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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

SEVERINO OSSIA AVVENTURE DI UN GIOVANE ALPIGIANO

 

RACCONTATE DA LUI MEDESIMO ED ESPOSTE DAL SACERDOTE

GIOVANNI BOSCO

 

 

TORINO

TIP. DELL' ORATORIO DI S. FRANC. DI SALES

1868. {1 [1]}

 

PROPRIETÀ DELL'EDITORE {2 [2]}

 

 

 

 

INDEX

Capo I. Chi fosse Severino. Quali cose abbiano dato motivo a questi racconti. 2

Capo II. Severino parla delle industrie di suo padre pel bene della famiglia. 2

Capo III. Severino parla dell'indolenza di sua madre. 4

Capo IV. Severino racconta un grave disastra avvenuto in famiglia. 5

Capo V. Severino parla delle fatiche del padre. 6

Capo VI. Severino racconta la morte del padre. 7

Capo VII. Parla de' suoi trattenimenti nell'Oratorio. 9

Capo VIII. Severino racconta parecchi ameni episodi. 10

Capo IX. Severino parla de' suoi studi. 12

Capo X. Severino parla della sua caduta nel protestantesimo. 14

Capo XI. Severino parla della sua partenza da Torino e della morte del b. Pavonio. 15

Capo XII. Severino parla dello studio fatto sull' origine de' Valdesi. 16

Capo XIII. Severino parla della valle di Luserna e della vera origine dei Valdesi. 18

Capo XIV. Severino espone la diffusione dei Valdesi e la loro unione coi Protestanti. 19

Capo XV. Severino parla delle variazioni della dottrina valdese. 20

Capo XVI. Severino parla di alcuni curiosi episodi della dottrina Valdese. 22

Capo XVII. Severino racconta della sua partenza per Ginevra e del suo arrivo sul Gran s. Bernardo. 25

Capo XVIII. Severino parla di alcuni incidenti sul Gran s. Bernardo. 26

Capo XIX. Severino parla di Ginevra e di Calvino. 29

Capo XX. Severino parla delle vicende del Cattolicismo in Ginevra. 31

Capo XXI. Severino parla della sua dimora in Ginevra. 32

Capo XXII. Severino parla della morte di un suo amico e va alla chiesa dei cappuccini. 34

Capo XXIII Severino parla del suo viaggio a Torino, e della sua nuova vita in famiglia. 36

Capo XXIV. Severino racconta una conferenza animatissima tra un prete ed il ministro Valdese. 38

Capo XXV. Severino racconta il suo traslocamento e la sua guarigione inaspettata. 39

Capo XXVI. Ultimi anni di Severino: morte della madre. 41

Conclusione. 42

Appendice sulla morte di Severino. 43

Indice  44

 


Capo I. Chi fosse Severino. Quali cose abbiano dato motivo a questi racconti.

 

            Severino ebbe i suoi natali in un paese posto ai pie' delle Alpi. Dopo una serie di strane avventure egli ritornò in patria travagliato da una malattia che lo aveva condotto sull'orlo della tomba. Molti parenti ed amici si recavano con premura a visitarlo e udivano con gran gusto il racconto delle cose cui egli aveva preso parte o ne era stato testimonio. Un giorno fu dai medesimi invitato a raccontar loro con ordine le vicende di sua vita. Noi verremo volentieri ad ascoltarvi, soggiunsero, {3 [3]} e con noi verranno eziandio altri amici, i quali certamente saranno al par di noi ricreati.

            Sebbene Severino fosse molto affranto per la malattia sostenuta, nulladimeno godeva assai delle visite di persone oneste, da cui udiva o alle quali raccontava con bel garbo cose amene o morali. Poichè vi piace così, loro rispose, io vi esporrò di buon grado i casi strani della mia vita e questo fo volentieri, perchè vi porgerò motivo di venirmi a visitare, e dal canto mio avrò un' occasione di riparare almeno in parte lo scandalo dato; ma più ancora affinchè le mie sciagure servano ad altri d'avviso per evitare gli scogli che conducono alla rovina tanta inesperta gioventù. Debbo per altro premettervi che per ragionevoli motivi dovrò tacere il nome di luoghi e di persone che forse andrebbero esposte a dimande inopportune. Che se qualche volta voi mi vedrete commosso ed anche versar lagrime sulle passate mie sventure datemi benigno compatimento. {4 [4]} Sono uomo e sento vivamente quello che onora o degrada la povera umanità; potete non di meno essere certi che in mezzo a' miei detti non vi sarà sillaba che non si appoggi sopra la verità di quanto vi verrò esponendo.

            Sparsa la notizia che Severino avrebbe raccontate le sue avventure intervenne un gran numero di uditori, tra cui molti giovanetti del vicinato, perchè tutti sapevano che Severino aveva studiato e letto molto e ne' lunghi suoi viaggi aveva avuto parte a curiose vicende.

            Vedendo Severino la sua camera piena di gente fe' cenno ad ognuno di sedersi e poi incominciò a raccontare i casi della sua vita coll'ordine che segue.

 

 

Capo II. Severino parla delle industrie di suo padre pel bene della famiglia.

 

            Giacchè cosi vi piace e per questo scopo, o cari amici, vi siete qui raccolti, intraprenderò {5 [5]} l' esposizione delle avventure a cui presi parte nella mia vita.

            Come vi e ben noto, io nacqui in un paese alquanto elevato e posto dove le alpi cominciano ad appellarsi montagne. I miei genitori erano buoni cristiani e si adoperarono per educarmi ed istruirmi nella cristiana religione. Io era il maggiore di cinque fratelli. Non avevamo molte sostanze, ma mercè il lavoro e l'industria potevamo procacciarci onoratamente il pane della vita. Mia madre attendeva agli affari domestici, procurava che fossero per tempo coltivati que' campi e que' castagneti che formavano la parte principale delle nostre sostanze. Mio padre da giovanetto cominciò ad esercitare un piccolo commercio in oggetti di maglia, di tela, di lana, di filo e di cotone. Lungo l'estate promuoveva i lavori di questo genere e comperava cose alla spicciolata or qua or là; nell'autunno poi si recava nelle città per farne spaccio. Con questo mezzo egli animava l'industria nella patria, e faceva {6 [6]} sì che molti nell'autunno potessero vendere con facilità i prodotti delle loro fatiche e quindi provvedersi di que' commestibili di cui difettano i paesi alpestri. Mio padre si era acquistala buona riputazione e col discreto patrimonio di stabili, e con un sufficiente capitale in commercio procacciavasi mezzi per fare del bene al suo simile, e perciò era da tutti amato ed onorato.

            Mentre attendeva a' suoi materiali interessi non dimenticava i doveri del buon cristiano. Appena la figliolanza giunse all'età capace si diede premura d'inviarla alle scuole. Egli stesso la faceva da ripetitore e spesso consacrava i momenti destinati al riposo per rivederci i temi della scuola e farci recitare le lezioni assegnate o spiegare le difficoltà che in quella età ad ogni linea soglionsi incontrare. Talvolta nel tempo stesso che desinava facevanni recitare o declamare un brano di qualche libro. Quando fui promosso alla quarta elementare dovetti applicarmi in {7 [7]} cose non ancora insegnate quando egli frequentava le scuole. Esso allora mi cercò un buon ripetitore che facesse da maestro nella scienza e nella moralità.

            Siccome mia madre non si occupava gran fatto dell'educazione de' suoi figliuoli, vi suppliva mio padre. Io toccava appena i sette anni, e già soleva condurmi seco alle sacre funzioni parochiali. Mi ricordo che per la piccola statura non potendo bagnare le dita nell'acquasantino, egli mi alzava affinchè ci potessi giungere, guidavami la mano nel fare il segno della santa croce, poi facevami mettere in ginocchio accanto a lui assistendomi nel modo più amorevole.

            All'epoca della mia prima comunione volle egli medesimo prepararmi, e tutto il mese che precedette a quel memorando giorno soleva mattino e sera farmi leggere un capo del libretto Gesù al cuor del giovane aggiungendovi quelle osservazioni che egli giudicava per me adattate. Nel mattino fissato pella comunione stette meco {8 [8]} quattro ore in chiesa. Mi assistè nel confessarmi, nel prepararmi, nel comunicarmi e fare co' miei compagni il dovuto ringraziamento. « Severino, dissemi nel condurmi a casa, per l'avvenire richiama alla memoria la gioia di questa giornata. Ma ricordati che tu puoi conservare nel tuo cuore le delizie di un si bel giorno fino a tanto che l'offesa di Dio non allontanerà dal tuo cuore la sua santa grazia. Aveva la commendevole abitudine di recitare le ordinarie preghiere colla famiglia. Al mattino tutti ci levavamo di letto ad un' ora determinata, quindi con mia madre, co' miei fratelli e sorelle, colle persone di servizio e talvolta con parenti ed amici ci mettevamo ginocchioni; egli stesso guidava la preghiera pronunziando e facendoci pronunziare le parole in maniera pia, divota e distintamente. La sera faceva lo stesso; ma prima che si andasse a letto voleva sempre che fosse fatta un po' di lettura intorno alla vita del santo di quel giorno. {9 [9]}

            Che dirò poi della carità e della limosina del mio buon padre? Egli sapeva guadagnare e risparmiare ed a suo tempo sapeva anche spendere. Soleva più volte raccontare in famiglia, come egli con sulle spalle un canestro pieno di tela di varie qualità andava di paese in paese per effettuarne lo spaccio. Caldo, freddo, sudore, fame e sete erano quasi sempre i suoi compagni indivisibili. Ne' suoi viaggi per lo più camminava a piedi. Alberghi, osterie, caffè non erano da lui nè abitati e nemmeno visitati. Il mio pranzo ordinario, diceva, era un tozzo di pane con un pezzetto di cacio, acqua fresca e talvolta un bicchiere di vino offertomi da qualche generoso compratore.

            Mio padre pertanto mettendo così insieme i minuti guadagni del commercio coi prodotti del bestiame e de' suoi poderi potè in breve tempo aumentar notabilmente la sua fortuna a bene proprio ed altrui. Niun mendico bussava alla porta di nostra casa senza che ottenesse, se non {10 [10]} danaro, almeno minestra o pane. Presso di lui lo stanco trovava riposo; il debole era ristorato; il cencioso veniva vestito, il pellegrino bene accolto. Che più? Giunse talvolta a dare ricetto in casa sua a poveri ammalati che faceva assistere e curare a proprie spese. Non parlo delle sollecitudini che si dava per soccorrere famiglie indigenti, specialmente quelle in cui si trovassero infermi. La limosina, soleva dire, non fa diventar povero; i miei affari cominciarono ad andar bene quando ho cominciato a largheggiare in limosine. Il Salvatore disse: Date ai poveri, e Dio ne darà a voi; ed io provai col fatto che Dio anche nella presente vita dà il centuplo di quanto facciamo per amor suo. Mio padre pertanto godeva la stima de' suoi compatrioti, l'amore di tutti i buoni. Le sue sostanze lo avevano collocato fra i cittadini più benestanti e accreditati, e fu due volte eletto sindaco del paese. Ma in mezzo a tante benedizioni la Provvidenza gli aveva seminate pungenti spine. {11 [11]}

 

 

Capo III. Severino parla dell'indolenza di sua madre.

 

            Gli affari di mio padre riuscivano prosperamente, ed ogni impresa per lui era un guadagno; ma una grande tribolazione aveva in colei che avrebbe dovuto essergli di aiuto e di conforto. Mia madre non corrispondeva alle sollecitudini del marito. Io parlo di lei con amore e con rispetto, ma ad onore del padre mio debbo disapprovare non poche azioni di lei; tanto più che espongo cose a voi note, così che io non fo altro che ricordarle.

            Emilia, è il nome di mia madre, apparteneva a famiglia di civile condizione alquanto decaduta. Nello sposare mio padre pensavasi di migliorare fortuna, e certamente la sua aspettazione sarebbesi avverata, se corrispondendo allo zelo del marito avesse operato da vera madre di famiglia. Pretendeva vestir con eleganza oltre alla sua condizione, cosa che al sommo {12 [12]} dispiaceva al padre mio. Emilia, le diceva talvolta, ricordati che è meglio andar vestiti di cenci senza debiti, che portare abiti eleganti, ma ancora da pagarsi al mercante.

            Non si contentava dell'ordinario apprestamento della mensa. Una bottiglia di vino, un manicaretto, un confetto, un pane semolato, un fiaschetto di liquore erano i nascondigli suoi. Se andava al mercato od alla fiera difficilmente visitava la chiesa; ma il caffè e qualche volta anche l'osteria non erano dimenticati. Mio padre sapeva tutto, più volte l'avvisò, ed a fine d'impedirla teneva il danaro sotto chiave. Essa allora usando con maestria l' industria dei ghiottoni, aspettava che il marito fosse lontano di casa, e poi dava di piglio ora ad un sacchetto di frumento, ora di ceci, di fagiuoli, oppure ad alquanto di burro, di vino, di pollame e giunse fino ad involare alcune merci depositate da corrispondenti in casa del padre mio. Queste cose vendeva per lo più a prezzo vile per {13 [13]} provvedersi abiti, o per appagare la sua ghiotternia. Voleva parimenti che i suoi figliuoli andassero ben vestiti. Mio padre un giorno la corresse severamente e la minacciò per fino di cacciarla di casa. Ella promise emendazione, ma non fu verità.

            Un giorno mia zia con un bel garbo le richiamò a memoria gli avvisi e le minacce di mio padre, e studiava di farle mettere testa a partito. Voi parlate bene, rispose, mio marito ha ragione, ma io la penso diversamente. Si vive una volta sola, Dio ci dà le sostanze per servircene, e non per adorarle; l'avarizia è un brutto vizio che non voglio in casa mia.

            Sorella, rispose mia zia, voi parlate a sproposito. Si vive una sola volta, e perciò dobbiamo servirci di questa vita per farri del bene e non per darci all'intemperanza. Dio ci dà le sostanze per farne buon uso per noi, per la famiglia, e pel nostro prossimo. Voi siete obbligata a conservare le sostanze ed a farne risparmio pei vostri figliuoli; siete obbligata a cooperare con {14 [14]} vostro marito al loro bene. Voi non volete essere avara e fate bene. Ma passa grande differenza tra l' avarizia e lo scialacquo. Vostro marito non è avaro, non è scialacquatore; è un uomo che lavora e suda per procacciare onesto sostentamento alla famiglia e beneficare il suo simile. Voi dovreste imitarlo.

            Poco badando a questi riflessi continuava a spendere senza regola. Certi abiti che per lei erano sufficienti, giudicavali non più adattati: scarpe, guanti, orecchini, cuffie e simili ornamenti donneschi voleva che fossero tutti alla moda. Quindi voi, o amici, avrete non di rado veduta una contadina colla fronte rugata e colle gote magre ed abbronzate, abbigliata da signorina. La quale cosa moveva a riso quanti la osservavano ed eccitava a sdegno il povero mio padre che spargeva sudori di sangue per migliorare la sorte di sua famiglia.

            Un giorno mio padre parti pe' suoi affari di commercio, ma a cagione di alcune carte dimenticate ritornò indietro inaspettato. {15 [15]} Egli colse mia madre al momento che partiva per la fiera di un paese vicino. Al rimirare lo strano abbigliamento, Emilia, le disse, fai la più brutta figura del mondo; sembri proprio una maschera da carnovale. Che cosa porti a vendere? Niente, rispose, vado soltanto a far compera di alcuni abiti indispensabili per la famiglia. Ma ciò dicendo e tremolandole la mano, formavasi una specie di corrente fatta dalla farina che essa teneva nascosta in un taschetto e che scorreva fino a terra, svelando così la menzogna e il furto di lei. Altra volta essendo in simile guisa sorpresa, mentre secondo il solito voleva negare, lasciò cadere a terra un fiasco d'olio che intendeva portare al mercato per venderlo arbitrariamente.

            Sebbene mio padre fosse d'indole mitissima e preferisse quel danno piuttosto che eccitare discordie in famiglia, tuttavia, dopo di averla più volte invano minacciata, un giorno trasportato da giusto sdegno la percosse non leggermente, e le cose sarebbero {16 [16]} state condotte più avanti se io e mia sorella piangendo genuflessi ai piè di lui non ne avessimo calmato lo sdegno e così impedite più triste conseguenze.

            Malgrado questi disturbi e questi scialacqui mio padre colla vigilanza, coll'attività, colla fatica, o dirò meglio, colla benedizione del cielo, potè giungere ad un florido stato di fortuna.

            Godeva quelle consolazioni che sono proprie di chi vede la propria figliuolanza crescere nella sanità, nell'onore e nella moralità. Queste cose facevano pronosticare un felice avvenire per sè e per la sua famiglia, quando un tristo avvenimento ci gettò tutti nella più squallida indigenza.

 

 

Capo IV. Severino racconta un grave disastra avvenuto in famiglia.

 

            Mio padre aveva un cuore fatto per beneficar quanti poteva. Raccomandazioni, lettere, ospitalità, servigi, soccorsi ai poveri, {17 [17]} assistenze agli ammalati erano cose che egli faceva ogni giorno col massimo piacere. Aveva soltanto ripugnanza a prestar il suo nome per sicurtà. Amo meglio, soleva dire, dare assolutamente quello che posso, piuttosto che dar sicurtà pei contratti altrui.

            Tuttavia un giorno venne un suo corrispondente a pregarlo di impedire la rovina del proprio commercio. Se non pago, diceva l'amico, o non presento un mallevadore, tutte le mie merci vanno all'incanto, sarà chiuso il negozio e la mia famiglia ridotta alla mendicità. Con una parola, o Gervasio, (è il nome di mio padre) voi potete salvare l'onor mio e togliere la sventura dalla mia famiglia. Ho una cambiale di somma uguale che mi sarà infallantemente fra tre mesi pagata. Ben lo sapete che le cambiali sono danaro contante; non vi domando altrochè due linee di malleveria. Esitò più giorni mio padre; ma finalmente si arrese. Non ho mai voluto essere sicurtà, diceva, è questa la prima {18 [18]} volta; mi arrendo per fare un'opera buona, succeda quello che a Dio piacerà. Firmò e si rese mallevadore pel debito dell'amico.

            Momento fatale! La buona volontà del principale non bastò: i suoi crediti divennero inesigibili, mio padre dovette egli stesso pensare al pagamento.

            Il buon genitore conobbe allora il cattivo passo; ma era troppo tardi. Si aggiunga per sopra più che il debito in realtà era assai maggiore di quanto si diceva; inoltre ogni cosa doveva pagarsi entro brevissimo termine. Perciò egli fu costretto a precipitar la vendita di alcune merci, a farsi anticipare esazioni, disfarsi di vari capitali: tutte queste cose non bastavano. Fu giuocoforza porre in vendita anche un corpo di casa ed una cascina che con duri stenti si era procacciata. In fine diversi creditori, vedendo volgere in male i suoi affari, levarono pretese per fargli sistemare gravi interessi prima del tempo convenuto. Ciò non potendosi fare legalmente, addussero il timore di fallimento e posero {19 [19]} il sequestro su tutti gli stabili del debitore. Per tal modo abbattuto e bersagliato dalla fortuna, Gervasio non si perdè di animo e tentò di liquidare quanto ancor possedeva per ripigliare il primitivo commercio in una sfera più ristretta; ma non riusci. Niuno più voleva fargli credito e i tempi cangiati rendevano molto difficile lo spaccio di merci a contanti. Quell'uomo cristiano alzò allora gli occhi al cielo ed esclamò: Dio mi ha data la fortuna, Dio l'ha tolta, così a lui piacque, così fu fatto, sia sempre ed in ogni cosa benedetto il suo santo nome.

            Una sera recitate colla famiglia le solite preghiere disse: Domani andremo tutti a fare la nostra confessione e la nostra comunione; pregheremo Dio che ci illumini e ci apra una strada per poterci in qualche modo guadagnare il pane della vita.

            Tutti acconsentimmo e la stessa mia madre, che fino a quel punto parve insensibile, restò commossa e promise che {20 [20]} di buon grado sarebbesi anch'essa associata agli altri per recarsi in chiesa ad invocare la misericordia del Signore.

            Compiuti quei religiosi doveri, il buon genitore radunò la famiglia e facendosi animo per non rompere in troppo gravi commozioni prese a parlar così:

            Miei cari, la mano del Signore ha pesato sopra di noi. Avevamo poco e coll'aiuto del cielo avevamo acquistato di che vivere onestamente. Ora tutto è perduto. Questa casa non è più nostra, i nostri poderi appartengono ad altri padroni, l'esercitar il solito commercio mi è impossibile. Ma Dio padre nostro non ci abbandonerà. Nella mia gioventù ho fatto qualche tempo il muratore e farò ritorno all'antico mestiere. Tu, Severino, porterai calce e mattoni, io sarò bracciante da cazzuola. Il guadagno sarà scarso, ma chi ha saputo guadagnar molto saprà vivere con poco. Tu, Emilia, abbi cura degli altri ragazzi. Tu, sono costretto a dirlo, hai anche avuto parte a questa sventura. {21 [21]} La tua ambizione, la tua indolenza.... Ma tiriamo un velo sopra rimembranze troppo dolorose ed inutili. Tu rimarrai in patria e mediante una stretta economia, col sussidio che noi t'invieremo ogni mese potrai avere il pane quotidiano. Ma perchè piangi, o Emilia? - Io piango, rispose, pel vostro avvenire; non è possibile che voi e Severino possiate reggere a cotanto dure fatiche, perciò è impossibile che mi mandiate sussidio.

            Se confidiamo nelle nostre forze, soggiunse il buon Gervasio, faremo niente e morremo di fame. Che se Iddio provvede agli uccelli dell'aria, ai pesci del mare, ai gigli del campo, non provvederà eziandio per noi? Riponiamo in lui la nostra fiducia e facciamo quanto possiamo per addolcire le amarezze di un tristo avvenire. Coraggio adunque, economia, lavoro, preghiera siano il nostro programma. Che se ci toccasse di sostenere gravi privazioni, non importa: noi cristiani sappiamo per fede che i patimenti della vita giovano {22 [22]} efficacemente per giungere all'eterna felicità del cielo.

 

 

Capo V. Severino parla delle fatiche del padre.

 

            Pochi giorni dopo mio padre partiva alla volta di Torino conducendo seco il povero Severino che doveva cangiare i libri e la penna colla secchia e col cestino. Io era sano, robusto ed in breve ho potuto abituarmi ai pesanti lavori di mastro muratore. Mio padre a motivo dell'età trovò da prima non piccole difficoltà; ma per fortuna incontrò un valente muratore che se lo prese per coadiutore nella costruzione di un grande edifizio. Di modo che tra la sua buona volontà, la sofferenza e l'ammaestramento dell'amico potè ben presto divenire capace di guadagnarsi una discreta giornata.

            Una sera per altro trovandosi molto stanco strinse tra le sue mani le mie, e {23 [23]} al rimirarle incallite e livide per le insolite fatiche, osservando la mia faccia tutta abbronzala ed annerita dal sole, sospirando esclamò: Povero Severino, miglior sorte era serbata per te. Caro padre, tosto risposi, io son contento di lavorare anche di più, purchè vi possa recare qualche conforto. Una, domenica a sera lo vidi nuovamente afflitto più del solilo; diedemi la consueta cena, ma egli non gustò cibo di sorta. Io vedeva sulla sua fronte descritta l'intensità del dolore, ma non ardiva dimandargliene la cagione.

            Severino, mi disse con voce agitata, va presto a dormire e riposa tranquillo, giacchè dimani avrai molto a faticare. Ubbidii prontamente, ma la costernazione dell'amato genitore allontanò il sonno dagli occhi miei, cosicchè io stava in letto con lo sguardo segretamente rivolto a lui.

            Persuaso che io dormissi egli cominciò a passeggiare per la camera sospirando e lacrimando. Se io fossi solo, diceva, sentirei meno il peso della sventura, ma {24 [24]} la moglie... i miei figli morranno di fame. Di poi dando in dirotto pianto, si gittò ginocchioni davanti ad un crocifisso: Mio Dio, esclamò, se voi non mi aiutate io son perduto, abbiate misericordia di me. A quel trasporto di dolore, a quella specie di disperazione del padre mio non potei più reggere. Balzai di letto e corsi ad inginocchiarmi davanti a lui dicendo: Padre mio, caro padre, che mai avete, ditemelo, io procurerò di consolarvi e se non posso far altro dividerò con voi le lagrime ed il dolore.

            - Caro Severino, nuove sventure cadono sopra di me, tu va, dormi quieto.

            - E impossibile che io possa dormire, se non so la cagione dei vostri affanni.

            - Severino, sono due mesi da che noi lavoriamo e ci priviamo quasi del necessario alimento per inviare qualche soldo a tua madre, ma oggi ricevo lettera con una cambiale concernente alla fatale mallevadoria, in forza di cui mi è minacciata la cattura se non pago cento franchi fra {25 [25]} tre giorni. In questa guisa è consumato il poco danaro che con due mesi di fatiche e di privazioni abbiamo guadagnato.

            - Abbiate pazienza, caro padre, il destino non sarà sempre avverso, io saprò lavorare e guadagnare, e spero che in poche settimane potremo raggranellare altro danaro. Intanto date pace ai vostri affanni, venite, andiamo a riposo; Dio ci aiuterà.

            Si mostrò egli alquanto consolato da queste parole, e asciugandosi le lagrime diedemi un amorevole bacio e andammo ambidue a letto. La divina Provvidenza venne di fatto in nostro aiuto. La sanità ci favorì, io aiutava mio padre nel miglior modo possibile, e nella esecuzione di un lavoro affidatoci a nostro rischio e guadagno siamo riusciti a porre insieme una discreta somma di danaro che servì a provvedere alle più urgenti strettezze della famiglia. Anzi mio padre ripigliando poco per volta la sua antica energia venne fatto assistente di alcune opere di maggior {26 [26]} importanza con più vistoso guadagno. È vero che egli non era molto pratico dei nuovi pesi e delle nuove misure di capacità che si andavano introducendo, ma io aveva già acquistate quelle cognizioni nelle scuole percorse, sicchè alla sera notava e talvolta correggeva quanto era del caso. Una cosa poi che mi torna sempre di cara rimembranza si è che in mezzo a tante fatiche mio padre non trascurò mai i suoi religiosi doveri. Certe sere giungevamo a casa cadenti per la stanchezza; avevamo ancora il boccone tra i denti e già il sonno ci opprimeva; nulladimeno levandosi di tavola ponevasi meco ginocchioni per recitar le preghiere e fare alcuni minuti di lettura di un libro che egli aveva sempre seco intitolalo: Pascolo quotidiano dell'anima divota.

            Nei giorni festivi conducevami a cantare i divini uffizi in una confraternita; alla predica adavamo sempre nella chiesa di s. Francesco d'Assisi. Non meno di una {27 [27]} volta al mese conducevami seco a ricevere i santi sacramenti.

            Non dimenticarti giammai, dicevami, o caro Severino, che nel mondo tutto si può perdere per le disgrazie, ma la virtù, il merito delle opere buone, la religione non possono esserci rapite dalla sventura. Altra volta soggiunse: Noi siam diventati poveri, ma ricordati che saremo sempre ricchi se ci manterremo nel santo timor di Dio. Questo tesoro non ci può essere dagli uomini tolto senza nostro consenso!

 

 

Capo VI. Severino racconta la morte del padre.

 

            Terminava quell'anno di dure prove e mio padre faceva ritorno alla famiglia co' suoi risparmi. Potè con essi provvedere segala, meliga, castagne con altre cose di maggior necessità, e ciò sembrava dargli novella vita. Ma nel mese di gennaio gli sopraggiunsero nuove passività {28 [28]} da estinguere, ed egli non sapendo più dove trovar danaro cadde di nuovo in una tetra malinconia. Un suo amico gli disse di pubblicare il fallimento, a fine di non essere più tenuto a pagare i debiti prima contratti. Egli per altro con fermezza rispondeva: I fallimenti per non pagare i debiti sono un vero ladroneccio, e non mai da proporsi ad un uomo onesto. Vivrò nella miseria, morrò negli stenti, ma ho detto di pagare e finchè avrò un centesimo lo porterò ai miei creditori. Amo meglio morir povero onorato e colla coscienza pura, che vivere agiato a danno altrui.

            Sebbene mio padre facesse grandi sforzi per dimostrarsi rassegnato e fidente in un miglior avvenire, tuttavia era scomparsa dal suo volto quella giovialità con cui rallegrava parenti ed amici. Qualche volta prendeva parte a discorsi ameni che lo movevano al gaudio ed al piacere, ma non rare volte al lieve sorriso succedevano le lagrime e i sospiri. Di notte eziandio {29 [29]} invece di dormire udivasi spesso tramandare gemiti e lamenti. Qualche volta lo vidi interrompere il pranzo per dare sfogo agli affanni. Queste cose lo ridussero a grave debolezza che egli invano studiava di nascondere.

            Si aggiunse che un giorno ha voluto portare sulle spalle un pesante cestone di commestibili da un paese alquanto lontano. La lunghezza del cammino, la sua debolezza, il peso fecero sì che arrivasse sfinito di forze e molle di sudore cui egli non badò a riparare. Di qui ebbe origine una costipazione, una tosse con febbre, che lo costrinsero a mettersi definitivamente a letto.

            Il medico facevagli animo assicurando essere il suo male di niuna conseguenza. Alcuni giorni di riposo, gli diceva, con qualche leggero rimedio vi restituiranno la primiera sanità: ma egli continuava ad asserire che i suoi mali erano molti, e le sue forze esauste, per ciò avere poca speranza di guarigione. A fine di prevenire {30 [30]} le conseguenze di una morte non preveduta mandò me a chiamare il paroco che di buon grado venne a fargli visita. Si trattenne assai con lui per sistemare affari di comune interesse. Perciocchè nelle sue dolorose circostanze mio padre aveva a lui fatto ricorso per varie somme piccole, ma che unite insieme formavano un debito assai notabile. Signor prevosto, diceva mio padre, io veggo la morte avvicinarsi a grandi passi, e non so come io a la mia famiglia potranno pagare i debiti che io ho verso di voi. È danaro sacro che voi mi avete imprestato ed è troppo giusto che vi sia restituito. Ma....

            - Non parlate di questo, rispose il degno paroco, ho già provveduto ad ogni cosa: ecco qui i foglietti su cui avete voluto farmi le obbligazioni. In presenza vostra e di tutta la famiglia ne fo altrettanti pezzi e niuno vi farà più domanda a questo proposito. Di più quel vostro creditore che faceva tante istanze, ieri l'ho soddisfatto colla somma di cinquanta lire, {31 [31]} e di queste pure voi non vi dovete più prendere alcun fastidio.

            - Signor prevosto, interruppe mio padre, voi recate al mio cuore la più grande consolazione che io possa provare in questo mondo! siatene mille volte ringraziato e Iddio centuplichi sopra di voi quel bene che fate a me ed alla mia famiglia. Ora nulla più mi rimane che provvedere all'anima mia.

            Aggravandosi ognor più il male, ricevette i conforti di nostra santa cattolica religione colle più edificanti disposizioni; di poi chiamò tutta la famiglia intorno al letto e disse: Miei cari, i mali che mi aggravano mi convincono che non potrò più avere se non pochi giorni di vita. Mi rassegno ai decreti del cielo, e sono pieno di fiducia che le pene della vita mi daranno qualche giovamento per l'eternità. Dio mi diede molte consolazioni e molte tribolazioni, ma sia tutto a sua maggior gloria e pel bene dell'anima mia. Tu intanto, Emilia, pensa più da senno al buon {32 [32]} essere della famiglia. Io non potrò più assistervi; vi assisterà Iddio se lo amerete e praticherete la sua santa legge. Il nostro paroco ci ha fatto gran bene, nè mancherà di aiutarvi per l'avvenire, perciò non dipartitevi mai da' suoi prudenti consigli.

            Tu poi, o Severino, qual maggiore dei fratelli tuoi, non cessar mai di dar loro buon esempio colla pratica della virtù. Ricorda ognora che il loro padre amò meglio essere ridotto all'indigenza, che tradire i doveri dell'uomo onesto e del buon cristiano.

            Avvi poi una cosa che mi fa temere assai del tuo avvenire. È questa la tua grande avidità di leggere come che sia, senza badare se siano buone o cattive letture. Procura adunque di evitare i cattivi libri ed i cattivi giornali, e nello stesso tempo quei compagni che cercassero di allontanarti dal sentiero della virtù.

            Padre mio, l'interruppi piangendo, siate sicuro che i vostri consigli non saranno giammai dimenticati.

            Dopo qualche ora mi chiamò di nuovo, e {33 [33]} non senza grave stento mi disse: Severino, se puoi fa del bene a tutti, ma non renditi mai mallevadore dei pagamenti altrui. Voleva ancora proseguire il discorso, ma non potè più. Il prevosto veniva a visitarlo più volte al giorno, ed una sera, fu l'ultima di sua vita, scorgendolo in pericolo di prossima morte, volle vegliarlo nel corso della notte. Noi eravamo tutti raccolti intorno al letto dell' infermo. Il paroco pregava con noi e di tanto in tanto suggerivagli qualche giaculatoria. Giunta la mezzanotte ci siamo accorti che mio padre voleva dir qualche cosa. Con grande sforzo proferi queste sue ultime parole: pregale per me in questo terribile momento; dimani è giorno della Purificazione di Maria Santissima ed ho fiducia che questa madre di misericordia mi assista al tribunale di Gesù Cristo. Non ci vedremo più nella vita presente, ma spero che ci rivedremo nella beata eternità. Mentre così parlava tenevami strette le mani: Coraggio, mi disse con voce appena intelligibile, coraggio, Severino, sii {34 [34]} fermo nella religione dì tuo padre fino alla morte.

            In quel momento mi lasciò libere le mani, diede uno sguardo a noi quasi dicendo, addio: rimirò il prevosto come per ringraziarlo; lasciò cadere il crocifisso che si teneva davanti, e mentre si recitavano le preghiere degli agonizzanti, quell' anima cara saliva in seno al Creatore. Ciò avveniva il 2 febbraio nella buona età d'anni 47. O padre sempre amato, perchè mi abbandonaste nel tempo che io aveva maggior bisogno di voi! Ma Iddio vi chiamava al godimento dei veri beni. Nè voi mi abbandonaste, perciocchè dal cielo pregaste per me e mi otteneste di poter uscire dall'abisso in cui mi era sventuratamente precipitato.

 

 

Capo VII. Parla de' suoi trattenimenti nell'Oratorio.

 

            Trista in vero era la condizione di mia famiglia, ma bisognava prendere qualche risoluzione per provvedere almeno le cose {35 [35]} più necessarie alla vita. Alcuni parenti si presero cura de' miei fratelli più piccoli; mia madre sembrò risentirsi a tanti colpi di avversa fortuna, e si mise a lavorare da sarta secondo che aveva imparato nel tempo di sua educazione. Io poi, secondo il consiglio di mio padre, mi posi la secchia sulle spalle e feci ritorno a Torino. Fino allora era sempre stato guidato dalla prudenza di mio padre, ma in quel punto io mi trovava come un poliedro non buono ad altro che a correre e saltellare sbadatamente e con pericolo di rovinarmi. I pericoli nelle grandi città sono gravi per tutti, ma sono mille volte maggiori per l'inesperto giovanetto.

            L'anno antecedente mio padre mi aveva fatto conoscere un certo Turivano Felice uomo di molta carità ed esemplare in religione. Io mi recai tosto da lui per avere direzione e consiglio. Questi mi cercò un padrone che mi dava pane e lavoro per tutti i giorni feriali. Ma come passare i giorni festivi? Talvolta egli mi conduceva {36 [36]} seco alla messa, ai divini uffizi, alla predica e poi mi lasciava in libertà. Quindi alcuni compagni mi invitavano a giuocare, a far partita alla bettola o al caffè, dove è inevitabile la rovina morale di un par mio che appena toccava gli anni quindici. Una domenica il buon Turivano, Severino, mi disse, non udisti mai a parlare di un Oratorio, ovvero di un giardino di ricreazione, in cui va una moltitudine di giovanetti a trastullarsi nei giorni festivi?

            - Qualche cosa mi avete già detto voi l'anno scorso. Anzi m' avevate promesso di condurmivi, ma non l'avete mai fatto.

            - Quest'Oratorio una volta era nella nostra chiesa di s. Francesco d'Assisi, ed ora venne traslocato in altro angolo della città.

            - Che cosa si fa in quest'Oratorio?

            - In quest' Oratorio ciascuno soddisfa ai suoi religiosi doveri, di poi vi si trattiene in piacevole ricreazione.

            - Qual genere di ricreazione?

            - Salti, corse, giuoco delle bocce, delle {37 [37]} pallottole, delle piastrelle, delle stampelle, cantare, suonare, ridere, scherzare, e mille altri trastulli.

            - Perchè non mi avete mai condotto? lo interruppi pieno di ansietà. Dove si passa per andarvi?

            - Ti condurrò io stesso altra domenica, e ti raccomanderò al direttore di quei trattenimenti affinchè ti usi speciale riguardo.

            I giorni di quella settimana mi parvero anni; e nel lavoro, nel mangiare, e nello stesso sonno mi sembrava sempre di udir la musica, vedere salti, giuochi d' ogni genere.

            Venne finalmente la domenica e alle 8 del mattino giunsi al sospirato Oratorio. Credo che voi, miei buoni amici, ascolterete con piacere un cenno intorno alle cose che qui ho veduto. Era un prato dove oggidì appunto avvi una fonderia di getto ovvero di ghisa; una siepe di bosso lo cingeva. Eranvi circa trecento giovanetti divisi in tre categorie; gli uni si trastullavano; gli altri stavano ginocchioni intorno al direttore {38 [38]} che seduto sopra una riva nell'angolo del prato li ascoltava in confessione; molti poi, terminata la confessione, si arrestavano a qualche distanza a pregare.

            Venuto alla domenica nel luogo sospirato, io restai sbalordito. Non voleva interrogare nissuno, perchè era estatico di maraviglia come chi si trova in un mondo nuovo pieno di cose curiose, desiderate ma non ancora conosciute. Un compagno accorgendosi che io era novizio tra loro, mi si avvicinò e in un modo garbato, amico, mi disse, vuoi giuocare con me alle piastrelle? Questo era il mio giuoco prediletto, perciò con trasporti di gioia accettai la proposta. Avevamo terminato la partita quando il suono di una tromba impose silenzio a tutti. Ognuno lasciando i trastulli, si raccolse intorno al direttore. Giovani cari, disse questi ad alta voce, è ora della santa messa, questa mattina andremo ad ascoltarla al monte dei cappuccini, dopo la messa avremo una piccola colezione. Quelli a cui mancò tempo {39 [39]} di confessarsi oggi potranno confessarsi altra domenica: non dimenticate che ogni domenica avvi comodità di confessarvi.

            Detto questo, suonò di nuovo la tromba e tutti si posero ordinatamente in cammino. Uno dei più adulti cominciò la preghiera del rosario, a cui tutti gli altri rispondevano. La camminata era quasi di tre chilometri, e sebbene non osassi associarmi cogli altri, tuttavia spinto dalla novità li accompagnava a poca distanza, prendendo parte alle comuni preghiere. Quando eravamo per intraprendere la salita che conduce a quel convento si cominciarono le litanie della B. V. Questo mi ricreò assai, perciocchè le piante, gli stradali, il boschetto che coprono le falde del monte facevano eco al nostro canto e rendevano veramente romantica la nostra passeggiata.

            Venne celebrata la messa in cui parecchi compagni si accostarono alla santa comunione. Dopo breve sermone e fatto sufficiente ringraziamento andammo nel {40 [40]} cortile del convento per fare la colezione. Non ravvisando alcun diritto alla refezione dei miei compagni, io mi ritirai aspettando di accompagnarli nel loro ritorno, quando il direttore avvicinandosi mi parlò così:

            - Tu come ti chiami?

            - Severino.

            - Hai presa la colezione?

            - No, signore.

            - Perchè?

            - Perchè non mi sono nè confessato, nè comunicato.

            - Non occorre nè confessarti, nè comunicarti per avere la colezione.

            - Che cosa si ricerca?

            - Niente altro che l'appetito e la volontà di venirla a prendere. » Ciò detto mi strinse la mano e mi condusse al cesto dandomi in abbondanza pane e ciriegie. Dopo il mezzodì vi sono ritornato e con tutto mio gusto ho preso parte alla ricreazione fino a notte. Per un mese non ho più potuto recarmi all'Oratorio e quando vi ritornai ho trovato un notabile cangiamento. {41 [41]} L'Oratorio era stato trasferto in Valdocco propriamente nel sito dove in appresso fa fondata la chiesa e la casa nota sotto al nome di S. Francesco di Sales. Qui la località essendo più adattata si poterono più regolarmente introdurre gli esercizi di pietà, la ricreazione, i trastulli, le scuole serali e domenicali.

 

 

Capo VIII. Severino racconta parecchi ameni episodi.

 

            Non è mio scopo di esporvi la storia, il regolamento, le vicende che accompagnarono l'origine, il progresso di questa instituzione; intendo solamente di esporvi alcuni dei molti episodi che accaddero a me stesso o di cui sono stato io medesimo testimonio.

            Frequentava da qualche mese quest'Oratorio, partecipando alla ricreazione, ai trastulli ed anche alle funzioni religiose, come sono messa, catechismi, vesperi, {42 [42]} predica; anzi quando si cantavano salmi, inni o laudi sacre io prendeva parte con tutto il mio gusto e cantava con quanto aveva di voce. Non mi era peraltro ancora accostato al sacramento della confessione. Non aveva alcun motivo per non andarvi, ma avendo lasciato trascorrere un po' di tempo non sapeva più come risolvermi a ritornarvi. Qualche volta il direttore mi aveva amorevolmente invitato ed io aveva subito risposto di sì; ed intanto ora con un pretesto, ora con un altro studiava di eludere que' paterni inviti. Un giorno tuttavia egli seppe cogliermi in modo veramente grazioso. Ascoltate: una domenica a sera era tutto intento in un giuoco che tra noi si chiamava bara rolla. Io vi era attentissimo e a motivo della calda stagione stava in manica di camicia. Tra l'ansia e il gusto del giuoco, e tra il caldo e il prolungamento del trastullo io appariva fuoco e fiamma. Nel bollore del giuoco, mentre non sapeva {43 [43]} se io fossi in cielo o in terra, il direttore mi chiama dicendo:

            - Severino, mi aiuteresti a fare una cosa di qualche premura?

            - Con tutto piacere, quale? dissigli.

            - Forse ti costerà un po' di fatica.

            - Non importa; fo qualunque cosa, sono assai forte.

            - Mettiti il farsetto col camiciotto e vieni meco.

            Il direttore precedeva, io l'ho seguito fin nella sacristia giudicando fosse ivi qualche oggetto da traslocare.

            - Vieni meco in coro, continuò il direttore.

            - Eccomi, signor direttore.

            - Mettiti qua in ginocchio.

            - Ci sono, ma che cosa vuole?

            - Confessarti.

            - Oh questo sì, ma quando?

            - Adesso.

            - Adesso non son preparato.

            - Lo so che non sei preparato, ma te ne do tutto il tempo: io reciterò una {44 [44]} parte considerevole del breviario, dopo farai la tua confessione.

            - Giacchè le piace così, mi preparerò volentieri, e non avrò più da darmi briga per cercare il confessore.

            Mi sono confessato con assai più di facilità di quello che mi aspettassi, perchè il caritatevole e bene esperto confessore mi aiutò mirabilmente con le sue saggie interrogazioni.

            Da quel giorno ben lungi dal provare ripugnanza per andarmi a confessare provava anzi gran piacere tutte le volte che poteva accostarmi a questo divin sacramento, cosicchè cominciai ad andarvi con molta frequenza.

            La chiesa poi, debbo dirlo, non era una chiesa, ma parte di un meschino edifizio. Una rimessa bassa, assai lunga, accomodata sotto di una tettoia era la magnifica nostra basilica. Fu d'uopo abbassare il pavimento di due gradini, affinchè un uomo entrando non urtasse nel soffitto.

            Appunto in questo sito si facevano funzioni {45 [45]} per noi le più care e maestose. In un angolo di essa era una cattedra sopra cui non tutti potevano ascendere per predicare. Era per altro molto adattata al celebre Teol. Gioanni Borelli, che essendo di assai bassa statura vi si accomodava a maraviglia e faceva ogni sera dei giorni festivi una predica con molto zelo e con molta soddisfazione dei giovanetti che numerosi intervenivano ad ascoltarlo.

            In quell'anno Monsignor Franzoni arcivescovo di Torino venne ad amministrare il Sacramento della Cresima in questa chiesuola. La funzione era cominciala quando il vescovo salendo all'altare doveva secondo il rito mettersi la mitra, ma ne fu impedito perchè urtava colla volta della chiesa. Da questo Oratorio si facevano amenissime camminate alla Madonna di Campagna, a Stupinigi, al monte dei cappuccini, a Sassi, a Superga ed altrove.

            Queste camminate si facevano nel modo seguente:

            Se era di mattino i giovani partivano {46 [46]} schierati e per la strada si pregava o si cantavano inni e laudi sacre. Giunti al luogo stabilito si compievano le pratiche di pietà, di poi fatta la colezione ognuno se ne andava pei fatti suoi.

            Le camminate del dopo mezzodì erano più amene e brillanti: valga per esempio una di quelle che più volte abbiamo fatto a Superga. Prendevamo due od anche tre somarelli carichi di varie specie di commestibili. Seguiva la musica istrumentale che allora consisteva in un violino, in una chitarra, in una tromba con un tamburino. I giovani non erano schierati, ma raccolti intorno al direttore, che li ricreava raccontando qualche interessante storiella. Quando esso era stanco di parlare, ripigliava la musica ora vocale ora istrumentale. Unendo poi il canto ed il suono alle ovazioni ed alle grida facevamo uno schiamazzo da finimondo. Giunti a Superga visitammo quella monumentale basilica e dopo breve preghiera ci radunammo nel cortile dove il direttore raccontò la storia {47 [47]} prodigiosa di quel Santuario. Quindi una stupenda merenda in cui e per l'ora alquanto avanzata, e pel viaggio sostenuto i giovani ad ogni colpo d'occhio facevano scomparire una intera pagnotella. Fatto alquanto riposo si andò in chiesa dove abbiamo preso parte ai vesperi, alla predica e benedizione. Soddisfatti per tal guisa i nostri doveri religiosi, abbiamo visitato le particolarità di quel maestoso edifizio, cioè la galleria dei Papi, la biblioteca, le tombe dei reali di Savoia, l'alta cupola e simili. All'avvicinarsi poi della notte fu dato un suono di tromba e tutti si raccolsero intorno al direttore. E qui cominciò il solito canto, suono e schiamazzo per tutto il cammino da Superga a Torino.

            Entrando poi in città si fece silenzio e ognuno si mise schierato, e di mano in mano che giungeva al sito più vicino al proprio domicilio ciascuno si separava dalle file e si recava a casa sua. In quella guisa quando il direttore arrivava all'Oratorio aveva appena seco alcuni giovani che {48 [48]} gli facevano compagnia. A gloria di queste camminate voglio notare che con tanti giovanetti non legati da alcuna disciplina, nulladimeno non avveniva il minimo disordine. Non una rissa, non un lamento, non il furto di un frutto, quantunque il numero fosse talvolta di sei o settecento.

            In quel tempo io pensava che queste camminate si facessero per puro divertimento, ma dopo ne conobbi lo scopo ed il vantaggio.

            Mentre quei giovanelli si ricreavano in cose lecite, tenevansi lontani dai pericoli che specialmente la gioventù operaia suole incontrare nei giorni festivi ed in pari tempo erano avviati all'adempimento dei doveri del cristiano, sicura caparra della moralità pel corso della settimana.

            Queste camminate allettavano talmente i fanciulli, che ogni edifizio diveniva ristretto a segno che non trattavasi più di andare in cerca di giovani, ma dovevasi limitare il numero di quelli che ardevano del desiderio d'intervenirvi.  {49 [49]}

 

 

Capo IX. Severino parla de' suoi studi.

 

            All'età di dodici anni io aveva terminate le classi elementari, ma un' ansietà di sapere ed una smania di leggere mi avevano portato alla lettura di molti libri. Tutti i compendi di storia sacra che ho potuto avere furono da me più volte non letti ma divorati. Il Royamont, Soave, Secco, Farini, Calmet, Giuseppe Flavio e la stessa Bibbia tradotta dal Martini erano stati da me direi quasi studiati. Non vi era momento più caro di quello che poteva passare nella lettura di qualche libro storico. M'è talvolta avvenuto di passare l'intera notte sopra libri di lettura. Ma dopo aver letti i sacri, mi sentiva vivo trasporto pei profani ed anche pei giornali, che sebben non irreligiosi, nulla di meno erano inopportuni alla mia età.

            Il direttore dell'Oratorio vegliava attento sul mio carattere focoso e studiava di correggerlo {50 [50]} dandomi a leggere libri ameni ed utili. Quando per altro si accorse del pericolo cui mi esponeva la smania di leggere, pensò di applicarmi al disegno, all'aritmetica e al sistema metrico. Ma pigliando io poco gusto in tali studi, egli pensò di istradarmi a scienze più gravi, come sono la lingua latina e la lingua italiana. Queste, dicevami, sono le lingue dei dotti, se tu ci riescirai, ne avrai non piccolo vantaggio. Questi nuovi studi non poterono appagare la mia insaziabile fantasia; io mi sentiva trasportato alla scienza, ma in modo instabile e leggero, perciò abborriva la fatica di mente e tutte le cognizioni che esigessero seria o lunga applicazione.

            In questo tempo, ahi troppo fatale! alcuni fallaci amici appagarono le mie brame e mi somministrarono libri e giornali di ogni sorta. Dopo di che cominciai a trovare fastidiose le buone letture, quindi rallentai le preghiere e la frequenza dei sacramenti. {51 [51]}

            Accortosene il direttore dell'Oratorio mi fece vari progetti e vari inviti vantaggiosi e mi animò alla frequenza della confessione. Ma il mio cuore si andava guastando, nè sapeva più risolvermi a fare il bene che amava e a fuggire il male che altamente detestava. In me si avverava quello che raccontasi di Medea : « Veggo il miglior ed al peggior m'appiglio. » Non potendo più allora sopportare i rimproveri del direttore presi la pessima decisione di abbandonar l'Oratorio.

            L'abbandonar l'Oratorio e trovarmi senza danaro fu una sola cosa. Venuto l'autunno desiderava di recarmi a casa dove era atteso; imperocchè i muratori sogliono andar a passare l'inverno in patria portando alla famiglia il fruito de' sudori dell'estate. Ma trovandomi sfornito di danaro non osai andarmi a presentar alla madre che sapeva versare in gravi strettezze. Intanto si avanzava a gran passo l'invernale stagione ed io era sprovveduto di danaro, di alimenti e di vestimenta. In que' pericolosi {52 [52]} momenti una caritatevole persona mi accolse in casa sua. Mi vestì, mi alloggiò, mi nutri, mi mandò a scuola fino alla primavera; e se avessi secondato i suoi suggerimenti io sarei stato un giovane onorato e felice. Ma venuta la primavera, indotto dall'invito degli antichi compagni, in modo indegno abbandonai la casa del mio benefattore. Di qui principiò la serie de' mali che mi condussero all'abisso dell'empietà.

            Passai quell'anno nel lavoro, nella lettura e nel giuoco, e per conseguenza giunsi all'autunno privo di tutto e carico di debiti. Io era stimolato, anzi minacciato dai miei creditori; nè più osava presentarmi al solito benefattore, cui aveva troppo malamente corrisposto. Che fare adunque ?

            O cielo! se in quel momento avessi avuto un amico che mi avesse dato un buon consiglio mi avrebbe salvato dal disonore e dal delitto. Quest'amico vi era, io ben lo conosceva, ma quel solo che avrebbe posto rimedio a' miei mali, era il solo cui non voleva avvicinarmi. Un compagno {53 [53]} mi fece tentar la sorte del giuoco, ma ciò contribuì soltanto ad accrescere il peso della mia sventura. Possibile, andava tra me dicendo, che Severino un tempo così diligente, laborioso, onorato ed anche benestante, ora debba morir di fame o mettersi per la via del disonore ? Che io non possa più ritirarmi dall'abisso che mi si para dinanzi? - Un amico sciagurato, informato del punto disperato cui era ridotto, Severino, mi disse, avrei un mezzo a suggerirti per liberarti dalle angustie in cui li trovi.

            - Quale?

            - Quello che ho praticato io stesso.

            - Quale?

            - Vieni con me.

            - Dove?

            - Alla chiesa.... dei protestanti.

            - Forse per farmi protestante ? Piuttosto morir di fame, ti rinunzio da amico; io che ho sempre combattuto contro alle massime dei protestanti, io che sono intieramente persuaso che costoro sono fuori {54 [54]} della vera religione, io farmi protestante? Andrò mendicando, morrò di fame, ma non verrò mai a questo eccesso.

            - Questo fervore ti passerà, diceva lo stesso, ma pensa alla tua miseria, agii impegni; e poi si può fingere.

            - Nemmeno questo. Sarò uno scellerato, ma uno scellerato sincero e non mai finto.

            - Badaci bene, con un po' di simulazione puoi avere danaro, onori, impieghi, altrimenti pensa all' avvenire che ti sta aspettando.

 

 

Capo X. Severino parla della sua caduta nel protestantesimo.

 

            Voi, o amici, che mi ascoltate, compatite l'infamia di cui ho macchiato l'onor mio e quello di mio padre. Ho resistito molto tempo e sembravami di essere pronto a qualunque mule piuttosto che darmi ai protestanti; tuttavia il giuoco, gli amici, {55 [55]} le miserie mi hanno strascinato a quell'eccesso.

            Se non vuoi farli protestante, mi disse un giorno l'astuto compagno, va almeno da qualche ministro. Io ti raccomanderò ; e chi sa che non ti somministri quanto occorre per liberarti dalla tua cattiva situazione?

            Dopo molti riflessi, dopo seri combattimenti di affetti opposti andai dal ministro protestante, non per motivo di religione, ma per chiedergli qualche soccorso. Fui accolto colla massima cortesia, e tenni con lui i seguenti discorsi :

            Ministro. Quale motivo vi conduce qui? Ditelo pure, e voi troverete in me un vero fratello in Gesù Cristo.

            - Io mi trovo in calamitosa situazione; alcune sventure mi fecero incontrar debiti che non posso pagare; desidererei di percorrere gli studi letterari, e mi mancano i mezzi. Potreste voi sollevarmi e aprirmi una via per conservar l'onor mio e quello di mia famiglia ? {56 [56]}

            - L' uno e l'altro si può con facilità ottenere, ma prima di tutto è indispensabile che voi frequentiate il nostro tempio e vi facciate....

            - Ma io non intendodi farmi protestante.

            - Fatevi solamente istruire.

            - E poi?

            - E poi? Se voi conoscete che la riforma professi la vera fede, rifiuterete forse di abbracciarla ?

            - Se trattasi solamente di andar all'istruzione io ci vado. Intanto potreste voi togliermi dal grave fastidio di un debito?

            - Di quanto?

            - Di ottanta franchi.

            - Avrete questo sussidio, passate dimani dall'evangelista N. e vi darà questo danaro. Fatevi animo, la provvidenza è grande, abbiate fede in lei.

            Il dì seguente mi recai dalla persona indicata che mi diè realmente la somma promessa. La presi, pagai il mio debito, e la sera ritornai dal ministro per ringraziarlo. Gli era piaciuta assai la mia {57 [57]} schiettezza ; col mio compagno aveva detto che sperava di illuminarmi purchè avessi frequentato le sue lezioni, nè egli avrebbe risparmiato alcuna cosa per farmi progredire negli studi. Se egli studia sopra fonti pure, conchiudeva, certamente diverrà un buon propagatore del vangelo.

            - I miei ossequii, signor ministro, gli dissi, vi ringrazio della bontà che mi avete usata.

            - Le opere di carità non vogliono ringraziamenti, anzi noi dobbiamo fare queste opere in modo, che la sinistra non sappia quello che fa la destra. Ora avete voi sempre la intenzione di fare i vostri studi?

            - Ne ho vivissimo desiderio.

            - Se voi volete sul serio appigliarvi alla carriera degli studi, vi accompagnerò con una lettera alla valle di Luserna, e là avrete agio di compiere le vostre scuole. Notate per altro che non voglio obbligarvi a farvi protestante, o valdese; a me basta che studiate bene la vostra e la nostra credenza, di poi sono sicuro che voi resterete {58 [58]} affatto convinto che la sola nostra chiesa professa la religione di Gesù Cristo.

            - Accetto la vostra proposta, e sono pronto a partire quando che sia.

            - Passate di qui a tre giorni, vi darò una lettera da portare con voi, mentre un'altra vi precederà per annunciare il vostro arrivo a chi di ragione. È tuttavia bene che vi prevenga di non manifestare questi vostri progetti ad alcun prete, perchè essi mettonsi tosto a disputare, empiono la mente di scrupoli, quindi i lumi del Signore non possono più rischiarire le tenebre che generalmente avvolgono la mente dei cattolici.

            Io promisi quanto mi raccomandava e senza più parlar di andare al tempio, tre giorni dopo io partii alla volta di Pinerolo. Camminava macchinalmente, nè sapeva distinguere se fosse sogno o realtà quanto di me avveniva. Io aveva dato una parola e, secondo il mio carattere, avrei giudicata colpa imperdonabile se l'avessi revocata. Andava pertanto nella valle di Luserna {59 [59]} sotto all' apparenza di fare un corso di studio, e nel tempo stesso istruirmi nella religione cattolica e valdese.

            Questo fatto, cari amici, è biasimevole, perchè dava esteriormente a divedere che voleva farmi protestante: e poi andare tra i protestanti, leggere i loro libri, tener dietro ai loro insegnamenti, mettermi nel prossimo pericolo di perversione sono una serie di gravi peccati, e credo che appunto in pena di questi miei falli Dio abbia permesso che cadessi di abisso in abisso fino a mettere in dubbio la vera religione, in cui aveva avuta la sorte preziosissima di essere stato battezzato ed educato. Perdonatemi adunque lo scandalo dato. I libri, i giornali, il giuoco, la gola ed i compagni congiurarono insieme per condurmi alla rovina. {60 [60]}

 

 

Capo XI. Severino parla della sua partenza da Torino e della morte del b. Pavonio.

 

            Colla lettera aveva eziandio meco un così detto evangelista. Gli evangelisti non sono ministri, ma hanno fatto qualche studio, e dopo aver passata per lo più una parte della loro vita a spargere libri protestanti, quasi in compenso del loro zelo, sono fatti evangelisti, cioè sono incaricati di spiegare il vangelo secondo il loro spirito privato.

            Per un buon tratto del viaggio si parlò soltanto di cose indifferenti, anzi egli cercava di evitare discorsi religiosi. Ma giunti a Bricherasio, quegli prese un aspetto severo, e, qua, disse, su questa piazza i nostri padri diedero segno di zelo e di coraggio evangelico.

            - Che fu ? che avvenne ? ditelo ; così saremo sollevati dalla noia del cammino.

            - Fu un tempo, ripigliò l'evangelista, che la forza brutale tentava d'imporre le {61 [61]} credenze religiose; a tale scopo il Papa, fra gli nitri inviò il domenicano Pavonio. I nostri l'hanno più volte avvisato di tacere e andarsene mentre era sano e salvo; ma rifiutando di arrendersi dovettero venire ai fatti. Io non desisterò, diceva con baldanza, di predicare la cattolica religione fino all'ultimo respiro della vita. Per questa sua ostinazione egli fu inseguito e assalito su questa piazza a furia di popolo venne fatto a brani. Molti altri ostinati cattolici ebbero la medesima sorte.

            - Quel padre Domenicano combatteva colle armi alla mano?

            - Non combatteva colle armi alla mano, ma predicava ostinatamente contro ai Valdesi.

            - Mi pare che i Valdesi avrebbero dovuto opporre parole a parole, convincerlo de' suoi errori, confonderlo colle dispute e non venire all' assassinio.

            - Ma perchè egli non volle tacere dopo di essere stato tante volte avvisato? La sua ostinazione gli meritò quel premio. {62 [62]}

            - Giacchè siamo in viaggio ed abbiamo tempo a discorrere aggiungerò ancora qualche cosa. Voi mi avete detto che i cattolici volevano imporre la religione, ma dalle vostre parole sembra che i cattolici la volessero imporre colla predicazione, e che invece i Valdesi volessero imporla colla violenza. Di più mi ricordo di aver letto che il p. Antonio Pavonio non fu trucidato a furia di popolo, ma da alcuni forestieri valdesi inviati da altri luoghi, così che l'infamia di questo misfatto non dovrebbe cadere sul popolo di Bricherasio, sibbene sopra i sicari che si assunsero di compiere la malvagia azione e sopra quelli che li hanno inviati.

            - Voi siete ancora giovane; a mano a mano che studierete, cadrà la benda dagli occhi e vedrete più chiara la verità.

            Vi assicuro, o amici, che le millanterie del mio compagno mi spiacquero assai e poichè in appresso mi sono procacciato sicure e più copiose notizie intorno a questo {63 [63]} fatto ve io espongo ora letteralmente come è riferito dai più accreditati autori[1].

            Il b. Antonio Pavonio nacque in Savigliano, entrò nell'Ordine de' predicatori in giovanile età. L'eresia di Pietro Valdo cercando dilatarsi ognor più nelle provincie di Pinerolo, il vescovo di Torino inviò il b. Pavonio a Bricherasio perchè predicasse contro gli errori dominanti. Gli eretici vollero tosto venire a dispute, ma restando ognora confusi risolsero di usare un mezzo de' più nefandi per disfarsene, vale a dire assassinarlo.

            Era la Pasqua dell' anno 1374 quando gli eretici vedendo le popolazioni in folla abbandonare i loro errori per seguire il nostro Beato risolsero di compiere l'empio {64 [64]} loro disegno. Sembra ch'egli nè abbia avuto qualche rivelazione, imperocchè sul finir della settimana di Pasqua, mentre facevasi radere la barba, disse al barbiere: Acconciatemi bene, poichè sono invitato alle nozze. Rispose il barbiere : Non avvi notizia che ne' nostri paesi debbansi celebrare nozze di sorta. Non ne dubitate, conchiuse il Padre, vi dico il vero, io sono invitato a nozze. Di quali nozze parlasse fu palese pochi giorni dopo.

            Il 9 aprile, domenica in Albis, alle 9 del mattino celebrò Antonio la s. Messa nella chiesa parochiale di Bricherasio, dopo cui recitò un fervoroso discorso. All'uscire della chiesa e sulla pubblica piazza venne assalito da sette sicari che barbaramente lo trucidarono con una grandine di colpi senza che egli cercasse di opporre la minima resistenza. Così egli andava alle nozze del divino agnello cinto della palma del martirio[2]. {65 [65]}

            Continuò la venerazione de' fedeli alla tomba del s. Martire fino all'anno 1854, in cui il suo culto venne solennemente approvato dalla Chiesa ed il b. Antonio annoverato fra i martiri e confessori della fede. Questo fatto accrebbe i miei dubbi intorno alle massime protestanti; ma la mia posizione era tale da non potermi allontanare da loro senza avere almeno fatto qualche studio sui motivi di credibilità della loro religione. {66 [66]}

 

 

Capo XII. Severino parla dello studio fatto sull' origine de' Valdesi.

 

            Giunto alla valle di Luserna fui accolto colla più cordiale benevolenza. Severino, mi disse un accreditato pastore Valdese, ringraziate il cielo che vi ha illuminato, qui tra noi avrete veri amici. Certamente la vostra mente sarà stata imbevuta da non pochi pregiudizi della chiesa Romana, ma vedrete che col tempo tutti svaniranno.

            Veramente, io risposi, le mie idee sono imbevute di pregiudizi; fra gli altri avvi questo che riguarda l'origine dei Valdesi, la quale tra noi si dice essere assai oscura ; e si va tuttodì decantando che la fondazione della chiesa Valdese è totalmente dovuta a Pietro Valdo e fui mille volle assicurato che prima di lui non si è mai parlato di Valdesi.

            - Questa è una calunnia dei cattolici, prendete questo libro, leggetelo attentamente, {67 [67]} confrontatelo colla Bibbia e troverete che la nostra credenza è quella del Vangelo e che cominciando dagli apostoli viene fino a noi.

            Il Pastore Valdese mi diede un grosso volume intitolato I Valdesi, ovvero i cristiani cattolici della chiesa primitiva di Amedeo Bert, ministro del culto Valdese. L'autore difatto intraprende a raccontare l'origine dei Valdesi e li fa direttamente discepoli di s. Paolo. Io sapeva che leggeva un cattivo libro, e che per la pochezza dei miei studi non avrei potuto discernere quanto di vero o di falso in quello si contenesse ; tuttavia malgrado il rimorso mi sono lasciato portare a leggerlo più volte da capo a fondo.

            Quel libro mi pose in una vera costernazione, perciocchè si appoggiava sopra autori cattolici di gran credito. Per buona ventura la provvidenza mi venne in aiuto nel modo seguente. Il mio Pastore mi condusse un giorno a visitare le scuole cattoliche di un paese vicino ed essendosi egli occupato {68 [68]} in altri affari, lasciò tempo da potermi trattenere col paroco del luogo.

            - Signor prevosto, gli dissi tosto, che dicono i cattolici del libro di Amedeo Bert, I Valdesi ecc. ?

            - Caro giovane, rispose, verificate le fonti da cui attinse le notizie, e poi saprete voi medesimo quale giudizio si debba fare dell'autore ; nè voi avrete più bisogno che altri ne faccia la confutazione.

            -  Ma dove prendere i volumi degli autori che in quel libro si citano?

            - Venite a casa mia, voi li avrete a piacimento.

            Lo ringraziai, e siccome aveva alcune ore del giorno pienamente libere, così ho potuto verificare quanto aveva letto nel libro che mi era stato dal pastore valdese proposto come un secondo vangelo.

            Io per altro posso assicurarvi di essere stato sbalordito per le inesattezze e falsificazioni che ho riscontrate. Amedeo Bert, per dare credito al suo racconto cita un certo Policdorfio celebre professore {69 [69]} di teologia, e gli fa dire : Trecento anni dopo Costantino il Grande sorse un tale del paese Valdis il quale insegnò la povertà e fu propagatore della setta Valdese.

            Ora ascoltate il testo dell'autore citato: Ottocento anni dopo s. Silvestro, ai tempi di papa Innocenzo II, un certo Pietro Valdo leggendo, o udendo a leggere la sacra scrittura, s'immaginò di rinnovare la vita apostolica.

            Come ognuno vede qui si attribuiscono nomi, anni e fatti ad un autore il quale non li ha mai immaginati.

            Cita poi un altro autore di nome Marco Aurelio Rorengo priore di Luserna, cui fa chiamare i Valdesi apostolici poi lo introduce a continuare così : « Della origine de' Valdesi non si può ancora fissar bene l'epoca precisa ; nel secolo nono e decimo non era setta nuova ; sempre, e ad ogni tempo esistettero nella valle di Angrogna. »

            Io ho voluto consultare il testo di questo {70 [70]} autore, che ben lungi dal chiamare i Valdesi Apostolici, ossia discendenti ed esistenti dai tempi degli apostoli, assicura che essi cominciarono a comparire nel 1160.

            È poi totalmente falso il far dire al priore Rorengo che della setta Valdese non si sapesse ancora con certezza l'origine mentre chiaramente dice: I Valdesi per dimostrarsi antichi si vogliono discendenti di Valdo il quale cominciò a formare la sua nuova dottrina nel 1160.

            Amedeo Bert fa dire inoltre al detto priore che nel secolo nono e decimo i Valdesi non erano setta nuova ; ma egli non bada che l'autore qui parla degli Iconoclasti o di altri eretici senza far motto de' Valdesi.

            Amedeo Bert mette in bocca al citato autore : Sempre ed in ogni tempo esistettero nella valle di Angrogna.

            Io ho voluto verificare questo brano nel suo originale, ed ho osservato che dopo aver accennata la comparsa di Pietro Valdo nel 1160 continua così: « Avvi chi {71 [71]} vuole presupporre, che alcuni Valdesi o poveri di Lione, scacciati da quella città si fossero fin da questo tempo (1160) sparsi nella valle di Angrogna, ma credo che si siano solamente trattenuti nel Delfinato. » Il medesimo Bert si serve dell'autorità di Claudio Seyssel[3]. {72 [72]}

            In un libro intitolato disputa centro gli errori dei Valdesi Bert lo fa parlare così : « Secondo il parere dei più essi traggono la loro origine da un tale Leone uomo religiosissimo ai tempi di Costantino il Grande. »

            Io vi assicuro, cari amici, che questo prelato dice tutto il contrario. Comincia la storia dei Valdesi con Pietro Valdo, di poi continua in questo modo: « Ciò non ostante alcuni volendo farla da campioni nel difendere questa eresia, per procacciarsi il favore del volgo che non sa di storia favoleggiano, fabulantur, che questa setta discenda da un certo Leone che viveva ai tempi di Costantino. Di tale invenzione quale cosa vi può essere di più falso? »

            Come voi, o amici, ben potete rilevare, il brano dell'Arcivescovo di Torino è totalmente falsificato ponendo in bocca dell'autore una cosa certa ch'egli chiama favola. Sebbene in quel momento mi sentissi trasportato dall'impazienza, tuttavia {73 [73]} ho voluto con animo pacato percorrere ancora alcuni altri autori riportati dal medesimo Bert, ma ho trovato ovunque la stessa mala fede. Quello che mi ha vie più convinto della meschinità della storia Valdese, fu che in generale tutti gli scrittori hanno seguite le medesime favole del ministro Bert per provare la loro antichità[4].

            Dopo di aver letto questi scritti ho fatto tra me questo ragionamento. O che questi ministri sono ben ignoranti, o che scrissero con mala fede. In ambidue i casi non devono essere creduti, specialmente in cose di massima importanza, come quelle che riguardano alla salute eterna. Che se costoro, che passano pei più dotti fra' Valdesi, vanno spargendo tante favole, che cosa sarà degli inferiori e del povero volgo ?

            Esposti gli errori sopra l'origine dei {74 [74]} Valdesi, spero ora che vi tornerà gradito il sapere la vera storia di questa setta, secondo che ci fu tramandata dagli autori contemporanei o quasi contemporanei[5].

 

 

Capo XIII. Severino parla della valle di Luserna e della vera origine dei Valdesi.

 

            Comincerò dunque a darvi un breve cenno intorno alla valle di Luserna perchè possiate meglio comprendere la vera storia dei Valdesi che vennero qui a stabilire la loro dimora.

            Sotto il nome Lucerna o Luserna s'intende un antico borgo assai rinomato, posto ai piè delle Alpi, distante sei miglia dalla città di Pinerolo e ventiquattro da Torino. {75 [75]}

            Si vuole che Luserna derivi dalla parola tedesca Lucke che significa uscita, apertura, e Luserna trovasi appunto allo sbocco ovvero all'apertura di una valle a cui dà il suo nome, che delle pianure del Piemonte mette nel Delfinato in Francia. Nei tempi antichi Luserna era un forum, ossia un amporio dei Romani, e per cagione del transito e del deposito delle merci dell'Italia in Francia e dalla Francia in Italia, essa aveva molta importanza militare. La valle di Luserna contiene vaghe pianue e colli ben coltivati; sorgono in essa vari paesetti come Angrogna, Perosa, S. Martino, Torre Pellice e molti altri più o meno rinomati. Questa valle ed i paesi confinati sono in gran parte abitati dai Valdesi dal loro autore Pietro Valdo, ricco mercante francese della città di Leone. Questi sulle prime era cattolico; e un di un suo compagno mentre infuriato bestemmiava, e aggiugneva lo spergiuro alla bestemmia, cadde morto {76 [76]} sull'istante. A sì terrible fatto, che era evidentemente una vendetta del cielo, Valdo restò spaventato, e risolvette di abbandonare tutte le sue sostanze per condurre vita povera, penitente e praticare ciò che il Divin Salvatore disse ad un giovane: Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto possedi, donalo ai poveri e seguimi. Questo avveniva nel secolo decimosecondo verso l'anno 1160.

            Fin qui non vi sarebbe stato nulla da rimproverare a Valdo. Ma il male fu quando gli saltò il caproccio di farsi predicatore e proclamarsi apostolo mandato da Dio a predicare la povertà e condennare quale peccato mortale il possedere delle ricchezze, benchè acquistate legittimamente. Valdo aveva fatto poco studio, e perciò con gravissimo stento riusciva a far ricevere la nuova sua dottrina. Non comprendendo per nulla il latino egli pensò di farsi tradurre e spiegare in lingua volgare il Vangelo con alcune sentenze de' santi Padri. Di qui alcuni traggono la smania, che {77 [77]} hanno i Valdesi di avere la Bibbia e la liturgia in lingua volgare. Valdo studiò a mente alcuni brani di codesti scritti, quindi cominciò a predicare per le piazze, per le città e pei villaggi.

            Uomini e donne benchè ignoranti divennero valenti predicatori ; ma gli errori e gli scandali seguivano ovunque i loro passi. Venuti quei disordini a notizia di Giovanni Bolismano, arcivescovo di Lione, esortò Pietro e i suoi seguaci a desistere dalla folle impresa. Ma la loro ignoranza cangiandosi in superbia, risposero all'Arcivescovo colle insolenze e colle villanie. Il degno prelato non si perde di animo e pose in opera tutti i mezzi che la prudenza e la carità sogliono suggerire in così gravi momenti. Cominciò ad avvisare Valdo in privato, poi denunziò al pubblico la sua dottrina, e in fine condannò formalmente Valdo, i suoi seguaci e le loro massime. Ben lungi Valdo dal ritrattarsi appellossi invece al giudizio del pontefice Lucio III. Questi fece esaminare attentamente {78 [78]} la nuova dottrina, che trovando parimenti contraria al Vangelo ed alla Chiesa confermò la condanna già pronunciata dall'arcivescovo di Lione, ed invitò Valdo ed i suoi seguaci ad abbandonare quella nuova dottrina. Fu allora che Valdo togliendosi la maschera scosse il giogo di ogni autorità e ricusò di obbedire allo stesso sommo Pontefice. Quindi come ribelle ed ostinato alla Chiesa fu condannato e scomunicato. Ciò succedette l'anno 1185.

            All'apparire di questi nemici della fede molti dotti si levarono a combatterli coi loro scritti. Il più antico scrittore che parli dei Valdesi è l'Abate di Fontecaldo contemporaneo a Pietro Valdo. Scrisse egli un trattato contro ai Valdesi dove fra le altre cose dice : « Mentre governava la Chiesa Lucio III sorsero i Valdesi, nuovi eretici, i quali furono poi condannati dal Papa in un concilio tenuto nella città di Verona l' anno 1185. »

            Serviranno a dare una più compiuta notizia sull'origine dei Valdesi le parole {79 [79]} di Stefano Bellavilla, religioso domenicano, il quale fu pure contemporaneo a Pietro Valdo.

            Ecco le sue parole : « I Valdesi furono così detti da Pietro Valdo primo autore della loro eresia. Si dicono pure Poveri di Lione, perchè ivi cominciarono a professare la povertà. Eglino stessi chiamatisi poveri di spirito, perchè il Signore disse : Beati i poveri di spirito. Ed essi il sono veramente in quanto che sono poveri di ogni bene spirituale, di ogni grazia dello Spirito Santo[6]. » {80 [80]}

 

 

Capo XIV. Severino espone la diffusione dei Valdesi e la loro unione coi Protestanti.

 

            Dopo la condanna pronunciata dalla santa Sede alcuni Valdesi di buon conto ritornarono alla religione cattolica da cui incautamente eransi allontanati. Ma grande parte rimasero ostinati e ribelli alla Chiesa. Costoro e come eretici e come pubblici perturbatori vennero dall' autorità civile cacciati da Lione.

            Alcuni allora si sparsero nella Provenza al mezzodì della Francia : altri, quali forestieri erranti ed in cerca di ricovero, passarono le Alpi e si diffusero nelle valli di Pinerolo e specialmente in quella di Luserna e nelle montagne vicine. Ciò avvenne circa l'anno 1220.

            A bello studio essi portaronsi in quelle parti in mezzo agli abitanti delle montagne, che per lo più sono poco istruiti nella religione. I Valdesi speravano di poter {81 [81]} facilmente spargere tra que' popoli la falsa loro dottrina. Difatto i loro ministri chiamati Barbi, da cui venne pure il nome di Barbetti[7] a tutti i Valdesi, posero ogni studio per ingannare quelle buone popolazioni: ma dopo molte turbolenze ivi cagionate a mano armata, tra cui l'assassinio del b. Antonio Pavonio, furono frenati a forza dalle autorità governative.

            I Principi di casa Savoia osservando infine che quegli eretici parevano starsene in pace nè più immischiarsi nelle cose politiche, li lasciarono tranquilli nei loro dominii a condizione che non uscissero dai confini loro assegnati; e così i Valdesi poterono rimanersi quivi quasi inosservati circa tre secoli. In questo tempo però essi non avevano  {82 [82]} alcuna chiesa, sembravano più cattolici che altro, non ricusavano di ricorrere eziandio ai sacerdoti ed alle chiese cattoliche, praticandone le massime e quasi tutte le usanze. In quel lungo spazio di tempo non avendo chi fomentasse i loro errori i Valdesi avevano dimesso l'antico fervore, in generale erano caduti in crassa ignoranza delle cose di loro religione e forse si sarebbero totalmente convertiti al cattolicismo se non si fossero associati ad altri nemici della fede. Furono questi i protestanti, ossia i seguaci di Lutero e di Calvino, di cui presto avrò occasione di parlarvi[8]. {83 [83]}

            Circa l'anno 1536 i Calvinisti, i quali avevano la loro stanza in Ginevra, per accrescere il numero dei loro seguaci e pel vantaggio che loro verrebbe dall'unirsi con una setta più antica della loro si portarono nella valle di Luserna a fine di persuadere i Valdesi ad abbracciare la dottrina di Calvino. Nella fiducia di riacquistar gloria al loro nome e protettori alla loro credenza i Valdesi accolsero i Calvinisti quali amici.

            Dimenticata pertanto la dottrina di Valdo cominciarono a professare quella di Calvino, e da quell'epoca in poi i Valdesi fecero una cosa sola coi Calvinisti e deliberarono {84 [84]} di mandare a Ginevra i giovani destinati a diventare loro ministri, ossia Barbi, affinchè si imbevessero nei principii dell'eresia protestante.

            Giova qui notare che i Barbetti dacchè divennero Calvinisti si mostrarono eziandio più ostili al cattolicismo ed insubordinati all'autorità civile, cui parecchie volte si ribellarono, fino a tanto che per poterli tenere in freno vennero confinati in paesi determinati di queste valli.

 

 

Capo XV. Severino parla delle variazioni della dottrina valdese.

 

            In sul principio la dottrina dei Valdesi era nella maggior parte quella della Chiesa cattolica.

            Solamente in progresso di tempo aggiunsero nuovi e più gravi errori. Primieramente Pietro Valdo atterrito dal tristo caso accaduto all'amico condannava il giuramento {85 [85]} anche fatto colle dovute condizioni, quindi insegnò che ogni giuramento è peccato.

            In secondo luogo diceva che la povertà de' primi fedeli, i quali non avevano nulla in proprio e vendevano le possessioni per darne il prezzo ai poveri, era assolutamente necessaria alla salvezza. Che la volontaria povertà sia un mezzo efficace per meritarci la gloria del cielo, è cosa insegnata dal Vangelo; ma il dire che Gesù Cristo l'abbia comandato è un errore, perchè Gesù Cristo non condanna le ricchezze, ma solo proibisce d'acquistarle con mezzi illeciti e di farne cattivo uso; consiglia la povertà volontaria, ma non la esige.

            In terzo luogo condannava le oblazioni, i suffragi pei defunti.

            In quarto luogo affermava che le civili potestà non hanno diritto di punire colla morte i malfattori. Egli aveva il suo tornaconto in tale insegnamento, perchè dal potere civile aveva assai da temere a cagione della biasimevole sua condotta. {86 [86]}

            Non si arrestò Valdo a questi errori, e quando la Chiesa gli comandò di cessare dalla stolta sua predicazione egli aggiunse ai orimi altri errori insegnando non doverti ubbidire ai superiori ecclesiastici. Ma mentre Valdo negava di sottomettersi all'autorità ecclesiastica, attribuiva a se ed a' suoi seguaci i poteri sacerdotali, amministrando i sacramenti, celebrando la santa Messa, ascoltando le confessioni dei suoi e dando loro l'assoluzione e simili.

            Questa fu per circa tre secoli la dottrina de' Valdesi. Ma dopo la modificarono, anzi la cangiarono quasi affatto quando fecero lega co' Calvinisti.

            Allora essi cominciarono a credere che i ministri della religione possono possedere de' beni senza dannarsi, ammisero che il giuramento non è peccato, e che si possono punire di morte i malfattori. I Calvinisti loro permisero di non più pregare pei defunti, e di non più digiunare nei tempi prescritti; li costrinsero inoltre ad abolire il sacrifizio della Messa e tutti [87 [87]} i sacramenti eccetto il Battesimo, ed invece della divina Eucaristia loro imposero una sterile memoria della cena di Gesù Cristo, che si riduce a mettere in mostra e prendere un pezzetto di pane e poche gocce di vino. I Calvinisti obbligarono ancora i Valdesi a credere che per salvarsi basta la fede senza le buone opere, e a professare la orribile bestemmia che l' uomo non è più libero, sibbene che opera il bene e anche il male costretto a ciò da Dio stesso. Adottarono inoltre il principio generale dei protestanti, che ogni uomo è così illuminato dallo Spirito Santo da intendere da se stesso la Sacra Scrittura, e non avere più bisogno di altra spirituale autorità per conoscere i suoi doveri e regolare le sue azioni. In questa guisa i Valdesi abbandonarono la loro meno perversa dottrina per abbracciarne un' altra assai peggiore e ammettere errori, i quali per lo addietro non avevano nè professati nè conosciuti. Con queste continue variazioni, aggiunte, rinnegazioni ne' punti più importanti {88 [88]} della religione, i Valdesi allontanaronsi sempre più dalla vera Chiesa la quale è sempre la stessa ed ha sempre il medesimo Maestro come dice s. Paolo: Christus heri et hodie[9]. {89 [89]}

 

 

Capo XVI. Severino parla di alcuni curiosi episodi della dottrina Valdese.

 

            Ma quello che mi fece conoscere il Valdeismo per un fantasma di religione furono le contraddizioni che ho osservate nelle attuali loro credenze. Io ve ne esporrò alcune di cui io medesimo sono stato testimonio. {90 [90]}

            Si separarono dalla Chiesa Cattolica, ricusando di ubbidire al capo stabilito da Gesù Cristo, che fu sempre venerato e ubbidito da tutti i cattolici, cominciando da s. Pietro fino al regnante Pio IX, e intanto si costituirono evangelisti, pastori, ministri, tavole e sinodo, moderatore, tutte cose di cui non si è mai parlato nella Bibbia e nella storia prima della Riforma. I Valdesi accusano i preti cattolici di essere retribuiti pel loro ministero; {91 [91]} ma intanto i loro ministri o pastori hanno stipendi otto e dieci e anche assai più volte maggiori di quelli che sono percepiti dai preti cattolici, e non movono per così dire un dito senza essere ben pagati. I vostri preti, dicono ai cattolici, non fanno limosina ; ma io ho osservato che i ministri, i pastori, gli evangelisti se danno qualche limosina, è tutta roba altrui; danno quello che si raccoglie dai semplici, cui essi studiano di persuadere che trovansi nella buona religione, danno il danaro che è loro inviato dall'Inghilterra; del quale danaro per lo più una particella rimane attaccata alle dita dei distributori.

            Dal mio canto per altro dico essere menzogna l'asserire che i preti cattolici non diano niente. Io ne ho conosciuti dei centinaia che impiegano sostanze e vita pel bene del prossimo. Io stesso, se non sono rimasto vittima della sventura, lo debbo ad un prete cattolico, che mi accolse in casa sua e per più anni mi provvide di quanto mi occorreva per vitto, vestito ed {92 [92]} istruzione. E il paroco del mio paese non fu sempre il sostegno di tutta la nostra famiglia? Ciò che dico del mio paroco devesi dire di mille altri. Ma questi sacerdoti danno ciò che è roba loro, danno quel danaro che potrebbero spendere a loro talento senza essere tenuti a renderne conto ad alcuno.

            Inoltre il lavoro più grave del pastore e del ministro protestante consiste nel sermone che suole farsi nella domenica ; il rimanente della settimana è per loro un vero passatempo. Non così dei preti cattolici; imperocchè nei giorni festivi essi confessano, predicano, fanno catechismi, cantano i vespri, e nella settimana sono quasi ugualmente occupati. Io conosco sacerdoti che passano talvolta otto, dodici ed anche quindici ore al giorno nel confessionale ; in certi giorni predicano quattro o cinque volte, e tutti questi lavori sono gratuiti e senza essere minimamente obbligati dal loro impiego, ma dalla sola carità che loro arde in cuore e che li spinge a tali {93 [93]} sacrifizi. Facciano i protestanti attenta considerazione sopra questi fatti, e poi dicano se la religione cattolica o la pretesa riforma si debba chiamare religione dell'oro.

            I protestanti gridano contro alla confessione ed intanto essi denunziano i colpevoli, e nelle pubbliche adunanze dicono il nome dei medesimi, il male commesso e la penitenza che loro s'impone. Essi vogliono solamente la Bibbia per regola di fede, e gridano contro ai cattolici che la vogliono spiegare coi testi e colle note de' santi Padri, e intanto essi pretendono di spiegarla a loro arbitrio e guai a chi non ammette le loro spiegazioni! Gridano contro ai cattolici dicendo, che i loro Concilii, i Sinodi, i Vescovi, i Papi sono flagelli cui ognuno è costretto di piegare le proprie convinzioni. Intanto i protestanti hanno i loro sinodi, ministri, pastori, moderatori, evangelisti, i quali in opposizione ai loro stessi insegnamenti, discutono e decidono le controversie come loro sembra, condannando {94 [94]} chi loro non si arrende; depongono quelli che sono in carica, variano, aggiungono, tolgono ciò che loro talenta ai catechisimi.

            Ditemi in buona grazia, o protestanti, chi vi ha fatti maestri di religione? Voi dovreste soltanto dare la Bibbia ai vostri discepoli senza punto parlare nè di prediche, nè di spiegazioni; poichè voi andate dicendo che la sola Bibbia è regola di fede e di costume. Mentre pertanto vanno decantando l' uso e la lettura della Bibbia, si contraddicono coi fatti, perciocchè nei loro libri di liturgia e di preghiera, e nei catechismi hanno mille sentenze e massime e preghiere che sono niente affatto contenute ne' libri santi.

            Un giorno io fui sorpreso mentre teneva in mano un libro di divozione che da fanciullo aveva sempre avuto meco. Me lo strapparono con violenza, dicendomi che quel libro era pieno di scempiaggini contrarie alla Bibbia. Voi, loro dissi risentito, mi strappate di mano un libro perchè contiene {95 [95]} preghiere secondo voi non ricavate dalla Bibbia, e intanto perchè mi fate insegnare un catechismo che non si contiene nella Bibbia? Tutta quella serie di preghiere che voi avete nel vostro catechismo sono forse contenute ne' libri santi? Dunque, o ammettere i libri cattolici, o se volete rifiutare quelli, dovete rigettare anche i vostri[10].

            Le nostre preghiere, mi risposposero, sono tutti pensieri ricavati dalla Bibbia; non così i libri cattolici.

            Voi dite così, soggiunsi, ed i cattolici dicono che i loro libri sono eziandio pensieri ricavati dalla Bibbia consentanei a quanto è stato rivelato nei libri santi. Ma coi fatti voi contraddite alle parole, perchè nei vostri libri io trovo preghiere che si devono dire prima e dopo la comunione e queste preghiere sono forse contenute nei libri santi? {96 [96]}

            Le contraddizioni mi si resero vie più manifeste quando mi recai ad ascoltare ora l'uno ora l'altro dei pastori ne' loro sermoni domenicali. Qui io era testimonio di una vera Babilonia. Ogni pastore spiega le cose come vuole ed a suo modo; spesso uno parla contro dell'altro; mi avvenne più volte nel medesimo mattino udire un pastore insegnare che nella Santa Eucarestia vi era il Corpo di Gesù Cristo e ascoltarne un altro che asseriva essere una semplice rimembranza della passione e della morte del Salvatore, oppure contenere il corpo del Salvatore, mentre un altro diceva che Gesù Cristo nella Eucarestia è soltanto transitoriamente, cioè nel momento della consacrazione.

            Un giorno sulla medesima cattedra fecero il sermone due Pastori; uno diceva le opere buone essere necessarie per salvarsi adducendo la massima dei libri sacri che : Fides sine operibus mortua est, la fede senza le opere è morta; l'altro in modo enfatico assicurava che basta la fede per  {97 [97]} salvarsi, comunque egli conduca una vita empia e scellerata. Insomma mi sono convinto col fatto che ogni pastore, ogni ministro ha la sua religione, ogni padre segue una credenza sua propria ed ogni membro della medesima famiglia segue la religione che gli torna più gradita.

            In questa confusione di opinioni e di idee ho pensato di andare da qualche Pastore per farmi appianare alcune difficoltà. Se mai fosse permesso di scherzare intorno a cose serie vi assicuro che qui avremmo da ridere non poco. Ascoltate. Un giorno dimandai di parlare ad un Pastore che mi fece rispondere essere occupato in una partita la quale senza disagio non poteva sospendere, ma che io poteva esporre ogni mia questione a sua moglie, la quale poi avrebbe a miglior tempo comunicato ogni cosa a lui medesimo. Altra volta sono riuscito a parlare col Pastore, ma in presenza della fantesca e della moglie intorniata da ragazzi che gridando, ridendo e piangendo facevano un tumulto proprio di carnovale. {98 [98]} Immaginatevi se io osava tirar fuori discussioni confidenziali in presenza di quel rispettabile uditorio!

            La più bella scena per altro fu quella che mi avvenne la sera di un giorno festivo. Sul far della notte mi recai dal Pastore per chiedergli schiarimenti intorno ad un suo sermone. Bussata una e due volte la porta, mi venne ad aprire un grazioso fanciullino sui dodici anni. Entrate, mi disse con volto alterato, presto correte, che mia madre ammazza mio padre. Entrato in casa vedo una donna di robustezza erculea in furia contro al Pastore suo marito, che dopo avere spesi molti danari in gozzoviglie, quella sera era ritornato a casa più ubbriaco che altro. Strettolo al collo per la cravatta con ripetuti schiaffi, pugni ed urloni essa lo gettò a terra, e lo percuoteva con calci e con un bastone in tutti i versi.

            Mentre il povero Pastore dimandava alla furente donna pietà e misericordia, tutti i suoi figliuolini singhiozzando supplicavano {99 [99]} la genitrice a non dare la morte al povero loro padre.

            All'inaspettata mia comparsa e all'udirsi alcuni vivi rimproveri quella si calmò, ed io potei rialzare da terra il marito che era assai malconcio. Quello era il momento opportuno per iniziare una conferenza morale o religiosa !

            In mezzo a tante contraddizioni sull'origine e sulle credenze dei Riformatori, ho potuto trovare un punto solo intorno a cui vanno tutti d'accordo: combattere la Chiesa cattolica. Loro non importa che taluno viva Ebreo, Turco, Luterano, Calvinista od altro: purchè non sia cattolico, e poi è sempre tenuto per galantuomo. Che se per avventura trasparisse in lui qualche sintomo di volersi rendere cattolico, allora egli è scemo, è pazzo e per guarire dalla sua pazzia non ha più altro rimedio se non rinunciare all'idea di farsi cattolico.

            Niuno poi può immaginarsi le corbellerie che inventano sul conto dei cattolici a fine di farli cadere nel ridicolo e nel {100 [100]} discredito. L'ignoranza, la mala fede, l'avarizia e simili bagatelle, secondo essi, sono le doti di cui sono fregiati tutti i cattolici.

Per esempio essi predicano in tutti i toni che i cattolici sono idolatri, accusandoli falsamente di adorare le immagini e le reliquie de' santi ed altre cose sacre. Un giorno essendomi trovato con alcuni Pastori, un di loro prese a dire così : Credo che voi, Severino, siate molto contento perchè vi siete finalmente allontanalo dall'idolatria della Chiesa Romana.

            - In qual senso mi dite questo?

            - Nel senso che tra noi non siete più obbligato ad adorare le immagini e le reliquie: e qui chiamò con titoli del tutto sprezzanti le cose più venerande della religione.

            - Signor Pastore, ripigliai alquanto risentito, io sono stato tanti anni coi cattolici, e mi sono occupato assai della loro religione, ma non ho mai udito alcuno a predicare, nemmeno ad insegnare cosa che {101 [101]} disdica a Dio creatore del cielo e della terra.

            - Se non l'avete udito, meglio per voi, ma i libri cattolici sono ripieni di questi alti di abbominevole idolatria.

            - Scusate, ma in tutti i libri cattolici che ho avuto tra mano non mi avvenne mai di leggere quanto mi dite.

            - Pure i loro catechisimi...

            - I loro catechisimi li ho letti ed in gran parte studiati per lo spazio di quindici anni; ma non ho mai trovato le massime da voi accennate.

            - Se queste cose non fossero insegnate, credereste voi che oseremmo asserirle, stamparle e predicarle in tutti i luoghi e in tutti i sensi?

            - Questo non è argomento per me; mostratemi un solo libro cattolico che dica doversi adorare i santi, le immagini, le reliquie, e poi...

            Mentre si facevano que' discorsi, uno di loro corse a prendere il catechisimo del Bellarmino, del cardinale Costa, del Borglioni {102 [102]} ed alcuni autori di Teologia. Guardarono, verificarono quanto loro piacque; ma rimasero pieni di confusione, quando in tutti quei libri non si potè punto trovar parola che esprimesse quanto essi dicevano. Al contrario quegli autori vanno perfettamente d'accordo nello usare i vocaboli divozione, venerazione, ossequio, rispetto con cui i cattolici sogliono esprimere il culto che professano ai santi, alle loro immagini e reliquie, imperocchè come tutti sanno la dottrina della Chiesa è che i santi meritano onore come benefattori dell'umanità e modello di vita cristiana, amici di Dio e nostri benevoli protettori presso di Lui in Cielo.

            Questo atto rese mortificati que' Pastori che mi trattarono colle beffe. Voi, mi dissero, siete giovane e perciò degno di compatimeno, la benda non v'è ancora totalmente caduta dagli occhi. Facendo progresso negi studi, voi resterete senza dubbio consolato nelle vere credenze. {103 [103]}

            In questa lusinghiera persuasione risovettero definitivamente di mandarmi a fare un corso superiore di studi a Ginevra.

 

 

Capo XVII. Severino racconta della sua partenza per Ginevra e del suo arrivo sul Gran s. Bernardo.

 

            Negli anni di mia dimora nella valle di Luserna mentre coltivava la religione non ho dimenticato lo studio letterario a segno che potei subire con buon esito l'esame di maestro normale superiore, e per tre anni mi occupai nell'insegnamento. La mia posizione era assai delicata, perciocchè tra i Valdesi io non era in buona fede e per dimorare tranquillo tra oro doveva sempre tener celati gli interni miei intendimenti. Nella scuola perciò non insegnava mai cosa favorevole alla credenza Valdese, neppure ho proferito sillaba contro all'antica mia religione. Iaonde lasciava {104 [104]} che gli allievi studiassero i libri prescritti, ma nelle cose religiose non parlava mai nè a favore nè contro ai Valdesi. È vero che nelle dispute era sempre contro di loro, non di meno si mostrarono ognor soddisfatti della mia schiettezza. Col tempo, essi dicevano, e collo studio Severino diventerà un buon credente. Pertanto i miei superiori come per premiare le mie sollecitudini, o come dicevano essi, a fine di perfezionarmi nella scienza e nella religione stimarono bene di mandarmi a Ginevra, dove sogliono andare quelli che aspirano a divenire Evangelisti, Pastori o Ministri. Io per altro aveva in mente ben altri progetti. Nella mia partenza mi diedero compagno un amico che doveva eziandio recarsi in quella città, e per dare varietà al nostro cammino si pensò di farci prendere la via di Aosta e passare sul Gran s. Bernardo. Giunti in Aosta ci siamo fermati un giorno per visitare le cose più memorabili di quella città; e mentre andavamo appagando la nostra curiosità, ecco {105 [105]} verso le ore ondici del mattino un simultaneo e inaspettato suono delle campane sorprenderci di maraviglia.

            - Che cosa è questo? dimandai alla nostra guida.

            - Questo, rispose, è il suono del mezzodì.

            - Ma siamo soltanto alle undici del mattino ?

            - Tra noi si suona il mezzo giorno alle undici ore.

            - E perchè mai cosi strana singolarità !

            - Questo ci ricorda un avvenimento assai glorioso. Fu un tempo in cui un eresiarca, di nome Calvino, voleva introdurre tra noi i suoi errori. I padri nostri, che non solo erano e volevano rimanere cattolici, ma ancora tramandare ai posteri la loro religione perchè la sola vera, si opposero coraggiosamente ed energicamente all'empia insolenza di quel ribaldo. Se non che il predicatore di Satana, ostinandosi nella sua baldanza, si associò alcuni sfaccendati per usare la violenza e costringere i nostri avi ad adottare i suoi {106 [106]} errori. A quelle minacce tutto il popolo si commosse, e si diede a suonare le campane per chiamar gente in aiuto e respingere il comun nemico. Coll'aiuto di Dio vi riuscirono; imperciocchè cacciarono via Calvino e i suoi compagni che erano uomini prezzolati e per lo più stranieri. E siccome l'ora in cui in cotale occasione si suonarono le campane era quella delle undici del mattino, in memoria di questo faustissimo avvenimento da allora in poi si è sempre tra di noi suonato e tuttora si suona il mezzodì alle undici ore.

            Queste parole tornarono niente gradite al mio compagno: ma io godeva in me stesso, contentandomi peraltro di un sorriso di compiacenza. Fatto ancora un giro per la città, indirizzammo i passi alla volta del Gran s. Bernardo oggetto dei nostri desideri. Questo giogo delle Alpi Pennine era detto dagli antichi Mons Iovis, monte consacrato a Giove.

            Dirigendoci verso tramontana ci vedemmo {107 [107]} comparire davanti quel monte maraviglioso e di un'altezza sorprendente. E dopo notabile tratto di strada giungemmo ad un seno dove esiste s. Remigio, paesello circondato da folta selva di lerici annosi, che si andavano diradando di mano in mano che noi salivamo su pel monte. Questi alberi giovano moltissimo alla salvezza del paese contro ai rovinosi ammassi di neve che giù precipitano massimamente in primavera. Da questo luogo sino all'ospizio del Gran s. Bernardo abbiamo dovuto trascorrere oltre a sette chilometri per una salita ripida tortuosa e ricoperta di rottami de' sovrastanti dirupi. Sono essi l'ultima traccia di una strada maestra ivi aperta dagli antichi Romani. A misura che salivamo, ci accorgevamo del sensibile aumento della rigidezza del clima, e gli alberi diventavano ognor più radi e meschini, finchè scompari quasi affatto la vegetazione. Soltanto l'erba di alcuni tratti di prato sul pendio dei monti indicavano la stagione estiva, che quivi quasi appena mostratasi {108 [108]} tosto fugge. Le nevi erano già cadute e apparivano sparse sopra le aride rocce, che pendevano sulle gole dei monti.

            Finalmente giungemmo al famoso piano cui gli antichi appellavano Summo Pennino, così detto perchè qui appunto solevansi fare sacrifizi al Dio Penn.

            Forma questo piano un alto e lungo vallone rinchiuso da balze molto elevate e biancheggianti di nevi eterne. In quel momento e per la fatica del cammino sostenuto e per la insufficienza degli abiti ci sentimmo correre per le membra un freddo vivissimo; di modo che abbiamo sciolte le valigie e ci siamo raddoppiate le vestimenta.

            Volgendo il guardo per quella singolare pianura, fummo non poco sorpresi a vedere quasi nel centro un laghetto assai profondo.

            È questa l'acqua che dà l'origine ad un fiumicello, che scorrendo per la china a mezzodì del monte riceve il torrente detto Bautia ovvero Bauteggio, e di là comincia a chiamarsi Dora Baltea, quel fiume che {109 [109]} dopo vari tortuosi giri va a versare le sue acque nel Po presso Crescentino.

            Sulle rive di quel lago, alle falde di un'alta rupe sta il celebre convento ovvero Ospizio di s. Bernardo.

            La prima origine di questo maraviglioso edifizio è antichissima. Dai libri che mi furono somministrati da que' buoni religiosi ho potuto raccogliere che già esisteva nell'ottavo secolo. Nel secolo decimo era di molto scaduto, quando Bernardo dell'illustre casato di Menthon venne a ristorarlo o piuttosto a ricostruirlo dalle fondamenta. Questo uomo straordinario, che ancor secolare già aveva praticato in modo esemplare tutte le cristiane virtù, era arcidiacono della Cattedrale di Aosta. Profondamente commosso dall'ignoranza de' popoli che abitavano su quelle alture e più ancora dagli infortuni che spesso colpivano i viaggiatori nel passare quel monte, spinto da quella carità che soltanto mira al bene e non calcola nè difficoltà nè pericoli, risolse di consacrare la sua {110 [110]} vita e le sue sostanze al dirozzamento di quelle genti. Combattè le pagane superstizioni e l'idolatria che ancor ivi regnavano; rovesciò la statua di Giove, ed innalzò in sua vece una chiesa al vero Dio. A fine poi di riparare ai disastri, cui erano ogni dì esposti i passeggeri, fondò l'Ospizio che porta tuttora il suo nome.

            Ne gettò le fondamenta nel novecentosessantadue, ed in breve condusse a termine quella maravigliosa instituzione, che già da nove secoli ha costantemente mantenuto in fiore l' eroismo della carità cristiana. Quei monaci hanno titolo di Canonici, e sono dell'ordine Agostiniano. Il loro ufficio è di alloggiare e mantenere gratuitamente e prestare aiuto alle persone che colà passano mettendo spesso a repentaglio la propria esistenza per salvare quella dei loro simili. {111 [111]}

 

 

Capo XVIII. Severino parla di alcuni incidenti sul Gran s. Bernardo.

 

            Io era tutto ansioso di girare e vedere le particolarità che circondano questo singolare altipiano che forse è il luogo più alto che sia costantemente abitato dagli uomini, quando uno di que' Monaci venne con premura ad avvisarci che andassimo tosto con lui nell'Ospizio. Il sudore, ci disse, può tornarvi fatale a motivo del repentino cangiamento di atmosfera. Accettammo il cortese invito e' lo seguimmo nell'ospitale edifizio. Passammo in fretta pel piano terreno, dove sono la chiesa, il refettorio, le cucine e le ampie stanze in cui sono alloggiati i mendicanti, e salimmo al piano superiore, ove dormono i religiosi e sono parecchie stanze pei viaggiatori di civile condizione. Accolti colla più squisita cordialità fummo condotti in un alloggio bastantemente {112 [112]} caldo, dove ci venne amministrato un pranzo con cui potemmo assai bene soddisfare all'appetito pel quale i cibi riuscirono oltre modo squisiti e gustosi; Dopo pranzo abbiamo visitato il resto del locale e tra le altre cose ci rallegrò non poco il trovare in quei luoghi quasi inabitabili una preziosa scelta di libri, di giornali italiani, francesi, con uno stupendo pianoforte. Amantissimo della musica corsi tosto a far prova della bontà di quello strumento che trovai di ottima composizione. A quel suono corsero monaci e forestieri, che si misero a cantare, così che si formò una specie di concerto armonioso che servì a maraviglia per rendere amena quella serata. Alle dieci suonò un campanello che indicava l'ora del silenzio e del riposo. Ognuno, disse ad alta voce un religioso, reciti la preghiera e poi si ritiri nella cella assegnata, e buon riposo a tutti. Assai di buon grado ce ne andammo a letto, ove la stanchezza ci immerse tosto in un profondo sonno come l'appetito {113 [113]} aveva condite a maraviglia le vivande dei pranzo.

            Al mattino un canonico ci condusse a fare una passeggiata a qualche distanza dal convento. Colà e nei dintorni non alligna albero od arboscello o filo d'erba che rallegri lo sguardo dei passeggero; soltanto in mezzo alle rovine veggonsi poche erbe montane come sono i licheni e la genziana.

            - Qual è la vostra occupazione ? dimandai al buon religioso.

            - Esercitare la carità verso il prossimo massime verso i forestieri, andar in cerca di chi cade in pericolo della vita per salvarlo o almeno somministrargli i conforti della religione.

            - Vi accade sovente di trovare gente in cotali pericoli ?

            - Accade spessissimo. Allorchè i venti furiosi imperversano e trasportano la neve nelle vie, oppure ammassi di ghiacci sono staccati dalle montagne, allora guai al viaggiatore che n'è sorpreso! egli resta {114 [114]} come sepolto nella neve talvolta ad una spaventosa profondità.

            - Che cosa potete mai fare di utile in simili accidenti?

            - Quando accadono questi turbini, o trombe che sfigurano o coprono le strade, fattasi appena un po' di calma, noi ci avviluppiamo in una specie di pelle, quindi con un fiaschetto di liquori potenti, appoggiandoci sopra di un piccone che teniamo nelle mani, andiamo a visitar i passi più pericolosi per vedere se per disgrazia qualche viandante sia colà rimasto coperto. Certamente da noi soli non si riuscirebbe a grandi cose, ma la divina provvidenza ha disposto che questi cani, che voi vedete, ci venissero in aiuto. Osservateli, e me ne additò due, questi animali sono educati a seguire le pedate de' viaggiatori smarriti, e guidati dal finissimo loro odorato ci precedono facendosi strada col corpo, oppure affrontando pioggia, ghiaccio e neve. E noi seguitandoli percorriamo, non senza pericoli, quei sentieri, e spesse volte ci è {115 [115]} riuscito di trar dalle fauci della morte uomini trasportati dalle valanche nei precipizi.

            A quel racconto io rimasi profondamente commosso ed esclamai: Benedetta quella religione che opera tali prodigi di carità !

            - Venite qua, ripigliò l'ospitaliere cortese, giacchè prendete parte a questi racconti, vi narrerò una disgrazia avvenuta non è gran tempo. Vedete questo grosso scheletro ? Esso appartiene ad uno dei più fedeli nostri cani. Barrì era il nome con cui lo chiamavamo; esso ci aiutò a salvare molti di quegli infelici. Quando le furie dei venti erano prolungate e violente, a noi tornava impossibile uscir di casa senza rimaner coperti, o strascinati in qualche voragine. Allora si metteva un canestrino al collo di Barrì con entro un fiaschetto di liquore, un altro di vino ed un po' di pane. Con quella provvigione Barrì partiva e affrontando i venti e i turbini percorreva tratti lunghissimi. {116 [116]} Facendosi strada col suo corpo, o strascinandosi sotto la neve, come la talpa sotto terra, guidato dal maraviglioso odorato talvolta giunse a scoprir degli infelici morenti. Barrì allora colle zampe allontanando le sostanze che li coprivano, loro si adagiava vicino e se riusciva a vederlo a muoversi spingeva il canestro fuori del collo e poi frettoloso ritornava a casa. Il dimenar della coda, il suo contegno allegro indicavano aver fatto preda, e noi avevamo tracce sicure per andare in aiuto di qualche infelice che talvolta fu trovato in piedi ristorato e già in atto di cercare la direzione del cammino. Dicci erano stati i passeggeri salvati in questa guisa. Ma il povero Barrì fu vittima della sua operosità e bravura. Un giorno dopo un violentissimo uragano secondo il solito egli andò a girare per più ore, finchè giunse a scoprire nell'angolo di una strada un uomo come morto. Barrì gli tolse l' alta neve che lo copriva, e poi si adagiò sopra la persona come per comunicargli calore e {117 [117]} farlo ritornare a vita. Di fatto in pochi minuti quell'infelice riacquistò l'uso dei sensi; ma alla vista di quell'animale si spaventò e riputandolo una bestia feroce colà accorsa per divorarlo, gli sparò una pistola. Barrì cadde morto sull' istante. Noi potemmo di poi raggiungere il povero forestiere e condurlo al convento. Oh chi può esprimere il dolore di costui quando seppe di aver data la morte a chi gli aveva salvata la vita? Egli ne fu inconsolabile, e per darsi qualche conforto e per pagare una specie di tributo di riconoscenza al suo benefattore fece a sue spese imbalsamare quel corpo, e dispose che fosse collocato in quella magnifica posizione come voi vedete.

            Mentre facevamo quei discorsi, intervenne il superiore dell' ospizio, che ha titolo di Preposto.

            - Vi fa molto onore, presi a dirgli, nella vostra età giovanile già meritarvi il grado di superiore.

            - Bisogna fare il superiore giovane, {118 [118]} mi rispose, perchè qui niuno giunge alla vecchiaia. Per la rigidezza del clima se non sono inviati altrove dopo qualche tempo vanno alla tomba. Perciò i nostri fratelli, passata l'età di trentacinque anni, sogliono essere inviati ad occupare le parochie che appartengono al nostro ordine nel Vallese. Il freddo quivi si mantiene ordinariamente da 28 a 30 centigradi sotto allo zero. Ora noi siamo solamente ai primi di agosto, e il terreno è già coperto di neve. Rarissimamente godiamo un cielo veramente sereno. Questo piccol lago sta gelato annualmente più di dieci mesi, perciò non alimenta pesci. Ora venite meco nell'orto e vedrete la splendida nostra verzura. Poche rape, alcuni magri cavoli e qualche erbaggio per insalata, ecco tutte le nostre splendidezze. Tutte queste cose rendono la sanità cagionevole agli uomini della più robusta complessione. Soltanto ne' due mesi dell'estate non è disaggradevole il vivere su quest'alto giogo. In quei due mesi appunto {119 [119]} passa all' ospizio ogni sera il fiore de' viaggiatori d'Europa, e massimamente dell'Inghilterra, di Francia e di Germania. Mentre il benevolo superiore ci tratteneva intorno alle specialità di quel soggiorno, senza accorgerci avevamo fatto quasi un miglio di cammino. Ecco, egli ci disse, questa è la cappella sotto cui giaciono le spoglie mortali di chi miseramente perisce in mezzo ai ghiacci ed alle nevi. Di poi volgendo il passo alla volta del convento, noi, egli prese a dire, fummo anche visitati da Napoleone I nel giorno 20 maggio del 1800. Quell' imperatore passò questa ardua montagna e qui si trattenne buon tratto di tempo a discorrere coi religiosi e visitare l'ospizio. Quel formidabile conquistatore restò commosso ad udire il tenore di nostra vita, prese molta parte ai nostri bisogni e fece vistose offerte. Ogni soldato del suo numeroso esercito ebbe per ristoro un bicchiere di vino.

            - Ma dove prendete danari per tante spese? Mantenere voi, conservare i locali, {120 [120]} e provvedere quanto occorre per nutrire cotanti passeggeri?

            - La divina Provvidenza provvede a tutto. Nella chiesa sta una cassetta in cui gli agiati viaggiatori sogliono deporre qualche limosina. Si aggiungono le rendite di alcuni stabili che l'ospizio possiede al di qua e al di là delle Alpi. La Svizzera ci manda altresì alcuni sussidi.

            Continuavamo quei piacevoli discorsi, quando fummo avvisati essere giunta l'ora di nostra partenza. Fatti pertanto i più vivi ringraziamenti a quegli incomparabili benefattori dell' umanità per la cortesia ed ospitalità usataci, deposto anche il nostro obolo nella comune cassetta, partimmo per la Svizzera. In quel momento sentivami commosso fine alle lagrime. Perchè, diceva a me stesso, perchè tu vivi separato da una religione che produce così sublimi frutti di carità? Perchè segui le massime di una credenza sterile in virtù, e che non ha altro stimolo al bene che il principio {121 [121]} di una vantata, ma bugiarda filantropia[11]?

 

 

Capo XIX. Severino parla di Ginevra e di Calvino.

 

            Noi giungemmo a Ginevra sul far della notte che è l'ora in cui quella città fa la sua più bella comparsa. Posta in amenissima situazione, cinta da considerabili fortificazioni, rivolta sopra il lago che ne porta il nome, rischiarata da illuminazione per tutte le vie, Ginevra si presentava ai nostri sguardi come un incantesimo. Lo scopo del mio viaggio essendo lo studio e la religione, rivolsi il mio pensiero a conoscere lo stato religioso della città. Io sapeva che il vangelo era stato quivi predicato dai primi tempi del cristianesimo e {122 [122]} sapeva anche come l'eresia vi si era da più secoli introdotta. Dai libri che ho potuto avere mi riuscì di raccogliere come nel secolo XVI Svinglio introdusse i principii della così detta Riforma[12].

            Nel 1530 i popoli del Cantone di Berna unitamente ai Ginevrini si armarono contro ai Cattolici, gettarono a terra le croci, spezzarono le sacre immagini, calpestarono empiamente {123 [123]}  le ostie consacrate e le reliquie dei santi ed ordinarono che gli eretici predicassero regolarmente nella città di Ginevra nella celebre cattedrale di s. Pietro, dove da tanti secoli erasi predicato costantemente il cattolicismo. I cattolici che formavano almeno nove decimi della popolazione cercarono di opporsi all'empietà, ma quei pochi, che' erano alla testa del governo, proibirono ogni atto di culto cattolico e stabilirono che il solo protestantesimo fosse religione dello Stato. Allora fu abolita la sede vescovile, proclamata la repubblica, cacciati i frati e le monache. Così Ginevra divenne la Roma del protestantesimo, come la chiama taluno, volendola in cotal modo paragonare alla città di Roma centro del cattolicismo. Ciò avveniva dopo che la vera religione per lo spazio di circa mille cinquecento anni aveva fiorito, e procacciati molti santi alla Chiesa e molte anime al cielo.

            Ma il più famoso promotore di questa falsa Riforma in Ginevra fu Calvino di cui {124 [124]} io aveva cotanto udito a parlare. Ascoltate, o amici, e vi darò breve ragguaglio di questo preteso riformatore, e ciò basterà a persuadervi dell'assurdità o meglio dell'empietà della dottrina riformata.

            Calvino Giovanni era nato in Noyon città di Francia; suo padre era procuratore, di nome Couvin. Il vescovo di quella città, mosso a carità per lui, gli somministrò i mezzi per attendere agli studi nella speranza che fosse per valersene in bene. Il padre riusci male ne' suoi affari ed incorse in varie condanne; la madre era donna di cattiva fama. I fratelli e le loro mogli terminarono nelle carceri od altrimenti nell'infamia. Calvino per riparare all'infamia di famiglia determinò di cangiar nome e invece di Couvin chiamarsi Calvino; e così cominciò sotto mentito nome a viaggiare di paese in paese. Ma la dissolutezza dei costumi lo accompagnava ovunque. A Parigi per un delitto nefando fu processato, convinto e condannato al marchio del fiordaliso sul dorso con un ferro arroventato. {125 [125]} E ciò per favore singolare del Vescovo e dei magistrati, giacchè il rogo era la pena dalle leggi stabilita per quel delitto. Con tutto questo non si corresse, ma divenne peggiore. Io peraltro tirando un velo sopra le sue nefandità dico soltanto che il malvagio uomo stabilì una dottrina che rendeva leciti i più orribili misfatti, e si adoperò per propagarla.

            Le sue predicazioni perturbando ovunque la pubblica tranquillità, le autorità civili mandarono a carcerare il predicatore. Quando esso senti gli sgherri a bussare alla porta, non avendo più altro scampo, prese le lenzuola del letto, le tagliò a pezzi e rannodatili insieme si calò con quelli dalla finestra, correndo a nascondersi nella casa di un vignaiuolo. Per fuggire di là sconosciuto si vesti da povero contadino e con zappa e vanga sulle spalle potè ingannare i soldati della giustizia e porsi in salvo.

            Un grave autore di nome Rouvrai, ministro Francese a Berna, parla di questo {126 [126]} eresiarca nel modo che segue: « L'infame Calvino, uomo sordido, fiordalisato in Francia, concubinario a Stransborgo, ladro a Metz, sodomita a Basilea, tiranno a Ginevra, Calvino, dico, proclamava la libertà di religione, gridava contro ai magistrati cattolici chiamandoli Diocleziani ovvero persecutori, perchè giudicavano gli eretici. Egli intanto imprecava, malediceva e se poteva imprigionava e mandava a morte chiunque fosse stato contrario alle sue opinioni. Capitò in Ginevra di passaggio uno spagnuolo di nome Michele Serve il quale non credeva come lui intorno al mistero della SS. Trinità. Calvino lo fece mettere in prigione, di poi gli comandò o di credere a modo suo, o che lo avrebbe fatto bruciar vivo. Serveto non volle arrendersi, perciò fu condannato alle fiamme. »

            Da Ginevra Calvino fece varie scorrerie in Italia, ma appena veniva conosciuto per uomo perturbatore era ovunque cacciato via.

            Vedendo che le sue fatiche tornavano {127 [127]} inutili, Specialmente dopo la cacciata d'Aosta, tentò di aprire una missione in America. I novelli suoi missionari s'imbarcarono per portare la peste della loro dottrina a quei popoli che erano ancora quasi ignari del Vangelo. Ma siccome i riformati non hanno nè capo nè guida nelle quistioni religiose, così insorsero tosto dispute interminabili sopra l'Eucaristia. Uno diceva di essere da Dio inspirato ad insegnare che nella Eucaristia non vi è il corpo di Gesù Cristo; l'altro asseriva essere del pari inspirato lo Spirito Santo a credere ed insegnare che nell'Eucaristia vi è realmente corpo, sangue, anima e divinità di G. C. In mezzo a questi trambusti il capo di quella missione, di nome Durando, conobbe l'assurdità della Riforma e nel 1558 abiurò pubblicamente il Calvinismo e professò la fede cattolica che colla voce e cogli scritti difese finchè visse. Così ebbe fine la famosa missione dei Riformatori mandati da Calvino in America.

            Andate così fallite le sue imprese, Calvino pensò di consolidare la Riforma in Ginevra. Riusci infatti a farsi capo del potere civile; ma tuttavia quando volle cangiare l'antica religione, Calvino si trovò in grave imbarazzo.

            Fateci vedere, andava dicendo il popolo, qualche segno, con cui possiamo essere assicurati che voi siate mandato da Dio a riformare la religione. I profeti, gli apostoli confermarono le loro parole colla santità della vita e coi miracoli. Provate anche voi la vostra missione con qualche miracolo; così noi avremo un ragionevole motivo di credervi. Calvino capiva la gravità della dimanda, ma la sua vita scostumata non gli permetteva di dire: Osservate quello che faccio. Dunque la cosa era ridotta a questo punto: tentare di fare qualche miracolo od essere tenuto da tutti per impostore. Si appigliò al primo partito, cioè tentar di operare qualche cosa che valesse a farsi credere per miracoloso. Ascollate il fatto. Un povero ginevrino di {129 [129]} nome Brulleo in compagnia di sua moglie aveva fatto ricorso a Calvino per ottenere limosina. Volentieri, loro rispose, verrò in vostro aiuto purchè in tutta prudenza e confidenza mi prestiate mano a compiere un mio disegno. Quegli infelici stretti dalla miseria si dichiararono pronti a tutto, e dietro le istruzioni del novello operatore di miracoli, il Brulleo si finse ammalato. Calvino ordina che per una guarigione si facciano suppliche e preghiere nelle chiese, ma tutte inutilmente; allora l'infermo dimostra di soccombere, e fingesi morto. Calvino segretamente avvertito, dimostrando di nulla sapere, si fa accompagnare da molti amici sotto allo specioso pretesto di una passeggiata. Giunto davanti alla casa dove la scena era preparata sente le finte grida e gli urli della moglie ipocrita, che pareva in preda al dolore ed alla disperazione. L'impostore dimandando che cosa fosse entra in casa, cade in ginocchioni con tutto il suo seguito e prega Dio ad alta voce di voler mostrare la {130 [130]} sua potenza e rendere la vita a quell'uomo: così avrebbe fatto risplendere la sua gloria in faccia di tutto il popolo e attestato che esso, Calvino, era veramente da Dio inviato a riformare la Chiesa.

            Finita la preghiera, Calvino con aspetto maestoso si avvicina al morto, e prendendolo per mano gli dice: In nome di Gesù Cristo alzati e cammina. Il fililo morto non si muove. Replica più volte il medesimo comando e infine corre la moglie, cerca di scuotere il marito, e lo trova realmente morto. Immaginatevi le grida, le maledizioni della desolata moglie lanciate contro l'impostore. Rimproverò Calvino, e usci furiosa di casa, pubblicò il fatto per tutta la città. Questo è il grande miracolo di Calvino.

            Un uomo così scostumato, aiutato da uomini scostumati al par di lui non fece altro che tirare a sè gente rotta ad ogni sorta di vizio a segno che i riformatori, vivendo tuttora i fondatori della pretesa riforma, facevano conoscere i fruiti dell'empio {131 [131]} sistema protestante. Io potrei citarvi quello che dicono i cattolici intorno ai disordini cagionati da quegli strani missionarii; ma voglio limitarmi alle parole di un autore certamente non sospetto, cioè di Lutero, degno maestro e collega di Calvino nella empietà. Al vedere i disordini a cui si abbandonavano i riformatori esprimeva i suoi lamenti con queste parole: « La maggior parie dei nostri seguaci vivono da Epicurei; non cercano che scorrere giorni gaudenti. Non si troverebbero al certo fra i papisti di tali buffoni e di tai mostri. Chiamatisi riformati mentre in realtà sono demonii incarnati .... sono bricconi pieni di orgoglio ed insozzati dall'avarizia quali non furono mai sotto il papato. Il disordine giunge a tanto, che se a taluno piacesse contemplare una riunione di buffoni, truffatori, usurai, dissoluti, ribelli, gente di mala fede, non avrebbe che ad entrare in una di quelle città che si dicono evangeliche. Dubito che tra i pagani, Giudei, Turchi, {132 [132]} ed altri infedeli, si possano trovar uomini cotanto testardi ed arroganti, in cui ogni onesto sentimento, ogni virtù sia affatto estinta, e fra cui per nulla si tenga ogni sorta di peccati ecc. » Vedi Lutherus in colloquiis, p. 234.

 

 

Capo XX. Severino parla delle vicende del Cattolicismo in Ginevra.

 

            Nel 1536 Giovanni Calvino cacciato dalla Francia per nefandi delitti, come abbiamo detto, ritirossi in Ginevra presso il Ministro Farel che lo nominò professore di Teologia senza che mai l'avesse studiata.

            Siccome Calvino insegnava dogmi conrari a quelli di Svinglio, così dapprima fu biasimato e poi cacciato dalla stessa città. Esso e i suoi compagni nel decreto, che li condannava al bando, sono detti empi e ribelli. Ma poco dopo Calvino ebbe mezzo di ritornare in Ginevra, dove fu accolto e fatto Papa di Ginevra, come lo {133 [133]} chiama l'autore di sua vita. Servendosi allora dell'inganno, della calunnia, della persecuzione e delle più detestabili barbarie, egli riusci a strascinare nell'errore una gran quantità di cattolici, per modo che Ginevra divenne una città quasi tutta protestante, e la Sede Vescovile dovette trasferirsi nella città di Annecy, il cui Vescovo però continuò a chiamarsi Vescovo di Ginevra.

            Poco dopo la morte di Calvino s. Francesco di Sales diede opera a ricondurre il Chiablese alla Religione Cattolica, ed in quel tempo il numero dei cattolici crebbe assai anche in Ginevra, e lo stesso s. Francesco di Sales fu fatto vescovo di quella diocesi. Per lo spazio di due secoli i protestanti di Ginevra usarono continue violenze ai cattolici che fecero ogni sforzo per conservare la religione dei padri loro; tuttavia il numero dei cattolici andò scemando a segno che nel secolo scorso Ginevra non ne contava più che alcune centinaia. Ma la Divina Provvidenza suscito {134 [134]} un uomo fatto secondo il cuore di Dio che risvegliò e fece rifiorire il cattolicismo fra i Ginevrini. Fu questi il sacerdote Francesco Vuarin, nativo di Savoia ed eletto curato di Ginevra nel 1808. La sua scienza, la sua prudenza e la sua pietà gli avevano procacciato una fama europea, e per lo spazio di trentasei anni fu il martello degli eretici riformatori. Cominciò a combattere l'errore colla carità, colla pazienza, colla predicazione, e ciò specialmente per confortare que' cattolici che si erano fino allora conservati costanti nella fede. Quindi scrisse libri, propose dispute ai protestanti, i quali non vollero mai lottare con un rivale da loro giudicato di gran lunga superiore. Rifiutarono pertanto le sfide e si misero a tendergli insidie e forse avrebbero rinnovato il fallo del b. Pavonio se la grande riputazione del curato non li avesse trattenuti. A due gravi bisogni Vuarin doveva specialmente provvedere, cioè agli ammalati ed ai fanciulli. I primi dovevano andate {135 [135]} negli ospedali protestanti, dove i sacerdoti cattolici non potevano penetrare pei conforti della religione; i fanciulli poi erano costretti di frequentare le scuole protestanti. A porre rimedio a tanti mali l'abate Vuarin ricorse alla carità dei cattolici, e alla protezione ancora delle potenze estere. Aprì un ospedale unicamente pei cattolici, instituì delle scuole maschili, che affidò ai fratelli delle scuole cristiane, e delle scuole femminili che affidò alle religiose, dette figlie della carità. L'abate Vuarin nelle sue grandi imprese fu costantemente aiutato e diretto dai sommi Pontefici Pio VII, Leone XII, Gregorio XVI, i quali non solamente secondarono il suo zelo, ma gli somministrarono considerevoli somme di denaro per compiere e sostenere tante opere di carità.

            Il benemerito Vuarin moriva il 6 settembre 1843 compianto da tutti i buoni. I suoi funerali furono un vero trionfo. Trentamila cattolici della città e dei paesi vicini accompagnarono in bell'ordine le sue spoglie {136 [136]} mortali attraverso di una folla attonita di oltre a cinquantamila protestanti. Il ministro Cheneviere presente a quel cattolico spettacolo, che da oltre a due secoli Ginevra non aveva più veduto, a quella commovente cerimonia esclamò: l'Abate Vuarin vivendo ci ha fatto paura e morendo ci schiaccia.

            Quando il Vuarin prese possesso della sua parrocchia, Ginevra contava appena ottocento cattolici, ma alla sua morte erano dieci mila, vale a dire presso a un terzo della popolazione.

            La tendenza dei Ginevrini alla religione dei loro avi non si arrestò alla morte dello zelante pastore; ma continuò con non interrotti progressi specialmente per lo zelo del celebre abate Mermillot. Questo venerando prelato colla predicazione, cogli scritti, coll'aiuto di zelanti collaboratori guadagnò alla fede molti altri Ginevrini. Il regnante Pio IX rivolse eziandio le sue paterne cure a pro dei Ginevrini, e rallegrandosi dei grandi progressi della {137 [137]} fede in quella città pensò a ristabilirvi la residenza episcopale. Pertanto l'anno 1864 l'abate Mermillot veniva consacrato vescovo con incarico di risiedere a Ginevra e quivi esercitare le funzioni episcopali, e tra la giubilante moltitudine si recava tranquillo al possesso della Diocesi che la divina Provvidenza gli affidava, essendo egli il primo Vescovo che da oltre tre secoli potè porre in Ginevra la sua residenza.

            Presentemente i Ginevrini cattolici oltrepassano i ventimila ed hanno tre chiese aperte al libero esercizio della loro religione. Le scuole pei fanciulli cattolici si vanno ogni giorno aumentando in numero, in regolarità e libertà dell'insegnamento. Tutto insomma fa presagire non lontano il tempo in cui i desideri e le preghiere dei buoni saranno coronati da un completo ritorno dei Ginevrini al catolicismo sotto al governo dei successore di s. Pietro, il Vicario di Gesù Cristo. {138 [138]}

 

 

Capo XXI. Severino parla della sua dimora in Ginevra.

 

            Io era in Ginevra per fare lo studio della Bibbia, del latino e del greco, ma a dir vero questi studi, che da tanto tempo vagheggiava, erano troppo gravi e per la troppa vivacità del mio carattere e per la mia età di 27 anni. Amava la scienza facile e a tutto preferiva la storia, i ragionamenti e le materie religiose che oltre all'istruzione servissero a dar calma all'agitata mia coscienza. I protestanti per secondarmi usaronmi molti riguardi.

            Ma l'insegnamento della teologia, come essi chiamano, ben lungi dal rassodarmi nei principi religiosi, mi faceva conoscere ognor più l'incertezza della pretesa loro riforma. Dai medesimi loro ammaestramenti io traeva questa conseguenza: la religione riformata non esisteva prima di Calvino e di Lutero, essi poi prima della loro prevaricazione {139 [139]} erano cattolici. Chi li ha mandati a formare una nuova religione? Hanno essi operato miracoli ? Hanno menato una vita commendevole per virtù e moralità? Niente di questo, perciocchè dalle azioni di essi io scorgeva che la loro vita privata fu veramente biasimevole, e che non diedero mai alcun segno di essere da Dio mandati a riformare la chiesa di Gesù C. Pertanto nei loro insegnamenti ravvisava una credenza inetta a dare pace all'uomo dubbioso. È vero che la loro religione dà all'uomo maggior libertà, ma questa maggior libertà conduce alla sfrenatezza delle passioni. Onde un cattolico non si fa mai protestante per diventar migliore, bensì per diventar peggiore.

            Notava poi come essi condannano la tradizione, e intanto ricorrono alla tradizione per trovare un argomento di credibilità per la Bibbia, pel simbolo degli Apostoli, per la santificazione delle domeniche e delle altre pratiche religiose da loro osservate e non espresse nei libri santi. {140 [140]}

            Di più i protestanti ammettono che un buon cattolico può salvarsi; dunque perchè un cattolico dovrà abbandonare la propria religione, in cui può salvarsi, per abbracciarne un'altra che lo lasci nel dubbio spaventoso di sua salvezza? I miei maestri accorgendosi che più andava avanti negli studi, più io restava convinto della necessità di fare un leale ritorno al cattolicismo, procuravano di assistermi ovunque ed impedirmi di trattare da solo coi cattolici.

            Un giorno mentre in compagnia de' miei maestri e di alcuni colleghi passeggiavamo per la città incontrammo un sacerdote, che accompagnato da alcuni fedeli portava il viatico ad un infermo. A quella vista, a quelle preghiere io richiamai alla memoria il doloroso momento in cui simile commovente funzione erasi compita verso mio padre, mi tornarono assai vivide alla mente quelle ultime parole del morente genitore: vivi da buon cattolico. Perciò quasi fuori di me, mio padre, {141 [141]} dissi, amato padre, se siete in cielo, pregate per me. Ciò detto mi ritrassi sotto il vestibolo di una porta, feci il segno della santa croce, mi inginocchiai supplicando Dio di aprirmi la via della sua misericordia. Ciò videro i miei compagni e alla sera misero tutto in opera per deridermi a cagione dell'ossequio prestato alla s. Eucaristia. Agitato in quell'istante dalla commozione e dal dispetto risposì loro così: Da nove anni vo studiando la vostra religione, ma i miei dubbi sono ognor più aumentati. Io adunque giudico il viatico un gran conforto per chi si trova all'estremo della vita.

            Voi poi siete in una vera contraddizione. Non credete nella Eucaristia e fate con solennità la cena pasquale. Se credete che nella vostra cena vi sia il corpo del Signore, credetelo anche coi cattolici che lo portano agli infermi; se non lo credete, che vale la vostra cena? Di più dalla Bibbia e da quanto voi medesimi avete a me insegnato è certo che Gesù comandò {142 [142]} di cibarci del suo corpo e di bere il suo sangue, diede questo suo corpo e sangue agli Apostoli sotto la specie del pane e del vino e comandò agli Apostoli ed ai loro successori di rinnovare il medesimo sacrifizio per la remissione dei peccati. Nè vale il dire che l'Eucaristia è una figura o una rimembranza del sacrifizio del Calvario. Gesù Cristo sciolse egli stesso ogni dubbio quando disse: Questo pane è il mio corpo, questa bevanda è il mio sangue, questo cibo è quel corpo che per voi sarà sacrificato. Corpus quod pro vobis tradetur.

            Niuno in quel momento stimò di farmi osservazioni, forse per non esacerbare di più l'animo mio e si limitarono a dirmi che lo studio e la preghiera mi avrebbero meglio illuminato nella fede; che cacciassi via la malinconia e vivessi allegramente.

            Fin qui tanto i Valdesi di Luserna quanto i protestanti di Ginevra mi avevano trattato bene, ed io faceva quanto era in me per corrispondere alla loro benevolenza {143 [143]} occupandomi energicamente in lavori ora scientifici ora materiali che mi vennero affidati. Nè mai alcuno aveva insultata la mia onestà. Ma tra loro vi fu uno scellerato, il quale mi spinse ad una malvagia azione che io abbominerò finchè avrò vita. Ve la racconto, ma solo perchè ne abbiate orrore. Vi prego insieme di dare benigno compatimento alla mia sciagura.

            Si suole in Ginevra scrivere sopra un biglietto il luogo, il giorno e l'ora delle conferenze o sermoni, come essi dicono: dipoi si spargono tra i protestanti e tra i cattolici invitandoli in tale guisa ad intervenire. Un amico, che io reputava datomi per salvaguardia della moralità, mi invitò ad andar seco in una conferenza speciale, per cui, diceva, non si erano diramati inviti stampati, ma egli il sapeva e poteva condurre anche me, anzi mi assicurava che i nostri maestri l'avevano incaricato di condurmi. Per poco che tu ci venga, soggiungeva, diventerai un ottimo evangelico. Io vi andai, ma quell'infame mi {144 [144]}condusse ad essere vittima, della seduzione.

            Era la prima volta che tale immoralità macchiava la mia coscienza. Io era nei ventisette anni e la mia vita era sempre stata onorata ed onesta. Quindi sentiva tal rimorso per quella malvagia azione che non aveva più pace nè giorno, nè notte. Ma quanto mai si crebbero le mie ambasce quando mi accorsi che oltre all'offesa del Creatore aveva incontrato un malanno fisico che faceva pronosticare funeste conseguenze al mio avvenire. I miei superiori mi fecero condurre da un valente dottore il quale mi prodigò ogni sorta di cura; ma dopo molte sollecitudini finì col dirmi che il mio male era di lunga durata e non facile a guarirsi. A quella umiliante sentenza divenni come furioso. Malediceva Ginevra, il compagno infame, i protestanti, i Valdesi, detestava il momento in cui mi era dato nelle loro mani. Parole inutili.

            I miei maestri per tormi da un paese {145 [145]} dove io recava loro danno col mio sparlare e per far prova di un rimedio che potesse rendermi la perduta sanità secondarono il consiglio del medico e deliberarono di mandarmi a Genova dove il clima ed alcuni celebri periti dell'arie medica mi avrebbero potuto giovare assai.

 

 

Capo XXII. Severino parla della morte di un suo amico e va alla chiesa dei cappuccini.

 

            La varietà e la mitezza del clima, la ridente posizione di Genova in principio produssero un notabile miglioramento nella mia sanità. Ma fu di breve durata e dopo alcuni giorni ricaddi come prima.

            Io era nell'ospedale dei protestanti dove nulla mancava di quanto poteva giovarmi. Mancavami soltanto quell'unico conforto che avrebbe dato calma alla mia coscienza. Un giorno mentre immerso in questo pensiero passeggiava per l'ospedale mi sentii chiamare per nome da un infermo. {146 [146]}

            - Chi mi domanda? risposi.

            - Un tuo amico, Paolo Bordis, nol conosci più ?

            - Bordis..... tu qui..... cotanto ammalato.....!

            - La miseria, caro Severino, la miseria mi condusse a questo tristo passo, io mi sono fatto protestante. Ora ne sento i più gravi rimorsi. Me misero ! piombato in questo letto non so dove andare, nè come provvedere alla mia necessità.

            - Il signor Charbonier che cosa dice ?

            - Il sig. Charbonier nostro pastore viene quasi tutti i giorni a vedermi e non sa dirmi altro se non fate coraggio, abbiate fede, abbiate fede; ma quelle parole non mi danno alcun conforto. La coscienza mi rimorde; se muoio in questo stato son perduto e intanto qui non posso nè confessarmi, nè comunicarmi. O Severino, Severino! Tu sei ancora a tempo, abbandona questo luogo, non lasciarti sorprendere dalla morte in questo sito malaugurato.

            - Non hai esposti i tuoi dubbi al pastore? {147 [147]}

            - Qualche volta li ho esposti ed un giorno gli ho chiesto con istanza di potermi confessare. Egli rispose che mi poteva confessare al Signore e che egli solo dava il perdono dei peccati. Lo so benissimo, risposi, solo Iddio perdona i peccati; ma i preti mi aiutano a fare la confessione; a nome di Dio mi assolvono dai peccati.

            - Che cosa egli rispose?

            - Egli fece un sorriso, poi soggiunse: abbiate fede e questa sola vi salverà. Queste son buone parole; ma intanto io soffro mali orribili nell'anima e nel corpo. In quali sciagure io sono mai caduto!

            - Paolo, io prendo parte a' tuoi mali, perchè la mia coscienza al par della tua è orribilmente travagliata. Noi fummo sempre amici, fummo educati insieme, a scuola insieme, al lavoro insieme, non ti abbandonerò, mi adoprerò di cercare per me e per te quali he sollievo alle nostre pene.

            Io pensavo che la malattia del mio amico dovesse durare più lungo tempo, ma {148 [148]} nel di seguente mi accorsi che la sua vita era in grave pericolo.

            - Caro Severino, mi soggiunse, non so se domani sarò ancora in vita: ricordati di dire a mio fratello che gli domando perdono dello scandalo dato; di' anche all'antico nostro Direttore spirituale che fui ingrato; che mi dia l'assoluzione, se può; digli che io sono lo sventurato Paolo Bordis, cui egli ha raccomandato tante volte di non aspettare in punto di morte a fare una buona confessione; che non l'ho ascoltato; adesso vorrei confessarmi, e non posso. Misero me, parmi già di sentire i demoni a strascinarmi nell'inferno: io morrò, e morrò dannato.

            - Paolo, fatti coraggio, dimani andrò a domandare consiglio a chi può darcelo, e lo seguiremo ambidue.

            - Io non posso più vivere, sarò soffocato dalla tosse, questa notte è l'ultima di mia vita; oh Severino.....

            - Caro Paolo, datti pace, finchè c'è fiato, c' è vita; ma se per disgrazia venisse {149 [149]} a trovarti in patito di morte, dimanda a Dio perdono de' tuoi peccati con tutto il fervore possibile, e prometti di confessarti ai primo momento in cui ti sarà possibile. Facendo così, tu per certo troverai misericordia nel cospetto di Dio.

            Il tristo presagio si compi.

            Il mattino andai per tempo dall'amico, ma era già cadavere. Colui che si trovò presente alla sua agonia, mi assicurò che l'angoscia ed il rimorso l'hanno accompagnato fino all'ultimo respiro.

            Confuso e desolato allora io uscii dall'ospedale senza sapere nè dove andassi, nè che cosa volessi fare. Entrai macchinalmente in una chiesa servita dai PP. cappuccini, mentre appunto uno di loro andava a celebrare la santa Messa. Io l' ascoltai volentieri; ed era la prima cui assisteva da molti anni. Portai quindi lo sguardo ad un confessionale intorno a cui era molta gente: a quella vista mille pensieri mi corsero alla mente. Richiamava alla memoria la pace goduta quando con regolarità {150 [150]} andava a confessarmi. Questo confessionale, diceva sospirando, potrebbe darmi la pace che altrove cerco invano. Questo confessionale avrebbe potuto salvare l'anima del mio amato Bordis. Misero Bordisi che ne sarà ora dell'anima di lui?

            In quel momento feci alcuni passi verso il confessionale, ma la vergogna mi spinse indietro. Mi andai a porre in un banco, e fra gli affanni e fra i sospiri diceva: La confessione non mi costa niente; mi dà pace al cuore, e non mi fa alcun male. D'altronde è certo che il Salvatore diede ogni facoltà ai suoi apostoli, e fra le altre cose disse: Quelli a cui rimetterete i peccati, sono rimessi; quelli a cui li riterrete, sono ritenuti[13]. Dunque, conchiudeva tra me stesso, Dio ha stabilito un mezzo per ottenere il perdono dei peccati, questo mezzo, ossia questo Sacramento deve essere amministrato dai suoi ministri; i quali devono rimettere o ritenere i peccati, dare {151 [151]} o differire l'assoluzione secondo le disposizioni del penitente. Inoltre affinchè siano conosciute le interne disposizioni del penitente, bisogna che siano manifestate ovvero confessate. E poi... mi sono confessato per tanti anni e sono sempre stato contento.

            I rimorsi e le spine cominciarono appunto a farsi sentire in cuor mio da che ho lasciata la confessione. Dunque io voglio andarmi a confessare; e poi avvenga di me quel che Dio vuole. - Ma una difficoltà non lieve si opponeva al mio buon volere. Quando mi sarò confessato dove andrò? Che cosa farò nel mio stato di sanità rovinata?

            Così ragionando o meglio combattendo tra me stesso, mi avvicinai al confessionale. Fui accolto con bontà veramente paterna; io aprii il mio cuore, e il buon confessore ascoltò tutto; quindi mi diede alcuni santi consigli; ed in fine soggiunse: Caro amico, la divina provvidenza vi condusse qui, Dio non vi vuole perduto. Non posso ancora darvi l'assoluzione, perchè prima di ricevere questo Sacramento voi {152 [152]} dovrete abbandonare il luogo e le persone presso cui dimorate.

            - Dove andare, che cosa fare? soggiunsi.

            - Abbiate fede nella bontà del Signore: io mi occuperò di voi; passate dimani a quest'ora medesima, e spero potervi dare qualche buona direzione.

            Un raggio di speranza, un pensiero di conforto allora si sollevò nel mio cuore; se non che, ritornato all'ospedale, mi sentii talmente stremato di forze, che dovetti pormi immediatamente a letto. Le commozioni sostenute, la morte straziante del mio amico, l'incertezza del mio avvenire accrebbero fuori misura il mio male. Nello stesso giorno si manifestò di nuovo l'antica tosse, ma con sintomi più violenti e febbrili.

            Il medico veniva di frequente a visitarmi; ma scorgendo il mio male ogni giorno volgere in peggio, disse che l'aria salina e troppo vibrata del mare sembravagli funesta per la mia debolezza; che perciò mi consigliava ad un pronto cangiamento di clima. Dietro a queste parole, il signor {153 [153]}

            Charbonier risolse di secondare il consiglio del dollore; assicurando che non mi avrebbe mai abbandonato, soggiunse: Avete qualche sito, ove di preferenza desideriate passare qualche tempo? Io farò in modo che ci possiate andare.

            - Andrei volentieri a Torino, risposi; da qualche tempo mia madre venne a dimorare in quella città; e sebbene versi nelle strettezze, tuttavia mi ama assai, e desidera ardentemente di avermi con se.

            - Questo conforto l'avrete; scriverò a Torino a chi di ragione, e spero che avrete qualche soccorso anche nella casa di vostra madre. Vi raccomando soltanto di essere fermo nella fede e far onore alla società, a cui appartenete.

 

 

Capo XXIII Severino parla del suo viaggio a Torino, e della sua nuova vita in famiglia.

 

            La cura del medico riusci a sollevarmi alquanto da' miei mali, e dopo otto giorni {154 [154]} mi trovai in istato di mettermi in viaggio per Torino. La mia partenza fu accelerata pel consiglio del medico, e assai più perchè il pastore aveva traveduto che io voleva abbandonare la setta, cui aveva finto di dare il nome. Ciò eragli confermato da una persona, che, avendo osservato quanto era avvenuto nella chiesa dei PP. cappuccini, ne aveva ragguagliato il Pastore Evangelico. Inoltre dopo il fatale inganno di Ginevra, e la trista morte del Bordis, io non poteva più trattenermi di biasimare le persone e le azioni di chi aveva impediti al mio amico i conforti della religione. Una cosa mi cagionava rincrescimento, ed era di non poter più vedere il padre cappuccino cui aveva promesso di ritornare. Ho pensato di compiere almeno una parte del mio dovere scrivendogli il biglietto seguente:

 

                        Carissimo e reverendo padre,

 

            Il peggioramento del mio male mi ha impedito di fare a voi ritorno. Ora debbo partire per Torino senza potervi più rivedere; {155 [155]} ma consolatevi meco, le vostre parole non furono senza frutto; io sono di nuovo Cattolico. Dove vado ho un sacerdote di tutta mia confidenza. Egli, spero, mi aiuterà a compire l'opera che voi avete incominciata. Il mio male si aggrava ogni di più, ed io corro a grandi passi verso la tomba; i medici non mi danno più speranza nè di guarigione, nè di lunga vita. Pregate Dio per me affinchè io possa presto trovarmi in tale stato da non più paventare l'ora della morte.

            Forse non ci vedremo più in questo mondo; faccia Dio che ci possiamo vedere nella beata eternità. - Addio. -

            Appena ho potuto affidar ad un servitore il recapito di questa lettera che mi viene annunziata l'ora della partenza. Non senza fatica condotto alla stazione, fui posto in un compartimento della ferrovia con due Colportori ovvero venditori di libri evangelici, che dovevano recarsi nella medesima città. Dio mi aiutò, e sostenni l'agitazione di tutto il cammino, che fu {156 [156]} di sei ore. Smontato alla stazione di Porta Nuova, fui a braccetto collocato in un carrozzino, che in un batter d'occhio mi portò a casa di mia madre. Questa buona donna e pei molti anni da che non mi aveva più veduto, e pel cangiamento di fisionomia prodotto dall'età e dal male, appena potè ravvisare in me l'antico suo Severino. Commozione, pianti, sospiri mischiati con gioia furono affetti provati da amendue.

            - Caro Severino, ella prese a dire, assai mi rincresce di non poterli usare i dovuti riguardi; ma farò quanto potrò, perchè nulla ti manchi.

            - Dio non ci abbandonerà, o cara madre, mettiamo in lui la nostra speranza.

            - Mi avevano detto che ti eri fatto protestante, e che avevi un impiego, in cui guadagnavi molto danaro; è vero?

            - Madre, non parliamo ora di questo, ho soltanto bisogno che......

            In quell'istante si suona il campanello, {157 [157]} ed ecco entrar il Ministro, ovvero il pastore Valdese.

            - È questa, egli dice, l'abitazione del Signor Severino giunto testè da Genova ?

            - Appunto, rispose mia madre. Giunse molto stanco, ora è a letto e prende un momento di riposo.

            - So che siete piuttosto nelle strettezze; prendete; qui c'è un poco di danaro; vi manderemo il nostro medico e faremo in modo che nulla vi manchi. Ma badate bene di non lasciare venir alcun prete a visitarlo, perchè essi mettonsi subito a parlare di confessione, della Madonna, e che so io, e così bandiscono la quiete dell' ammalato, e talvolta gli fanno anticipare la morte. Verrò sovente a vedervi; qui lascio un infermiere che vi porgerà soccorso ad ogni occorrenza, di giorno e di notte.

            Io di fatto aveva preso sonno e il Ministro non mi volle disturbare, ma quando mi svegliai e mia madre mi raccontò l'avvenuto; conobbi che io era soccorso, ma {158 [158]} nel tempo stesso tenuto come schiavo dai protestanti.

            - Quanta bontà mi usò quel Signore, disse mia madre, mi diede danaro e mi promise di portarmene ancora altra volta.

            - Questo danaro lo vedo come veleno che ci attossica, come coltello che ci ferisce.

            - Perchè mai ? il danaro è sempre buona cosa, venga da qualunque mano.

            - Ma quel danaro è portato da un Ministro protestante, e ce lo dà affinchè io continui ad esser protestante.

            - Che importa? guarda, al mattino della Domenica vado alla nostra parochia, affinchè il curato mi dia sussidio; alla sera poi vado al tempio de' protestanti per avere quel tanto che essi sogliono dare a chi frequenta le loro adunanze.

            - Male questo; ed è pessimamente fatto. L'uomo deve avere una faccia sola; se giudica buona una credenza, non deve praticarne un'altra. Nè mai l'interesse materiale deve spingerci a praticare una religione che non si reputi buona; nè vi {159 [159]} possono essere due religioni egualmente buone. Il dire che voi andate nella chiesa de' Cattolici e dei protestanti è lo stesso come servire a Dio ed al demonio.

            - Io ho fatto così pel passato perchè non mi pensava che ci fosse tanto male; per l'avvenire nol farò più. Ma come faremo a vivere?

            -  Sianto buoni cristiani, confidiamo in Dio, egli ci aiuterà. Intanto, o madre, io vorrei parlare col nostro curato, perciocchè mi sento molto male; e desidero di morire nella religione, in cui voi e mio padre mi avete istruito.

            - Sta tranquillo, domani l'andrò a chiamare, egli verrà certamente.

            Questo fu quasi l'unico colloquio che io abbia potuto liberamente tenere con mia madre. Dopo non fui più padrone di me stesso: l'infermiere, o l'evangelista, o il pastore, o il Ministro erano sempre accanto al mio letto, o nella camera vicina. Da quanto seppi di poi, mia madre andò diffatto ad invitare il curato che venisse {160 [160]} a vedermi; egli venne e vennero anche altri sacerdoti più volte; ma non fu mai loro concesso di giungere fino a me. Si dava a tutti per risposta che io non voleva; che il mio male non era grave, che il medico lo aveva proibito.

            Questo era menzogna ed inganno, poichè io desiderava ardentemente di vedere se non il curato almeno qualche prete che mi aiutasse a prepararmi alla morte. Per la qual cosa temeva che si volesse rinnovare in me quanto era avvenuto al povero Bordis; quindi cresceva in me ognora maggior abborrimento per una credenza che pretende sostenersi coll'oro e coll'inganno.

 

 

Capo XXIV. Severino racconta una conferenza animatissima tra un prete ed il ministro Valdese.

 

            Correva la quarta settimana da che io dimorava colla madre, ed il mio male sebbene non minacciasse l'esistenza, tuttavia {161 [161]} mi costringeva a tenere il letto. Sempre mi si prometteva la venuta di un prete, che finalmente potè giungere fino a me in un modo veramente arrischiato. Eccone il racconto:

            Un sacerdote di mia conoscenza, d'accordo col curato della parochia, dopo avere più volte provato invano di venire in mia camera, andò dal mio antico Direttore dell'Oratorio e gli raccontò ogni cosa. Questi pel grande affetto che nutriva per me, risolse di farmi una visita a qualunque costo. Un giorno, alle due dopo il mezzodì, si porta con aria indifferente alla mia abitazione, suona il campanello in tempo che appunto il Ministro Valdese erami a fianco. Egli stesso va ad aprire.

            - Chi cercate, signor abate?

            - Cerco di parlare all'infermo Severino.

            - Non si può, non può ricevere; ne è rigorosamente proibito dal medico.

            - Farò una semplice commissione alla madre.

            - Buon giorno, disse l'accorto sacerdote {162 [162]} a mia madre. Son venuto a prendere notizie di Severino. - Ciò dicendo apre l'uscio di mia camera; e mentre il ministro gridava forte: non si può, non si può, egli era già accanto al mio letto.

            - Severino caro, mi disse.

            - O chi vedo mai.....!

            - Severino, come stai ? Ti ricordi ancora di me? mi conosci ancora?

            - Si che vi conosco, voi siete l'antico amico dell'anima mia; voi mi avete dato tanti consigli, che io ho dimenticati. Ho vergogna di rimirarvi in volto.

            - Se mi conosci, se io sono il tuo amico, perchè temi?

            - Temo non voi, che siete tanto buono; ma ho vergogna perchè vi fui ingrato, perchè ho commesso molte nefandità.

            - Signor abate, disse il ministro, vi prego di ritirarvi, perchè la commozione, che cagionate all'infermo, può tornargli fatale. Questa è una sorpresa che gli fate, egli non voleva ricevere nessuno, ora ha bisogno di niente da voi. {163 [163]}

            - Severino, mi disse il prete, riposati alquanto, e non istancarti a parlare; mi fermerò ancora un poco a tenerti compagnia.

            - Vi dico di ritirarvi, disse il Ministro con accento risentito, voi non avete niente nè da fare nè da dire con questo giovane.

            - Ho molto da fare, ho molto da dire con questo mio figlio.

            - Chi siete voi che vi mostrate cotanto ardito?

            - Chi siete voi che comandate con tanta pretesa?

            - Io sono il ministro Valdese, e voi chi siete?

            - Io sono il Direttore dell'Oratorio....

            - Che cosa volete da questo infermo?

            - Voglio aiutarlo a salvarsi l'anima.

            - Egli non ha più nulla da fare con voi.

            - Perchè mai ?

            - Perchè egli si è ascritto alla Chiesa Valdese, e non ha più relazioni religiose coi Cattolici.

            - Io l'ho inscritto prima di voi nel {164 [164]} catalogo de' miei figliuoli, ne sono stato, e voglio esserne il vero padrone, e per questo motivo esso non ha più niente da fare, nè da dire co' Valdesi.

            - Ma voi, signor abate, parlando così, turbate la coscienza dell'infermo, e vi esponete a certe conseguenze, di cui avrete forse a pentirvene.

            - Quando si tratta di salvare un'anima non temo alcuna conseguenza.....

            - Alto là, voi dovete allontanarvi di qui.

            - Alto là, voi dovete allontanarvene prima di me.....

            - Ma voi non sapete con chi parlate?

            - So benissimo con chi parlo, e credo che anche voi sappiate con chi parlate.

            - Non sapete... ho l'autorità....

            - In fatto di religione rispetto tutti, ma non temo nessuno. E tanto meno io temo voi in questo momento, perchè so che l'infermo è pentito d'aver dato il nome alla vostra credenza e vuole morire cattolico.

            - È questa una seduzione, una menzogna. {165 [165]} Non è vero, Severino, che voi volete essere perseverante nella nostra Chiesa?

            - Io voglio essere perseverante nella religione.....

            - Adagio; badale bene a quello che dite.

            - Signor ministro, disse il prete; parlate più con calma. Permettetemi soltanto che io faccia un'interrogazione allo infermo. La risposta che darà servirà di regola ad ambidue.

            Tacque allora il Ministro e tenendo gli occhi spalancati sopra il prete si pose a sedere. Il sacerdote si volse a me con amorevolezza e parlò così: Ascolta, o Severino: questo signore ha scritto un libro in cui dice ripetutamente che un buon Cattolico si può salvare nella sua religione; dunque niun Cattolico deve abbracciare altra credenza per salvarsi. Tutti i Cattolici dicono parimenti che osservando la propria religione certamente si salvano. Ma soggiungono che colui il quale si ostina a stare nel protestantesimo, certamente si danna..... {166 [166]}

            Ora dimmi tu se vuoi lasciare la certezza di salvarti ed esporti al dubbio, anzi secondo i Cattolici, alla certezza di andare eternamente perduto?

            No, e poi no, io risposi, e sempre no. Io son nato Cattolico, voglio vivere e morire Cattolico - Questo fu l'ultimo ricordo di mio padre... Mi pento di quanto ho fatto.

            Allora il ministro si alzò, prese il cappello, e voltosi al prete disse: In questo momento non si può più ragionare: verrò a tempo migliore. Ma voi, o Severino, vi gettate in un abisso...... Ricordatevi che vi vogliono far confessare, e che la confessione invece di darvi la vita, vi accelera la morte. Ciò detto pieno di sdegno parti.

 

 

Capo XXV. Severino racconta il suo traslocamento e la sua guarigione inaspettata.

 

            Dopo quei colloquii, che durarono due ore, io mi trovai oltre modo stanco; e sentiva tanto la spossatezza, che temeva {167 [167]} di soccombere in quella notte medesima, perciò dimandai tosto di potermi confessare. Avendo da fare con un Direttore che già conosceva la mia giovinezza, tornò assai facile il manifestargli il resto di mia vita. E poichè non aveva mai nè predicato nè scritto contro alla religione Cattolica, non occorreva che facessi alcuna pubblica ritrattazione. Coll'assoluzione Sacramentale parmi che il Sacerdote mi avesse tolto di dosso un enorme macigno. L'animo mio tornò a godere la calma che da dieci anni non aveva più goduta. Stringeva, baciava e ribaciava la mano del sacro Ministro. Io era felice per quanto si può esserlo in questo mondo.

            Compiuta la mia Confessione, chiesi di ricevere il santo Viatico. Fatemi la carità, dissi al Direttore, di andare dal nostro curato, chiedetegli scusa, perchè non l'ho accolto. Ditegliene la cagione. Se giudica bene mi imponga qualsiasi pubblica penitenza o ritrattazione; io la farò volentieri. Se mi reputa degno desidererei che {168 [168]} in questa sera mi fosse portato il Viatico. Temo che questa notte sia l' ultima di mia vita.

            Con trasporto di gioia il curato venne a visitarmi; assicurò che mi avrebbe assistito in tutti i miei bisogni spirituali e temporali. Dipoi mi portò l'Ostia Santa, che pose colmo alla mia consolazione. Dopo ciò io non desiderava più nulla sopra la terra. Ma nacque una difficoltà; pel timore che i Valdesi non mi avessero lasciato tranquillo. In simili casi sogliono venire, ritornare, inviare, e servirsi anche delle civili autorità per tutelare, dicono essi, la libertà di coscienza. A fine di evitare questi disturbi e le cattive conseguenze che ne sarebbero potuto derivare, fu giudicato a proposito di trasportarmi altrove, e venni di fatto traslocato in una casa, in cui ogni angolo, o dirò meglio ogni pietra è improntata dalla benedizione del cielo. Si temeva qualche disastro nel mio trasporto, ma Dio era con noi, ed ogni cosa riuscì prosperamente. Il mio confessore passò meco la {169 [169]} notte, e sul far del giorno, al suono dell' Angelus, abbiamo fatto la preghiera insieme, di poi mi parlò così:

            - Caro Severino, tu sei pronto a morire; è questa una grazia straordinaria del Signore. Ma io mi sento nascere in cuore una speranza. Tu sei sempre stato divoto di Maria.....

            - Sì, questa divozione non l'ho mai abbandonata, e credo proprio essere Maria che mi abbia ricondotto sulla buona strada.

            - Chi sa che questa Madre non ti voglia anche compensare nella vita presente?

            - In qual modo mai?

            - Coll'ottenerti la guarigione dal suo Divin Figlio; e ciò affinchè tu possa soccorrere tua madre e assisterla in fatto di religione: imperciocchè tu sai che è debole di cervello, e senza di te io temo molto di lei.

            - Io sono nelle mani di Dio: ditemi quello che debbo fare e lo farò.

            - Una novena a Maria Ausiliatrice.

            - Con quale intenzione? {170 [170]}

            - Per dimandar a Dio la tua guarigione, purchè non sia contraria al bene dell'anima tua.

            - Io mi sento all'estremo della vita, ma se voi mi consigliate a dimandar questa grazia, io lo faccio ben volentieri: ditemi pertanto quello che debbo fare in questa novena se vivo......

            - In questa novena reciterai tre Pater, tre Ave, tre Gloria Patri al SS. Sacramento, con tre Salve Regina a Maria Ausiliatrice.

            - E se guarisco?

            - Se guarisci ti occuperai per assistere tua madre, finchè vivrà, e non cesserai di propagare la divozione della Beata Vergine in tutti quei luoghi, e fra tutte quelle persone presso cui ne vedrai l'opportunità e l'utilità.

            - Farò quanto mi dite e in ogni cosa sia sempre benedetto il Santo nome del Signore.

            Mi diede allora la benedizione sacerdotale, e cominciai la novena proposta. Da quel momento il mio male sembrò diventar {171 [171]} stazionario. Ogni giorno pregava, ogni giorno il Direttore veniva a dimandarmi se stava meglio, e siccome non si scorgeva mai alcun miglioramento, mi diceva sempre: preghiamo con fede; Dio ha qualche disegno sopra di te. Fede e preghiera.

            - Venne l'ottavo giorno; ebbene Severino, come stai, mi disse il direttore ansioso di mie notizie.

            - Sempre al solito, non peggio, non meglio, ma consumato dal male e senza forze.

            - Fede e preghiera; Maria è Virgo potens: coraggio: dimani.... chi sa..... speriamo..... e partì.

            In quella notte non ho preso un momento di riposo, e sul far del giorno credeva veramente di avviarmi all'eternità. Voleva chiamare qualcheduno, ma non poteva trar fuori la voce. Io muoio, dissi, e col cuore recitai la giaculatoria: Gesù, Giuseppe e Maria spiri in pace con voi l'anima mia.

            Dipoi ho passato due ore senza sapere più se io fossi vivo o morto. Infine come {172 [172]} scosso da profondo sonno mi sveglio tutto molle di sudore. Penso a me stesso e non mi accorgo più di aver male. Domando una bibita, dipoi una minestra, dipoi altra minestra. Io era guarito.

            Venne il confessore e appena lo vidi, io son guarito, gli dissi, ho già mangiato, ho già bevuto. La grazia è compiuta, io sono guarito.

            - Egli rispose con gioia: Sia sempre benedetta la somma bontà del Signore, e glorificata per tutto il mondo la gran Madre del Salvatore ! Quanto mai sono belle e veraci le parole di s. Bernardo quando disse: Non si è mai udito al mondo che alcuno abbia fatto ricorso a Maria con fiducia e non sia stato esaudito.

 

 

Capo XXVI. Ultimi anni di Severino: morte della madre.

 

            Guarito nel modo maraviglioso, siccome vi ho raccontato, mi sono sentito abbastanza {173 [173]} in forze di appigliarmi a qualche novella occupazione. Ciò io doveva far prestamente per provvedere a me ed alla mia madre, che totalmente mancava di ogni bene di fortuna. Un impiego vantaggioso si presentò nella città di Torino; ma i compagni, gli amici, i luoghi che già mi furono cotanto fatali consigliarono di recarmi altrove. Neppure giudicai per allora di ritornare in patria, dove rimembranze dolorose me ne avrebbero amareggiato il soggiorno.

            In queste titubanze il medesimo mio Direttore mi propose a  maestro nel paese di..... dove la mia vita anteriore non era per nulla conosciuta. Colà mi recai con mia madre. Tra lo stipendio della scuola, un piccolo corrispettivo pel suono dell'organo parochiale ed alcune lezioni di pianoforte potei raggranellare mezzi sufficienti per vivere agiatamente nella mia condizione. Godeva assai del novello mio stato, non rifiniva di raccontare ai miei allievi e ad altri le glorie di Maria Ausiliatrice. {174 [174]} La stessa mia madre, tristamente ammaestrata dalla esperienza, si risolse a far senno con una vita temperante, morigerata e sinceramente cristiana. E siccome ogni mezzo per campare era nelle mie mani, così io aveva una certa libertà per incoraggiarla, e se era duopo anche a correggerla de' suoi difetti. Il modo di vivere cristiano di mio padre, di sempre cara memoria, ritornò ad essere la vita della rinnovata famiglia; e mia madre assai di buon grado veniva meco alle funzioni parochiali ed ai santi Sacramenti. I miei giorni ritornarono ad essere sorgente di consolazione, provando col fatto che soltanto la pratica della religione può consolidare la concordia nelle famiglie e la felicità di coloro che vivono in questa valle di lagrime. Erano trascorsi tre anni in quella vita che io posso chiamare vita di pace e di riparazione; e mi lusingava che fosse per durare assai, ma fu illusione. Niente è stabile sotto al sole e chi oggi vive nel gaudio e nell' abbondanza, domani sarà immerso {175 [175]} nella squallida miseria e nel pianto. Il colèra morbus infierì nel paese, che aveva scelto per dimora, e fu micidiale. Mia madre ne fu spaventata; io studiava di farle coraggio in tutti i modi; nè lasciavate mancar cosa alcuna che valesse ad assicurarne la sanità. Ma davanti a Dio era decretato che mia madre morisse. Fu assalita dal morbo con tale violenza che in poche ore dovette soccombere. - Ebbe appena tempo di ricevere i conforti della religione. Io potei assisterla fino all'ultimo respiro. In mezzo al dolore fui non poco consolato da' pensieri cristiani che nella sua breve malattia ha costantemente esternati.

            Le sue ultime parole furono queste: Severino, Dio ha disposto che ti dessi la vita temporale, ma tu mi dai la vita eterna; te ne ringrazio, spero di raggiungere tuo padre in cielo al possesso di quei beni che non si perderanno mai più.

            Io la piansi più giorni e pregai molto per lei.

            Fatto così orfano di ambi i genitori io {176 [176]} stava meditando quale risoluzione avrei potuto prendere pel mio avvenire. Dio pietoso volle egli stesso indicarmelo; la mia missione era compiuta; mia madre era fuori di pericolo: io doveva seguirla alla tomba. Due settimane dopo venni anch'io colpito dal morbo dominante, non però con sintomi minacciosi; ma pochi giorni appresso la malattia si cangiò in tifo pernicioso. Mercè le vive sollecitudini del medico e la più amorevole assistenza del paroco fu mitigata l'intensità del male, così che nello spazio di pochi giorni mi trovai in istato di poter sostenere il viaggio sino al paese nativo. Così dopo quattordici anni di assenza potei rivedere i congiunti e gli amici, i quali guidati da vero spirito di carità nulla risparmiarono per provvedere in abbondanza a quanto può occorrere al povero Severino, al figlio di Gervasio, la cui memoria vive tutt'ora onorata presso a quanti ebbero occasione di conoscerlo. Nello stato in cui mi trovo, miei cari amici, non voglio farmi alcuna illusione, {177 [177]} il miglioramento della malattia non è altro per me che un breve prolungamento di vita. Ma sia sempre ringraziato Iddio che mi condusse tra voi e vi sia largo rimuneratore di quanto avete fatto per me.

 

 

Conclusione.

 

            Ora, amici cortesi, dopo aver ascoltate le avventure che hanno travagliata questa povera mia vita, vi prego di voler far meco alcuni riflessi ricavati da vent'anni di esperienza e di studio. Che se dal solo studio del protestantesimo mi sono pienamente convinto che il cattolicismo soltanto contiene la verità; quanto più dovrà consolidarsi nella fede colui che fa i suoi studi sopra libri buoni e attinge le sue idee a fonti veraci ? Riteniamo adunque che la sola religione può rendere l'uomo felice nella prosperità e nella sventura; ma che solamente la religione cattolica può prestar questo celeste conforto. Tutte {178 [178]} le altre credenze vantano religiosi conforti, ma non propongono se non mezzi esterni, i quali valgono a soddisfare i sensi, non mai a raddolcire le ambascie dello spirito.

            I protestanti meglio istruiti convengono che la loro origine non è antica. Si vada pure fino a Calvino, fino a Lutero, fino a Pietro Valdo: più indietro non si trova un uomo che abbia professata la loro religione. Dunque essi non possono per niun modo collegare la loro credenza colla religione e colla Chiesa fondala da G. Cristo.

            Nemmeno dopo la loro origine i protestanti hanno saputo intendersi intorno al sistema religioso che pretendono di proporre. Fra tutti i loro libri che ho avuto nelle mani non ho potuto comprendere in modo positivo che cosa essi intendano per protestantismo. Avendo pertanto fatto ricorso ai catechismi e agli atti del loro governo ho trovato la conferma che il protestantismo non ha nè principio, nè sistema religioso. Sia di esempio la definizione del Senato di Ginevra. L'anno 1824 {179 [179]} questo Senato si radunava per definire la religione riformata e conchiuse così: Il protestantismo è un atto di indipendenza dell'umana ragione in fatto di religione. (V. Edilio Sen. Gen. Febb. 1824).

            Con questa definizione si toglie dalla religione tutto ciò che è sacro e divino. La propria ragione è la religione riformata. Secondo questo principio si potrebbero sempre chiamare ottimi protestanti quelli che negano i libri santi, Dio, anima, eternità, e tutto quello che è superiore all'umana ragione.

            Nell'Inghilterra poi il protestantismo è definito un atto con cui ciascuno crede quello che vuole e professa quello che crede. Ciò posto, non vi è azione anche la più nefanda la quale non sia approvata e permessa dal protestantismo. (V. Vatson presso Milner Contr. Relig. p. 3).

            In un catechismo testè stampato e che si usa comunemente nell'Inghilterra si legge quanto segue: Il protestantismo è una detestazione del papismo e del cattolicismo {180 [180]} ed una esclusione dei papisti e dei cattolici da ogni impiego civile ed ecclesiastico. Quasi la medesima definizione hanno i catechismi protestanti d'America[14].

            Secondo questa definizione non v'è credenza nel mondo che non possa collegarsi col protestantismo. Turchi, ebrei, pagani, liberi pensatori diventerebbero ottimi protestanti senza cangiar nulla di loro credenza purchè detestino i cattolici ed il cattolicismo.

            È vero che in generale i Protestanti non seguono cotanto empi prinicipii; anzi ne ho conosciuto molti pii, caritatevoli e pieni di onestà. Ma le buone qualità di costoro si devono attribuire alle massime ed ai principii cattolici da essi tuttora a loro insaputa conservati; e non al protestantismo che non ha principii, o se ne ha, sono quelli che noi abbiamo accennati, i quali conducono ad una serie interminabile di errori e di empietà. {181 [181]}

            Altro errore dissolutivo fra i protestanti è l'uso che fanno della Bibbia. Dicono che non credono alla chiesa cattolica, e intanto essi da chi hanno ricevuta la Bibbia? Se vogliono avere qualche certezza intorno ai libri santi non sono essi costretti di ricorrere alla Chiesa cattolica e così col fatto riconoscerla per l'unica depositaria della Bibbia, delle tradizioni e di tutte le altre verità rivelate ? Quando i protestanti si separarono dalla Chiesa cattolica, non hanno essi ricevuta la Bibbia da questa Chiesa stessa ? Mentre poi i protestanti vogliono che a ciascuno basti l' uso della Bibbia, cadono in una opposta contraddizione. Perciocchè se basta la bibbia perchè fare catechismi, perchè sermoni, perchè santificare la Domenica, perchè credere al Simbolo degli Apostoli ? Forse queste cose sono contenute nella bibbia ?

            Dopo questo i protestanti dicono che un buon cattolico si può salvare purchè pratichi la sua religione; i cattolici dicono lo stesso. Ciò posto noi possiamo fare questa {182 [182]} domanda: voi, o pastori riformati, perchè cercate di indurre i cattolici alla vostra credenza, mentre secondo voi e secondo noi si possono salvare nella loro religione? Voi dovreste cessare da ogni sorta di spiegazione della parola di Dio, oppure fare ai vostri amici questa sola predica: Voi, o cattolici, state tranquilli nella vostra religione, procurate soltanto di praticarla e vi salverete. Non fatevi protestanti, altrimenti vi esponete al grave rischio di andare dannati. Ai vostri seguaci dovreste poi dire così: Voi correligionari valdesi o protestanti, volete assicurarvi la salvezza dell'anima ? Fatevi cattolici. Volete vivere nel dubbio ? State protestanti.

            Se i protestanti parlano diversamente tradiscono la loro missione, contraddicono a sè stessi ed ingannano i loro seguaci.

            Per questo motivo non si legge che alcun cattolico siasi fatto protestante per tener vita migliore; non un cattolico che siasi fatto protestante in punto di morte. Al contrario abbiamo migliaia d'uomini {183 [183]} pii e dotti che dal protestantesimo passarono ai cattolicismo per condurre vita più cristiana, è moltissimi si convertirono in punto di morte per la piena persuasione di meglio assicurare la loro eterna salvezza.

            Ma mi accorgo che le forze mi mancano, perciò cesso di parlare contro ai protestanti. Uniamoci piuttosto in un cuor solo ed in un'anima sola a pregare Iddio che usi a noi ed a loro misericordia. Conceda la perseveranza ai cattolici; e conduca i traviati al buon sentiero. Così che vengano tutti a rifugiarsi nel seno amoroso della vera Chiesa, sotto la guida del supremo Pastore stabilito dal Salvatore quando disse: A te, o Pietro, darò le chiavi del regno de' cieli, tutto quello che tu legherai in terra, sarà legato in cielo; e tutto quello che scioglierai in terra, sarà sciolto anche in cielo. Tu sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell' inferno non prevarranno contro di essa. Ho pregato per te, o Pietro, affinchè la tua fede non venga mai meno; e tu {184 [184]} quando sarai convertito conferma i tuoi fratelli. - Faccia Iddio che giunga presto il giorno in cui vi sia un solo ovile ed un solo pastore sopra la terra, per radunare poi tutti intorno al Pastore eterno, Cristo Gesù, nel regno della gloria per tutti i secoli.

 

 

Appendice sulla morte di Severino.

 

            Correva allora Severino l' anno trentesimo primo di età. I suoi presagi sulla prossima di lui morte pur troppo si avverarono. Tutti i ritrovati dell'arte nulla valsero per restituirgli la sanità. Ricevette tutti i conforti della cattolica religione con grande divozione. L'antico suo prevosto viveva ancora, e sebbene cadente per età non mancò di assisterlo in quei gravi momenti. Una persona che si trovò presente al suo decesso dice che le sue ultime parole furono queste: Sia benedetto {185 [185]} Iddio in ogni cosa, egli mi ha concesso molte consolazioni e molte tribolazioni; ma queste contribuirono più che quelle al bene dell'anima mia. Io provo uno dei più grandi conforti nell'essere assistito dal mio paroco. Esso mi fu direttore spirituale in tutta la mia giovinezza, egli mi dirige, mi conforta e mi assiste in questi ultimi momenti di vita. Dio sia benedetto. Io mi sono da lui allontanato, ma egli mi chiamò di nuovo a se. Lo ringrazio di avermi creato nella cattolica religione. Se è possibile si faccia conoscere la mia vita a tutto il mondo affinchè serva ad altri di esempio, e serva anche a me di riparazione allo scandalo dato. Gesù mio, misericordia, santa Maria madre di Dio, pregate per me povero peccatore che mi trovo all' ora della morte. Nelle vostre mani, o Signore, raccomando lo spirito mio. In manus tuas, Domine, commenda spiritum meum.

 

 

Con approvazione Ecclesiastica. {186 [186]}

 

 

Indice

 

Capo I. Chi fosse Severino. Quali cose abbiano dato motivo a questi racconti

pag. 3

Capo II. Severino parla delle industrie di suo padre pel bene della famiglia

5

Capo III. Severino parla dell'indolenza di sua madre

12

Capo IV. Severino racconta un grave disastro avvenuto in famiglia

17

Capo V. Severino parla delle fatiche del padre

23

Capo VI. Severino racconta la morte del padre

28

Capo VII. Parla de' suoi trattenimenti nell'Oratorio

35

Capo VIII Severino racconta parecchi ameni episodi

42 {187 [187]}

Capo IX. Severino parla de suoi studi pag. 50

 

Capo X. Severino parla della sua caduta nel protestantesimo

55

Capo XI. Severino parla della sua partenza da Torino e della morte del b. Favonio

61

Capo XII. Severino parla dello studio fatto sull'origine de' Valdesi

67

Capo XIII. Severino parla della valle di Luserna e della vera origine dei Valdesi

75

Capo XIV. Severino espone la diffusione dei Valdesi e la loro unione coi Protestanti

81

Capo XV. Severino parla delle variazioni della dottrina valdese

85

CAPOXVI. Severino parla di alcuni curiosi episodi della dottrina valdese

90

Capo XVII. Severino racconta della sua partenza per Ginevra e del suo arrivo sul gran s. Bernardo

104

Capo XVIII. Severino parla di alcuni incidenti sul gran s. Bernardo

112 {188 [188]}

Capo XIX. Severino parla di Ginevra e di Calvino pag. 122

 

Capo XX. Severino parla delle vicende del cattolicismo in Ginevra

133

Capo XXI. Severino parla della sua dimora in Ginevra

139

Capo XXII. Severino parla della morte di un suo amico e va alla chiesa dei cappuccini

146

Capo XXIII. Severino parla del suo viaggio a Torino e della sua nuova vita in famiglia

154

Capo XXIV. Severino racconta una conferenza animatissima tra un prete ed il ministro Valdese

161

Capo XXV. Severino racconta il suo traslocamento e la sua guarigione inaspettata

167

Capo XXVI. Ultimi anni di Severino: morte della madre

173

Conclusione

178

Appendice sulla morte di Severino

185 {189 [189]} {190 [190]} {191 [191]}

 



[1] Intorno alla vita e martirio del b. Pavonio abbiamo autentiche notizie nei seguenti documenti: atti della sua canonizzazione pubblicati in Roma nell'anno 1856. Canonico Giacinto Gallizia Tom. 3 pubblicata nel 1759. P. Enschenio, acta Sanctorum Tomo 1° pagina 857 e segg. Vegio presso i Bollandisti e la costante tradizione.

[2] Per buona sorte gli emissari di quel misfatto non erano di Bricherasio ; la storia ne conservo i nomi a pubblica esecrazione de' colpevoli. I loro nomi sono Giovanni Gabrelli, Giacomo Marmita, Francesco, Giacomo, Antonio tutti tre di nome Tarditi, Giovanni e Pietro di cognome Buriasco. Il corpo del santo così mutilato dalle ferite venne piamente raccolto e trasportato nel suo convento di Savigliano. Facendosi molto concorso di gente alla sua tomba e pei molti miracoli che qui si andavano operando fu traslocato in un sepolcro più degno. Alla soppressione degli ordini religiosi, nel principio di questo secolo, il Padre Priore Domenicano affidò le reliquie del Beato ai conti di Viancino che le conservarono fino al 1854, epoca in cui furono trasportate nella chiesa della ss. Annunziata in Racconigi.

[3] Claudio di Seyssel di famiglia illustrissima nacque in Savoia. Dottissimo ed elegantissimo giureconsulto, siccome il dimostrano i molti libri di giurisprudenza e storia antica da lui pubblicati, Referendario e consigliere di Luigi XII di Francia, mandato a nome del medesimo re legato al concilio Lateranese, fu primieramente Vescovo di Marsiglia e poscia arcivescovo di Torino. Prima che fosse eletto vescovo aveva qui con somma laude interpretato il diritto ; è sepolto nella sacrestia della chiesa metropolitana, dove è onorato di una statua e del seguente epitaffio sulla tomba di marmo: A Claudio Seyssel Referendario di Luigi XII re di Francia, e oratore eloquentissimo del medesimo, quasi presso a tutti i principi cristiani ambasciatore e vescovo di Marsiglia, arcivescovo di Torino, giureconsulto consumatissimo: il collegio dei canonici come a padre carissimo questo monumento posero. Morì alle calende di giugno 1520.

[4] Leger, Peyran, Muston, ed altri più celebri scrittori protestanti Valdesi hanno presso a poco le medesime falsificazioni.

[5] Su questo argomento si può consultar la commendevolissima opera di Monsig. Charvaz Arciv. di Genova, che intitolò: Ricerche storiche sulla vera origine dei Valdesi, e sul carattere della loro dottrina primitiva.

[6] Sembra che gli scrittori antichi dei Valdesi non vadano d'accordo nel fissare l'anno in cui essi ebbero origine, perchè alcuni la fissano nel 1160, altri nel 1170, altri infine nel 1182 o 1185. La cagione di queste variazioni sta in ciò, che alcuni scrittori prendono a parlar dei Valdesi da che Valdo cominciò a proporre le sue dottrine e ciò fu nel 1160 ; altri cominciarono la storia di Valdo dal tempo che egli prese a scorrere i paesi e le città co' suoi compagni circa nel 1170; altri poi parlano di questi eretici quando furono condannati nel 1180 e 1185.

[7] Si crede che siano stati detti Barbetti dalla barba che portavano anticamente i loro ministri ; altri credono che siano così chiamati dal vocabolo provenzale Barbs, Barba ovvero zio, che era il titolo dei loro maestri considerati come zii o padri.

[8] Si suole dare il nome di protestante a tutti coloro che ribellatisi dalla religione cattolica fanno scisma, e protestano contro gli infallibili insegnamenti della s. Sede apostolica romana. Comunemente poi si dà questo nome in particolare agli eretici Luterani e Calvinisti. L'Imperatore Carlo V vedendo la Germania dilantata dalle conseguenze della crescente eresia luterana congregò nella città di Worms una dieta o assemblea nel febbraio del 1529 sotto la soprintendenza del re Ferdinando a fine di comporre le discordie religiose che si andavano ognora aumentando. La dieta propose tra le altre cose che i novatori si astenessero dal predicare in pubblico contro il Sacramento dell'altare, nè si abolisse la Messa ecc. I principi luterani contro tale proposizione più che moderata emisero una protesta e da ciò da quell'istante in poi furono chiamati protestanti.

[9] Chi volesse più a lungo istruirsi intorno a questa materia legga la dotta opera dell'erudito Arciv. Andrea Charvaz che ha per titolo: Guida del catecumeno Valdese, libri tre.

I Valdesi sono in numero di circa ventimila ed esercitano il culto calvinistico nel villaggio di Angrogna, di s. Martino, di Perosa, s. Giovanni, Torre Pellice, ed altri luoghi. Le loro chiese sono in numero di quindici, ed ognuna ha un pastore o ministro stipendiato dagli abitanti. Tutte queste chiese trovansi sotto la direzione di un Sinodo il quale si compone di pastori in servizio, di pastori usciti di carica di tutte le valli, di deputati laici. Fa pure parte del Sinodo la così detta Tavola che è un magistrato composto di tre ecclesiastici e di due laici appositamente eletti. Di questi uno è detto Moderatore della valle che ne tiene la presidenza ed ha sotto di se il moderatore aggiunto ed il segretario.

La Tavola è in esercizio nell'intervallo che passa tra un Sinodo e l' altro. Questi Sinodi si tengono per ordinario ogni cinque anni, e vicendevolmente nella valle di Luserna ed in quella di s. Martino della Perosa. Primachè si dividano i Sinodi viene eletta la nuova Tavola la quale in quel quinquennio vigila sempre affinchè si osservi la disciplina nelle chiese, provvede ai bisogni, mantiene continua corrispondenza dentro e fuori delle valli, delibera sulle controversie, e fa il riparto delle limosina nei templi. Il Moderatore ed il suo aggiunto convocano la Tavola secondo l'occorrenza con una lettera circolare, e la Tavola, quando si offra l'opportunità, propone anche un Sinodo straordinario alle chiese, e se queste aderiscono ricorre al governo per essere autorizzato a tenerlo. Il Moderatore fa la visita alle chiese ogni cinque anni ed anche più sovente secondo il bisogno. Esso toglie di carica i pastori quando vi sono giuste doglianze contro di essi, i quali per altro possono appellarsi al Sinodo secondo il caso. Il Moderatore mette a riposo i Pastori con una pensione a carico de' comuni e degli altri Pastori. Aperto il nuovo Sinodo la Tavola è disciolta. Ciascuna chiesa ha per altro il suo concistoro pastorale composto degli anziani, del diacono ossia economo e del procuratore, e vi presiede il Pastore. Il concistoro deve vegliare all'amministrazione spirituale e temporale della propria chiesa, ed al buon andamento delle scuole. Deve aver cura de' poveri del distretto e presentar ogni anno il rendiconto agli amministratori. Nascendo qualche contesa, ad esso appartiene il farne relazione alla Tavola.

[10] V. Catéchisme de l'église évangélique Validoise, publié par Ordre du Synode 1859.

[11] Intorno al Gran s. Bernardo vedi: Vita del b. Bernardo di Menthon. 1866, lett. catt. fasc. XI - Antonio o l'orfanello di Firenze. 1858, fasc. VI - Casalis all'articolo: Gran s. Bernardo.

[12] I calvinisti e in generale tutti i protestanti soglionsi appellare Riformati, perchè col pretesto di riformare i supposti abusi in fatto di religione si separarono dalla unità della Chiesa. I cattolici soglion chiamarli pretesi riformati e le loro credenize pretesa Riforma perchè essi nella pretesa di riformare la Chiesa caddero in mille madornali errori.

Chi volesse leggere copiosamente quanto è accennato di Calvino e della Riforma, veda le opere De la Foresi. Metodo d'istruzione per condurre i pretesi riformati alla Chiesa Romana. - Vita di Calvino. Tolosa, stamperia Pradel e Blanc. - Boost. Storia della Riforma in Alemagna. - Ma sopra tutte le altre sono commendevoli le auree opere dell'arciv. Andrea Charvaz: Difesa del cattolicismo, vol. 5. - Il P. Perrone: Il Protestantismo e la regola di fede. - Il P. Franco: Risposte ecc.

[13] San Gio. capo 20.

[14] Vedi Perrone Praelectiones theologicae, tom. 1.




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