione, facendone offerta a Gesù Crocifisso, di cui era devotissimo.

            Come Salesiano si rese ai confratelli esempio di cristiana perfezione: tanto si segnalò nell’osservanza delle Regole. Laonde il 2 ottobre 1878 in Lanzo, avendo compiuti i voti triennali, con gioia e compiacenza verace fu riammesso nella Congregazione coll’emissione dei voti perpetui. Poi ritornò a San Pier d’Arena a riprendere i suoi graditi lavori; ma la sua salute andando ogni dì più deperendo, i superiori lo richiamarono nell’Oratorio di Torino.

            Ci venne così stremato di forze da far presagire che non avrebbe protratta più a lungo la sua mortale esistenza. Nullameno il mutamento dell’aria valse assai a migliorarlo nella salute; di modo che tosto e spontaneamente volle ritirarsi dalla tavola dei malati {45 [397]} e riprendere i suoi lavori tipografici. Invitato ripetutamente a cessare dal lavoro, od almeno di applicarsi soltanto a quelle cose che non richieggono tanta tensione di mente, egli rispondeva sorridendo che sentiva il bisogno di fare un po' di penitenza per i peccati commessi.

            Noi doveri di pietà non dimostrava minor impegno; che, sebbene infermiccio, tuttavia non si permetteva eccezione di sorta. Il mattino non mancava mai alla meditazione; ed esortato dal superiore di provveder meglio alla sua sanità, trattenendosi a letto sino ad ora più tarda: “Sto meglio, rispondeva; mi permetta di potervi intervenire: ne ho tanto bisogno.”

            Se non che il suo malore ripigliando in un subito la sua violenza lo gettò in tanta prostrazione di forzo che lo costrinse a tenere il letto. In tutta la malattia si mostrò sempre lieto e giulivo; non mai si lasciò sfuggir di bocchi un lamento; anzi diede prova di grande rassegnazione alla divina volontà e di una pazienza non comune.

            Vide la morte farglisi incontro; ed egli l’attese con mente calma e serena: Me ne vado, disse un giorno ad un dei superiori, ancora un poco e poi me ne vado. - Il superiore gli rispose: Oh! non sei ancora a quel punto: il passaporto non è ancora firmato. - Sia fatto il santo volere di Dio. rispose. Indi chiese di confessarsi; poi ricevette il Santo Viatico e l’Estrema Unzione con una pietà che muoveva alle lagrime. Avvicinandosi il supremo momento, gli s’impartì la Benedizione Papale, ed ei rispose alle preghiere dell’agonia. Poco prima di spirare disse al superiore questo parole: Il passaporto è firmato ed io me ne vado. E non si era ingannato. La sera {46 [398]} del 20 gennaio 1879 non era più! Era già, come è dolce sperare, colassù in Cielo a godersi il premio meritato colle tante vittorie riportate sulle sue inclinazioni, lasciando a noi tutti un luminoso esempio di verace conversione e di fruttuosa penitenza con una vita veramente operosa ed eminentemente cristiana.

            Lavoro continuo e pietà soda: ecco in compendio la vita che menò il caro nostro confratello Tonelli Carlo; ecco le doti che debbono ornare la vita di un coadiutore salesiano, per non venir meno alla sua vocazione.

 

 

Chierico Scappisi Pietro.

 

            Nacque egli in Mezzana Bigli (Lomellina) il 5 luglio dell’anno 1858... Incontrò nei suoi genitori tali premurosi e savii educatori, che ben conscii dell’alto lor dovere, i primi vagiti, si può dire, i primi accenti, le prime parole del piccolo Pietro a Dio indirizzarono. E non appena l’età glielo permise, seco lo conducevano alla Chiesa per assuefarlo di buon’ora a prender gusto alle pratiche di pietà ed alle religiose cerimonie.

            Dietro tali ammaestramenti e l’esempio continuo e parlante, che sempre aveva d’innanzi agli occhi, delia vita tutta cristiana dei genitori, cresceva il Pietro buono, docile e pio, senza lasciar menomamente temere di lui una gioventù irrequieta e dissipata. Contava poco più di un lustro, e già sapeva buona parte della Dottrina Cristiana; e fatto un po' più grandicello, si attirava l’attenzione di molti, prendendo parte con vivo piacere e con grave compostezza al {47 [399]} canto dei divini offizi e specialmente al servir la Santa Messa, al quale uffizio egli si prestava sempre volentieri, e vi pigliava tanto gusto, che non poco dispiacere provava quel giorno in cui non avesse potuto servirne alcuna.

            In tal modo veniva ad essere la consolazione ed il decoro dei genitori, caro ai parenti ed agli amici, e tanto più caro a Dio, il quale non volendo che l’alito pestifero del mondo mai venisse ad offuscare la bellezza di quell’anima, che tutta a se consecrata voleva, per vie particolari, se lo venia in bel modo preparando.

            Dapprima fece sì che egli lasciasse il paese natio o la famiglia; ed il modo con cui questo avvenne, non è del tutto ordinario Imperocchè non si pensava per allora, a cagione della tenera età, di allontanarlo dalla casa paterna e metterlo in Collegio. Ma il Signore dispose che recandosi il padre alla città di Alessandria, conducesse pur seco il Pierino; ed essendo poco distante il Collegio di Borgo S. Martino, dove trovavasi il cugino Giuseppe, pensarono di andargli a far una visita. Così fu. Grandissima impressione certamente fece sul cuore e sulla mente di Pietro la vista di tanti ragazzi vispi, ilari, affabili, coll’aria del contento, della soddisfazione sul volto; il perchè chiese di potervisi fermare alcuni giorni; il che gli venne accordato. In questo frattempo ebbe agio di vedere e considerare quel tenore di vita, quella vicendevole affezione, e più il contegno modesto, pio e divoto di quei giovanetti, la regolarità e frequenza ai Sacramenti, e finì d’invogliarsene siffattamente, che disse: Qui è il mio posto, qui resterò. Ed i parenti, benchè a malincuore, dovettero arrendersi o cedere alle vivo e replicate istanze del {48 [400]} figliuolo, il quale, oltremodo contento del consenso dei suoi cari, si accinse con tutto impegno ad eseguire quanto il nuovo stato di vita, e le regole del Collegio richiedevano.

            Ed in vero, non passò molto tempo ch’egli attirò l’attenzione non meno dei Superiori che dei compagni, con una condotta irreprensibile, anzi esemplare, e col suo ingegno non ordinario, che congiunto ad assidua applicazione, gli procacciava quasi sempre i primi posti di onore nelle scuole. Di una modestia senza pari, era affabile e cortese con tutti; non alieno dal lieto conversare, sapeva talvolta rallegrare la conversazione e brigata con vivaci e spiritose facezie, per cui si rendeva caro ad ognuno.           Insomma in varii anni che si fermò in detto Collegio, mai si ebbe il minimo motivo di lagnanza a suo conto. E quando per cagione di salute dovette abbandonare quel luogo di educazione, lasciò in tutti cara e grata memoria, e grandissimo desiderio di sè; perchè in lui perdevano uno studente modello, un compagno ottimo.

            Giunto all’ultimo anno di ginnasio, passò nel Collegio di Lanzo diretto pur dai Salesiani. E che si dovrà dire a questo punto se non ripetere il già detto? Poichè, se cambiò soggiorno, non mutò, no, la sua condotta. Diligentissimo ed esattissimo nel compiere i suoi doveri, il primo lo si vedeva recarsi alla chiesa, alla scuola, allo studio, ed in ogni luogo porgeva altrui esempio di ubbidienza, di docilità, di amoro al lavoro. Spiccava poi in lui una certa qual posatezza e maturità di senno, difficile a trovarsi anche in età maggiore, e mai si vide far atto, o si udì dalla sua bocca parola, che disdicesse ad un giovane ben nato. Specialmente poi si faceva notare in cappella {49 [401]} per l’atteggiamento composto, grave, divoto, con cui vi stava, e pell’accostarsi spesso alla mensa Eucaristica con tale un’aria di pietà e di fede da far esclamare ai Superiori: “Oh! se fossero tutti così, fortunati noi!

            Intanto il nostro giovane era giunto ad un’età ed a tal punto negli studii, in cui doveva pensare a scegliere uno stato. Ma un’anima sì bella e pura andrà forse a lordarsi nel fango o nelle sozzure del mondo? cresciuto si può dire all’ombra degli altari, andrà ora a respirare gli aliti pestiferi del secolo? Egli, dopo maturo esame, conobbe che il mondo non era fatto per lui, e si sentì gagliardamente portato a darsi intieramente a Dio nello stato ecclesiastico non solo, ma nel religioso. Ben avrebbe potuto esso, di sì buon ingegno fornito, percorrere una splendida carriera per qualunque via si fosse messo; e poteva col tempo sperare onori e agiatezza, ma generosamente rinunziò a queste lusinghiere prospettive; si strinse alla Croce, e disse: “Questa sarà la mia por sione in eterno.”

            Infatti domandò, ed ottenne, di vestir l’abito clericale in questa stessa Congregazione Salesiana, nei cui Collegi era stato educato per molti anni, benchè persone autorevoli cercassero in tutti i modi di distorglierlo da sì fatta risoluzione. Fin dal primo anno di chericato ei si attirava gli sguardi dei compagni nell’Oratorio di San Francesco di Sales. Tosto lo conobbero per giovane di molto ingegno. La sua alta statura, l’aspetto franco, un fare spigliato, un’indole che pareva quasi insofferente delle altrui osservazioni facevano temere che difficilmente si sarebbe adattato all’osservanza delle piccole regole, ed a quella umiltà e soda pietà, che è necessaria specialmente a {50 [402]} chi sul serio vuol cominciare una vita virtuosa e santa. Or quale non fu l’ammirazione di tutti nel vederlo assoggettarsi umilmente e sempre alla volontà dei superiori, frequentare più volte la settimana e quasi quotidianamente la santa Comunione e fare le altre pratiche di pietà con fervore al tutto singolare? Fu questa una delle cose che animò molto i suoi compagni al bene: fu vera benedizione del Signore per la casa.

            In ispecial modo lo aiutò a progredire nella via della virtù ed a star costante nella vocazione la quotidiana meditazione delle verità eterne. Era solito dire che senza meditazione non mai avrebbe potuto vincersi dei tanti e radicati suoi difetti. Assai sforzi gli costò la pratica di questo esercizio, poichè la viva immaginazione lo portava naturalmente ad altri pensieri; ma colla costanza riuscì a farla così bene da poter dire che molte meditazioni le passava senza alcuna distrazione.

            La sua esemplare condotta unita alla molta capacità ed a singolare prudenza gli procacciarono l’affezione ed il rispetto dei compagni non che un certo ascendente tra di loro. In breve divenne il re della scuola, e quando egli proponeva qualche cosa, tosto veniva con piacere da tutti seguito. Sapeva egli servirsi di questa specie di superiorità per tenersi amici e far migliorerò alcuni, che non dimostravano molto impegno.

            Alle altre buone qualità univa una umiltà assai grande. Si stupiva come i compagni lo rispettassero così, ne si credeva di meritare l’amore dei superiori. Appena udito un loro avviso dato in pubblico, come se a lui in modo particolare fosse diretto, cercava di eseguirlo; ed ogni volta che veniva fatto consapevole {51 [403]} di qualche suò difetto subito ringraziava il monitore; nè mai si mostrava offeso.

            Il suo carattere era schietto: diceva francamente il suo parere: richiesto non faceva reticenze. Con queste qualità passava tranquillamente il suo anno di prova e continuamente ringraziava il Signore di averlo a preferenza di molti suoi compagni eletto ad una vita più elevata e santa.

            Finito lodevolmente il tempo di prova, gli fu permesso di emettere i voti religiosi per tre anni il 26 settembre del 1877 in Lanzo Torinese nella Chiesa del Collegio detto di S. Filippo Neri, dopo esservisi preparato cogli esercizi spirituali, che colà ogni anno si dettano.

            Cresceva il buon cherico in virtù e scienza, e in pari tempo crescevano nei superiori le speranze che di lui avevano concepite. Pertanto nell’autunno del 1877, riputandolo capace a prestar con molto vantaggio degli allievi l’opera sua in qualche casa della Congregazione, fu da essi destinato al CollegioSeminario di Magliano Sabino a poca distanza da Roma. Vi andò egli colla più grande volontà di farvi il maggior bene che per lui si potesse, E veramente gli effetti corrispondevano alle ottime disposizioni, giacchè poco dopo il suo arrivo l’ottimo Signor Can. Rebaudi Rettore di quel Seminario ebbe a scrivere belle parole d’encomio sulla sua condotta e zelo pel bene della scolaresca. Se non che non tardò a manifestarsi in lui una malattia, che cagionò serii timori fin da principio.

            Dietro suggerimento dei medici, dopo aver provato inutilmente a cambiar aria recandosi nella nostra casa di Albano, fu mandato in patria prima che il male si aggravasse. Parve per qualche tempo che {52 [404]} le sollecite cure degli amorevoli genitori e l’aria natia infondessero in lui novella vita. Egli però, prevedendo che lunga sarebbe riuscita la sua infermità, scrisse a qualcuno de' suoi superiori per chiedere norme sul modo di ricavare spirituale profìtto da' suoi incomodi. Avutane risposta quale desiderava, studiavasi di uniformare la sua condotta alle norme suggeritegli, affinchè, com’egli diceva, dovendo soffrire corporalmente, almeno lo spirito avesse a prosperare. Non potendo di presenza far regolarmente i suoi rendiconti, manteneva viva corrispondenza coi suoi superiori per dar conto del processo non solo di sua malattia, ma altresì della sua condotta morale. Colla stessa apertura di cuore con cui avrebbe trattato di presenza, manifestava per lettera le sue necessità spirituali e temporali, ottenendo nelle une e nelle altre quegli aiuti, che si potevano somministrargli malgrado la distanza che lo separava dalle amate case della Congregazione.

            Si rendeva amabile ai parenti ed a quanti andavano a visitarlo, per la rassegnazione, pazienza e tranquillità, con cui sopportava i suoi dolori. Anzi talvolta vedendo i suoi cari afflitti per vederlo in istato sì deplorevole, cercava di consolarli. La gravezza del male non gli impediva di attendere alla preghiera, recitando egli ben sovente la coroncina. Non mai, o quasi mai, tralasciava la meditazione e pie letture per pascere l’anima sua di santi pensieri. Ma ciò che maggiormente si notò in lui negli ultimi giorni, si fu l’amore, l’attaccamento che aveva ai suoi fratelli di religione; ne parlava spessissimo e con islancio, e niun discorso gli tornava più gradito di quello che si aggirava sulle cose della Congregazione.

            In tal modo si veniva egli preparando alla morte, {53 [405]} che sembrava quasi volesse scherzare, ed or sì lo avvicinava da parere di portarselo via ad ogni istante, or sì se ne allontanava da far nascere in tutti un raggio di speranza. E in questo continuo alternarsi fra la speranza ed il timore, purificato già più volte nel lavacro della penitenza, e munito del Santo Viatico, egli arrivò quasi al termine di Gennaio dell’anno 1879. E come in premio dello sviscerato amore, che portava alla Congregazione, che da S. Francesco di Sales s’intitola, e della divozione che nutriva verso il Santo nostro Patrono, ne' primi vespri appunto della sua festa, spirava nelle mani del Signore l’anima bella, col sorriso e colla pace del giusto. Non fu la morte sua angosciosa e spaventosa; ma come il fiorellino del prato reciso dalla falce, abbassò il capo, e placidamente s’addormentò per risvegliarsi in seno a Dio.

            La sua sincerità, l’amore al dovere e lo studio continuo per migliorare la propria condotta portarono il caro nostro Pietro Scappini molto avanti nella via della perfezione; anche in noi produrranno i loro salutari effetti se in tali virtù sapremo imitarlo.

 

 

Il chierico Luigi Bianchi.

 

            Nacque il dì dieci ottobre 1858 in Cascina Grossa presso Alessandria da Giuseppe Bianchi e da Teresa Cassano umili, ma virtuosi contadini che ritraevano il loro vitto dalle proprie fatiche. Fu loro cura di allevare i figli nel santo timor di Dio: a questa scuola domestica di virtù più degli altri approfittava il nostro Luigi, nel quale fin da' suoi più teneri anni vedevansì {54 [406]} chiari segni di chiamata allo stato ecclesiastico.

            Frequentava intanto nel paese le scuole elementari e mostravasi scrupoloso nell’adempicre il suo dovere e attento nel fuggire i compagni cattivi. Mai tralasciò il catechismo e le sacre funzioni, e piccino era bello vederlo ogni giorno servir la s. Messa nella chiesa parrocchiale, accostandosi di quando in quando ai santi Sacramenti.

            Finite le scuole del paese, era conveniente inviarlo alle scuole superiori; ma come ciò fare? I parenti non potevano sostenere le spese dello studio; la Provvidenza però venne in aiuto al pio giovanetto. Il zelante Parroco sac. D. Giovanni Derossi lo riceveva in sua casa ammaestrandolo nei primi rudimenti della lingua latina. In vista poi delle belle speranze che presentava e del progresso che andava facendo nella virtù e nello studio, il Parroco stesso pregò un suo amico professore di ginnasio in Alessandria a volersi prender cura del piccolo Luigi ed impartirgli l’insegnamento classico, cui egli per le cure parrochiali non poteva dargli che irregolarmente.

            Qui fu dove il giovanetto diede prova di una volontà ferrea di progredire nello studio per arrivare alla meta de' suoi desideri, qual era di abbracciare la carriera ecclesiastica. Ben undici chilometri doveva percorrere per approfittare delle lezioni, e ciò non ostante non mai gli avveniva di mancarvi, nè mai, dice l’ottimo suo Parroco, fu visto svogliato o divagato, che anzi diveniva ognora più diligente, pio e raccolto, di modo che fin d’allora dava a divedere che appena gli si fosse presentato il destro l’avrebbe rotta col mondo per dedicarsi tutto al servizio di Dio.

            Tal vita però riusciva per Luigi troppo faticosa ed {55 [407]} avrebbe potuto danneggiare la sua salute se troppo si fosse protratta; e però il prelodato suo parroco presentollo un giorno al Vescovo di Alessandria, gli raccontò delle belle doti del giovanetto, delle suo buone disposizioni allo studio, del progresso che giù aveva fatto e della fermezza di proposito di cui dava prova col frequentar la scuola con tanto suo disagio. Il cuore paterno del Vescovo non ebbe bisogno di altre raccomandazioni per interessarsi a favore del giovane Bianchi. Si rivolse all’Oratorio di S. Francesco di Sales e collo calde sue istanze facendo anche of. ferta di qualche soccorso per sostenere le spese della sua educazione ottenne di farlo accettare.

            Pertanto il 21 aprile del 1874 compariva in detto istituto un giovano già alquanta grandicello, magro anzichè no, di color piuttosto bruno, che sotto apparenze di campagnuolo mostrava una speciale svegliatezza e disinvoltura non disgiunta da gravità e modestia. Egli era Bianchi Luigi.

            Non aveva sortito da natura un ingegno dei più perspicaci; ma era di buona volontà: quindi studiando volontieri, occupandosi diligentemente nei compiti scolastici, nella scuola si sosteneva oltre i mediocri. Amava i superiori ed i compagni ma proproprio di cuore, questi come fratelli e quelli come padri. Era pronto all’ubbidienza, fedele al comando, ed in tutto semplice, schietto ed amorevole. Ancor secolare si prestava volentieri a fare il catechismo agli esterni e vi poneva tutto l’impegno possibile per riuscirvi bene. In chiesa poi era sempre raccolto nella preghiera e frequente ai Santi Sacramenti. Qui attingeva vigoria e calore nel disimpegno de' suoi doveri e la costanza nella pratica di quelle virtù, che sono l’ornamento dei giovani cuori e la perfezione degli adulti. {56 [408]} Due però sono le virtù, che in esso spiccarono in modo affatto particolare: l’umiltà e l’ubbidienza: umiltà per cui si riputava sempre da meno dei compagni, e perciò gli pareva di essere sempre meglio trattalo che non avesse meriti; ubbidienza che lo faceva correre alla voce del superiore con grande prontezza o con gioia indicibile. E quando un giovane è umile ed ubbidiente ha necessariamente con sè il bel corredo di tutte le altre virtù cristiane od almeno non tarda ad ornarsene l’animo, essondo l’umiltà il fondamento e la base d’ogni virtù, come l’ubbidienza ne è la madre e la custode. Ora, sapendo come egli l’osse siceramonte ubbidiente ed umile, egli è facile argomentare quanto grandi o belle l’ossero le altro doti del suo cuore.

            Mentre educava il cuore alla virtù veniva sviluppando di pari passo lo facoltà intellettuali; e nell’autunno del 1876 fu promosso alla filosofia. Indossò con giubilo e trasporto di gioia l’abito chiericale il 7 dicembro dello stesso anno, vigilia dell’Immacolata Concezione. Superate con edificazione e lode le provo del religioso tirocinio, il 26 settembre 1877 omise i voti triennali, e si può dire che nel breve tempo ch’egli passò come cherico menò vita proprio esemplare. Nel mese di marzo del 1878 fu dai Superiori inviato nella Casa di Spezia per insegnare nelle scuole elementari. Egli, che non ebbe mai altra volontà che quella dei Superiori, di buon grado si sobbarcò all’uffizio affidatogli, dimostrando in esso un zelo ed una carità ammirabile.

            Il suo Direttore attesta che ricorderà sempre la sua riverenza ed ubbidienza a qualunque suo cenno. Poneva somma cura nella pratica delle Regole e negli esercizi di pietà, e dalla frequenza assidua ai santi {57 [409]} Sacramenti ritraeva quella pazienza cotanto necessaria a chi deve starsene di continuo in mezzo ai giovani, la fortezza per rendersi superiore agli assalti del nemico dell’anima e per sopportare in pace le infermità da cui veniva spesso travagliato.

            Vi hanno alcuni che buoni quando sono ritirati dal mondo, non sanno poi mantenersi tali quando rientrano in seno delle proprie famiglie per le vacanze, sia perchè nel secolo moltissimi sono i mali esempi ed occorre un santo coraggio per resistervi; sia perchè sottratti all’atmosfera di paradiso, che regna in religione in mezzo a tanti buoni esempi non si hanno più gli aiuti di santa emulazione, che così potentemente, come robusta leva, spingono al bene. Del numero di questi non era certo il nostro Luigi. Egli nelle vacanze sapeva conservare lo spirito religioso ed anche in mezzo all’indifferenza era caldo d’amor di Dio, e ben lungi dal lasciarsi travolgere nei vortici del peccato ebbe sempre esemplare ed edificante condotta. Fu di luminoso esempio ai buoni, d’incoraggiamento ai fratelli, e sebben più volte disprezzato dai cattivi, non se ne adontava; anzi mostravasi contento e lieto di patire qualche cosa per Gesù. Incoraggiava gli stessi parenti alla santa pazienza, e se si fossero lasciato sfuggire qualche motto non troppo misurato ne li rimproverava con dolci parole, rimanendone tutta quanta la famiglia edificata.

            Subiti felicemente nell’agosto dello stesso anno 1878 gli esami magistrali, nei primi di settembre faceva ritorno a Spezia, a ripigliare con alacrità i suoi studi e le sue consuete occupazioni. Ma un morbo fatale lo gittò in tale prostrazione che ove subito non si ovviasse, lasciava a temere per lui. Gli si prodigarono {58 [410]} tutte le cure che sono richieste in simili casi, e visto che non migliorava abbastanza, si pensò di inviarlo a Cascina Grossa, colla speranza che l’aria natia potesse giovargli e guarirlo affatto.

            Partendo il 20 ottobre egli fu visto in preda a cupa mestizia, forse presago in cuor suo che mai più avrebbe riveduto l’Oratorio di Spezia, a cui portava tanto affetto, e in cui aveva spiegato tanto zelo pel bene della gioventù. Nè mal s’appose; dappoichè, sebbene sotto l’influenza dell’aria nativa sulle prima paresse riaversi; tuttavia il suo. fu un miglioramento passeggero, ed egli presto ricadde e andò di male in peggio. Ma, come ne attesta il suo Parroco, che l’ha assistito con paterna bontà nella lunga e penosissima malattia, diede segno non dubbio d’invitta pazienza e di cristiana rassegnazione. Durante la malattia ricevette spesso i santi Sacramenti. Pieno di amore per Dio, a lui si rivolgeva con molte preghiere e frequenti giaculatorie, e siccome era perfettamente uniformato alla volontà del Signore, così con placida calma aspettava l’ora della morte per andarsene con Dio in cielo. Egli medesimo chiamò gli ultimi conforti della Religione; ricevette l’Estrema Unzione con grande umiltà e riverenza, unitamente alla Benedizione papale. Poi pronunziando i santissimi nomi di Gesù e di Maria volava, come è dolce sperare, a godere i frutti del suo santo patire. Morì il 25 di aprile del 1879 in età di anni 20, mesi 6, giorni 15.

            Fortunato il nostro Luigi che, conosciuto per tempo quale sia il fondamento ed il sostegno della grand’opera della propria salvezza, fin da giovanetto pose per base del suo progresso la virtù dell’umiltà, ed ebbe ognora per suo appoggio la santa obbedienza! Non tardò a cogliere la palma gloriosa che Dio prepara {59 [411]} a' suoi servi fedeli: tutto ci porta a credere che già abbia udito dalla bocca del Divin Salvatore quelle consolanti parole: euge, serve bone et fidelis, quia in pauca fuisti fidelis, super multa te constituam, intra in gaudium Domini tui: Rallegrati, o servo buono e fedele, perchè sei stato fedele nel poco, ti metterò al possesso d’immensi beni, entra nel gaudio del tuo Signore.

 

 

Il chierico Benna Clemente.

 

            Nacque in Torino il 25 giugno 1861 da famiglia distinta per censo e per costumi patriarcali. Rimasto orfano dei genitori in tenera età, trovò ne' suoi fratelli, che ne presero provvida cura, dolcissimo ricambio d’affetto. Fornito di egregie doti di monto e di cuore, nato o cresciuto nelle agiatezze, di nulla difettò per riuscire un giovane côlto e gentile.

            Ma qual rischio di perdersi non corre l’inesperta gioventù in mezzo al mondo, specie nelle grandi città, dovo tanti sono gl’incentivi al male, tanti i cattivi esempi, tanti i pericoli e si frequenti le cadute! Il nostro buon Clemente trovò modo di evitare la maggior parte di questi pericoli, menando vita ritirata e quasi solitaria; ed anzi che abbandonarsi a leggerezze puerili, tanto comuni alla sua età, amò meglio ascoltare in silenzio la voce di chi, sottentrato a tenergli le veci di padre, fugli largo di buoni consigli e di saggia direzione.

            Declinava a tutt’uomo la compagnia dei tristi: fuggiva i rumori mondani egli spettacoli, a cui la gioventù è cotanto corriva. Narrasi come i suoi parenti talora lo invitassero al teatro e come egli, persistendo sulle negative, fosse chiuso fuori di casa, a fine di {60 [412]} piegarne la ritrosia, che mostrava per le cose del mondo. Ma, checchè abbiano detto o fatto, dell’andarvi non ne fu nulla.

            Se non che quanto era forte per resistere al male, altrettanto era facile e tenero pel bene. Interveniva assiduo alle religiose funzioni: frequentava con ardore di fede e di carità i santi Sacramenti: pendeva divoto dal labbro del sacerdote e ritornavane a casa ripieno del santo timore di Dio, tutti edificando col suo religioso contegno.

            In casa viveva senza pretese, umile e sottomesso: non fu mai visto apporre scuse ai comandi, nè riluttar per rimbrotti; ed ubbidiva con una tale prontezza, che pareva prevenisse i comandi; sicchè dava chiaro a vedere che nell’ubbidienza aveva riposto le sue compiacenze. Laonde non è a dirsi quanto col crescer della persona crescesse su virtuoso e pio, e quanto fosse perciò caro a coloro che lo conoscevano da vicino. Volenteroso frequentò le pubbliche scuole elementari; a questo fece seguire gli studii classici nel ginnasio Cavour, e siccome ad un ingegno svegliato accoppiava una buona volontà, così in ogni classe primeggiò sempre vuoi per istudio, vuoi per morale condotta.

            Compiuto lodevolmente e con premio il corso delle umane lettere, passò a Lanzo nel nostro Collegio di San Filippo a studiarvi la retorica, e colassù fece bella prova, contrassegnando, sto por dire, ogni giorno con notevole progresso sì nella virtù, che nel sapere. Con sì promettenti auspicii, che il principio religioso solo ingenera e rafferma, il nostro caro Benna era per poco giunto a quell’età, in cui si pensa all’avvenire, e l’adolescente non privo di senno determina la carriera, cui gli pare di sentirsi chiamato. {61 [413]} Conobbe per tempo il mondo fallace, ne pianse in cuor suo e detestò gli sregolamenti e le turpitudini, senza pur esserne contaminato; e nel settembre del 1876 nei santi spirituali esercizi fermò d’involarsene. Non diede retta alla voce della carne e del sangue, che in fatto di religione per lo più la sbaglia di grosso; ma solo consultò il suo illuminato Direttore di spirito e la voce di Dio, che segretamente gli parlava al cuore; ed ecco la decisione è presa, ed in essa se ne sta irremovibile, malgrado le insistenze in contrario fatte da alcuni suoi attenenti.

            Pertanto nell’ottobre dello stesso anno venne qui nell’Oratorio di S. Francesco di Sales ad inaugurare il suo tempo di prova, e ci venne animato da fede viva con ardente desiderio di progredire in virtù. A tal fine, spiegando gran fervore nella preghiera, accorreva sitibondo alle fonti de' santi Sacramenti, ove attingeva riverenza cordiale, ubbidienza ilare, completa al maestro ed a quanti sovrintendono alla direzione della casa, esattezza scrupolosa a tutte e singole le regole, applicazione indifessa alle sacre, letterarie e filosofiche discipline.

            E qui noi avemmo agio di conoscere a fondo questo buon giovane e, senza tema di andare errati, ben possiamo soggiungere che egli ebbe una mente elevata; ma non superba, ne ambiziosa: un cuor tenero, facile all’emozione; ma in pari tempo forte ed energico. Fu di tratto affabile, festivo; ma dignitoso e grave. Come quegli che era avvezzo al meditare, di eloquio era tardo anzi che no; ma giusto e preciso: semplice, vivo e all’uopo eziandio frizzante; ma non mai indiscreto od offensivo. In tutte le sue cose amò l’ordine, la proprietà e la precisione: negli abiti. osservando la massima del nostro santo Dottore: {62 [414]} Vorrei che le persone divote fossero le più pulite e le meno ambiziose, (Filot. p. 3. c. 25,) schivava come la indicenza e la trascuraggine, così la troppa eleganza.

            Un giovane cosi compito formava la delizia dei compagni e la compiacenza dei Superiori, che ne avevano concepite le più belle speranze. Ma ahi che già era vicino alla tomba! Assalito da malattia, andava dimagrando ad occhi veggenti ed infievolendosi per modo, che doveite porsi a letto. Era il 19 marzo, giorno sacro al glorioso s. Giuseppe, quando gli si permise di recarsi a casa, fermi nella speranza che colà presto avrebbe potuto riaversi ed ottenere la sospirata guarigione. Ma vana speranza! che il male crebbe a dismisura, prevalse spaventoso su quella troppo cagionevole tempra e di lì a poche settimane versava in fin di vita.

            Era affranto quel corpo; ma quell’anima appoggiata sulla fede, sorretta dalla speranza, accesa dalla carità era tuttavia forte e robusta; soffriva e soffriva grandemente, e pur taceva, anzi parea che godesse di soffrir di più. Anima bella! Or ne godi il premio. Visitato parecche volte nel corso di sua malattia dagli amati suoi superiori e specialmente dal Sig. D. Bosco se ne mostrava tanto contento e riconoscente, animandosi sempre più alla pazienza e rassegnazione. Ricevette più volte nel corso della malattia i SS. Sacramenti colla più tenera divozione; e finalmente munito di tutti i conforti di Nostra Santa Religione, colla pace del giusto, col sorriso dell’angelo spirava nel bacio del Signore al 1° del mese di maggio andando cosi a cominciar in Paradiso, come fermamente si spera, il mese consecrato a Maria SS. e a cantar inni di lode e di ringraziamento a quella dolce {63 [415]} Madre, da cui tanti favori aveva ottenuto in vita Quanto è preziosa e consolante la morte di coloro, che amano Iddio! Essa è un placido sonno, cui dee succedere, nel destarsi, il bel mattino della beata interminabile eternità; Cum dederit dilectis suis somnum: ecce haereditas Domini. (Psal 126. Vers. 23.)

 

 

Il chierico Trivero Carlo.

 

            Nacque nella città di Chieri il 4 gennaio 1858 da Agostino e da Vincenza Villa, poveri, ma onesti genitori. Suo padre esercitava il mestiere di tornitore in legno e sua madre, ex-ricoverata dell’orfanotrofio, era nutrice e stiratrice.

            Rimasto orfano del padre, la madre si prese ogni cura per allevare convenevolmente il suo Carlino. Per tempo lo avviò alla scuola, a cui il fanciulletto andava non solo per obbedienza, ma per passione, spiegando fin d’allora straordinario amore allo studio. Di modo che, se talvolta accadeva che facesse difficoltà ad arrendersi ai cenni di sua madre, bastava di minacciarlo di non lasciarlo più andare a scuola, che tosto obbediva senza più batter parola. Trovandosi però sua madre in gravi strettezze fu obbligata a cercargli ricovero in qualche istituto di beneficenza, e all’età di otto anni, nel gennaio del 1866, fu accolto nel R. Ospizio di Carità di quella città, dove sono ammessi i fanciulli d’ambo i sessi dai sette ai dodici anni, purchè orfani o di padre o di madre, poveri e di non pregiudicati genitori.

            Era allora Direttore il sig. D. Carlo Ferrerò sacerdote molto benemerito della gioventù. Veramente {64 [416]} zelante pel bene dei ricoverati, fra le paterne sue sollecitudini aveva pur quella di studiare le doti di mente e di cuore dei giovani alle sue cure affidati e, se ne vedeva qualcuno che mostrasse attitudine speciale per gli studii, s’interessava presso l’amministrazione dell’Ospizio e presso altri pii benefattori, onde procacciargli moda di mandarlo alle scuole. Uno dei tanti beneficati da quel degno sacerdote fu il nostro Trivero. Giovane di buona indole, di svegliato ingegno e di buona volontà d’imparare non tardò molto a guadagnarsi l’affetto dell’ottimo Direttore, che tosto pensò di fargli continuare la carriera degli studi.

            Fu questo un grande privilegio, perchè lo scopo dell’Istituto, ove era ricoverato il nostro Trivero, è di render solamente i giovani atti a guadagnarsi il pane col lavoro manuale.

            Nell’Istituto non essendovi che le scuole serali per gli artigiani, fu mandato alle scuole pubbliche della città, che frequentò dalla prima elementare sino alla seconda ginnasiale inclusivamente. Il giovane di care speranze corrispose molto bene alle cure che gli vennero amorevolmente prodigate ed in tutti i corsi fu dei più distinti e riportò sempre il primo o secondo premio; quanto a morale condotta poi fu inappuntabile ed oltremodo lodevole, non essendo giammai stato colto a trasgredire il Regolamento dell’Ospizio od a mancare come che sia a' suoi doveri.

            Compiute con encomio alcune classi ginnasiali, non potendo più l’Ospizio sostenere ulteriori spese, il Trivero trovavasi in pericolo di dover abbandonare gli studii e abbracciare un mestiere, andando alle pubbliche officine, dove la sua virtù ancor tenera sarebbe stata {65 [417]} messa a troppi duri cimenti. Quel buon Direttore, scorgendo il pericolo prossimo di veder andar in fumo tutte le belle speranze che su di lui si era formato, s’adoprò a tutto potere per cercargli un posto in altro istituto, affinchè, come si esprime lo stesso Direttore, quella pianticella prossima ad inaridire, trapiantata in tempo utile in buon terreno desse soddisfacenti frutti. Lo raccomandò pertanto caldamente al sac. Bosco e potè ottenere la sua ammissione nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, dove il giovane Trivero fece il suo ingresso il 29 ottobre 1872.

            La vita di Collegio che suole in sul principio parer dura alla maggior parte dei giovani, non fu tale pel nostro Trivero, che anzi fin dai primi giorni gli piacque assai; mai non fu udito lagnarsi di cosa alcuna, ma contento passava i suoi giorni sempre in buon’armonia con tutti. Avea egli posto ogni confidenza in D. Bosco e negli altri superiori, che amava di tutto cuore, e da cui veniva contraccambiato di tenero amore. Percorse egli all’Oratorio la terza ginnasiale con tanto profitto e sì felice esito, che nel seguente anno si giudicò idoneo alla quinta ginnasiale, nella quale non furono minori i suoi progressi.

            Durante i due anni che passò all’Oratorio in qualità di studente, diede non rare prove di virtù e nell’ultimo specialmente dimostrò vivo il desiderio che avea di tutto consacrarsi al bene della gioventù. In questo pensiero, terminata la retorica, fece dimanda di vestire l’abito chiericale e di essere ammesso a far parte della Congregazione Salesiana, ove avrebbe potuto far maggior bene. Avvegnachè lo svegliato suo ingegno e la straordinaria sua vivacità il portassero a qualche difetto, cionondimeno si può dire {66 [418]} ch’egli fu sempre un giovane virtuoso e costante nell’adempimento di ogni suo dovere, e quindi il suo direttore spirituale che ben lo conosceva, perchè il nostro Carlo aveagli sempre con gran confidenza aperto il suo cuore, il giudicò degno dell’abito chiericale, che indossò il 19 settembre 1874 in Lanzo, e d’essere annoverato fra i Salesiani. È ineffabile la gioia da cui egli fu inondato quando vide esauditi i suoi voti e potè entrare ad ingrossare le file dei Salesiani, ove si vedeva aperto un campo vastissimo per fare del bene immenso a tanta povera gioventù, che va a' dì nostri miseramente perduta per mancanza di operai che lavorino in questa vigna tanto cara al Signoro. Ma siccome egli ben conosceva che nessuno mai divenne atto a comandare, se prima non imparò ad ubbidire, e che per poter indirizzare altrui nel bene d’uopo ò d’un buon corredo di virtù, così egli nell’anno di prova si diede molta cura di temprare l’animo suo a forti e maschie virtù coll’esatfo adempimento delle opere di pietà, e soprattutto colla frequenza ai SS. Sacramenti della confessione e comunione, due mezzi efficacissimi per superare le insidie che di continuo tende il demonio alle anime, e camminare sicuri sul sentiero della virtù. Pose poi tutto suo studio in bene conoscere le regole della Congregazione nostra e praticarle per ben disporsi a fare sua professione, qualora ne venisse, giudicato degno. Terminato l’anno di prova, sentiva vivamente la battaglia che muovevagli l’affetto che portava a sua madre e che inclinavalo a ritornare al mondo; tuttavia conoscendo i gravi pericoli che nel mondo insidiano l’inesperta gioventù e riputandosi troppo debole per potervi resistere, si decise di rimanere in Congregazione e ne fece dimanda {67 [419]} per l’ammissione. Com’era da aspettarsi, ne ebbe a pluralità di voti l’approvazione, e potè legarsi alla Congregazione il 25 settembre 1875. Se grande era stato l’impegno suo per ben conoscere a quale stato chiamavalo il Signore, e quindi a prepararsi a seguirlo come si conveniva; se nell’anno di prova pose ogni suo studio per conoscere le regole della Congregazione e praticarle, quale non fu il suo slancio nel bene dopo la professione! Studiavasi egli allora di confermarsi viemaggiormente in quella vocazione, a cui il Signore l’aveva chiamato; le regole della Società erano per lui la guida costante delle sue azioni, conoscendo egli nell’esatta osservanza di esse consistere la vera perfezione. Egli disimpegnò sempre lodevolmente gli uffizi di maestro e di assistente, dimostrandosi mai sempre infaticabile per ciò che riguardava specialmente il bene scientifico dei giovani alunni alla sua cura affidati. I giovani di Torino che furono sotto la sua disciplina ricordano ognora con grande piacere il nostro caro confratello, che seppe con tanta industria attirarsi l’amore di numerosa scolaresca.

            Verso la metà dell’anno scolastico 1876-77 abbisognandosi nel Collegio di Lanzo di un insegnante, vi fu destinato Trivero. Sebbene a lui dispiacesse non poco il doversi allontanare dall’Oratorio, in cui avea passato i migliori suoi anni, ove lasciava un padre che tenerissimamente l’amava, pure ricevuto il nuovo ordine tosto si dispose a partire alla volta di colà, ove l’eco lodevolmente progredire gli alunni che gli vennero affidati, desiderando di fare quel molto più che gl’impedivano gl’incommodi d’una mal ferma salute. Difatti prima ancora ch’ei lasciasse l’Oratorio, già sentivasi qualche indisposizione di {68 [420]} stomaco, di cui però non si curava gran fatto. Recandosi a Lanzo sperava per la bontà del clima di rimettersi interamente; e invero mal non s’appose, che in breve tempo scomparvero quasi per intero le indisposizioni a cui andava per l’innanzi soggetto; ma non però sì che non ricomparissero di quando in quando a molestarlo.

            Fra le cose di cui egli molto dilettavasi e che con grande amore coltivava, era la musica, alla quale consacrava maggior parte del tempo che libero gli rimaneva da altre occupazioni, e andava facendo in essa rapidi progressi.

            Nel 1877-78 fu destinato pel Collegio di Alassio. Ricevuta egli la nuova destinazione, come già fatto avea altra fiata, partì senza fare parola in contrario. Nel nuovo Collegio fu veramente lodevole la sua condotta. Si occupava indefessamente della musica, nella quale fece assai progredire i giovani alunni; con puntualità e con felice successo disimpegnava tutti quegli affizi a cui venne da' suoi superiori deputato. Mentre però era intento a compiere esattamente i doveri che riguardavano gli altri, non trascurava quelli più strettamente a se risguardanti, sebbene la sua umiltà facessogli nascondere agli occhi eli molti parecchie virtù che ben eran palesi a chi più l’avvicinava. Anzi quasi fosse presago dell’avvicinarsi della morte, vi si nndava preparando dandosi con tutto l’ardore a perfezionare l’anima sua nel divino servizio in modo da farvi mirabile progresso e rendersi eziandio l’edificazione de' suoi confratelli.

            Nel 1879 incominciò a svilupparsi viemaggiormente il malore di cui di quando in quando comparirono i sintomi negli anni trascorsi. In sulle prime non vi badò gran fatto, sperando si dileguerebbe, {69 [421]} come già negli anni addiétro era avvenuto. Ma non fu così, che crescendo il male di giorno in giorno e facendosi pel nostro Trivero sempre più difficile la digestione, pensò consigliarsi col medico il quale gl’impose di lasciare ogni occupazione. Egli sebbene a malincuore si adattò alle prescrizioni del medico e si diedo ad assoluto riposo. Gli si usarono tutte le cure possibili, ma il male andava impadronendosi sempre più profondamente di lui. Il medico dopo parecchi mesi di visite quasi quotidiane, vedendo che l’ammalato andava ognora peggiorando, il consigliò a provare se l’aria di Piemonte gli arrecasse qualche giovamento. Il nostro Carlo quantunque a malincuore adattossi pure a lasciare il Collegio di Alassio e recarsi a Torino, indi a S. Benigno; ma nulla valse a migliorarlo; nè l’aria che vi è otfima, nè tutte le possibili cure che colà gli vennero prodigate. Trivero in tutto il tempo della malattia si mostrò assai rassegnato, e mai non fu udito a lamentarsi di sua condizione. Fin da quando era in Alassio presagiva che quella dovea per lui essere l’ultima malattia, disponevasi quindi al gran passo, senza che ombra di timore venisse mai a turbare la pace della sua coscienza.

            A chi cercava confortarlo inducendolo a bene sperare, con dirgli che la malattia non era sì disperata come ei credeva, che anzi i medici avevano tutto a sperare ch’egli ancora n’uscirebbe, egli rispondeva: Io erodo invoce che non n’uscirò più; ma non importa. È meglio morir giovane che vecchio, che così minore è il conto che dovrò rendere al Signore, e poi nella sua umiltà soggiungeva: D’una cosa sola mi duole, e si è di avermi a presentare al divin tribunale colle mani vuote di buone opere. Passati {70 [422]} pertanto alcuni mesi in S. Benigno, edificando ognuno colla rassegnaziono alla volontà di Dio, in compagnia di Gesù, che il mattino s’era accostato egli stesso a ricevere, passava a miglior vita il 17 agosto. La vita virtuosa menata dal nostro caro confratello e la rassegnazione con cui sopportò l’ultima malattia, ne lasciano fondata speranza a credere che ei già sia a possedere quel premio promesso da Gesù Cristo a chi rinunziando alle cose vane di questo mondo, si fa suo vero seguace, e fortunato lui che non badando all’affetto naturale ai parenti non si lasciò lusingare a far ritorno al mondo. Del resto in quale inganno sarebbe caduto! La madre, il cui affetto l’avea quasi reso tentennante nella sua decisione, qualche anno prima di lui venne chiamata all’eternità; ed egli sarebbesi per conseguenza in giovanile età trovato in mezzo al mondo senza appoggio, esposto ad evidente pericolo per l’affare più importante qnal è quello della salvezza dell’anima sua.

 

 

Il chierico Giacomo Delmastro.

Consummatus in brevi explevit tempora multa (Sap. IV 13.).

 

            Il chierico Giacomo Delmastro, di cui qui solo n’è dato scrivere succintamente alcuni rapidi cenni biografici, era una di quelle anime veramente eccezionali, che per innato candor d’animo, tenerezza di affetti e santità di costumi paiono emulare quaggiù la vita degli angioli in cielo. Il buon Dio prevenne questo amabile giovane colle sue benedizioni; {71 [423]} con essolai si compiacque largheggiare de' suoi doni; ed a sua volta e vi rispose così bene, che in breve si ebbe l’anima ornata di tante grazie e arricchita di tanti meriti da affrettarsi l’acquisto del beato possesso di Dio, per cui la sua vita non fu che un solo e fervido sospiro, un solo e perfetto olocausto. Onde di lui a buon diritto possiamo ripetere il memorabile detto del Savio che nel brevissimo tempo, in cui visse, compiè nella via della cristiana perfezione una lunghissima carriera: Consummatus in brevi explevit tempora multa.

            Sortì egli i suoi natali il 14 novembre dell’anno 1861 in Pralormo (ameno villaggio che siede a ridosso di ubertoso colle, incoronato di ridenti vigneti nelle vicinanze di Poirino) da Giovanni Delmastro e da Giovanna Genta, coniugi poveri di beni di fortuna, ma ricchi di fede cristiana e di sante opere. Essi, ritirati dal mondo rumoroso, attendono in segreto alla coltura dell’unico poderetto avuto in retaggio dai padri loro, educando nella nostra santa religione la crescente prole, come s’addice a buoni cristiani. Ed il nostro caro Giacomino sotto le cure de' suoi ottimi genitori crescea ogni dì in età, in sapienza ed in grazia presso Dio ed appo gli uomini; e di pochi mesi già scioglieva la lingua e le prime parole che balbettava erano Gesù e Maria. Questi nomi dolcissimi ripeteva poi spesso nelle sue preghiere, e formavano le più care compiacenze del suo bel cuore.

            Varcato di poco il primo lustro di sua età, cominciò a frequentare la pubblica scuola, ma con tanta esemplarità, che ognuno ne ammirava il contegno e ne rimaneva edificato. I suoi progressi nelle lettere e nelle virtù erano meravigliosi, incredibili; il suo maestro se ne lodava e lo additava ad esempio alla sua numerosa scolaresca. {72 [424]} In casa riesciva la delizia e la consolazione de' suoi poveri genitori, che, lui possedendo, si reputavano troppo ricchi. Ve' com’è amabile, docile ed ubbidiente! Ei non sa dipartirsi dal fianco di sua buona madre che per ubbidienza; ed è proprio una tenerezza udirlo a parlare: Mamma, dove posso io aiutarti? Ho fatto quanto m’hai imposto: in che più debbo adoperarmi? Che amore al lavoro non si scorge in fanciullo di sì piccola età!... Vede la povera madre mesta e sopra pensiero: Mamma, le dice con tutte le grazie suggeritegli dalla pietà figliale, che hai Che ti veggo sì trista? Dimmelo, dimmelo.... E la madre a piangere di consolazione!.... Tanta tenerezza d’affetto non solo nutriva per la buona madre, ma eziandio pel caro padre. Sapeva l’ora che questi faceva ritorno dalla campagna e non si scordava mai di muovergli incontro, e, quando in lontananza lo vedea comparire, frettoloso lo avvicinava, gli si stringeva alle ginocchia, facendogli mille feste e mille interrogazioni.

            Giunto poi a casa, con una premura più unica che rara apprestavagli lo scanno, perchè vi si adagiasse, e poi gli tergeva il sudore e si faceva a narrargli ingenuamente le sue vicende: come la madre già avesse ammanito il pranzo e come il maestro in iscuola gli avesse detto parecchie volte: Bravo! Un giovinetto così buono ed ingenuo era amato da quanti il conosceano; perciò spesso accadeva che fosse regalato di una mela, di una pera, di dolci, confetti e simili cose. La puerizia, più che ogni altra età, è data alla ghiottornia; ma il nostro Giacomo sebben piccino, sa già infrenare la gola e soggiogarne i riottosi appetiti all’impero della ragione, che in lui già ha preso uno straordinario sviluppo. Piglia di fatto {73 [425]} con riconoscenza l’offerto regalo, e, riponendolo nel suo taschino, che tien sempre pulito, tutto festante vola a consegnarlo a sua madre, che ama tanto. Se qualche pezzente bussa alla porta, tosto chiede per lui un tozzo di pane, e avutolo, lo porge al poverello del Signore con sì squisita dolcezza di carità, che quegli senza arrossire lo riceve, benedicendo di cuore ad un tale ragazzo, che alto due palmi, già è fornito di si rara virtù. Quante volte fu veduto privarsi della colazione per far la carità al tapino, che lagrimoso chiedeva il pane della trita! Quante volte a tergere le lagrime a qualcuno dei suoi fratellini ed a farlo migliore fu visto cedergli buona parte del suo scarso companatico! Che ottimo cuore! Non basta; diciamo pure: Che fedo viva, grande, operosa! Giacche egli di queste virtuoso privazioni sapeva farne continuamente. E mercoledì, diceva a se stesso, una mortificazione ad onore di s. Giuseppe: è venerdì, è sabato: dunque digiunerò in ossequio a Gesù ed a Maria.

            Un giovanetto così virtuoso e pio in casa, non istate a chiedere se usasse a chiesa e come vi si comportasse. Vi entra dei primi ed è sempre tra gli ultimi ad uscirne, e non di rado nei dì festivi, recatovisi prima dell’alba, non ritorna a casa che nelle ore pomeridiane. E la colazione? E il pranzo? Non ci pensa per nulla; egli è col suo Gesù, tutto assorto in Luì e non pensa che alle celesti cose.

            È nel rigor del verno; tutto biancheggia per neve, che ancor casca giù a larghe falde vorticosa e densa; ed egli, prima che spunti l’alba, si desta, lascia il caldino del letto, lascia il tepido ambiente di sua povera cameruccia, e scalpiccia la fredda neve per recarsi ad ossequiare il Signore. È nel cuor dell’estate: {74 [426]} guizza la folgore, scroscia il tuono, la pioggia diluvia: odesi lontano il rumureggiare della tempesta: l’uragano imperversa e minaccia; ma ei non teme; passa impavido per le vie divenute altrettanti rivi, o già s’espande dell’anima in dolcissimi affetti verso del suo benedetto Gesù. Oh come gli sta bene, quanto gli si addice il volteggiare in mezzo ai santi altari!

            Ma non pur piglia parte assidua alle funzioni di chiesa, ma sì ancora volenteroso vi presta l’opera sua con quella frequenza e con quel contegno che tanto edifica ed onora. Il parroco grandemente se ne compiace, dice le meraviglie, fa lusinghieri pronostici del nostro Delmastro, e, quantunque non abbia peranco raggiunta l’età voluta per essere ammesso alla, mensa Eucaristica, sapendo che in quest’ottimo fanciullo la virtù supplisce di vantaggio al difetto dell’età, crede esser qui il caso di dover fare una eccezione da lui mai praticata, derogando alla legge generale che si era fatto. Del resto forse Iddio avrebbe rinnovato il prodigio già avvenuto a prò della santa fanciulla Imelda; è certo però che nessuno mormorò punto del contegno eccezionale, che tenne il saggio parroco: tanto a tutto il popolo di Pralormo era nota la condotta eminentemente virtuosa del nostro pio Giacomino! Se non che ecco spuntare il faustissimo giorno della sua prima Comunione.

            Che scena pietosa non porge di se là genuflesso ai piedi del confessore! Quanto è umile il suo atteggiamento! Ma perchè quei sospiri, quei singhiozzi e quei pianti?... Ecco il mistero: quella bell’anima è tutta innamorata del suo Gesù, che la prevenne in amore, dolcemente a se guadagnandola colla potente attrattiva della sua divina grazia... E ad un’anima ardente per Dio le imperfezioni, anche le più piccole, {75 [427]} sembrano troppo grosse; lo colpe più leggiere, gravi peccati; un punto, un neo di venialità, deliberata, un delitto enorme, che la disgiunge e separa dall’in tinta unione con Dio. Di qui que' lunghi, accurati e perfin scrupolosi esami di coscienza; di qui quel lungo eccitarsi a teneri sentimenti di compunzione; di qui quei fermi propositi d’elegger la morte anzichè il peccato, e poi quel pregare senza fine e con tanta divozione.

            Partendosi egli dalla sacra Mensa l’avresti veduto rosseggiante ed infiammato in volto da parer piuttosto un serafino che un semplice fanciullo. Si è cibato del pane degli Angeli, s’è nutrito delle Carni immacolate e del preziosissimo sangue di N. S. G. C, ha nel cuore il suo diletto Gesù, che lo consola e lo conforta con queste soavi parole: Son qui tutto tuo. E però la sua contentezza e fervore gli trasparisce sul volto. Ritiratosi dalla mensa Eucaristica si raccolse in se stesso, e per lunga ora fu tutto assorto in Dio che formava il suo gaudio, il suo unico bene. Lo vede la madre in tale postura di paradiso; commossa lo accenna al marito e si dicono: Noi non siamo degni d’avere un tonto figlio: o che non ci vive, o che diverrà un santo. Ed avevano doppiamente ragione; dappoichè il loro presagio s’avverò in tutta la sua estensione: visse pochissimo; ma si fece santo, compiendo nell’arduo cammino della virtù una lunga carriera: Consummatus in brevi explevit tempora multa.

            Dove abbiamo, od almeno crediamo di avere, il nostro tesoro, ivi c’è pure il nostro cuore. Epperò il monello sogna i suoi trastulli; il pastore i suoi monti ed il suo armento; il guerriero le battaglie ed i trionfi; l’esule la sospirata patria; la madre i suoi {76 [428]} cari bamboli; e le anime innocenti come angeli sognano Iddio e la gloria del paradiso. Era la notte della prima Comunione e il nostro Giacomino si era placidamente addormentato col pensiero fisso in Dio: le ultime parole del suo lungo e fervoroso pregare erano: Gesù e Maria. Appena socchiusi gli occhi alle mondane cose, oh Dio immortale che bello spettacolo gli si para dinanzi! Vede un vezzoso bambino cinto di fulgidissima aureola, in mezzo agli splendori dei Santi: gli fanno bella corona schiera d’angioli e uno stuolo di sacro Vergini in candidi lini, le quali, seguendo l’Agnello divino, cantano sulle cetre d’oro quel nuovo inno che ad altri non è dato di cantare: vede quel pargoletto che lo guarda con dolce sorriso: ode una voce delicata: è Gesù che gli ripete all’orecchio ed al cuore le parole dette il giorno avanti: Son qui tutto tuo.

            La consolante visione scompare, ma non sparisce già la santa esultanza, onde aveva l’anima altamente compresa, e alla dimane non appena fu svegliato che, piena ancora la mente di quanto aveva veduto in sogno, si fece a raccontar minutamente con ineffabile gioia degli uditori quello che non saprei se chiamar dobbiamo sogno o visione. Dopo questo più non sono da farsi le meraviglie se il caro nostro Delmastro mostra tanta affezione alle cose di pietà, sì costante fervore nell’accostarsi ai SS. Sacramenti, tanta simpatìa pei poveri e tanta indifferenza alle lodi ed ai dileggi, al piacere e al dolore, da parere freddo, insensibile, apatico a tutto che non sa di Dio.

            La virtù come ha dell’attraente pei cuori ben fatti, così è l’esca che nei malvagi accende l’invidia. Giovani simili agli snaturati fratelli di Giuseppe non mancano mai. Stanchi alcuni tristi di vedersi sempre {77 [429]} in casa, in iscuola ed in chiesa proporre V esempio luminoso dell’ottimo nostro Delmastro, presero a malmenarlo e colle parole e coi fatti in barbara guisa. Lo pungevano sovente con motti villani, con titoli ingiuriosi, ed egli mansueto rispondeva: Tutto per amore di Dio. Altre volte con sonori schiaffi gli percuotevano le guance, ed egli ripeteva: Tutto per amor di Dio; giunsero perfino a farla a sassi con lui, che neppur cercava di difendersi, ed una volta eziandio, avendolo colpito, lo stramazzarono a terra, ed anche allora non si udì uscir dalla sua bocca altro che il suo benedetto ritornello: Tutto, tutto per amor di Dio. E questi maltrattamenti egli si portava in pace, senza lagnarsene, anzi rassegnato pativa e non ne faceva pur motto alla madre, alla quale per altro soleva aprire tutto l’animo suo. Quando un’anima arriva a praticare queste due parole: Patire e tacere, è ben vicina al cuor di Gesù!

            Nè egli era così buono sol perchè sotto gli occhi della vigilanza paterna. Fu un tempo, in cui il nostro caro giovane dovette successivamente acconciarsi a tre padroni. In questo triennio di servitù nulla rimise del suo antico amoro al lavoro ed alla pietà. Egli non perdeva briciolo di tempo, che sempre sapeva come meglio impiegarlo. Nella voce del padrone riconosceva la voce di Dio e la eseguiva con prontezza e giovialità. Con pari disinvoltura apparecchiava il cibo, lavava le stoviglie, menava la scopa, assisteva gì’infermi e lavorava la terra, e per siffatta guisa riesciva a contentare tutti. Ed è per questo che i padroni gareggiavano per averlo e non rifiniscono tuttora dal farne gli elogi.

            Nei brevi ritagli di tempo, che altri avrebbe passato in dolce riposo od in onesto sollievo, egli si {78430 []} applicava di genio alla lettura di qualche ottimo libro, alla preghiera ed alla meditazione delle verità eterne. Il più spesso che venivagli fatto recavasi, come per cercar sollievo ai travagli della vita, ai piedi dell’altare della parochia e là stemperava il suo cuore in tenerissimi affetti verso Gesù in Sacramento. In abbondanza di là gli venivano i celesti soccorsi, ed arcane dolcezze di là piovevano sull’anima sua benedetta. Là rinfocolava la fede, che ebbe sempre vivissima; là confortava la speranza, che gli fu ognora fida compagna; e là finalmente ritemprava e perfezionava la carità che possedette in grado eminente.

            Una pianticella che prometteva sì buoni ed abbondanti frutti doveva esser trapiantata nei giardini della Chiesa, un giglio così candido ed olezzante poteva in mezzo al mondo trovarsi esposto al pericolo di appassire e di essere calpestato; ed il Signore dispose che potesse uscirne per ritirarsi al riparo dagli assalti del nemico delle anime. Ei venne pertanto raccomandato all’Oratorio di S. Francesco di Sales.

            In vista delle eminenti sue doti morali ed intellettuali, malgrado gravi difficoltà che s’opponevano, ei venne tosto accettato gratuitamente dal sacerdote D. Bosco, superiore dell’Oratorio,in qualità di studente, e vi fece il suo ingresso il 1° agosto 1876.

 

E come quei che con lena affannata

Uscito fuor del pelago alla riva,

Si volge all’acqua perigliosa e guata;

 

così il nostro Delmastro appena posto piede in questo sacro recinto, misurando coll’occhio della fede i pericoli incorsi nel burrascoso mare del mondo e, la Dio mercè, superati, non che la salvaguardia e la sicurezza che qui a buon diritto si riprometteva {79 [431]} all’ombra benefica di Maria Ausiliatrice, si sentì compreso da dolcissima emozione sì, che gli venne da piangere. Aveva tocca la meta de' suoi ardenti desiderii, delle sue accese brame; non poteva in sè capire la soprabbondante gioia ond’era inondato nell’anima e cercò nn dolce sfogo nel pianto. Sono passati due mesi, scrive ad una sua zia, dacchè venni in questo collegio e mi sembra un giorno. Mi passò tanto presto questo tempo, che senza accorgermene giunsi fino adesso senza scriverti. Ti assicuro che sono troppo contento dell’esser qui venuto ritirato dal mondo, dalla corruzione degli uomini, da tanti pericoli della società. Sì, ti dico, sono veramente contento e ne ringrazio di tutto cuore il Signore, malgrado la poca sicurezza di rimanervi tanti anni. Pare avesse un presentimento che non avrebbe vissuto molto. Laonde ogni sua cura, ogni suo pensiero rivolgeva a guadagnar tempo colla pietà, collo studio.

            Non isprecava un minutò di tempo in frivole ed inutili letture o simili inezie, e neppure nello scriver lettere che non fossero necessarie. Scrivendo ai suoi genitori non si dimenticava mai di raccomandare ai fratelli ed alle sorelle d’essere sempre buoni, ma proprio buoni davvero, di frequentare i santi sacramenti colle debite disposizioni, di fuggire a tutta possa le cattive compagnie e soprattutto di guardarsi ben bene dall’offesa di Dio, il pessimo di tutti i mali, anzi l’unico vero male. E così egli anche di qui confermava collo sue esortazioni nella pratica della virtù coloro, che poc’anzi edificava coll’esempio della sua vita. Nei tempi di libero svago, se il volevi, ti bisognava cercarlo in chiesa. Egli era tutto di Gesù e di Maria, e sua delizia era starsene con loro. {80 [432]}

            Della vita esteriore ce ne passiamo: diremo tutto accennando che fu minuto, esatto e perfin scrupoloso osservatore di tutte e singole le regole e dei consigli che gli fossero dati.

            Coi compagni fu schietto, umile ed affettuoso. Non fu mai veduto di cattivo umore, sempre una gioconda ilarità infiorava il suo volto: nè mai fu udito a dir pure una parola che potesse menomamente offendere qualche compagno, che anzi per qualunque favore lo si richiedesse, sempre si trovava pronto a favorire per quanto da lui dipendeva qualsiasi fra i suoi condiscepoli. Nello studio fece si rapidi progressi che in due anni percorse l’intiero ginnasio, sostenendone con onore l’esame di promozione alle filosofiche discipline, nelle quali si segnalò grandemente. Egli vedeva ancor lontana la meta che desiderava presto raggiugnere; epperò che fece? L’ha detto Orazio: Qui studet optatam cursu contingere metam, multa tulit fecitque puer, sudavit et alsit: non la perdonò a sacrifici, pur di crescere in santità ed in sapere. Egli aveva profondamente scolpita nell’anima questo pensiero: I negozianti per un guadagno di pochi soldi, quanti fastidii si prendono, quanti disagi sopportano, a quanti pericoli espongono la stessa vita! Ed io per l’acquisto del paradiso, per guadagnarmi Iddio non soffrirò nulla?

            Con queste felici disposizioni egli nel settembre del 1878 inaugurava il suo anno di prova, che per lui non fu che la grande palestra, ove svolse e perfezionò tutte le virtù, onde era bellamente fregiato, porgendo agli ascritti suoi condiscepoli luminoso esempio di cristiana perfezione. Non ho potuto (così si espresse colla solita sua ingenuità in una lettera {81 [433]} al suo parroco e benefattore), non ho potuto scrivere più presto, perchè doveva impiegare tutto il tempo nella preghiera e nello studio per abilitarmi a fare la professione religiosa. Oh se posso ottenere tanta grazia..... Così finiva la sua lettera, che sì chiaro esprimeva l’ardente suo desiderio e la santa preparazione. E Dio benedetto appagava i suoi voti nel settembre del 1879. La salute che da qualche tempo aveva già cominciato a deteriorare, poneva grave e quasi insormontabile ostacolo alla definitiva sua accettazione nella Congregazione Salesiana. Ma quando si propose la sua dimanda, subito vi fu chi disse: Chi oserebbe rifiutar s. Luigi anche infermiccio? E però di unanime consenso venne ammessa la sua dimanda. Oh! chi può descrivere l’esultanza di quell’ anima santa nell’atto di consecrarsi per tutta la vita al servizio di Dio e del prossimo? Con quanta espansione pronunziò le care parole, che quali funicelle d’oro dovevano unirla per sempre al Signore, oggetto del suo più fervido amore!

            La grazia era ottenuta: quell’anima si ritirava ebbra di gioia dai piedi di Gesù in Sacramento, come se da un novello battesimo uscisse, a guisa di colomba, pura, monda e rivestita degli splendori della grazia; ed in tale stato che più le restava che di spiegare il volo in seno al suo Dio? La carità giunta a perfezione, dice l’Angelico, altro più non agogna che di sprigionarsi dagli ingombri del corpo per riunirsi al pelago immenso della carità per essenza, Gesù Cristo: Charitas cum ad perfectionem venerit quid dicit? Cupio dissolvi et esse cum Christo. Per la qual cosa andava ripetendo: Questa tosse, che da alcuni mesi mi travaglia, potrebbe pur accelerarmi la morte! Oh se così fosse!.... essere sempre con Dio.... conoscerlo, {82 [434]} vederlo, amarlo, goderlo per tutta l’eternità! Oh cielo! Qual gioia!

            Intanto il sordo malore, che non valse ad arrestare nè il clima temperato di S. Benigno, nè il sottile di Lanzo, nè l’aria natia, venne a corrodergli lo stame di sua preziosa esistenza; ed egli a 18 anni e 20 giorni era in fin di vita. Trovavasi presso i suoi parenti, ma il suo cuore era pure fra suoi amati superiori e cari compagni, ai quali faceva mandar da suo padre di tratto in tratto di sue notizie. Dire qui con quale rassegnazione abbia sofferta la lunga malattia sarebbe cosa superflua. In morte si raccoglie quello che si è seminato in vita; e siccome visse a tutte le virtù, cosi le virtù tutte ora gli fanno corteggio nel letto del dolore. È tanto paziente che non mette un lamento; è tanto umile, che rifiuta attenzioni e riguardi; è tanto pio, che vuol sempre gli si parli del suo Gesù.

            Era la mezzanotte del 4 al 5 di dicembre. Dappertutto regna un profondo silenzio, non interrotto che da frequenti sforzi di tosse e da un fioco mormorare. È il nostro Giacomo che col sorriso di un angelo patisce e prega! Poi tutto ad un tratto tace: accorre la madre al letto del sofferente e vede che si dibatte nelle supreme distrette dell’agonia; si manda pel sacerdote, questi frettoloso arriva per l’estrema unzione, che aveva già fatta la sua confessione e ricevuto il SS. Viatico. Rasserenatosi poscia tutto ad un tratto, schiudendo le labbra a dolce sorriso, chiede la benedizione papale, e, ricevutala, depose lo stanco capo sul guanciale e fissando il crocifisso che teneva nelle mani: Chiamatemi a voi, gli dicea con accenti di caldo affetto, deh! chiamatemi a voi, o Gesù mio, ch’io vengo.... a voi! con voi!... per sempre... {83 [435]} Gli astanti piangevano tutti; ed il moribondo: Non piangete, io non merito le vostre lagrime; perdonatemi se vi son causa di pena; non mi regge il cuore vedervi cosi afflitti; non piangete; preghile, fittemi la carità di pregare, pregate tutti per me. Ciò detto, cadde in profondo letargo; sulle labbra tremanti e convalse ristette muta la parola; il respiro lento e grave... gli occhi fissi... il rantolo accennavano al prossimo trapasso del povero moribondo. Poscia si riebbe come per incantesimo, tornogli faGilè il respiro e libera la parola... Era il miglioramento della morte. In questo lucido intervallo pregò il padre suo a leggergli la preghiera per la buona morte che trovasi nel Giovane Provveduto, che egli potè ripetere colla pienezza dei sentimenti, ad ogni invocazione ripetendo con voce semispenta: Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me. Mio caro Gesù, fa ch’io t’ami sempre più. Frattanto baciava e ribaciava ad una ad una le piaghe di Gesù Crocifisso che si stringeva al morente cuore! Poi volgendo sguardi pietosi all’immagine di Maria SS., che stavagli dinanzi, le diceva pieno di confidenza: Monstra te esse matrem... ecce filius tuus... Dolce Maria, speranza mia che io venga a voi! In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum: Gesù Bambino, Maria madre mia, s. Giuseppe, spiri in pace con voi l’anima mia!....

            Dopo questa tenerissima espansione di amore: Padre, disse, seguita la preghiera. Ed egli, facendosi forza, tra un profluvio di lagrime che gì’irrigavano le gote e singhiozzando, proseguì: Quando finalmente l’anima mia comparirà avanti a voi... degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinchè io canti eternamente le vostre lodi. - Affinchè {84 [436]} so canti eternamente le vostre lodi, ripetè il morente con un ultimo fil di voce. Poi si ricompose il volto a gioia serena, la bocca atteggiò a dolce sorriso, aperse le labbra, su quelle posò il crocifisso... Giacomo mio, grida il desolato padre, sciogliendosi in pianto, Giacomo mio! Più non rispose! Era spirato nel bacio del Signore, nei dolcissimi cuori di Gesù, Giuseppe e Maria.

            L’ottimo suo paroco, che aveva coltivato con tanta cura questa cara pianticella fin dai primi anni di sua fanciullezza, lo assistette pure con amorevole sollecitudine nella sua malattia e specialmente in quei supremi istanti. All’indomani della preziosa sua morte ce ne diede la dolorosa notizia con queste consolanti parole: “La sua morte fu la morte di un santo e commoventissima. La sua anima è salita certamente in cielo.”

            Ecco a larghi tratti i fatti più culminanti della vita e della morte del nostro carissimo Delmastro; ecco le note caratteristiche che contraddistinguono la sua bell’anima: uno spirito di operosità e di sacrificio; un ardente amor di Dio e del prossimo; una purità angelica; uno spirito di ubbidienza e di subordinazione, uno spirito di preghiera e di mortificazione, un distacco generoso dal mondo ed un sublime slancio per l’acquisto d’ogni virtù.

            Coraggio, confratelli nel Signore dilettissimi; di qui togliamo norma e regola al viver nostro; il tempo vola, l’eternità s’avvicina; mentre siamo in tempo, ad imitazione del caro Delmastro, prepariamoci ricchi tesori di meriti lassù nel Cielo. Coraggio: Maria Ausiliatrice ci porge la destra; gittiamoci nelle sue braccia; Essa ci condurrà a Dio che ci vuol salvi, ed allora vedremo quanto sia grande, {85 [437]} quanto sia prezioso ed invidiabile, il premio di colui che in brevissimo lasso di tempo volle e seppe avanzarsi tant’alto nelle vie del Signore: ConsumTnatus in brevi explevit tempora multa.

            Gli esempi non ordinari lasciatici da Delmastro Giacomo fecero nascere il desiderio di avere di lui una biografia più diffusa, e si spera di poter in altro tempo, a comune edificazione, pubblicarla; perciò si invita chiunque abbia notizie intorno alla sua vita e virtù a volerle comunicare al superiore. {86 [438]}

 

TORINO, 1880 - TIPOGRAFIA SALESIANA {87 [439]} {88 [440]}

 




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