Con appendice sopra
S. Giustino apologista della religione
per cura del Sac.
BOSCO GIOVANNI
E
TORINO
TIP. DI G. B.
PARAVIA E COMP.
1857. {1 [1]} {2 [2]}
[?
è premesso alle opere dubbie]
INDEX
Capo I. Breve osservazione. - S. Sisto I succede a S. Alessandro. -
Combatte l'eresia. 3
Capo II. Proibizione di toccare i vasi sacri. - I corporali di lino. Il
Sanctus nella messa. - Il memento dei morti. 4
Capo III. Breve digressione sogli imperatori Adriano ed Antonino. -
Cristiani martirizzati. - Martirio di S. Sisto. Anno di Cristo 142. 5
Capo IV. Traslazione del corpo di S. Sisto da Roma nella città di
Alatri: miracoli e grazie ottenute ad intercessione di lui. 6
Capo V. Alcune parole sui fatti antecedenti. 7
Capo VI. Gli anacoreti del Carmelo. - S. Telesforo nono Pontefice. - La
quaresima e l'astinenza dalle carni. 8
Capo VII. Le tre messe di Natale. - Il gloria in
excelsis Deo. - Il Vangelo nella Santa Messa. - Altre
istituzioni di S. Telesforo. 9
Capo VIII. S. Telesforo manda predicatori a portare il Vangelo in varii
paesi; resiste all'eresia di Marcione e di Valentino. - Suo martirio. 10
Capo IX. S Igino. - Suo decreto sui patrini nel battesimo. -
Distribuzione dei gradi del clero. - Suo martirio. - Dal 154 al 158. 11
Capo X. S. Pio I. - Questione della Pasqua. - Consacrazione del primo
tempio. - Beni ecclesiastici. - Battesimo degli eretici. 12
Capo XI. Scrive due lettere a S. Giusto vescovo di Vienna. 14
Capo XII. Quarta persecuzione. - Fatiche di S. Pio. Suo martirio. 15
Appendice sopra S. Giustino, martire ed apologista 16
I. Apologisti della fede. 16
II. Educazione di S. Giustino. - Maravigliosa comparsa di un vecchio. -
Suoi sforzi per conoscere la verità. - Sua conversione. 16
III. Pietà e zelo di s. Giustino. - Sua esortazione ai Greci. - Sua
lettera a Diognete. 18
IV. Scrive la sua prima apologia e la presenta all'Imperatore ed al
Senato. 19
V. Maraviglioso accordo della disciplina della Chiesa primitiva con
quella che professa la Chiesa cattolica oggidì. 20
VI. Disputa di S. Giustino con Trifone e col filosofo Crescente; scrive
un'altra apologia che presenta all'Imperatore. 21
VII. S. Giustino è messo in prigione. Suo interrogatorio e suo glorioso
martirio. 22
Silvio Pelico illustra la vita di S. Giustino coi seguenti sublimi
versi degni di un filosofo cristiano. 24
Indice 27
Noi abbiamo già percorso la storia dei papi nello spazio di cent'anni circa. In tutto questo tempo la santa Chiesa fu sempre governata dal Vicario, ossia dal capo stabilito da Gesù Cristo e da lui assistito, il quale in ogni tempo ha combattuto l'errore e promossa la verità. È vero che ad ogni momento levaronsi implacabili nemici del Vangelo ora nella persona degli imperatori, ora in quella degli idolatri, ora degli eretici; ma aftinchè tali combattimenti della Chiesa non facessero vacillare la nostra fede, il Salvatore ci assicurò che tutte le potenze infernali unite insieme non avrebbero giammai prevalso contro alla sua Chiesa: et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. Matt. cap. 16.
Sorgono quistioni? Subito i sacri pastori si radunano col vicario di Gesù C. e le quistioni sono sciolte. Così fu fatto nel Concilio di Gerusalemme. Att. ap. c. 7. {3 [3]}
Nascono forse discordie che minacciano scisma? Si ricorre a Roma, e Roma si pone mediatrice, parla, definisce, e la voce dei vescovo di Roma è ascoltata come quella di Gesù Cristo; così avvenne ai tempi di S. Clemente nello scisma di Corinto.
Forse la spada od il fuoco della persecuzione mette a morte i seguaci di Gesù Cristo? Scorre da tultt parti il sangue cristiano? Sono vani sforzi dell'inferno, Non prævalebunt adversus eam. Il sangue de' martiri è semenza feconda di novelli cristiani; più ne sono uccisi, più grande diventa il loro numero. Ma che avviene della Chiesa quando sono uccisi i suoi capi?
Quando muore oppure è trucidato il sommo Pontefice, ne succede un altro. S. Pietro è condannato a morire in croce, e gli succede S. Lino. Questi viene decapitato, e S. Cleto assume il medesimo governo della Chiesa. Questi pure finisce la vita sotto al taglio di spada crudele, e S. Clemente gli sottentra nel vicariato di Gesù Cristo.
Insomma noi abbiamo già scorsa la vita di sette pontefici che da Gesù Cristo {4 [4]} governarono la Chiesa fino alla morte di Alessandro primo, e finirono tutti col martirio; continueremo ancora e compiremo lo spazio di tre secoli, che si chiamano i tre secoli di persecuzione, ma per la Chiesa secoli di trionfo, e vedremo questi vicarii di Gesù Cristo sempre fermi nel sostenere la fede; zelanti nel propagare il Vangelo; coraggiosi nel dar la vita per la fede. Se noi vogliamo cercare la ragione di questo zelo, di questa fermezza de' Romani pontefici, non possiamo altrimenti trovarla se non nella potenza di Dio, che stabilì la sua Chiesa come colonna immobile, e fondamento di ogni verità, assicurando che egli avrebbe assistito i pastori di essa sino alla fine dei secoli: Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi. Matt. 28.
Egli è Gesù Cristo che ha pregato e prega il suo Eterno Padre, perchè la fede di Pietro non venga meno. Rogavi pro te, Petre, ut non deficiat fides tua. Luc. 22.
Pieni adunque di rispetto verso la Chiesa di Gesù Cristo e verso i supremi di lei pastori, ripigliamo il racconto delle azioni de' pontefici, che colle loro gloriose azioni la illustrarono. {5 [5]}
Il successore di S. Alessandro I. fu S. Sisto, primo di questo nome: esso è l'ottavo nella serie dei Pontefici. Era romano di nascita, suo padre chiamavasi Pastore. Prima che fosse assunto alla Santa Sede, egli aveva già faticato assai pel bene della Chiesa nel pontificato de' suoi antecessori. Nel tempo di sua prigionia Sant'Alessandro non potendo aver relazione coi fedeli e trattare le cose che riguardavano gli urgenti bisogni della Chiesa, stabilì suo vicario S. Sisto, già pubblicamente conosciuto per santità e dottrina. Perciò in tutto il tempo che S. Alessandro fu tenuto in prigione, e nel tempo che rimase vacante la Santa Sede, che fu di tredici, giorni, S. Sisto la faceva da pontefice, finchè fu eletto e riconosciuto per supremo Gerarca della Chiesa. Questo fatto avveniva l'anno di Gesù Cristo 132, quando governava il romano impero Adriano, figliuolo adottivo e successore di Trajano. V. Bar. ad an. 132. Appena egli si trovò sulla Sede Pontificia, s'infervorò maggiormente, e dimenticando perfin se stesso, si fece tutto a tutti per guadagnar tutti a Gesù Cristo. A fine di mantenere l'unità della fede si pose in {6 [6]} relazione con tutti i vescovi della cristianità. Siccome però avveniva che molti eretici vantandosi amici del papa gli attribuivano scritti che non erano suoi, cosi egli stabilì che niun vescovo si allontanasse dalla sua diocesi senza grave necessità, ma che per qualunque motivo si fosse allontanato, ritornando in Diocesi, egli dovesse portar con sè alcune lettere delle formate, da certe formole che in esse solevansi usare, mediante le quali il Romano Pontefice assicurava il gregge di quella Diocesi che il suo vescovo era in buon accordo colla Chiesa Romana, epperciò lo accogliessero senza timore che egli fosse infetto di eresia. Con questo provvedimento era molto facile di scoprire quegli eretici che fìngevano di essere uniti al capo della Chiesa, che era in Roma, e intanto andavano insegnando una dottrina piena di errori.
Capo II. Proibizione di toccare i vasi
sacri. - I corporali di lino. Il Sanctus nella messa. - Il memento dei morti.
Posto cosi un argine all'errore, S. Sisto si occupò indefessamente per rendere {7 [7]} uniformi alcune osservante religiose che si praticavano già nella Chiesa, ma che, in alcuni paesi, per lo più lontani da Roma, andavano soggette a variazioni.
A fine pertanto di conservare non solo l'unita della fede nel santo sacrificio della Messa, ma perfino l'uniformità nel celebrarlo, stabilì che solamente i sacri ministri potessero toccare i vasi sacri. I Semplici laici, uomini o donne, fossero anche monaci o monache, non potessero per niun motivo toccarli, ad eccezione che ne ottenessero speciale permesso. La qual cosa dimostra la grande venerazione che si deve per le cose del Signore e per quei sacri oggetti che al divin culto sono destinati.
Il medesimo pontefice decretò che i corporali, cioè quelle piccole tovaglie, sopra cui si depone l'ostia ed il calice nella santa messa, fossero di puro e bianco lino per significare la purezza d'anima che devono avere quelli che si accostano a questa mensa degli angeli. Ordinò pure che nel santo sacrifizio della messa non solamente il sacerdote, ma tutto il popolo cantasse o almeno recitasse il trisagio, ossia l'inno {8 [8]} Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua, hosanna in excelsis: benedictus gui venit in nomine Domini, hosanna in excelsis. Le quali parole si traducono così: Santo, santo, santo è il Signore Iddio degli eserciti. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria, sii lodalo nell'alto de' cieli. Benedetto il nostro Salvatore Gesù Cristo, che in nome del Signore viene per essere sacrificato sui nostri altari, sia lode a Dio nell'alto de' cieli. V. Baronio in s. Sisto.
Al medesimo pontefice è attribuito il Memento de' morti nel sacrificio della S. Messa. Le parole sono espresse così: memento, cioè ricordatevi, o Signore dei vostri servi che ci hanno preceduto nel professare la vera fede, e che ora riposano nella pace dei giusti. Date ad essi, o Signore, e a tutti quelli che riposano nella grazia del nostro Salvatore Gesù C, il luogo di refrigerio, di luce, di pace, di riposo eterno, siccome di cuore vi preghiamo pei meriti di nostro Signore Gesù Cristo. V. Baronio luogo cit.
Queste parole dimostrano quanto sia antica nella Chiesa cattolica la credenza del purgatorio e dei suffragi pei defunti. {9 [9]} Non già che questo dogma sia stato ordinato da S. Sisto; egli stabilì soltanto le parole colle quali dovevasi fare commemorazione de' fedeli defunti nel santo sacrifizio della messa.
L'esistenza del purgatorio e il suffragio pei defunti sono verità di fede più volte definite dalla Chiesa cattolica e chiaramente rivelate nella Sacra Bibbia. Nel libro de' Maccabei leggiamo, che Giuda fece una colletta di oltre venti mila lire da portarsi in Gerusalemme e farne sacrifìcio nel tempio in suffragio delle anime dei soldati morti in battaglia. Il sacro testo espone il fatto e poi conchiude cosi: Santo adunque e salutare è il pensiero di pregare pei defunti affinchè siano sciolti-dalle pene a cui sono condannati pei loro peccati. Molte cose sull'esistenza del purgatorio e sui suffragi dei fedeli defunti, ricavate dal Santo Vangelo, dalle lettere di S. Paolo, dai Santi Padri e dai concilii, sono state dette l'anno scorso; come ognuno può vedere nel fascicolo intitolato: Due conferenze tra un prete ed un ministro protestante sul purgatorio. {10 [10]}
Capo III. Breve digressione sogli
imperatori Adriano ed Antonino. - Cristiani martirizzati. - Martirio di S.
Sisto. Anno di Cristo 142.
Adriano governò il Romano impero ventun anno. Sebbene la storia lodi la sua giustizia, tuttavia i cristiani non volendo adorare i suoi idoli, furono barbaramente perseguitati. Due sommi pontefici riportarono la palma del martirio mentre regnava questo imperatore, s. Evaristo nel 121, e S. Alessandro nel 132. Sul finir del suo regno, quasi per riposarsi delle fatiche, si ritirò nella sua villeggiatura di Tivoli, che è una deliziosa città, distante circa quindici miglia da Roma. La sete di quel misero imperatore pel sangue cristiano cangiò la sua vileggiatura in un macello di cristiani. Fra gli altri è celebre il martirio di S. Sinforosa con sette suoi figliuoli. In occasione che trattavasi di fare una gran festa, i sacerdoti degli idoli si recarono dall'imperatore dicendo, che gli Dei non gli potevano essere propizi fino a che {11 [11]} Sinforosa e i suoi figli avessero loro fatto sacrifizio.
L'imperatore la mandò ad arrestare, e co' suoi figliuoli la fece venire alla sua presenza con animo di farla sacrificare agli idoli. Ella con coraggio rispose: sappi, o principe, che appunto per non sacrificare agli dei, mio marito Getulio, Amanzio suo fratello, ambidue tuoi tribuni, incontrarono la morte tra i più spietati tormenti. Questi tormenti agli occhi del mondo sono un obbrobrio, ma loro hanno procurato in cielo una felicità che non avrà più fine. Scegli, ripigliò bruscamente l'imperatore, o di sacrificare co' tuoi figli agli dei dell' impero, o di essere voi tutti sacrificati. La mia scelta è già fatta, conchiude la madre intrepida, io non desidero più altro che raggiungere presto il mio sposo nella patria dei beati.
Montato in collera Adriano condannò Sinforosa co' suoi sette figliuoli a morte spietata. Così la madre e dopo di lei i sette suoi figli, lasciando la vita ne' tormenti, volarono a godere la beata eternità.
Ma non andò molto che la mano di Dio si aggravò sopra Adriano. Dopo di {12 [12]} aver sofferto in gran parte i tormenti fatti patire ai cristiani, finì col cagionarsi volontariamente la morte l'anno 138, ventesimo primo del suo regno.
A lui succedette suo figliuolo adottivo, di nome Antonino, le cui buone qualità gli hanno dato il soprannome di Pio. Ma anch'esso si lasciò allucinare dal folle amore verso gli dei dell'impero e pretese di costringere i cristiani ad adorarli, e per questa ragione si riaccese la persecuzione contro ai cristiani. Fra quelli che furono sacrificati in questo momento di furore dobbiamo annoverare il sommo pontefice s. Sisto. Egli era universalmente ammirato per la sua virtù, pe' suoi miracoli, per la sua grande carità verso i poveri, e per ciò da tutti conosciuto per fervoroso capo dei cristiani. Come tale egli fu preso, condotto in prigione ed ebbe tronca la testa per la fede il 6 aprile l'anno di Gesù Cristo 142, dopo aver governata la Chiesa quasi undici anni.
Durante il suo pontificato s. Sisto tenne tre ordinazioni, in cui consacrò tre diaconi, undici sacerdoti e quattro vescovi. Il suo corpo fu sepolto vicino a quello di S. Pietro in Vaticano. - V. Boll. die 6 apr. {13 [13]}
Mentre governava la Chiesa s. Sisto I molti ebrei tentarono di riunirsi nella loro città prediletta di Gerusalemme. Ma lo sdegno del cielo pesava su quegli infelici; essi vennero interamente dispersi, cavate fino le fondamenta dell'antica loro città, che l'imperatore Adriano fece riedificare con altra forma, altre mura, altro recinto, e fin con altro nome, ordinando che fosse appellata Elia da Elio che era il cognome di Adriano. V. Ciacomio in s. Sisto.
Capo IV. Traslazione del corpo di S.
Sisto da Roma nella città di Alatri: miracoli e grazie ottenute ad
intercessione di lui.
Il corpo di s. Sisto fu sepolto io Vaticano vicino ai corpo di s. Pietro. Questo santo fu tenuto in grande venerazione in tutta l'antichità e di lui si fa commemorazione tutti i giorni nel santo sacrifizio della messa. Iddio volle ricompensare le fatiche di questo suo servo non solo colla gloria del paradiso; ma eziandio col renderlo glorioso sopra la terra operando {14 [14]} molti miracoli per mezzo delle sue sante reliquie, siccome sono per raccontare.
Il sommo pontefice Pasquale II (che fu papa dal 1099 al 1118) fece costruire una cappella con un maestoso altare a s. Sisto nel tempio di s. Pietro. Ma l'anno 1132 il corpo di questo pontefice fu donato agli abitanti di Alatri. Questa translazione essendo accompagnata da molti curiosi avvenimenti stimo bene di esporne la storia, quale fu scritta dal vescovo di quella città, e quale conservasi originale manoscritta nella biblioteca vaticana. V.Boll. tom. 1. apr. p. 906, 7, 8. Ciacomio luogo citato.
Ecco le parole di quella relazione tradotta in nostra italiana favella.
«Per volere di Dio onnipotente, senza il cui comando non foglia alcuna, non un passero cade a terra, una pestilenza fatale assalì i popoli d'Alife, città del regno di Napoli vicino a Benevento. I cittadini scorgendo inutile ogni consiglio dei medici, ogni arte umana, ricorsero all'aiuto divino, il quale, ci assicura Iddio, non manca mai a chi lo invoca.
Radunatisi pertanto quei cittadini stabilirono di mandare senza indugio un'ambasciata {15 [15]} al papa per supplicarlo caldamente a voler venire in loro soccorso inviando le reliquie di qualche santo la cui protezione presso Dio valesse a liberarli dal morbo micidiale. A questa notizia il pio pontefice sentissi tutto commosso, e tenuto sopra di ciò consiglio co' cardinali accordò benignamente il corpo di s. Sisto I papa e martire.»
È bene di notare qui di passaggio come il papa era incerto sulla scelta del corpo da concedere agli Alifani. Ma essendo poco prima caduta una trave dal tempio di s. Pietro aveva battuto di punta sull'altare dedicato a s. Sisto e lo aveva spaccato lasciando scoperta la cassa in cui erano chiuse le ossa del santo martire. La cassa fu portata in sacristia. Riferita tal cosa al papa l'ebbe come indizio celeste in favore degli Alifani, perciò concedette loro il corpo di s. Sisto.
«Gli ambasciadori, continua la relazione, ricevuto il santo corpo colla massima riverenza, lo riposero in un'altra cassetta e lo collocarono sopra un giumento; quindi più contenti che se avessero guadagnato il più prezioso tesoro del mondo ripigliarono il cammino alla volta {16 [16]} della loro patria. Avevano percorsa la metà del cammino, quando si trovarono ad un trivio, cioè ad un punto di strada ove si presentavano tre vie al viaggiatore. La mula che portava il prefato tesoro, spinta certamente dal voler di Dio, lascia la strada maestra, e ne prende un'altra rapidissima la quale per alti dirupi con breve cammino conduceva alla città di Alatri posta sopra di un monte a poca disianza da quel trivio. I condottieri vedendo quello scherzo tentarono di opporsi al giumento e si sforzarono di rimetterlo sulla strada di prima adoperando minacce e percosse. Ma vedendo che per niun conto potevasi smovere il giumento dall'intrapreso cammino, maravigliati, turbati, ed incerti del partito a cui appigliarsi, lasciano che il giumento se ne vada liberamente dove vuole, perchè, dicevano, in questo fatto è forza riconoscere il voler del cielo. Allora l'animale, senza che uomo lo guidasse, portando tuttora l'urna preziosa sul dorso, corre diffilato fino ad un luogo che dicesi Volubro, dove eravi una peschiera per abbeverare il bestiame assai vicina alla città. Colà giunto arresta il passo e si rende immobile qua {17 [17]} colonna. Le minacce, gli eccitamenti, le percosse non valsero a fargli muovere un piede. Divulgatasi tal notizia, tosto il vescovo, il clero, il popolo di Alatri, che era pure orribilmente travagliato dalla peste, andarono processionalmente incontro al sacro deposito e con esso condussero il giumento in città. Qui nacque una nobil gara tra gli stessi cittadini. Alcuni volevano che quelle sacre reliquie fossero riposte nel centro della città, altri che fossero portate in un luogo appartato e più alto dove era la chiesa cattedrale. Dalle parole vennero ai fatti, e già davano di piglio alle armi. Finalmente per terminare ogni contesa convennero di lasciar libero il giumento e ciascuno dovesse acquetarsi e riconoscere la volontà di Dio dall'istinto di quello in qualsiasi luogo avesse portato il sacro deposito. Ma oh maravigliosa potenza di Dio! oh tremenda potenza! oh grazia ineffabile! Il giumento abbandonato a se stesso, a corso accelerato va alla cattedrale. Là giunto si ferma, piega le ginocchia, nè più si muove finchè il vescovo ed il clero, in presenza d'immenso popolo, prendono le sacre reliquie, come offerte da Dio {18 [18]} medesimo, e col più profondo rispetto le portano entro la chiesa. In pochi giorni si costruisce un magnifico altare e sopra quello sono riposte le ossa di s. Sisto I papa e martire. Dopo il prodigioso arrivo delle sante reliquie disparve immediatamente l'insalubrità dell'aria, e quelli che erano sani sono preservati da ogni malore, e quelli che ne erano già infetti acquistano la primiera sanita.
Ognuno può immaginarsi qual dolore abbiano provato gli incaricati di Alife quando si videro perduto quel tesoro prezioso che loro aveva costato tante fatiche, e da cui speravano la salvezza dei loro concittadini tuttora travagliati da micidiale malore. A forza di preghiere ottennero dagli Alatrini un dito del santo martire, che tosto con pienezza di giubilo portarono alla loro città. Pei meriti di questo santo martire l'epidemia tosto cessò anche in Alife; dimodochè perfino coloro che erano già infetti dal morbo ne furono risanati.
Si rallegri adunque ed esulti nel Signore la città di Alatri, e rendano le dovute grazie all'Altissimo, che si degnò di arricchirci di tale e così prezioso tesoro {19 [19]} col donarci così potente patrono; pei cui meriti e per la cui intercessione la nostra città va esente dalle sciagure e prospera nel bene, mercè 'la grazia di Colui che col Padre e collo Spirito Santo vive e regna Dio per tutti i secoli. Così sia.»
Fin qui la relazione fatta dal vescovo della città di Alatri. Così s. Sisto I è patrono della città di Alatri, che è città degli stati pontificii, e della citta di Alatri che appartiene al ducato di Benevento. In amendue queste città si fa ogni anno una festa solenne in memoria di tale gloriosa translazione che per quei cittadini fu sorgente di benedizioni tanto spirituali quanto temporali.
Il corpo di s. Sisto stette nella chiesa cattedrale di Alatri più secoli, e attese le grazie che a sua intercessione si ottenevano, a lui ricorrevasi da tutte parli.
Nell'anno 1584 mentre governava la santa romana chiesa Gregorio decimoterzo, per ordine del papa medesimo fu fatta ricognizione di quelle sacre reliquie. Notate bene che quando si fanno tali ricognizioni vi suole concorrere gran folla di popolo, coi vescovo ed il clero, si {20 [20]} cantano i divini uffizi, e si compiono molte religiose cerimonie delle quali cose si fa un' esalta relazione. Adempiute pertanto le formalità che in simili congiunture sono dalla Chiesa prescritte, si cercarono le sante reliquie del pontefice e furono trovate nel medesimo sito dove quattrocento e cinquant'anni prima erano state riposte. Piacque alla divina bontà, sono parole della relazione del vescovo, che da quell’ urna uscisse un soavissimo odore, che ci riempì tutti di maraviglia.
Capo V. Alcune parole sui fatti
antecedenti.
Chiunque sia alquanto istrutto nelle cose sacre ed ecclesiastiche non si maraviglierà dei fatti mentovati, poichè gli autori che ce li tramandarono sono degnissimi di fede, e per lo più contemporanei. In quanto alla stranezza dei fatti osserviamo che ce ne sono moltissimi di simil genere. Noi in Torino abbiamo il miracolo del Santissimo Sacramento a questo somigliantissimo, che avvenne {21 [21]} l'anno 1453 in presenza di tutti i torinesi. Forse quel Dio che fece parlare l'asina di Balaam, che mandò i corvi a portar pane ad Elia, che mandò due orsi a sbranare quaranta ragazzi che avevano deriso il profeta Eliseo; quel Dio, dico, che operò tutte queste maraviglie nei tempi antichi, non potrà più rinnovarle qualora ciò torni a sua gloria e a vantaggio delle anime? Niun dubbio si può muovere sopra i fatti mentovati, perchè sono registrati nei libri santi, quindi neppure devesi muovere dubbio intorno a quanto raccontiamo di s. Sisto, perciocchè tali fatti avvennero in faccia ad una immensa moltitudine di popolo, scritti da autori contemporanei, ricordati dalla chiesa con ispeciali solennità, e passati sotto ad una critica la più severa. V. Boll. e Ciacomio luogo citato.
Eccitiamoci piuttosto a grande venerazione verso le reliquie di quegli eroi della fede che combatterono per la causa del Signore in vita, ed ora ci sono protettori presso Dio in cielo. È vero che i nemici della fede per raffreddare i cattolici nel culto verso i Santi vanno dicendo che adorare le reliquie è idolatria. {22 [22]}
Ma noi rispondiamo prontamente che noi cattolici non adoriamo le reliquie dei santi, ma le veneriamo. Le veneriamo, come gli Ebrei veneravano l'Arca del Signore nella legge antica. Le veneriamo, come la donna gravemente inferma, di cui parla il Vangelo, venerava l'orlo della veste del Salvatore, che la guarì da incurabile malattia. Le veneriamo come era venerata 1' ombra di s. Pietro che risanava tutti gli infermi sopra cui fosse fatta passare. Le veneriamo come erano venerati gli abiti di s. Paolo che guarivano ogni genere di malattia, purchè gli infermi avessero potuto essere da quelli toccati.
Ogni qual volta pertanto ci accadrà di veder reliquie esposte sui nostri altari o di poterle baciare, facciamolo con rispetto e con divozione. E se ci troveremo in qualche bisogno spirituale ed anche temporale meniamoci prostrati presso le ceneri di que' santi gloriosi, i quali se furono in vita pieni di zelo per far del bene alla misera umanità, lo sono assai più adesso che la loro carità è perfetta in cielo, e che sono cosi potenti presso Dio. Invochiamoli, ma invochiamoli con {23 [23]} fede; e allora le loro reliquie saranno anche per noi sorgenti di grazie e di benedizioni.
Capo VI. Gli anacoreti del Carmelo. - S.
Telesforo nono Pontefice. - La quaresima e l'astinenza dalle carni.
Prima di esporvi le azioni di S. Telesforo voglio parlarvi di un genere di vita a cui appartenne questo pontefice prima della sua elevazione al pontificato. Avrete già udito a parlare di monaci, eremiti, anacoreti, cenobiti, solitari, tutti nomi che vengono a significare un virtuoso modo di vivere lontano dai pericoli del mondo. Questo genere di vita è molto antico, e sappiamo dalla storia che i profeti Elia ed Eliseo si erano ritirati sopra un alto monte della Palestina detto Carmelo, dove furono seguiti da molti altri. {24 [24]}
Per la vita santa che tenevano e pei doni di cui erano da Dio arricchiti, i capi furono detti profeti, e i loro dipendenti figliuoli dei profeti; perchè il superiore era un vero padre spirituale che si adoperava pel loro bene spirituale e temporale, e specialmente per condurli a Dio. S. Giovanni Battista fu un abitatore del monte Carmelo ed ebbe egli pure molti discepoli che divennero poi seguaci di Gesù Cristo.
Dopo la venuta dello Spirito Santo molti fervorosi fedeli si ritirarono pure sul monte Carmelo, e cominciarono ad essere chiamati Carmelitani ovvero monaci del Carmelo. La storia ci assicura che costoro erano i medesimi discepoli degli apostoli, i quali di quando in quando lasciavano la loro solitudine e percorrevano la Palestina, la Samaria e la Galilea predicando la dottrina di Gesù Cristo. Quei monaci rapiti dalle maraviglie che udivano raccontare della Beata Vergine, e mossi eziandio da quanto avevano eglino {25 [25]} stessi udito e veduto, le innalzarono una chiesa sopra quel monte in tempo che la Gran Madre di Dio viveva ancora fra i mortali, verso l'anno 38 di Gesù Cristo. (V. Boll. 5 genn.)
Si crede comunemente che questa sia la più antica chiesa della cristianità fuori di Gerusalemme. L'oratorio, o la chiesa del Carmelo divenne presto un santuario, ove accorrevano cristiani da tutte parti; e nella Chiesa cattolica si ricorda questo glorioso avvenimento nella solennità che si celebra il giorno 16 di luglio.
Degli anacoreti del Carmelo fu S. Telesforo celebre per dottrina e santità. Dopo di avere illustrato il suo ordine colla pratica delle più sublimi virtù egli venne a Roma. Il suo zelo, la sua scienza e pietà lo resero degno di essere elevato alla dignità di Vicario di Gesù Cristo. Dopo S. Sisto egli è il nono nella serie dei papi; la sua elezione avvenne il giorno otto di aprile dell' anno 142 mentre governava il romano impero Antonino Pio.
Siccome in quei tempi la Chiesa godette qualche intervallo di pace, così il santo Pontefice impiegò tutta la sua vigilanza {26 [26]} a propagare il Vangelo, e a stabilire cose che potessero rendere stabile ed uniforme la disciplina della Chiesa. Egli radunò un Concilio di vescovi, in cui stabilì che tutti gli ecclesiastici, nelle sette intere settimane che precedono le solennità pasquali, si astenessero dalle carni e dai passatempi. Ecco le parole del Pontefice: «Per la qual cosa, o fratelli, sappiate che da noi e da tutti i vescovi in questa santa ed apostolica sede radunati, fu decretato che per le sette settimane che precedono la Pasqua del Signore, tutti i sacri ministri si astengano dal cibarsi di carne, perchè siccome la vita dei sacerdoti deve essere diversa da quella dei laici, così deve esservi differenza nel digiuno. E poichè quelli sono più applicati alle cose del culto divino, e si dicono i servi di nostro Signore Gesù Cristo, così devono distinguersi nei costumi, nelle opere e nella santità. Per queste settimane adunque, tutti i sacri ministri si astengano dalle carni e dai passatempi; e si occupino giorno e notte in preghiere, penitenze e nel cantar lodi al Signore.» V. P. Segero, vita di S. Telesforo. Inoltre il digiuno quaresimale, che era {27 [27]} stato instituito da S. Pietro in memoria del digiuno di nostro Signore Gesù Cristo, obbligava tutti i cristiani laici e sacerdoti. Ma tal cosa osservandosi solamente per tradizione, senza essere scritta, ne avveniva che o per le consuetudini che si andavano introducendo nelle varie chiese, o pel furore delle persecuzioni che impedivano i fedeli di recarsi alle istruzioni, ne avveniva, dico, che tal precetto in molti luoghi era trascurato, in altri diversamente osservato. A tale proposito S. Ignazio discepolo degli Apostoli nella lettera ai Filippesi scrive cosi: «Fratelli, non vogliate trascurare il digiuno quaresimale, perciocchè esso ci rammenta quello che ha fatto il Signore.» V. Cotelerio, Patres apostolici.
Pertanto S. Telesforo e coll'esempio e cogli scritti confermò e decretò che i laici fossero obbligati al digiuno di quaranta giorni; i sacerdoti poi fossero obbligati al digiuno di sette settimane che formano quarantanove giorni. V. Segero, luogo citato. {28 [28]}
Capo VII. Le tre messe di Natale. - Il
gloria in excelsis Deo. - Il Vangelo
nella Santa Messa. - Altre istituzioni di S. Telesforo.
Siccome il santo Sacrificio della Messa e l'atto più solenne di nostra santa cattolica religione, cosi i pontefici si diedero in ogni tempo la massima sollecitudine sia per eccitare i fedeli a volervi assistere, sia per istabilire quelle cose che possono tornare ad onore e gloria di questo augusto mistero. S. Alessandro I aveva ordinato che ogni sacerdote non potesse celebrare più di una messa al giorno; s. Telesforo fece un'eccezione per la grande solennità del Natale di G. C., e decretò che in tal giorno ogni sacerdote potesse celebrarne tre; una sulla mezzanotte in memoria della nascita di Gesù Cristo in Betlemme; l'altra sul far dell' aurora, quando i pastori si recarono alla capanna per adorarlo; la terza fosse celebrata all'ora terza, cioè circa le nove del mattino, quando cominciò a risplendere in piena luce il giorno della nostra redenzione. {29 [29]}
Altra ragione fa di alludere alla triplice nascita del Salvatore; 1. alla nascita eterna dal padre; 2. alla nascita temporale dalla Beatissima Vergine; 3. alla nascita spirituale, quando colla sua santa grazia va nel cuore dei fedeli. Alcuni aggiungono ancora altri significati e dicono che colle tre messe si viene a significare che Gesù Cristo è nato per quelli che vissero nella legge antica, per quelli che vivevano al tempo della sua nascita, e per quelli che nei secoli avvenire avrebbero creduto al Vangelo. V. Burio, in vita s. Teles.
Ordinò pure che nel celebrare la santa Messa venisse recitato l'inno angelico: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonæ voluntatis, cioè: Gloria a Dio nell'alto de' cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà. Questo inno dicesi angelico perche fu cantato dagli angeli quando annunziarono ai pastori la nascita del Salvatore in Betlemme.
Lo stesso sommo pontefice confermò che si leggesse un passo del Vangelo nella santa Messa, e che, ad eccezione della notte di Natale, non si celebrassero messe fino all'ora terza, perchè, egli diceva, {30 [30]} a quest'ora medesima Gesù Cristo fu confitto in croce, e lo Spirito Santo discese sopra gli Apostoli. Il che si deve intendere delle messe conventuali. Oggidì ancora in memoria di questa disposizione di S. Telesforo la nostra messa solenne, che comunemente si chiama messa grande, non suole celebrarsi prima delle ore nove del mattino. Stabili pure molte cose utili a tutti i fedeli cristiani, e fra le altre cose raccomanda caldamente di guardarsi bene dal calunniare i sacri ministri. Quelli che fanno un tal mestiere, egli dice, sono membri del demonio, il quale corre qua e là cercando chi possa uccidere, chi possa separare, chi possa divorare. Per la qual cosa, conchiude il pontefice, siamo vigilanti, e muniamoci delle armi celesti, che sono le opere di fede, affinchè non restiamo colti dai lacci di lui, e veniamo da lui strascinati nella fossa. V.Boll. v. jan.
Capo VIII. S. Telesforo manda
predicatori a portare il Vangelo in varii paesi; resiste all'eresia di Marcione
e di Valentino. - Suo martirio.
Non solamente S. Telesforo confermava la dottrina della Chiesa colle parole e {31 [31]} cogli scritti, ma predicava indefesso la parola di Dio, e dove non poteva andare in persona mandava sacri ministri. A tale fine egli scelse tra i cristiani di Roma trentatre giovani, secondo il numero degli anni di Gesù Cristo, che fossero di Una condotta veramente esemplare e da tutti conosciuta, e dopo di avere loro conferito i sacri ordini li mandò, come aveva fatto il Divin Maestro, a predicare il Vangelo. Per ordinare questi ministri, egli tenne quattro volte la sacra ordinazione, in cui creò tredici vescovi, dodici preti, otto diaconi. I vescovi furono mandati al governo di diverse diocesi nelle provincie, ove erane bisogno; dei preti e dei diaconi si servi pel sacro ministero in Roma e nelle città vicine. Per lo più i romani pontefici ordinavano solamente quei sacri ministri di cui avevano bisogno nella città di Roma; negli altri paesi ciascun vescovo, come si fa ancora oggidì, secondo il bisogno dava la sacra ordinazione a coloro che si giudicavano esservi da Dio chiamati. Ma era uso della Chiesa romana che il papa consacrasse quei vescovi che dovevano mandarsi nei paesi lontani. Oggidì quando trattasi della creazione di un {32 [32]} vescovo, esso va a Roma per ricevere la consacrazione; oppure il papa delega alcuni vescovi a compiere questa sacra funzione nel paese di colui che deve essere ordinato. Dalle quali cose apparisce che i romani pontefici non solamente provvedevano ai bisogni della chiesa di Roma, ma delle chiese di tutto il mondo. V. Lib. Pont. in s. Telesforo.
L'anno quarto del pontificato di S. Telesforo (anno 146) si levò a turbare la Chiesa un eretico detto Valentino, che insegnava molte nefandità contro Gesù Cristo e contro alla santissima sua madre; fra le molte empietà predicava che il Salvalore era stato mandato giù dal cielo in corpo ed anima, che perciò non aveva preso umana carne da Maria Vergine.
L'anno quinto del medesimo pontificato (147) venne a Roma un altro eretico (come assicura Tertulliano) di nome Marcione, che oltre a spacciar errori in fatto di religione, permetteva a' suoi seguaci cose le più nefande e turpi. In quei gravi bisogni molti santi personaggi vennero a Roma per aiutare il papa, e fra gli altri S. Policarpo. Questa colonna della Chiesa incontrò un giorno Marcione, il {33 [33]} quale, non essendo da lui conosciuto, gli indirizzò queste parole: cognoscis nos? Ci conosci? Sì, rispose S. Policarpo, io conosco Marcione primogenito di Satanasso. Ed era proprio il primogenito di satanasso, giacchè il demonio medesimo non poteva suggerire maggiori nefandità di quelle che aveva immaginato Marcione.
Contro a quelle eresie si levò S. Telesforo, ed unendosi ad altri zelanti sacri ministri, condannò e scomunicò gli eretici e le loro eresie; quindi cogli scrìtti, colla predicazione e coll'esempio fece trionfare la cattolica dottrina, manifestando a tutto il mondo che la Chiesa di Gesù Cristo, di cui egli era vicario, era edificata sopra una ferma pietra, e che le porte dell'inferno non potevano prevalere contro di essa. Matt. cap. 16.
Questo infaticabile pontefice, dopo aver ornata la Chiesa con utilissime instituzioni, dopo aver propagato e conservato il Vangelo in molti paesi, dopo aver combattuta l'eresia cogli scritti e colla predicazione, finalmente coronò il suo pontificato con un glorioso martirio. Egli fu assalito da una turba di pagani tumultuanti, eccitati dai sacerdoti degli idoli. {34 [34]} Costoro lo presero, lo legarono, lo condussero in prigione, e dopo di avergli fatti tollerare molti patimenti, gli troncarono la testa il giorno quinto di gennaio 154. Egli aveva governato la Chiesa undici anni, nove mesi, due giorni. Il martirologio romano parlando di S. Telesforo al 5 di gennaio si esprime così: in Roma occorre il transito di S. Telesforo papa, il quale sotto all'impero di Antonino Pio, dopo molte fatiche sostenute nel confessar Gesù Cristo, conseguì un illustre martirio. S. Ireneo che viveva quasi ai tempi di S. Telesforo, parlando di questo pontefice conchiude cosi: Egli (Telesforo) ottenne, un gloriosissimo martirio. I fedeli di Roma come videro estinto il corpo del loro padre spirituale lasciarono che gli idolatri si allontanassero, di poi con glande venerazione lo seppellirono sul monte Vaticano vicino al corpo di S. Pietro.
Capo IX. S Igino. - Suo decreto sui
patrini nel battesimo. - Distribuzione dei gradi del clero. - Suo martirio. - Dal
154 al 158.
L'anno di Gesù Cristo 143, 16° del regno di Antonino Pio, era elevato sulla sede {35 [35]} pontificia S. Igino, che è il decimo vicario di Gesù Cristo sopra la terra. Egli era greco, nato in Atene, che è quella celebre città ove S. Paolo aveva predicato il Vangelo. La storia ci dice che era filosofo; la qual cosa vuol dire che egli era nato Gentile, e si era applicato molto alla scienza profana. Ma dopo che si convertì al Vangelo ei si pose a studiare i libri santi e divenne un dotto e fervoroso predicatore, un intrepido confessore della fede, sì che per la profonda scienza e per la grande virtù meritò di succedere a S. Telesforo nel pontificato. V. Bar. ad an. 154.
La sua vigilanza si estendeva a tutti i bisogni della Chiesa; ma specialmente a combattere l'eresia. S. Ireneo che viveva ai medesimi tempi, dice quanto segue di questo Pontefice: «Ai tempi di Igino venne a Roma l'eretico Cerdone per diffondervi i suoi errori. Confutato e convinto di errore dal santo pontefice, Cerdone finse di ravvedersi; venne in chiesa, fece la sua confessione, ma egli era uno scellerato; perciocchè un giorno faceva la confessione, l' altro si metteva ad insegnare l'eresia; rimproverato tornava a confessarsi {36 [36]} e per non essere da altri inquietato studiava il tempo e il luogo segreto ove radunare i suoi seguaci. Il santo pontefice scorgendo inutile ogni sforzo, anzi essere dannosissimo che quell'uomo partecipasse alla comunione dei cristiani lo scomunicò, cioè troncò con lui ogni relazione e proibì a' fedeli di trattare con lui, e di permettere che seco loro venisse alla chiesa. Irenæus lib. 3. c. 4.
La qual cosa era stata comandata dal Salvatore quando disse, che occorrendoci di incontrare tali uomini per la strada, nemmeno restituissimo loro il saluto: Nec ave ei dixeritis. Assicurato che il lupo rapace non avrebbe divorato le pecorelle di G. C. s. Igino rivolse le sue sollecitudini a consolidare la disciplina della Chiesa.
Era già in uso nella Chiesa fin dal tempo degli Apostoli, che quando si amministrava il sacramento del battesimo vi fosse chi presentasse il battezzando al sacro ministro prima che ricevesse tal sacramento. Costui dicevasi susceptor ovvero ricevitore, che noi diciamo padrino. Esso rappresentava il battezzando, epperciò nelle cerimonie del battesimo, rispondeva a quanto avrebbe dovuto rispondere il battettando {37 [37]} medesimo. Era poi dovere del padrino e della madrina di aver cura dei battezzati e considerarli come loro figliuoli spirituali; di maniera che essi dovevano istruirli se erano ignoranti, e se fossero morti i loro genitori, eglino dovevano averne tutta quella cura che un buon padre deve avere pel bene spirituale ed anche temporale de' propri figliuoli.
Tra le cose che meritano di essere notate nel decreto di s. Igino sui padrini avvi quanto segue: «Siccome i fanciulli contraggono il peccato originale dalla colpa altrui, così la divina misericordia dispose che siano restituiti alla grazia di Dio per la fede e confessione altrui, cioè, dei padrini. V. Burio. And. Vittorelli in s. Igino.
Il medesimo s. Igino riordinò il clero, vale a dire, siccome s. Evaristo divise i titoli ad alcuni sacerdoti determinati, affinchè ciascuno avesse cura della parocchia a lui affidata; così s. Igino riordinò il clero e distinse i gradi in maniera che altri fossero superiori, altri inferiori; cosicchè si dicevano presbiteri o preti, diaconi, suddiaconi secondo l'ordine di cui erano {38 [38]} insigniti, e secondo l'autorità che loro era compartita pel sacro ministero. V. Burio come sopra.
Il medesimo s. Igino stabilì molte regole intorno alla formazione delle chiese; cioè sui ripartimenti da farsi per collocare l'altare, il coro, il presbitero, il battistero e simili. V. Aldovino in s. Igino.
Sono pure attribuite a questo pontefice alcune lettere che hanno per iscopo di sostenere le verità della fede. Finalmente s. Igino dopo aver governata la santa sede quattro anni, tre mesi e otto giorni fu coronato del martirio l'anno 158 il giorno undici di gennaio. Appena spirato i fedeli raccolsero il suo cadavere e lo portarono ad essere seppellito sul monte Vaticano vicino al corpo di s. Pietro.
L'anno di Gesù Cristo 158 il giorno 13 di gennaio s. Pio I succedeva a s. Igino nella sede pontificia. Esso è l' undecimo {39 [39]} nella serie dei papi. Era nato in Aquileia città non molto distante da Venezia. Suo padre chiamavasi Rufino. Dalla, più tenera età palesò molta bontà di vita e grande altitudine per le scienze; e suo padre lo mandò a Roma affinchè si perfezionasse nelle scienze e nella religione. Per meglio assicurarsi di poter evitare i pericoli che pur troppo s'incontrano nel secolo, egli si aggregò ad una società di ecclesiastici che dalle regole osservate nella loro comunità furono detti canonici regolari. Il progresso che Pio ivi fece nella scienza è nella virtù lo fecero presto conoscere ai cristiani di Roma e allo stesso sommo pontefice. Si crede che s. Igino lo abbia egli stesso consacrato vescovo e divisa in certa maniera con esso lui la sollecitudine pastorale di tutta la chiesa. Quando poi divenne pastore universale s. Pio non pensò più ad altro che a stabilire e consolidare la disciplina della chiesa e combattere gli eretici. Prima materia del suo zelo fu la questione insorta intorno alla celebrazione della Pasqua.
Là Pasqua fu sempre celebrata dagli Ebrei con grande solennità nel giorno quattordici della luna di marzo, e la {40 [40]} celebravano in memoria della liberazione prodigiosa dalla schiavitù di Egitto. Gli apostoli istruiti da Gesù Cristo stabilirono la Pasqua dei cristiani nella prima domenica che segue la luna piena di marzo in memoria della risurrezione del Divin Salvatore.
Ma gli Ebrei convertiti alla fede avevano una segreta inclinazione alla pratica delle cerimonie giudaiche e perciò molti celebravano la Pasqua nel dì quattordicesimo della luna di marzo. La qual cosa chiamavasi giudaizzare, cioè seguitare le cerimonie de' giudei, le quali più non erano in obbligo presso i cristiani. S. Pio desideroso di conservare l'unità della fede e della disciplina, e quel che è più conservare invariabile quanto gli apostoli avevano instituito, convocò a Roma un concilio composto dei preti della chiesa romana che ora si chiamano cardinali; ad essi unironsi parecchi altri vescovi. Dopo di avere sentito il parere del concilio, il santo pontefice decretò che tutte le chiese del mondo si dovessero uniformare alla tradizione apostolica osservata in ogni tempo dalla chiesa romana sopra la celebrazione della Pasqua per non concorrere cogli {41 [41]} Ebrei nel celebrare questa solennità. Tal decreto venne di poi confermato da altri pontefici e da molti concilii tra i quali il Niceno 1.° V. Ciacomio in s. Pio I.
Di tale instituzione della Pasqua parlano antichissimi scrittori delle cose ecclesiastiche. S. Proterio vescovo di Alessandria in una lettera scritta al pontefice s. Leone Magno parla della Pasqua celebrata in questo giorno secondo il precetto degli Apostoli. S. Ignazio poi, vescovo di Antiochia e discepolo degli Apostoli, in una lettera scritta ai Magnesii, popoli dell'Asia, loro ricorda il precetto apostolico di celebrare la Pasqua in domenica. In un' altra lettera scritta ai cristiani di Filippi raccomanda la stessa dottrina quindi conchiude così: Se qualcheduno celebra la Pasqua co' Giudei, o riceve i simboli della loro solennità, egli partecipa alla colpa di quelli che uccisero il Signore e i suoi Apostoli. V. Bar. ad an. 159.
Il sommo pontefice fu eziandio spinto a tal decreto della Pasqua da una rivelazione fatta da un angelo. Ecco in proposito quanto riferisce il pontificale di s. Gelasio, che è un libro di grande {42 [42]} autorità, ove si contengono le principali azioni degli antichi pontefici. «Mentre san Pio I governava la Chiesa, un suo fratello di nome Ermete, soprannominato Pastore, scrisse un libro in cui racconta come l'angelo del Signore gli apparve in abito di pastore, e gli comandò di riferire al santo pontefice essere voler di Dio che la santa Pasqua si celebrasse in giorno di Domenica.»
Terminata così la questione della Pasqua Pio I rivolse le sue sollecitudini ad altri regolamenti della disciplina ecclesiastica. Proibì sotto a severissime pene che i beni ecclesiastici fossero destinati ad uso profano. La qual cosa dimostra che la Chiesa fin da' più remoti tempi. anche in mezzo al furore delle persecuzioni aveva dei possedimenti suoi proprii che destinava ad usi di pubblica beneficenza, o convertiva in chiese. Ciò viene confermato da un fatto riferito come segue.
Due fratelli chiamati uno Novato l'altro Timoteo fecero a s. Pio dono di un sontuoso palazzo con molle case annesse, dette volgarmente terme ossia bagni di Novato e di Timoteo. La sorella di questi fervorosi cristiani, che era s. Prassede, {43 [43]} pregò il santo pontefice a voler dedicare al divin colto una parte di quel vasto edifizio. Accondiscese s. Pio, e di una parte di quella casa fece una chiesa. Fatta la consacrazione di quel tempio s. Pio fece costruire nel medesimo luogo un vasto battisterio, dove battezzò s. Prassede, novantasei persone di servizio con moltissimi altri. Egli stesso celebrò più volte la santa messa, ed affinchè i divini uffizi fossero regolarmente celebrati deputò suo fratello Ermete a governarla, e dal soprannome di Pastore dato a lui, quella chiesa prese dipoi il nome di chiesa del Pastore, e forma il titolo di uno dei cardinali di Roma. V. Ciacomio in s. Pio.
L'altra parte delle terme di Novato fu dal pontefice destinata ad ospizio dei pellegrini. E si sa dalla storia che i forestieri venendo a Roma erano accolti nelle terme di Novato, le quali erano situate ai pie del monte Viminale nel luogo detto oggidì villa Patrizi. V. Bar. ad an. 162. Ciacomio luogo citato.
A questo medesimo pontefice è attribuito un decreto con cui proibisce di ribattezzare quelli che vengono dall'eresia in seno alla Chiesa. Il che devesi solo {44 [44]} intendere di quegli eretici che usavano la formola e la materia necessaria a questo sacramento. Perciocchè nella Chiesa fu sempre in uso di ribattezzare sotto condizione quelli che vengono dall' eresia e che fanno dubitare della validità di tal sacramento.
Pieno di rispetto verso l'adorabile sacramento dell'Eucaristia impose gravi pene a quei sacerdoti che per negligenza avessero lasciato cadere sopra l'altare qualche goccia del sangue di G. Cristo. Se è caduto in terra, egli dice, facciamo penitenza per quaranta giorni; se si è solamente sparso sopra il corporale, stiano tre giorni in penitenza; stiano quattro se è passato sino alla prima tovaglia dell'altare, nove, se fino alla seconda, venti, se fino alla terza. In qualunque parte egli cada, si succi tutto ciò che ne è stato bagnato; e se non si può si lavi con diligenza, o si raschi, e si abbruci quanto fu raschiato o lavato, si getti nel sacrario ossia nel luogo destinato a deporre le cose benedette, o che furono in contatto di oggetti sacri. V. Brev. rom. 11 luglio.
Questa particolarità di disciplina mostra la grande pietà del santo pontefice verso {45 [45]} al SS. Sacramento, e dimostra eziandio quanto sia antico l' uso di mettere tre tovaglie sopra l'altare per rispetto e venerazione al corpo e al sangue del Signore, e quanto sia antico l'uso dei sacrarii nella Chiesa cattolica.
Il medesimo santo pontefice ordinò che le vergini consacrate a Dio non facessero professione, cioè non facessero i voti, fino all'età di 25 anni. Si può dire che nulla sfuggì alla sollecitudine di questo pastore supremo del gregge di Gesù Cristo.
Capo XI. Scrive due lettere a S.
Giusto vescovo di Vienna.
L'anno 166 s. Pio scrisse una lettera ad un sacerdote di nome Giusto che fu poi vescovo di Vienna, città di Francia. Questa lettera è del tenore seguente:
«Pio vescovo della chiesa di Roma al fratello Giusto sacerdote. Prima che tu partissi da Roma, la nostra sorella Euprepia fece dono di sua casa alla Chiesa. Noi ci aduniamo ivi tutti i giorni coi poveri di Gesù Cristo, e vi celebriamo {46 [46]} la santa Messa. Ora siamo desiderosi di sapere che cosa sia di te, o dilettissimo Giusto, dopochè sei andato a Vienna. Ti assicuro che ci è molto grato il conoscere quanto siasi fatto costì, vale a dire, se hai già potuto spargere la semenza del Vangelo, e se hai già riportato qualche frutto. Ti partecipo che i sacerdoti, i quali istruiti dagli apostoli vissero fino a noi, e coi quali abbiamo divisa la predicazione della parola di Dio, già furono dal Signore chiamati, ed ora occupano le sedi de' beati. S. Timoteo e S. Marco combattendo valorosamente per la fede furono coronati del martirio. Procura, o fratello, di seguire il loro esempio; ma guardati bene di lasciarti ingannare dalle lusinghe del mondo. Affrettati di conseguire la palma gloriosa degli apostoli, quella palma che ottenne S. Paolo dopo moltissimi patimenti, e che ottenne S. Pietro col dare la vita in croce. Sotero ed Eleutero degni sacerdoti di G. C. ti salutano. Tu poi saluta i nostri fratelli che teco vivono e credono nel Signore. Cerinto, primogenito di Satana, allontana molti dalla fede. La grazia di Gesù Cristo abiti nel tuo cuore.» Questa è la prima lettera scritta da {47 [47]} S. Pio I a S. Giusto prima che fosse consacrato vescovo di Vienna. L'anno seguente, cioè 167, poco prima di sua morte, il santo pontefice scrisse al medesimo un'altra lettera quando egli era già stato creato vescovo di quella città. Ella è del tenore seguente:
«Pio vescovo della Chiesa di Roma al fratello Giusto vescovo. Ho inteso con gioia indicibile dalla lettera, che Attalo mi ha portata, la gloriosa vittoria che hanno riportato contro l'inferno quegli eroi cristiani. Noi fummo ricolmi della più grande consolazione all'udire narrare con qual coraggio il nostro caro confratello abbia trionfato dei nemici di Gesù Cristo collo spargimento del suo sangue. Tu sei succeduto a quel martire illustre nella sede vescovile, procura di essere anche erede delle sue virtù, ne mai lasciare cosa alcuna che tenda all'adempimento de' doveri imposti dal ministero a cui fosti elevato. Abbi cura dei corpi dei martiri, come gli apostoli ebbero cura di quello di S Stefano. Va spesso a visitare i confessori che sono in prigione, e confermali sempre più nella fede inspirando loro fermezza e coraggio colle tue parole e co' tuoi {48 [48]} esempi. Vivi in maniera che i sacerdoti e i diaconi ti onorino più come ministro di Gesù che come loro superiore. Nel rimanente Iddio mi ha fatto conoscere vicino il fine di mia vita. Ti prego di non dimenticarti di me quando celebri il SS. Sacrificio dell'altare.»
Per comprendere meglio questa lettera e molti altri scritti antichi è bene di notare, come era uso delle chiese de' varii paesi della cristianità di scrivere colla massima esattezza gli atti dei martiri e poi mandarne copia a Roma. Dal che si conosce la provenienza di tanti manoscritti antichissimi che tuttora conservatisi nella biblioteca del Vaticano. Gli atti dei martiri viennesi portati a Roma da S. Attalo, siccome parla questa lettera, sono un esempio di tale usanza. V. Bar. ad an. 167.
È pur bene di notare come le parole scritte a S. Giusto sulla fermezza nella fede furono presagio di quanto gli doveva avvenire, perciocchè poco dopo infierendo la persecuzione il santo vescovo riportò la corona del martirio. {49 [49]}
L'anno centosessant' uno morì l'imperatore Antonino Pio dopo ventidue anni di regno. I cristiani godettero più anni di pace sotto a questo monarca, sicchè il Vangelo potè dilatarsi e stabilirsi in molti paesi. L'anno stesso succedeva nel trono Marco Aurelio figlio adottivo di Antonino, il quale associò all'impero un suo fratello di nome Lucio Vero. Questo è il primo esempio di due imperatori romani sul trono dei Cesari. Marco Aurelio è pure annoverato fra gli imperatori buoni, per quanto si può sperare da un pagano; ma era affezionatissimo a' suoi Dei. Egli stesso era stato educato nel tempio; anzi era egli sommo sacerdote degli idolatri, e come tale interveniva ai sacrifizi, e prendeva parte nel farli. Fra le altre cose gli saltò in capo di obbligare tutti i sudditi ad adorare i suoi dei; la qual cosa ricusando i cristiani con gran fermezza, si venne ad una aperta persecuzione, che è la quarta delle dieci {50 [50]} mosse ne' tre primi secoli contro alla Chiesa. Ella cominciò ad infierire l'anno 164. V. Bar. ad an. 164.
Alla persecuzione violenta contro ai cristiani si aggiunse l' eresia. Valentino, Marcione e Cerdone, approfittarono del tempo in cui i cristiani erano ridotti alle più gravi angustie per dar mano a spargere i loro errori. S. Pio I alla vista dei pericoli in cui si trovava la fede deliberò di affaticarsi per sostenerla fino all'ultimo respiro. Egli era indefesso: combattere gli errori degli eretici, instruire i gentili nella fede, animare i deboli, confortare i pericolanti, eccitare tutti a perseverare nella fede, erano le materie dell' instancabile suo zelo. Tanta fermezza meritava la corona del martirio, e questa non gli mancò. Gli eretici, i pagani, i sacerdoti medesimi degl'idoli si sollevarono contro al venerando pontefice. Egli fu preso, stretto in catene, posto in prigione e dopo molti patimenti ebbe tronca la testa. Egli governò la santa sede nove anni e sei mesi meno tre giorni. Il suo martirio seguì il giorno 11 luglio l'anno di G. Cristo 167.
Egli tenne più volte la sacra ordinazione in cui consacrò diciotto sacerdoti, {51 [51]} venti diaconi e dodici vescovi che mandò in diverse provincie. Appena morto i fedeli di Roma procurarono di avere il suo corpo e lo portarono a seppellire sul monte Vaticano vicino al corpo di san Pietro. Dopo la morte di Pio I la santa sede fu vacante quattordici giorni.
È opinione de' più accreditati storici che questo pontefice siasi più volte portato in lontani paesi per predicare il Vangelo, consacrare chiese, e confermare nella fede quelli che avevano ricevuto il battesimo. In una di queste peregrinazioni l'anno 160 egli venne fino a Testona, una volta città ed ora piccolo borgo vicino a Moncalieri. Ivi consacrò una chiesa alla Beata Vergine, e stabilì sacri ministri che ne avessero la cura. V. Ughelli, Italia Sacra, T. 4, p. 623.
Una divola inscrizione posta all'ingresso del coro sembra confermare questa credenza. Essa è del tenore seguente: D. O. M. piisstmam ad implorandam matrem antiquissimi, Testonæ oppidi augustissimam Patronam Mariam ingredimini. Omnibus profuit, nemini defuit. Jam ab anno CLX in hoc templo invocata perpetuo proderit, nunquam deerit, laudantibus hic et orantibus. {52 [52]}
Le quali parole si possono tradurre in nostra italiana favella come
segue: A Dio Ottimo Massimo. Venite, o fedeli, ad implorare l'aiuto della
nostra madre Maria, protettrice augustissima dell'antica città di Testona. A
tutti ella fu di aiuto, nè mai ad alcuno venne meno la sua protezione. Fin dall'anno
160 era venerata in questo tempio; Essa sempre gioverà nè mai la sua protezione
mancherà a chi in questo santo luogo la loda e la prega.
I. Apologisti
della fede.
In mezzo alle gravi persecuzioni, mentre i sommi pontefici uniti ad un gran numero di cristiani confessavan la fede disprezzando i più atroci tormenti, non mancarono uomini dotti e coraggiosi i quali ne' loro scritti esposero le ingiustizie e le barbarie che si usavano {53 [53]} contro ai cristiani, e furono abbastanza coraggiosi da presentare tali scritti agli stessi imperatori. Questi scritti furono detti apologie, che vuol dire discorsi fatti in difesa della fede; gli autori furono delli apologisti, ovvero difensori della fede. Quegli uomini coraggiosi si erano accinti a questo genere di lavoro per far noto agli Imperatori ed al Senato il modo ingiusto e crudele con cui erano giudicati i cristiani; perciocchè essi erano spesse volte perseguitati all'insaputa e talvolta fin contro agli ordini degli stessi Imperatori, anzi le persecuzioni derivavano quasi sempre da calunnie imputate ai cristiani, e dalla sinistra interpretazione che si dava alla dottrina del Vangelo.
La prima apologia fu quella di S. Quadrato, discepolo degli Apostoli, uomo versatissimo nella scienza sacra e profana. Mentre l'imperatore Adriano (anno 123) visitava le varie provincie dell impero, si incontrò nella Grecia con S. Quadrato. Questo uomo che alla santità della vita univa il coraggio dei martiri, presentò all'imperatore la sua commovente apologia. Egli dimostrava con sodissime ragioni le ingiustizie esercitate verso i {54 [54]} cristiani, e notava che tali cose non solo disonoravano un impero incivilito, come vantavasi l'impero Romano, ma erano cose contrarie all'umanità, e da disapprovarsi dalle più barbare nazioni. Siccome poi i cristiani erano accusati di magia pei molti miracoli che operavano, cosi egli fa vedere che i miracoli operati da Gesù Cristo e da' suoi seguaci, erano ben diversi dalle illusioni dei maghi. Gli ammalati guariti da Gesù Cristo, egli dice, ed i morti risuscitati, non sono solamente apparsi tali per poco tempo ad una pomposa adunanza, ma sono rimasti nel medesimo stato di vigoria anche lungo tempo dopo la morte e la risurrezione dell'adorabile loro medico. Che più? Alcuni di loro sono vissuti pieni di vita fino ai nostri dì.
Un altro apologista (anno 127), fu S. Aristide ateniese, detto filosofo, e fervoroso cristiano. Esso pure presentò un'apologia all'imperatore. Il medesimo governatore dell'Asia che chiamavasi Serenio Graniano, sebbene fosse gentile, aveva fatte vive rimostranze ad Adriano contro all' ingiustizia con cui i cristiani erano condannati. Diceva essere cosa contraria alla medesima politica, che un {55 [55]} numero sì grande di onesti cittadini fossero condannati a morte senza forma di processo, e non di altro colpevoli che di essere cristiani.
Queste apologie e questa rimostranza fecero prendere miglior concetto dei cristiani, e l'imperatore ordinò che niun cristiano fosse cercato a morte, e che, se taluno fosse denunziato per tale, venisse obbligato ad offerire incenso agli dei; ma che fosse proibito il denunziarli, anzi i delatori fossero gravemente puniti.
Ma l'apologista più famoso, i cui scritti si sono conservati, fu S. Giustino, soprannominato il filosofo pel profondo studio che egli aveva fatto in tutti i rami della filosofia pagana, e nella scienza dei libri santi.
II. Educazione
di S. Giustino. - Maravigliosa comparsa di un vecchio. - Suoi sforzi per
conoscere la verità. - Sua conversione.
S. Giustino nacque in Sichem città della Palestina che più tardi fu detta Napoli che vuol dire nuova città. Suo padre {56 [56]} chiamavasi Prisco ed era idolatra: egli venne al mondo sul principio del secolo secondo. Essendo Giustino fornito di pronto e svegliato ingegno si diede allo studio delle belle lettere e della filosofia. Egli consumò la sua giovinezza leggendo i poeti, gli storici, gli oratori. Ma in tutti questi libri non trovava quello che andava ricercando nella scienza. Egli cercava la verità, la quale solamente si trova nella santa cattolica religione. Per giungere a questa cognizione egli andò a scuola da tutti i più dotti maestri che erano in credito di sapienti al suo tempo; ma niuno seppe dargli un'idea giusta dell'Ente supremo ovvero di Dio. Per fare l'ultima prova abbracciò lo studio della filosofia di Platone, la più stimata in quei tempi. Frequentò qualche tempo un dotto maestro di quella setta, e gli pareva di acquistare alte cognizioni e già di essere sul punto di vedere lo stesso Dio, che era lo scopo della filosofia di Platone.
Iddio però che aveva concesso a Giustino l'ardente desiderio di conoscere la verità si degnò di concedergli la grazia di rimettersi sul diritto cammino che alla medesima conduce. Andato egli un giorno in {57 [57]} una solitudine vicino al mare per ivi occuparsi con maggior quiete si avvide che un vecchio venerando e di amabile aspetto lo seguiva. Ecco come egli stesso racconta questo felice incontro. «La dolcezza, egli dice, e la gravità delle sue maniere colpirono la mia immaginazione. Mi fermai alquanto per osservarlo con maggior attenzione ma senza dire parola. Egli mi dimandò se lo conosceva; no, risposi. Perchè dunque, riprese il vecchio, mi guardi così fissamente? Perchè, replicai, sono stupito d'incontrarmi in un uomo in questo luogo così appartato. Io son venuto qui, disse il vecchio, spinto dall'amore che porto ad alcuni miei amici, che sono in viaggio e che sto aspettando.
Entrati così in ragionamento Giustino diè mano a parlare della filosofia e pretendeva che solamente lo studio di Platone il potesse condurre alla felicità ed alla conoscenza di Dio. Ma il vecchio fece molti elogii alla scienza e sagacità di lui, quindi confutò la sua opinione, e lo convinse con forti ragioni che Platone e Pitagora si erano ingannati ne' loro priucipii; che non avevano conosciuto nè la verità nè l'anima umana, e per conseguenza non potevano {58 [58]} comunicare agli altri la scienza che essi non avevano. Allora Giustino maravigliato dimandò a chi fosse mestieri d'indirizzarsi per mettersi sul sentiero della verità.
Il vecchio cominciò a parlare così: Gran tempo prima dei vostri filosofi esistettero uomini giusti, amici di Dio ed inspirati da lui, i quali si chiamano profeti perchè hanno predetto delle cose che infatti sono avvenute. I libri loro, che abbiamo ancora, contengono luminose istruzioni intorno alla prima causa e all'ultimo fine delle cose create. Questi libri rinchiudono molte verità assai importanti per un filosofo. Que' profeti per istabilire la verità non usarono nè dispute, nè sottili ragionamenti, nè quelle astratte dimostrazioni che sono superiori alla comune intelligenza degli uomini. Prestavasi fede alle loro parole perchè era forza di arrendersi alla loro autorità che confermavano con miracoli e predizioni. Costoro inculcavano la fede in un Dio solo, Padre, Creatore di tutte le cose, ed in Gesù C. suo figliuolo unico. Bisogna adunque studiare i libri dei profeti che sono i veri sapienti se vuoi conoscere il vero Dio che vai cercando. Ma bada bene che per {59 [59]} rendere il tuo stadio fruttuoso è necessario che tu preghi istantemente il sommo Iddio affinchè ti illumini la mente e ti faciliti la strada che conduce alla Verità.»
Dette queste cose, il vecchio disparve dagli occhi suoi, nè mai più Giustino lo vide: onde bisogna credere che il vecchio o fosse un angelo in quel sembiante, oppure qualcuno de' sacri ministri, che Iddio inviò a Giustino per illuminarlo, nella stessa maniera prodigiosa che aveva già inviato s. Filippo Diacono all'eunuco della regina Candace.
Dopo questo ragionamento si accese nel cuor di Giustino un vivo desiderio di conoscere la verità per mezzo dei profeti; onde dato bando alla filosofia platonica, tutto si applicò alla lettura delle divine scrittore, dalle quali ricavò con abbondanza quelle cognizioni, che fino allora aveva inutilmente cercato ne' libri dei filosofi. Abbracciò pertanto la cristiana religione e ricevè il battesimo circa l'anno di G. C. 133, e 30 dell'età sua. Questo fatto dimostra come Iddio non manchi mai di venire in aiuto di coloro che con cuor puro cercano la verità e usano i mezzi che sono in loro potere per acquistarla. {60 [60]}
III. Pietà e
zelo di s. Giustino. - Sua esortazione ai Greci. - Sua lettera a Diognete.
Fra le cose che contribuirono a risolvere s. Giustino a farsi cristiano fu la costanza dei martiri. Gli pareva una prova convincente della verità della religione il disprezzo che essi facevano delle cose di questo mondo. Le atroci calunnie, egli diceva, delle quali erano accusati i fedeli, cessarono di farmi impressione, tostocbè considerai il dispregio che essi facevano delle dolcezze della vita e della vita medesima. Qual è mai quell'uomo, io chiedeva a me stesso, o interessato o voluttuoso o abbandonato a qualsivoglia altra passione, il quale non tema la morte, e non si reputi felice di poter con una facile menzogna salvare una vita che il mondo considera come il termine della felicità? Pure i cristiani piuttosto che negar Gesù Cristo corrono con intrepidezza alla morte, e soffrono pazientemente tutto quello che può cagionare maggiore spavento alla natura umana. {61 [61]}
Giustino abbracciando la cristiana religione non volle mutare il vestito da filosofo, e conservò il pallio filosofico ossia il lungo mantello che portava prima. Ciò fece non tanto per mostrarsi affezionato alla filosofìa, che è per se stessa indifferente, quanto per la inclinazione che egli aveva alla moderazione e semplicità.
Allo studio e alla meditazione continua de' sacri libri unì s. Giustino gli esercizi della pietà, menando vita celibe, austera e affatto aliena dalle sollecitudini del secolo; e poichè conosceva la sua conversione da una grazia speciale del Signore, così egli volle dedicarsi tutto al suo divin servizio ed abbracciò lo stato sacerdotale. Così potè meglio impiegare i suoi rari talenti nell' insegnare agli altri quelle verità che aveva imparate difendendole colla voce e cogli scritti contro a coloro che le impugnavano, fossero gentili, giudei o eretici. Egli si riguardava come destinato dalla divina provvidenza a far conoscere la verità ad ogni genere di persone, di pubblicarla senza verun riguardo e difenderla a qualunque costo, anche col pericolo della vita. Avendo, {62 [62]} egli dice, ottenuto da Dio la grazia d'intendere le scrittore, mi adopero acciocchè tutti siano copiosamente partecipi della medesima grazia per timore di non essere condannato nel divin giudizio. Io non ho altro pensiero se non dire la verità senza timore e senza riguardo ad alcuno, benchè dovessi subito e in quell'istante essere fatto a brani.
Quale poi fosse la sua carità, lo dimostra l'esortazione che egli fece ai cristiani della Grecia, in cui espone le fortissime ragioni che egli ebbe di abbandonare il culto delle false divinità per adorare il vero Dio. Palesata in questa operetta l'empietà e la stravaganza delle dottrine idolatriche, mostrasi pieno d'ammirazione e di rispetto verso l'augusta maestà delle sacre scritture, le quali frenano le passioni, calmano le inquietudini dello spirito umano ponendolo in una inalterabile tranquillita.
Tenne parimenti ai Greci un altro ragionamento in cui con robusta eloquenza vigorosamente confutò gli errori dell'idolatria, e provò la vanità dei filosofi pagani. Questo discorso dettò egli in Roma dove aveva fissato sua dimora. Da questa città scrisse pure {63 [63]} una lettera ad un dotto filosofo di nome Diognete che era stato maestro dell'imperatore Marco Aurelio. Questa lettera è piena di sublimi sentimenti e degni veramente di un santo. Tra le altre cose egli parlando del mistero dell'incarnazione si esprime così: «Essendoci impossibile l'espiare i nostri delitti colle nostre proprie forze, ci troviamo ricoverati sotto le grandi ali della misericordia divina, e siamo riscattati dalla schiavitù del peccato. Laonde esaltate, o Diognete, la infinita bontà di Dio verso l'uomo, la quale non contenta di avervi dato l'essere, ha creato il mondo per nostro uso, ci ha assoggettato tutte le cose, e dato l'unico suo figliuolo colla promessa di farci regnare con lui, purchè vogliamo amarlo. Ora che il conoscete, gli aggiunse, di quale gioia non dovete essere ricolmo? Quai trasporti di amore non dovete provare per chi fu il primo ad amarvi? E quando voi l'amerete, sarete imitatore della sua immensa bontà. Noi siamo veracemente imitatori di Dio, allorchè sopportiamo i pesi degli altri, rechiamo sollevamento al prossimo, ci ponghiamo per umiltà al dissotto de' nostri inferiori e dividiamo coi poveri i beni {64 [64]} che abbiamo ricevuto dal cielo. Voi comprenderete allora che Iddio governa questo universo, conoscerete i suoi misteri, ammirerete coloro che soffrono per lui, condannerete l'impostura del mondo, disprezzerete la morte del corpo, nè temerete altro che la morte eterna dell'anima, quei fuoco che non estinguerassi giammai. Quando saprete che cosa sia questo fuoco, invidierete la felicità di quelli che soffrono le fiamme temporali per la giustizia.»
IV. Scrive
la sua prima apologia e la presenta all'Imperatore ed al Senato.
S. Giustino avendo fissato il suo soggiorno in Roma gli si apri un largo campo di far risplendere in quella grande città capitale dell'imperio il suo ardente zelo, non solamente nell'ammaestrare nella fede tutti coloro che a lui concorrevano, ma ancora nel prendere con grande libertà e intrepidezza la difesa della religione contro alle calunnie dei gentili, i quali imputavano ai cristiani atroci delitti. Da questi supposti misfatti {65 [65]} prendevano occasione di perseguitarli, e condannarli non per altro titolo se non per essere cristiani. A questo fine, ad esortazione del sommo pontefice, il santo compose e presentò circa l'anno 150 all'imperatore Antonino Pio, a' suoi figliuoli, al senato e al popolo romano una lunga apologia in cui dimostra con grande energia e la santità della religione e l'innocenza di coloro che la professavano. «Sento, diceva ad Antonino Augusto ed a Marco Aurelio e Lucio Vero figli adottivi di lui, sento che per ogni dove siete denominati pii e filosofi, cioè a dire amatori della verità e della giustizia; il vostro contegno fa conoscere a tutto il mondo quanto vi stia a cuore l'esercizio delle migliori virtù. Perciò veniamo a dimandar giustizia secondo le regole della più esatta ragione, e non tanto per nostra difesa quanto pei veri vantaggi vostri. Per quello che spetta a noi, niuno potrebbe farci alcun vero danno ancorchè ci togliesse la libertà e la vita. Ma voi offendereste la vostra gloria e tuttochè voi siate padroni del mondo, sareste condannati al tribunale dell'eterno Iddio e della stessa equità, se puniste per passione o per prevenzione. {66 [66]}
La legittima forma dei giudizi richiede che le persone accusate o sospette rendano esalto conto delle loro azioni, e che i sovrani pronunzino i loro giudizi non sopra leggiere presunzioni o secondo i capricci di una podestà arbitraria. A voi tocca adunque di mettere in chiaro la condotta di nostra vita e la nostra dottrina se non per evitare la morte, che pel cristiano non è che un bene, almeno per non essere complici di una colpevole ignoranza che noi avremmo trascurato di illuminare.»
Descrivendo egli la vita che secondo i precetti e gli insegnamenti di Gesù C. tenevano i cristiani, osserva tra le altre cose che non solo essi abborrivano ogni azione estranea che potesse offendere la purità, ma che si guardavano con gran cura da ogni sguardo men che onesto per essere noti a Dio, e soggetti a castigo nel suo giudizio non solo i fatti, ma eziandio i pensieri e gli interni movimenti dell'animo. E soggiugne che molte persone d'ogni genere benchè omai di sessanta e di settant'anni, allevati fino dalla loro fanciullezza nella dottrina di Cristo perseverano nel celibato. I cristiani, {67 [67]} egli dice, abbracciano lo stato del matrimonio solamente per averne figliuoli ed aver cura di essi; a chi poi non piace la vita coniugale egli vive in una perpetua continenza. Aggiunge, che l'unica speranza dei cristiani era la vita e la felicità eterna che dopo morte aspettavano da G. C. il quale deve giudicare tutti gli uomini.
Passando poi a parlare della verità della religione cristiana egli rapporta le profezie che tanti secoli prima avevano predette le cose che i cristiani credevano, profezie tanto certe e indubitate quanto-chè erano registrate in quei medesimi libri che avevano sempre letti e tuttavia leggevano con venerazione i Giudei nemici mortali dei cristiani. «Di queste profezie, dice il santo, ne vediamo cogli occhi nostri l'esatto adempimento nella nascita di G. C. da una vergine, nella sua predicazione, nei suoi miracoli, nella sua passione e crocifissione, nella sua risurrezione ed ascensione al cielo, nelle divine massime de' suoi santi Apostoli, nell'induramento e riprovazione de' giudei, nella distruzione di Gerusalemme, nella conversione dei gentili, e nel mirabile {68 [68]} stabilimento e nella propagazione della Chiesa per tutto il mondo, e finalmente nelle stesse calunnie onde i fedeli erano caricati e nelle persecuzioni ond'erano travagliati. Queste profezie, egli conchiude, così perfettamente avverate ci convincono che G. C. è il figliuolo unigenito di Dio il quale venir deve un giorno a giudicare tutto il genere umano.»
V. Maraviglioso
accordo della disciplina della Chiesa primitiva con quella che professa la Chiesa cattolica oggidì.
Benchè la Chiesa fosse in quei primi tempi gelosa di tenere occulti ai gentili i sacrosanti suoi misteri, nondimeno credè S. Giustino di potersi dispensare da questo segreto nelle circostanze in cui allora si trovavano le cose, per togliere gl'iniqui sospetti, e le indegne calunnie che si erano dappertutto divulgate contro le sacre adunanze e contro le religiose cerimonie che si praticavano dai cristiani. Noi crediamo di far cosa grata ed utile insieme al lettore il riferire ciò che di esse dice {69 [69]} S. Giustino nella sua eloquente apologia, poichè vedrà osservarsi in sostanza, e credersi adesso nella Chiesa cattolica quel medesimo che fu osservato e creduto fino dai tempi apostolici ne' quali S.Giustino viveva.
«Non vi lasciate ingannare, egli prosegue, prestando imprudentemente l'orecchio a false novelle. Ecco per l'appunto il modo con cui riceviamo nel nostro grembo quelli cui date il nome di iniziati. Coloro che credono nella nostra dottrina e promettono di menare una vita conforme alle regole ed ai precetti che essa prescrive, debbono in primo luogo digiunare, pregare e chiedere a Dio perdono dei loro passati disordini. Indi li conduciamo al luogo ov' è preparata l'acqua nella quale sono battezzati nel nome del Signore Dio Padre di tutte le cose, e del nostro Salvatore G. C. crocifisso sotto Ponzio Pilato, e dello Spirito Santo che ha predette le cose spettanti alla nostra rigenerazione per mezzo dei suoi profeti. Questo lavacro si chiama illuminazione perchè per esso sono illuminate le nostre menti, e purgate dalle tenebre dell'ignoranza. Dopo questa abluzione {70 [70]} conduciamo il nuovo fedele ove i fratelli sono adunati a fine di pregare in comune per noi stessi, per sè e per tutti generalmente, acciocchè avendo conosciuta la verità conseguiamo altresì la grazia di pervenire, mediante l'esercizio delle buone opere e l'osservanza dei divini precetti, all'eterna felicità. Indi a colui che presiede all'assemblea viene presentato del pane ed un calice di vino e d'acqua, ed egli ricevute sì fatte cose in nome del Figliuolo e dello Spirito Santo rende gloria al supremo padre ed autore dell'universo, e per li doni da esso compartiti si diffonde in copiosi rendimenti dì grazie che da tutto il popolo sono ratificati col rispondere Amen, parola ebraica che vuol dire cosi sia. Terminale in questo modo dal presidente le preghiere, le lodi e i ringraziamenti, quei che appresso di noi sono chiamati diaconi, prendono il pane col vino mescolato coll'acqua, su cui furono recitate tutte quelle sacre orazioni, e poichè gli hanno distribuiti agli astanti li portano eziandio agli assenti. È chiamato da noi questo alimento Eucaristia di cui niuno può essere partecipe, il quale non creda nella nostra {71 [71]} dottrina, e non sia siato rigenerato e lavato da' suoi peccati in quel celeste lavacro, e che non regoli la sua vita secondo gl' insegnamenti di Cristo. Non è questo un pane comune, nè una bevanda ordinaria: ma siccome in virtù della divina parola Gesù Cristo Salvatore nostro fu veramente composto di carne e di sangue per la nostra salute, così ancora quell' alimento onde noi siamo nudriti, sappiamo che in virtù della preghiera contenente le sue divine parole, è la carne ed il sangue dello stesso Verbo incarnato. Nel primo giorno poi di ciascuna settimana detto da voi giorno del sole, e che noi chiamiamo domenica, si fa una generale adunanza in un medesimo luogo, e secondo che il tempo lo permette si leggono i commentarii degli Apostoli e gli scritti dei profeti. Terminata dal lettore la lezione, quegli che presiede fa un discorso al popolo, per eccitarlo a praticar la virtù: indi tutti insieme ci alziamo e ci mettiamo in orazione, e terminata la preghiera si presenta, come abbiam detto, il pane ed il vino, e poscia pel ministero dei diaconi si fa la distribuzione dei doni consacrati. Fanno i {72 [72]} più ricchi liberamente e secondo che piace loro una qualche offerta, la quale depositata appresso al presidente è da esso distribuita alle vedove, ai pupilli, a quelli che per malattie o per altre ragioni si trovano in bisogno, ai carcerati ed ai pellegrini, de' quali tutti, siccome di ciascun altro che vive nell'indigenza, a lui appartiene la cura. Il motivo poi per cui specialmente ci congreghiamo e santifichiamo il giorno del sole si è perchè questo è il primo giorno nei quale Iddio creò il mondo ed alle tenebre fece succedere la luce, e perchè in esso Gesù Cristo Salvator nostro dalla morte risuscitò alla vita. Ma che serve tanto discorrere a nostra giustificazione? Se volete essere sinceri, voi stessi non credete davvero le accuse colle quali si tenta d'infamarci, e che si allegano a fine d'opprimerci. Voi tollerate tutte le religioni più stolte e più depravate e permettete che siano pertinacemente perseguitati gli adoratori del vero Dio. Punite forse coloro che adorano il legno, la pietra, i gatti, i sorci, i cocodrilli? Castigate forse i pessimi cristiani, quelli che non son tali che di nome? I seguaci, per esempio, di Simone, {73 [73]} di Menandro, di Mansione sono essi catturati? Essi annichilano l'idea ed il culto dell'Ente supremo e ben a ragione vengono accasati di mille cose esecrande, pure voi li lasciate in quiete. Che avete dunque da opporre alla nostra santa dottrina? Perchè volete abbatterla e perseguitarla? Volete forse essere chiamati e farvi ministri dei demonii che non possono tollerarci? Se essa vi sembra falsa, lasciate che essa ruini da se medesima. Se poi ella è pura, santa, divina, com' ella è infatti; perchè vi arrischiate a combatterla? Principi e sovrani dei popoli, comandate qual debba essere il nostro destino ora che siete informati. Qualunque cosa vi piacerà d'ordinare, noi diremo con rassegnazione: sia fatta la volontà di Dio. Così ci viene suggerito dal rispetto, dall'amore sincero che la nostra religione ci comanda di avere verso le supreme temporali podestà. Ma innanzi tutto siamo in dovere di farvi sapere, e ciò a nome del Signore che dall'alto de' cieli regna eternamente su tutti i principi della terra, che voi non vi sottrarrete al rigore dei suoi giudizii, se continuate a praticare un'ingiustizia che rendesi da se medesima manifesta.» {74 [74]}
Dice Orosio, che 1' apologia di Giustino toccò l'animo di Antonino e lo
rese propizio al cristianesimo. I fedeli dell'Asia si erano lagnati con
quest'Augusto dei pessimi trattamenti che loro facevano i proprii concittadini.
Trovaronsi eziandio alcuni governatori meno inumani che gli palesarono la
verità. Onde egli non potè resistere a tanti e sì ragionevoli impulsi, e
pubblicò varii editti, in forza dei quali fu rallentata non poco l'animosità
dei popoli, dei giudici e dei sacerdoti degl'idoli contro ai cristiani,
massimamente nelle città greche di Larissa, di Tessalonica e d'Atene, ove
generalmente vietossi ai Greci di suscitare turbolenze contro di essi.
VI. Disputa
di S. Giustino con Trifone e col filosofo Crescente; scrive un'altra apologia
che presenta all'Imperatore.
S. Giustino profittò di questo poco di calma per sempre più dilatare il nome di Gesù Cristo e per diffondere la verità della religione. Le opere composte contro le eresie de' Marcioniti e de' Valentiniani, {75 [75]} sono una prova del grande suo zelo per la fede. La conferenza con Trifone, per comun sentimento, è la più antica e la più compiuta opera che abbiamo in dimostrazione e difesa della religione cristiana contro ai giudei.
Ma essendo ad Antonino succeduto nell'imperio Marco Aurelio, si rinnovò e si riaccese con maggior impeto il fuoco della persecuzione. I filosofi pagani davano ad essa eccitamento e vigore, o perchè la loro superbia fosse offesa dall' umiltà dei cristiani, o perchè fossero stimolati dall'invidia vedendoli a mettere in pratica le regole della più sublime filosofia, le quali venivano da loro decantate colle parole, ma violate coi fatti. Uno di questi filosofi, che più alto degli altri alzava la voce in Roma contro ai cristiani, era un certo Crescenzio della setta dei Cinici. A costui si oppose generosamente s.Giustino, il quale si considerava come destinato da Dio a difendere la verità e la santità della religione. Il temerario filosofo fu sfidato dal Santo ad una pubblica disputa, replicata più volte, in cui lo convinse di somma ignoranza delle cose dei cristiani, e di somma perversità. {76 [76]}
Non contento Giustino di avere colla viva voce confuso e svergognato Crescente, espose con una seconda apologia una supplica diretta come la prima all'imperatore, al senato e al popolo romano, nella quale non temè di difendere la religione contro le imposture e menzogne di Crescente, e degli altri filosofi fomentatori della persecuzione. Nè dubitò di riprendere pubblicamente le frodi, e i vizi di costoro, non ostante che sapesse le insidie che tramavano contro la sua vita, e non ignorasse la loro potenza presso l'Imperatore, il quale gli amava, perchè esso pure si gloriava del titolo di filosofo.
VII. S.
Giustino è messo in prigione. Suo interrogatorio e suo glorioso martirio.
In così difficili e pericolose circostanze non solamente ebbe Giustino il coraggio di professarsi apertamente cristiano, ma di presentare all'imperatore e al senato un libro apologetico in favor de' cristiani, e di riprendere in esso con gran forza e libertà i filosofi delle loro scostumatezze, {77 [77]} benchè aspettasse di giorno in giorno di vedersi condannato alla morte per opera di alcun di loro, specialmente del cinico Crescenzio. Infatti fu Giustino poco dopo arrestato con sei altri cristiani, che erano in sua compagnia, e tutti furono condotti davanti al prefetto di Roma per essere interrogati e giudicati. Ci restano ancora gli atti autentici del suo martirio, i quali come un prezioso monumento della cristiana religione meritano di essere trascritii, e sono i seguenti.
Fu presentato Giustino al prefetto di Roma per nome Rustico sedente nel suo tribunale, da cui fu in primo luogo esortato a ubbidire agli Dei e agli editti imperiali. Il Santo avendo risposto non esser degno di riprensione, nè di condanna chiunque obbedisce ai precetti del nostro Salvatore Gesù Cristo, lo interrogò il prefetto a qual genere di erudizione si fosse applicato. Il Santo rispose: essendo prima passato per la disciplina di varie sette, e avendo gustato d'ogni sorta di erudizione, finalmente mi sono dato con tutto il cuore a quella de' cristiani, benchè ella non piaccia a coloro che sono miseramente sedotti dagli errori delle false {78 [78]} opinioni. - Tu dunque, o infelice, soggiunse Rustico, ti diletti di questa sorta d'erudizione? - Si, replicò Giustino, ed io la seguo colla sua retta dottrina. - Qual è questa dottrina? domandò Rustico. E il Santo: la retta dottrina che noi teniamo, consiste in credere un solo Dio Fattore e Creatore di tutte le cose visibili, e di quelle altresì che non cadono sotto gli occhi del corpo, e in confessare Gesù Cristo figliuolo di Dio, annunziato già dai profeti, predicatore all'uman genere della salute, e maestro di coloro, che per loro buona sorte odono i suoi divini insegnamenti. Ma troppo sono inabili e la mia mente a concepire, e la mia lingua a profferire cosa che sia degna della sua infinita dignità. Fa d'uopo perciò della mente e dello spirito de' profeti divinamente inspirati, i quali molti secoli prima predissero la sua venuta nel mondo. Gli domandò allora il prefetto in qual luogo fossero i cristiani soliti a radunarsi. E Giustino: ciascuno si aduna ove vuole e ove può. Credi tu forse che tutti siamo soliti di adunarci in un medesimo luogo? Non è cosi, poichè il Dio dei cristiani non è circoscritto da luogo: ma essendo invisibile {79 [79]} riempie il cielo e la terra; e in ogni luogo è adorato da' fedeli e lodato e glorificato. - Ma io, soggiunse di nuovo il prefetto, voglio che tu mi dica in qual luogo siete soliti di congregarvi, e ove tu stesso aduni i tuoi discepoli. - Quanto a me, rispose il Santo, io abito vicino alla casa di un certo Martino, al bagno dello Timiotino. Son venuto a Roma per la seconda volta, ne conosco quasi altro luogo della città. Se alcuno viene a trovarmi sono sempre pronto ad istruirlo nella vera dottrina. - Adunque tu sei cristiano? conchiuse Rustico. E il Santo, così è, rispose, io son cristiano.
Allora il prefetto rivolto agli altri che gli erano stati presentati insieme con S. Giustino, cominciando da Caritone e da Caritena, domandò loro se fossero anch'essi cristiani; cui l'uno e l'altro risposero con ugual fermezza di sì: e tu chi sei? domandò Rustico ad Evelpisto. E questi: sono, rispose, servo di Cesare; ma come cristiano ho ricevuto da Cristo la vera libertà e per sua grazia e favore seno partecipe della stessa speranza con gli altri che qui vedi. Dopo Evelpisto interrogò Gerace, se ancor egli fosse cristiano. {80 [80]} - Certamente, disse, io son cristiano, poichè venero e adoro il medesimo vero Dio. - Forse, disse allora il prefetto, vi ha fatti cristiani Giustino? - Io, rispose Gerace, fui e sarò sempre cristiano. Frattanto uno per nome Peone disse ancor egli d'essere cristiano. E avendolo richiesto il prefetto da chi fosse stato istruito, da' genitori, rispose, ho ricevuto la fede. Allora Evelpisto soggiunse: io parimenti, benchè udissi con gran piacere i discepoli di Giustino, nondimeno dagli stessi miei genitori ho appreso ad essere cristiano. Interrogato dal prefetto ove fossero i suoi genitori, rispose che erano nella Cappadocia. Indi richiesto della stessa cosa Gerace: il mio vero padre, disse, è Gesù Cristo, e la mia vera madre è la fede colla quale crediamo in Lui. Essendo morti i terrestri miei genitori, sono stato qua condotto da Licaonia città della Frigia. Finalmente fu da Rustico interrogato Liberiano, se ancor egli fosse cristiano, ed empio verso gli Dei. Ed egli, ancor io, disse, son cristiano, poichè adoro il solo vero Dio.
Rivolto allora il prefetto a Giustino: odimi, disse, tu che passi per eloquente {81 [81]} e che li credi di posseder fa vera sapienza, se dopo una dura flagellazione ti sarà tagliala la testa, sei tu forse persuaso di ascendere così al cielo? Cui Giustino: spero, disse, che soffrendo tali cose, conseguirò quel premio che è apparecchiato a coloro che costantemente tengono i dogmi, e fedelmente osservano i precetti di Cristo. - Tu dunque, disse il prefetto, tieni opinione di ascender al cielo e di ricevervi qualche mercede? - Non ne ho opinione, replicò il Santo, ma certa scienza, che esclude ogni dubbio. - Ma veniamo, disse Rustico, al nostro proposito, e a ciò che mi sta principalmente a cuore. Unitevi e con un medesimo animo sacrificate agli Dei. Al che Giustino: niun uomo di sana mente abbandona la verità per precipitarsi nell'errore e nella empietà. - Ma se voi, disse Rustico, non ubbidirete ai nostri comandi, sarete senza pietà tormentati. E Giustino: questo appunto è quello che ardentemente desideriamo; soffrire i tormenti per l'amore di nostro Signor Gesù Cristo, e così ottenere la nostra eterna salute. In questo modo ci presenteremo con faccia allegra e serena a quel terribile tribunale dello {82 [82]} stesso nostro Signore e Salvatore avanti a cui tutto il mondo deve per divino volere necessariamente comparire. Dissero io stesso tutti gli altri martiri e aggiunsero: fa presto quanto ti piace, noi siamo tutti cristiani, nè mai sacrificheremo agl'idoli.
Udite tali cose il prefetto pronunziò contro di essi questa sentenza: costoro che non hanno voluto sacrificare agli Dei. ne ubbidire alla volontà dell' imperatore, prima sieno flagellati, indi sia loro tagliala la testa, secondo che le leggi prescrivono. Così quegli intrepidi confessori della fede lodando e benedicendo Iddio che li aveva trovati degni di lui, conservando la serenita nel volto e la gioia nel cuore, dopo crudele flagellazione furono condoni fuori di Roma, ove terminarono il loro glorioso martirio coll'essere decapitati. Furono i loro corpi presi furtivamente da alcuni fedeli e sepolti in luogo decente.
Così il nostro filosofo cristiano dopo di aver con fermezza combattuto l'errore e difesa la verità colla predicazione e cogli scritti sigillava col proprio sangue quanto aveva sostenuto colle parole e colle opere.
S. Efrem Siro confrontando la costanza dei martiri, colla mollezza de' cristiani dei {83 [83]} suoi tempi, tutto commosso esclama cosi: «La sapienza de' filosofi, l'eloquenza degli oratori restano ammutoliti allo spettacolo che offrono i gloriosi combattimenti dei martiri. I tiranni, gli stessi giudici sono attoniti alla vista della fede, del coraggio della allegrezza di questi intrepidi guerrieri. Quale sarà la nostra scusa al tribunale di Gesù Cristo se noi, essendo liberi delle persecuzioni e delle torture, noi siamo cotanto negligenti nell' amare Iddio o nel lavorare alla santificazione delle anime nostre? Da una parte noi vediamo i martiri inalterabilmente attaccati a Dio in mezzo alle più crudeli prove; dall'altra parte vediamo il maggior numero dei cristiani, i quali sebbene vivano in seno ad una pace profonda, ricusano a questo medesimo Iddio un cuore che per tanti titoli gli è dovuto! Che faremo noi, in quel giorno terribile che fisserà il nostro destino per tutta l'eternita?» {84 [84]}
ODE
Lex lux.
PROV. 6, 23.
Dopo indefessi
studii.
Sopra vantate carte
Giustin vedea non fulgere
Fuorchè bugiarda un'arte
Con cui l'audacia illudere
Del fervido mortal,
E il ver col falso mescere,
E la virtù col mal.
A nobil ira il
mossero
Il vil, cinico riso,
L'epicurea mollizie,
Il duro stoico viso,
In tutte scuole un'invida
Di laudi fame e d'or;
Sul labbro la giustizia
L'iniquità nel cor. {85 [85]}
E si squarciò dagli
omeri
Nel suo corruccio il manto;
Gettò i volumi turgidi,
Scevri per lui d'incanto,
E con profondo gemito
Disse: - «Non v'è quaggiù
Luce che guidi i miseri
A verità e virtù!» -
«Evvi! gli grida un
provvido
Vecchio che i lagni udìa.
Giustin lo mira attonito,
Poi dice: «No! follìa!» -
«Follìe ti svolser gli uomini
(L'altro risponde allor);
Leggi quest'alte pagine!» -
«Chi le dettò?» - «Il Signor!»
Tra speranzoso e
incredulo
Giustin quel libro afferra:
Le carte eran profetiche
Che a tutti error fan guerra,
Che svelan ne' primordii
D'umanità il fallir,
Poi l'empio Giuda e il Gòlgota,
E d'un Iddio il patir.
Gli sconosciuti
oracoli
Il dubitante aperse,
E d'Isaia nel cantico
Lo spirito sommerse.
Legge: - Ascoltate, o popoli,
D'ira
divina il suon:
Io
Re del Ciel, di vittime
Infastidito
io son.
Incensi ed inni
perfidi
Il
mio intelletto abborre:
Premio
di voti ipocriti {86 [86]}
Non mai sperate corre;
Sangue
le mani grondano,
E
voi le alzate a me?
Tergetele,
o miei fulmini
Diran
che Dio ancor è!
Pur se le destre
s'ergono
Sincere
a me tuttora,
Se
rei pensier non serbano
Più
in vostro cor dimora,
Se
torna altrui benefico
De' figli
miei l'oprar,
Credete
voi ch' io sappia
Miei
figli sterminar?
Oh! se a pupilli
e vedove
Esser
vi veggio scampo,
Venite
a me: le folgori
Non
seguiranno il lampo:
E
fosser come porpora
Sanguigne
l'alme pur,
Al
par di neve candide
Le
rivedrà il futur!
Quelle or minaci or
tenere
Parole d'un Iddio
Scosser Giustino, ed avido
Le carte allor seguio,
E giorno e notte al mistico
Libro lungh'ore ei diè;
Novi conobbe gaudii;
Amò, sperò, credè.
A mastri e
condiscepoli
De' suoi passati errori,
Move, ed in pria l'accolgono
Con risi o con furori:
Stupiscon poi del placido
Suo forte ragionar; {87 [87]}
Miransi, e forse pensano:
«Filosofo ancor par.»
Ed ei
coll'invincìbile
Possa del dir verace
Eccita santi aneliti
Di carità e di pace:
Più d'un mortal da glorie
Superbe visto fu
Trar con Giustino all'umile
Scienza di Gesù.
Invano, invan
rammentano
Vigliacchi amici al forte,
Che della Croce ai nunzii
Leggi minaccian morte;
Invano a lui, se i vizii
S'ostina a maledir.
Tremanti vaticinano
Scherno, prigion, martir.
- «Oh mal pietosi e
timidi!
Risponde al caro stuolo,
Sappiate che un orribile
Martirio esecro solo.
Quel che patii nel misero
Mio giovanile error,
Quando tra fedi varie
Mi vacillava il cor.
«Al vero nata
l'anima
Nel dubitar si snerva;
Quindi a sospetti ignobili
Fatta ogni dì più serva,
Discrede l'amicizia
Discrede ogni virtù;
Nessun eccelso palpito
Suoi giorni abbella più.
«Ma, dacchè i vili
dubbii {88 [88]}
Cacciai dall'intelletto,
E potei diva accogliere
Filosofia nel petto,
Dacchè imparai qual abbia
La vita alto valor,
E affratellato agli uomini
Conobbi il Redentor;
«Io da quel dì mi
pascolo
Di forza e di speranza,
E questa è gioia intrinseca
Che tutte gioie avanza:
Il viver emmi grazia,
Grazia mi fia il morir;
Uom mi potrebbe estinguere,
Ei non può Dio rapir!»
Il predicar
fulmineo,
I trionfanti scritti
Prima fur detti insania,
Poi detti fur delitti;
Ed ecco il pio filosofo
In ceppi rei giacer:
Eccol d'iniquo giudice
Gli insulti sostener.
- «Che ti giovar
gli stolidi
Del Nazareo costumi?
Se brami scampo, ossequio
Presta ad Augusto e a' numi:
Mira per quei che agl'idoli
Incenso negan dar,
Mira i parati eculei.
Mira i flagei d'acciar.»
Non si smentì
nell'ansia
Della terribil ora;
Mostrò come un Apostolo
Opri, patisca e mora: {89 [89]}
Al giudice, a' carnefici
Perdono oppose e amor,
Ed il sublimo esempio
Nobilitò altri cor.
Venner con lui dal
carcere
Ai barbari supplici
Intemerata vergine
E cinque eletti amici:
La giovin fra gli strazii
Un gemito mandò;
Giustin mirolla, e impavida
Gli strazii sopportò {90 [90]}
Capo I. - Breve
osservazione. - S. Sisto I succede a s. Alessandro. - Combatte l'eresia
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Pag. 3
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Capo II. - Proibizione
di toccare i vasi sacri. - I corporali di lino. - Il sanctus nella messa. -
Il memento dei morti.
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7
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Capo III. - Breve
digressione sugli imperatori Adriano ed Antonino. - Cristiani martirizzati. -
Martirio di s. Sisto, anno di Cristo 142
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11
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Capo IV. - Traslazione
del corpo di s. Sisto da Roma nella città di Alatri: miracoli e grazie
ottenute ad intercessione di lui
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14 {91 [91]}
|
Capo V. - Alcune
parole sui fatti antecedenti
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Pag. 21
|
Capo VI. - Gli
anacoreti del Carmelo. - S. Telesforo nono Pontefice. - La quaresima e
l'astinenza delle carni
|
24
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Capo VII. - Le
tre messe di Natale. - Il Gloria in excelsis Deo. - Il Vangelo nella Santa
Messa. - Altre istituzioni di s. Telesforo
|
29
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Capo VIII. - S.
Telesforo manda predicatori a portare il Vangelo in varii paesi; resiste
all'eresia di Marcione e di Valentino. - Suo martirio.
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31
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Capo IX. - S.
Igino. - Suo decreto sui padrini nel Battesimo. - Distribuzione dei gradi del
clero. - Suo martirio. - Dal 154 al 158
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35
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Capo X. - S.
Pio I. - Questione della Pasqua. - Consacrazione del primo tempio. - Beni
ecclesiastici. - Battesimo degli eretici
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39
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Capo XI. - Scrive
due lettere a S. Giusto vescovo di Vienna.
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46 {92 [92]}
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Capo XII. -
Quarta persecuzione. - Fatiche di s. Pio. - Suo martirio
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Pag. 50
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Appendice. Sopra
s. Giustino martire ed apologista.
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Capo I. - Apologisti
della fede.
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Pag. 53
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Capo II. - Educazione
di s. Giustino. - Maravigliosa comparsa di un vecchio. - Suoi sforzi per
conoscere la verità. - Sua conversione
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56
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Capo III. Pietà
e zelo di s. Giustino. - Sua esortazione ai Greci. - Sua lettera a Diognete
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61
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Capo IV. - Scrive
la sua prima apologia e la presenta all'Imperatore ed al Senato
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65
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Capo V. - Maraviglioso
accordo della disciplina della Chiesa primitiva con quella che professa la Chiesa cattolica oggidì.
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69
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Capo VI. - Disputa
di s. Giustino con Trifone e col filosofo Crescente; scrive un'altra apologia
che presenta all'Imperatore
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75 {93 [93]}
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Capo VII. - S
Giustino è messo in prigione. - Suo interrogatorio e suo gloriosi martirio
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Pag. 77
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Ode di Silvio
Pellico sulla vita di san Giustino
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85 {94 [94]}
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Con approvazione
della Revisione Ecclesiastica {95 [95]} {96 [96]}
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